Buongiorno, oggi è il 31 ottobre.
Il 31 ottobre 1926, domenica, Bologna, era in festa grande: veniva inaugurato il Littoriale, il grande stadio olimpico ancora oggi integro e funzionante. Per quegli anni, in Italia, l’opera era colossale; per realizzarla Leandro Arpinati, all’epoca vicesegretario del partito fascista, presidente del Coni e presidente della Federcalcio, nonché indiscusso ras di Bologna, era andato più volte in visita nelle capitali europee e specie a Praga, dove era stato edificato il modello di stadio più recente; vi si era recato con il costruttore Costanzini. Le spese per l’edificazione del Littoriale erano state ingenti e avevano dato adito a critiche e anche a insinuazioni da parte dei nemici di Arpinati; tanto che Mussolini, più tardi, fece svolgere discrete indagini, dalle quali nulla risultò di men che chiaro e dalle quali uscì rafforzata l’immagine integra di Arpinati, sul piano della personale onestà. Benito Mussolini aveva fatto solenne ingresso nello stadio dalla porta della Torre olimpica, in sella a un cavallo bianco, osannato da una folla di centomila bolognesi. Nella stessa giornata aveva parlato all’Archiginnasio, alla Società per il progresso delle scienze e aveva inaugurato la casa del Fascio. Avrebbe dovuto essere dunque l’apoteosi di Arpinati, sia come ras di Bologna che come gerarca nazionale; ma giusto alla fine la giornata volse in tragedia.
La grande torpedo sulla quale il Duce veniva ricondotto alla stazione di Bologna era guidata da Arpinati in persona; a bordo, l’altro gerarca di Bologna, Dino Grandi e il sindaco Puppini. L’automobile, scoperta, imboccò via Indipendenza, venendo da via Rizzoli; procedeva tra due ali di folla contenute a stento da carabinieri e soldati. All’altezza dell’Arena del sole, subitaneamente, tra le sagome di due carabinieri, si sporse un braccio, un pugno armato di pistola. L’attentatore sparò sicuro, ben fermo, un solo colpo in direzione di Mussolini, che era seduto al fianco di Arpinati. Il proiettile sfiorò entrambi, bruciò un lembo della giacca e bucò la fascia dell’Ordine mauriziano che Mussolini portava sulla divisa. Qualche giorno dopo Mussolini invierà la sciarpa bucata ad Arpinati a personale ricordo e perché la conservasse nel Sacrario della rivoluzione a Bologna.
L’attentatore venne istantaneamente bloccato e fu linciato in pochi attimi dalla folla, che era inferocita per la frequenza degli attentati al Capo del governo. Negli ultimi anni, infatti, si erano intensificati: prima Zaniboni, poi la Gibson, poi l’anarchico Lucetti. Come tutti i dittatori, Mussolini era dotato di sfacciata fortuna: le palle lo sfioravano, al naso (Gibson), alla fascia (Zamboni) e non penetravano mai. In tutti questi casi Mussolini dimostrò un comportamento composto; sussurravano i maligni, anche perché gli attentati erano predisposti dalla polizia. Nel caso nostro, Mussolini affrettò Arpinati che proseguì la corsa dell’auto per alcune centinaia di metri.
L’attentatore linciato fu riconosciuto per il giovane Anteo Zamboni, uno studente di sedici anni, bolognese, ultimo di una vecchia famiglia di anarchici. E tuttavia sulla vicenda permasero sempre degli interrogativi e delle ombre pesanti.
Innanzitutto, perché tanta fretta nell’ammazzarlo? La folla intorno a lui era tutta di innocenti ammiratori del Duce o c’era qualche nerbo di scherani dei servizi segreti? Lo Zamboni era anarchico, è vero, figlio di un anarchico nato a Bologna, Màmmolo Zamboni, tipografo. Ma sugli omicidi degli anarchici, da Oswald a Pinelli, ci furono sempre delle ombre e tutti costoro vennero inopinatamente ammazzati prima di poter parlare.
Inoltre, le stesse testimonianze di Arpinati e di Mussolini furono contraddittorie. Arpinati parlò di un giovanotto vestito di marrone; Mussolini di un uomo in abito chiaro col cappello floscio. Forse videro doppio per l’agitazione del momento ma forse gli attentatori erano due.
E infine Bruno Gatta, in Mussolini, riporta una intervista rilasciata in quei giorni da Dino Grandi in cui il gerarca testimonia: "Intanto dall’automobile che seguiva quella presidenziale l’on. Balbo, l’on. Ricci e il Seniore Bonaccorsi si precipitano sull’aggressore che immediatamente scompare, stretto e afferrato da mille braccia in un tumulto e in un urlo terribile". L’intervista pecca di retorica, ma è importante perché Grandi indica come primi immediatamente intervenuti i tre capisquadristi, tutti in fama di mano pronta, specie l’Arconovaldo Bonaccorsi, seniore (poi generale) della Milizia.
Sia in certi ambienti fascisti, sia soprattutto nei superstiti catacombali ambienti antifascisti si cominciò a sussurrare che l’attentato fosse stato se non materialmente eseguito, ordito da fascisti dissidenti. Si sussurrò di Farinacci, di Balbo, del medesimo Arpinati. Mussolini a ogni buon conto ordinò accurate indagini che furono eseguite dal questore Luciani e dal commissario Di Stefano (ne riferisce Guido Leto in OVRA) che non sortirono alcun risultato. Le voci furono insistenti su Arpinati e se ne troverà traccia anche nella lettera-denuncia di Achille Starace a Mussolini, durante la fatale contesa fra Arpinati e Starace.
Altra tesi dietrologica rimase quella che il colpo fosse organizzato non dai fascisti dissidenti ma da quelli più ubbidienti e disponibili, se non dai servizi segreti. E questa tesi trova una giustificazione nel fatto che subito dopo l’attentato di Bologna, ultimo della serie che abbiamo ricordato, Mussolini emise le famigerate leggi speciali per la sicurezza dello Stato, le quali furono davvero la consacrazione formale della dittatura.
Comunque, a ben rifletterci e a lunga distanza dai fatti, il sospetto su Arpinati appare del tutto infondato. Nel 1926 Arpinati era ancora ardentemente mussoliniano, nonostante qualche scarto umorale da ex anarchico e nonostante qualche uscita esasperata dal suo amore per la verità e della sua incapacità a fingere. E d’altronde l’amore di Leandro per Benito era ancora sinceramente ricambiato dal Duce che di tutti diffidava ma di Arpinati no e che a lui permetteva di dire e fare cose che a nessun altro erano permesse.
In secondo luogo, sull’automobile Arpinati sedeva a fianco del Duce e gli sarebbe occorsa una buona dose di ottimismo per essere sicuro che lo sparatore avrebbe colpito Mussolini e non anche lui.
In terzo luogo, era il giorno del trionfo di Arpinati nella sua Bologna ed egli non aveva interesse a rovinarlo. E infatti Mussolini rimase tanto convinto della sua buona fede che non solo gli scrisse numerosi pubblici attestati ma poco dopo lo nominò podestà di Bologna e due anni dopo sottosegretario al ministero dell’Interno di cui egli stesso era titolare. Viene difficile pensare che Mussolini volesse affidare il ministero di Polizia al proprio attentatore. E tuttavia alcuni dei più vicini a Mussolini e specie le donne della famiglia, la moglie Rachele e la sorella Edvige, continuarono anche in seguito, secondo numerose testimonianze, a sospettare di Arpinati.
Nel delizioso Mussolini piccolo borghese, Paolo Monelli scrivendo dell’attentato Zamboni, adombra tre supposizioni. La prima, che gli attentatori fossero due: "Lo sparatore sarebbe stato il giovane in gabardine che per stornare i sospetti da sé si buttò come vendicatore e giustiziere sull’innocente giovinetto". La seconda, che il "grande amico e consigliere di Arpinati, il romantico Torquato Nanni", fosse implicato nella trama insieme ad Arpinati. La terza, che la disgrazia e il confino di Arpinati e Nanni, negli anni ’33 e ’34, fossero collegati con un ritorno di fiamma dei dubbi sul ruolo avuto dai due amici nell’affare Zamboni. Ma tutte e tre le supposizioni non sono minimamente sostenute da prove. Monelli, si rifà, ancora una volta, alla testimonianza del suo amico Michele Campana, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze di Edvige Mussolini, la quale fu sempre nemica di Arpinati. Ma a parte l’insussistenza delle accuse, si deve aggiungere che Nanni era per natura e per cultura incapace di concepire un attentato violento, che ragionò sempre in termini politici e che addirittura rischiò di perdersi con il suo progetto utopistico della conciliazione tra fascismo e socialismo. Oltre a ciò, Nanni come vedremo, era stato intimo amico e ammiratore di Mussolini.
E’ vero invece che Arpinati e Mussolini litigarono, e duro, sulle conseguenze dell’attentato. Il padre di Zamboni, Màmmolo, era un vecchio compagno di Arpinati; egli confessò che il figlio aveva sparato con la sua pistola, che gli aveva sottratto nascostamente il giorno prima. La zia, o meglio la cognata del padre, Virginia Tabarroni, anch’essa nota antifascista, confessò che il ragazzo aveva ripetutamente parlato in casa dei suoi propositi tirannicidi. Alla fine, i due Zamboni pagarono per tutti: furono condannati a trent’anni, come mandanti dell’attentato. Fu assolto invece il fratello maggiore di Anteo, Ludovico Zamboni, anche lui sospettato. Arpinati, che aveva continuato a ritenere i due innocenti, quando diventò sottosegretario all’Interno riuscì a farsi confidare dall’onorevole Guido Cristini, presidente del Tribunale speciale, che Mussolini aveva particolarmente insistito perché i due fossero condannati all’ergastolo, per dare un esempio. Mussolini non gradì certo questa interferenza e del suo malumore fece le spese l’incauto Cristini, che fu deposto da presidente del Tribunale speciale e sostituito dal più duraturo Tringali-Casanova; ma Arpinati aveva ormai vinto e ottenne il decreto di grazia dal re. Anche questa piccola umanitaria vittoria gli sarà pochi anni dopo messa sul conto. Essa rimase rivelatrice dell’attitudine di Arpinati a difendere gli amici in difficoltà, anche se tale attitudine, come sempre in politica, non gli rese nulla e gli costò molto.
Ma al di là di ogni tentazione dietrologica o giallista, l’attentato Zamboni va interpretato per ciò che quasi certamente fu: il gesto spontaneo e romantico di un ragazzo, cresciuto ed educato in una famiglia libertaria, esaltato sia per natura propria sia per l’ambiente vissuto e che pagò uno scotto immediato e terribile.
Anteo Zamboni è ricordato a Bologna da una piccola via (Via Mura Anteo Zamboni) e una lapide in Piazza del Nettuno.
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sabato 31 ottobre 2020
venerdì 30 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 30 ottobre.
La sera del 30 Ottobre del 1938, la sera prima di Halloween (e la data di sicuro non è casuale), la stazione radiofonica statunitense della CBS decide di mandare in onda uno show speciale per celebrare tale festività. Come di consuetudine, è previsto un radiodramma, affidato quell’anno al miglior attore emergente di cui la radio disponeva: Orson Welles.
Il programma prevede la trasposizione radiofonica di un romanzo di fantascienza di H.G. Wells (è curiosa in questo caso l’assonanza del cognome con quello di Welles), dal titolo La Guerra dei Mondi. Il romanzo descrive l’invasione della Terra da parte di extraterrestri provenienti da Marte sul finire del diciannovesimo secolo.
La storia viene riadattata ai tempi radiofonici principalmente da Howard Koch e alcuni suoi collaboratori della CBS. Il riadattamento tuttavia non piaceva del tutto a Welles, perplesso soprattutto dal ritmo del testo che ne era uscito. Con una geniale intuizione, lo stesso Welles decide, per ‘dare sapore’ a quel piatto sciapo, di impostare la trasmissione come se si trattasse di un normale programma musicale interrotto ad un certo momento da un falso notiziario radio che annunciava l’invasione degli alieni e i suoi drammatici sviluppi.
Nessuno degli addetti al radiodramma, compreso lo stesso Orson Welles, si sarebbe mai immaginato che quello che ai loro occhi appariva semplicemente come un normale lavoro di routine, si sarebbe trasformato in un evento i cui effetti furono tali da modificare in maniera incontrovertibile non solo il destino artistico del giovane attore, ma anche il destino degli studi sociologici circa gli effetti dei contenuti massmediatici.
La trasmissione comincia con lo speaker che presenta, “in diretta dalla Meridian Room dell’Hotel Park Plaza di New York”, l’inizio della programma musicale di Ramon Raquello e della sua orchestra. Si può facilmente interpretare lo sgomento del pubblico radiofonico quando, dopo pochi minuti dall’inizio della trasmissione, questa viene bruscamente interrotta con un comunicato dai toni altamente drammatici: “Signore e signori, vogliate scusare per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle otto meno venti, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute a intervalli regolari sul pianeta Marte. Lo spettroscopio indica che si tratta di idrogeno e che si sta avvicinando verso la terra a enorme velocità. Il professor Pierson dell’Osservatorio di Princeton conferma questa osservazione dicendo che il fenomeno è simile alla fiammata blu dei jet sparata da un’arma”.
Ha inizio la beffa mediatica del secolo, il falso che ha messo in luce il rapporto fin troppo fideistico e acritico che il pubblico aveva instaurato con i mezzi di comunicazione di massa. Gli oltre sei milioni di ascoltatori non erano preparati né a sospettare del falso, né tantomeno a sospettare dell’enorme potenzialità di quello che dalla maggioranza di loro veniva ancora considerato semplicemente come un ‘mezzo di svago’. Probabilmente Welles era al corrente di queste potenzialità e dell’abbaglio al quale erano sottoposti i fruitori dei mezzi di comunicazione di massa.
E’ per questo che aveva deciso di inserire il suo falso nel bel mezzo di un programma d’intrattenimento, come a voler render più netto lo stacco tra uno stato d’animo disteso, qual è appunto quello derivante dall’ascolto di un programma musicale, e uno stato di panico crescente dovuto all’annuncio dell’avvenuta invasione aliena.
Dopo il primo avvertimento circa le fiammate provenienti da Marte, la programmazione musicale prosegue con un brano estremamente simbolico dal punto di vista linguistico: Star Dust (polvere di stelle).
Gli ascoltatori tornano così a rilassarsi con una delle canzoni di maggior successo dell’epoca, ignari del susseguirsi di eventi che di lì a poco li avrebbe destati dalle loro poltrone e scaraventati nelle strade in cerca di salvezza. Infatti, passano pochi minuti ed ecco una nuova interruzione: “Signore e signori, vorrei leggervi un telegramma indirizzato al professor Pierson dal dottor Gray, del Museo di Storia Naturale di New York. Il testo dice: Ore 21:15, ora standard delle regioni orientali. I sismografi hanno registrato una scossa di forte intensità verificatesi in un raggio di 20 miglia da Princeton. Per favore investigate. Firmato Loyd Gray, capo della Divisione Astronomica”. Vediamo in questo caso come la citazione di fonti apparentemente autorevoli, come il ‘Museo di Storia Naturale’ o il ‘Professor Gray, capo della Divisione Astronomica’, sia un espediente imprescindibile per chi vuole mettere a segno una beffa mediatica e intende donare ad essa ulteriore credibilità.
Gli eventi che seguono il secondo annuncio diventano sempre più drammatici e la costante alternanza di questi allarmi con la normale programmazione musicale non fa altro che creare ulteriore confusione nell’ormai già allarmato pubblico.
Man mano che passa il tempo, si diffondono, tramite le voci di abilissimi attori, notizie che riferiscono dell’avvenuto atterraggio extraterrestre, delle orribili fattezze degli alieni, delle loro sofisticatissime armi e dei gas tossici. L’escalation porta addirittura a descrivere ‘in diretta’ la morte di un cronista che stava riferendo dell’avvenuta distruzione della città di New York. E quest’ultima è la scintilla che scatena l’esplosione di panico tra la gente.
Migliaia di persone in preda al panico si riversano nelle strade e si lasciano andare a comportamenti di grave irrazionalità.
Si segnalano numerosi ingorghi nelle arterie principali di molte città degli Stati Uniti, mentre le linee di comunicazione si sovraccaricano fino al collasso. Alcuni si abbandonano a episodi di violenza, altri pregano di non essere coinvolti nell’attacco. A San Francisco, una donna si presenta alla polizia con i vestiti lacerati sostenendo di essere stata aggredita dagli alieni, mentre a New York ci vollero settimane per convincere alcuni di quelli che erano scappati a far ritorno nelle proprie abitazioni.
Ai giorni nostri, una simile reazione ci apparirebbe del tutto esagerata. A questo proposito, tuttavia, va ricordato che la radio fonda parte del suo fascino sulla disponibilità e la fantasia dell’ascoltatore che, soprattutto allora, non ne fruiva con la passiva attenzione che noi oggi dedichiamo al video.
La grande abilità di Orson Welles nel riprodurre in maniera impeccabile lo stile cronistico ha contribuito poi sopra ogni cosa a rendere credibile la messinscena. Emerge così l’importanza, quando si parla di falsi voluti e di beffe mediatiche, dell’utilizzo delle stesse modalità espressive del soggetto che si vuole imitare, in questo caso il giornalismo radiofonico.
Inoltre, come in ogni beffa che si rispetti, anche in questa erano presenti tracce della sua falsità. A parte gli elementi fantastici e surreali descritti, che con poca razionalità potevano essere riconosciuti come tali, viene infatti ripetuto per ben quattro volte durante la trasmissione che ciò che si stava ascoltando altro non era che un radiodramma, e che gli eventi descritti erano il frutto della fantasia dell’autore del libro, H.G Wells.
Entra qui in gioco un fattore di estrema importanza quando si parla di mass media, ovvero il grado di attenzione che il pubblico riserva ai mezzi di comunicazione di massa, la scarsa criticità nei confronti dei contenuti veicolati da essi. Si spiega la logica secondo la quale un messaggio mediatico viene interiorizzato secondo quelle che sono le predisposizioni del pubblico a ricevere tale messaggio.
Ciò vuol dire che se il pubblico americano ha preso per vero un episodio così impossibile ed ha in qualche modo involontariamente omesso gli indizi, anche espliciti, che ne svelavano l’assurdità, ciò è perché in qualche modo era ‘preparato’ ad affrontare una situazione del genere. Una situazione che preesisteva già da tempo nel loro immaginario collettivo, il frutto del periodo storico in cui è maturata.
Si era infatti già vissuta la Prima Guerra Mondiale e il clima politico internazionale era surriscaldato dall’imminenza di un altro conflitto, mentre le scoperte scientifiche sempre più avanzate facevano intravedere futuri scenari di conquista spaziale, dai quali la narrativa e il cinema attingevano in maniera sempre più frequente.
La gente era da una parte spaventata, dall’altra preparata a vivere un evento del genere. Poco importa poi se gli extraterrestri avevano i tentacoli e improbabili fattezze o che utilizzassero poteri straordinari; per gli americani quel giorno la realtà rappresentava l’invasione dei marziani, gli abitanti del ‘Pianeta Rosso’.
Ciò che ha reso di portata storica questo avvenimento è il fatto che è riuscito ad evidenziare, chiaramente e per la prima volta, l’enorme potere dei mezzi di comunicazione di massa; un potere in grado di canalizzare e manipolare l’opinione pubblica secondo i desideri di coloro che controllano e posseggono tali mezzi.
La Guerra dei Mondi nella sua versione radiofonica ha aperto una nuova pagina negli studi di sociologi, psicologi di massa ed esperti di comunicazione, tutti accomunati in quel giorno dalla sorpresa di assistere agli effetti che un falso poteva provocare alla grande massa dei fruitori mediali.
La sera del 30 Ottobre del 1938, la sera prima di Halloween (e la data di sicuro non è casuale), la stazione radiofonica statunitense della CBS decide di mandare in onda uno show speciale per celebrare tale festività. Come di consuetudine, è previsto un radiodramma, affidato quell’anno al miglior attore emergente di cui la radio disponeva: Orson Welles.
Il programma prevede la trasposizione radiofonica di un romanzo di fantascienza di H.G. Wells (è curiosa in questo caso l’assonanza del cognome con quello di Welles), dal titolo La Guerra dei Mondi. Il romanzo descrive l’invasione della Terra da parte di extraterrestri provenienti da Marte sul finire del diciannovesimo secolo.
La storia viene riadattata ai tempi radiofonici principalmente da Howard Koch e alcuni suoi collaboratori della CBS. Il riadattamento tuttavia non piaceva del tutto a Welles, perplesso soprattutto dal ritmo del testo che ne era uscito. Con una geniale intuizione, lo stesso Welles decide, per ‘dare sapore’ a quel piatto sciapo, di impostare la trasmissione come se si trattasse di un normale programma musicale interrotto ad un certo momento da un falso notiziario radio che annunciava l’invasione degli alieni e i suoi drammatici sviluppi.
Nessuno degli addetti al radiodramma, compreso lo stesso Orson Welles, si sarebbe mai immaginato che quello che ai loro occhi appariva semplicemente come un normale lavoro di routine, si sarebbe trasformato in un evento i cui effetti furono tali da modificare in maniera incontrovertibile non solo il destino artistico del giovane attore, ma anche il destino degli studi sociologici circa gli effetti dei contenuti massmediatici.
La trasmissione comincia con lo speaker che presenta, “in diretta dalla Meridian Room dell’Hotel Park Plaza di New York”, l’inizio della programma musicale di Ramon Raquello e della sua orchestra. Si può facilmente interpretare lo sgomento del pubblico radiofonico quando, dopo pochi minuti dall’inizio della trasmissione, questa viene bruscamente interrotta con un comunicato dai toni altamente drammatici: “Signore e signori, vogliate scusare per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle otto meno venti, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute a intervalli regolari sul pianeta Marte. Lo spettroscopio indica che si tratta di idrogeno e che si sta avvicinando verso la terra a enorme velocità. Il professor Pierson dell’Osservatorio di Princeton conferma questa osservazione dicendo che il fenomeno è simile alla fiammata blu dei jet sparata da un’arma”.
Ha inizio la beffa mediatica del secolo, il falso che ha messo in luce il rapporto fin troppo fideistico e acritico che il pubblico aveva instaurato con i mezzi di comunicazione di massa. Gli oltre sei milioni di ascoltatori non erano preparati né a sospettare del falso, né tantomeno a sospettare dell’enorme potenzialità di quello che dalla maggioranza di loro veniva ancora considerato semplicemente come un ‘mezzo di svago’. Probabilmente Welles era al corrente di queste potenzialità e dell’abbaglio al quale erano sottoposti i fruitori dei mezzi di comunicazione di massa.
E’ per questo che aveva deciso di inserire il suo falso nel bel mezzo di un programma d’intrattenimento, come a voler render più netto lo stacco tra uno stato d’animo disteso, qual è appunto quello derivante dall’ascolto di un programma musicale, e uno stato di panico crescente dovuto all’annuncio dell’avvenuta invasione aliena.
Dopo il primo avvertimento circa le fiammate provenienti da Marte, la programmazione musicale prosegue con un brano estremamente simbolico dal punto di vista linguistico: Star Dust (polvere di stelle).
Gli ascoltatori tornano così a rilassarsi con una delle canzoni di maggior successo dell’epoca, ignari del susseguirsi di eventi che di lì a poco li avrebbe destati dalle loro poltrone e scaraventati nelle strade in cerca di salvezza. Infatti, passano pochi minuti ed ecco una nuova interruzione: “Signore e signori, vorrei leggervi un telegramma indirizzato al professor Pierson dal dottor Gray, del Museo di Storia Naturale di New York. Il testo dice: Ore 21:15, ora standard delle regioni orientali. I sismografi hanno registrato una scossa di forte intensità verificatesi in un raggio di 20 miglia da Princeton. Per favore investigate. Firmato Loyd Gray, capo della Divisione Astronomica”. Vediamo in questo caso come la citazione di fonti apparentemente autorevoli, come il ‘Museo di Storia Naturale’ o il ‘Professor Gray, capo della Divisione Astronomica’, sia un espediente imprescindibile per chi vuole mettere a segno una beffa mediatica e intende donare ad essa ulteriore credibilità.
Gli eventi che seguono il secondo annuncio diventano sempre più drammatici e la costante alternanza di questi allarmi con la normale programmazione musicale non fa altro che creare ulteriore confusione nell’ormai già allarmato pubblico.
Man mano che passa il tempo, si diffondono, tramite le voci di abilissimi attori, notizie che riferiscono dell’avvenuto atterraggio extraterrestre, delle orribili fattezze degli alieni, delle loro sofisticatissime armi e dei gas tossici. L’escalation porta addirittura a descrivere ‘in diretta’ la morte di un cronista che stava riferendo dell’avvenuta distruzione della città di New York. E quest’ultima è la scintilla che scatena l’esplosione di panico tra la gente.
Migliaia di persone in preda al panico si riversano nelle strade e si lasciano andare a comportamenti di grave irrazionalità.
Si segnalano numerosi ingorghi nelle arterie principali di molte città degli Stati Uniti, mentre le linee di comunicazione si sovraccaricano fino al collasso. Alcuni si abbandonano a episodi di violenza, altri pregano di non essere coinvolti nell’attacco. A San Francisco, una donna si presenta alla polizia con i vestiti lacerati sostenendo di essere stata aggredita dagli alieni, mentre a New York ci vollero settimane per convincere alcuni di quelli che erano scappati a far ritorno nelle proprie abitazioni.
Ai giorni nostri, una simile reazione ci apparirebbe del tutto esagerata. A questo proposito, tuttavia, va ricordato che la radio fonda parte del suo fascino sulla disponibilità e la fantasia dell’ascoltatore che, soprattutto allora, non ne fruiva con la passiva attenzione che noi oggi dedichiamo al video.
La grande abilità di Orson Welles nel riprodurre in maniera impeccabile lo stile cronistico ha contribuito poi sopra ogni cosa a rendere credibile la messinscena. Emerge così l’importanza, quando si parla di falsi voluti e di beffe mediatiche, dell’utilizzo delle stesse modalità espressive del soggetto che si vuole imitare, in questo caso il giornalismo radiofonico.
Inoltre, come in ogni beffa che si rispetti, anche in questa erano presenti tracce della sua falsità. A parte gli elementi fantastici e surreali descritti, che con poca razionalità potevano essere riconosciuti come tali, viene infatti ripetuto per ben quattro volte durante la trasmissione che ciò che si stava ascoltando altro non era che un radiodramma, e che gli eventi descritti erano il frutto della fantasia dell’autore del libro, H.G Wells.
Entra qui in gioco un fattore di estrema importanza quando si parla di mass media, ovvero il grado di attenzione che il pubblico riserva ai mezzi di comunicazione di massa, la scarsa criticità nei confronti dei contenuti veicolati da essi. Si spiega la logica secondo la quale un messaggio mediatico viene interiorizzato secondo quelle che sono le predisposizioni del pubblico a ricevere tale messaggio.
Ciò vuol dire che se il pubblico americano ha preso per vero un episodio così impossibile ed ha in qualche modo involontariamente omesso gli indizi, anche espliciti, che ne svelavano l’assurdità, ciò è perché in qualche modo era ‘preparato’ ad affrontare una situazione del genere. Una situazione che preesisteva già da tempo nel loro immaginario collettivo, il frutto del periodo storico in cui è maturata.
Si era infatti già vissuta la Prima Guerra Mondiale e il clima politico internazionale era surriscaldato dall’imminenza di un altro conflitto, mentre le scoperte scientifiche sempre più avanzate facevano intravedere futuri scenari di conquista spaziale, dai quali la narrativa e il cinema attingevano in maniera sempre più frequente.
La gente era da una parte spaventata, dall’altra preparata a vivere un evento del genere. Poco importa poi se gli extraterrestri avevano i tentacoli e improbabili fattezze o che utilizzassero poteri straordinari; per gli americani quel giorno la realtà rappresentava l’invasione dei marziani, gli abitanti del ‘Pianeta Rosso’.
Ciò che ha reso di portata storica questo avvenimento è il fatto che è riuscito ad evidenziare, chiaramente e per la prima volta, l’enorme potere dei mezzi di comunicazione di massa; un potere in grado di canalizzare e manipolare l’opinione pubblica secondo i desideri di coloro che controllano e posseggono tali mezzi.
La Guerra dei Mondi nella sua versione radiofonica ha aperto una nuova pagina negli studi di sociologi, psicologi di massa ed esperti di comunicazione, tutti accomunati in quel giorno dalla sorpresa di assistere agli effetti che un falso poteva provocare alla grande massa dei fruitori mediali.
giovedì 29 ottobre 2020
#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 ottobre.
Il 29 ottobre 1618 viene decapitato a Londra Sir Walter Raleigh.
Walter Raleigh nasce il 22 gennaio del 1552 a East Devon. In realtà sulla sua nascita si sa poco: l'"Oxford Dictionary of National Biography", per esempio, la fa risalire a due anni più tardi, il 1554. Cresciuto nella casa di Hayes Barton, vicino al villaggio di East Budleigh, è il più giovane dei cinque figli di Walter Raleigh (omonimo) e di Catherine Champernowne (Kat Ashley).
Cresciuto in una famiglia di orientamento religioso protestante, sviluppa nel corso dell'infanzia un forte odio nei confronti del cattolicesimo romano. Nel 1569 Walter Raleigh lascia la Gran Bretagna e parte per la Francia con l'intento di affiancare gli ugonotti in occasione delle guerre civili religiose francesi. Nel 1572 si iscrive all'Oriel College di Oxford, ma decide di lasciare gli studi l'anno successivo senza essersi laureato.
Poco si sa della sua vita tra il 1569 e il 1575, se non che il 3 ottobre del 1569 egli è testimone oculare della Battaglia di Moncontour, in Francia. Nel 1575, o al massimo nel 1576, ritorna in Inghilterra. Negli anni immediatamente successivi prende parte alla soppressione delle Desmond Rebellions e diventa uno dei principali proprietari terrieri di Munster.
Divenuto un signore in Irlanda, nel 1584 Walter Raleigh viene autorizzato dalla Regina Elisabetta I a esplorare, colonizzare e governare qualsiasi territorio remoto e barbaro non posseduto da governatori cristiani o abitati da popolazioni cristiane, in cambio di un quinto di tutto l'oro e l'argento che potrebbero essere scovati nelle miniere di tali territori.
A Raleigh vengono dati sette anni di tempo per stabilire un insediamento: al termine di questo lasso di tempo, perderà tutti i diritti su di esso. Egli, quindi, organizza una spedizione diretta all'isola di Roanoke, con sette navi e centocinquanta coloni.
Nel 1585 scopre la Virginia, decidendo di chiamarla così per onorare la regina vergine Elisabetta. Mentre nella Carolina del Nord fonda, sull'isola di Roanoke, la colonia omonima: si tratta del secondo insediamento britannico nel Nuovo Mondo dopo San Giovanni Terranova.
La fortuna di Raleigh, che trova il sostegno della regina, non dura - però - molto tempo: Elisabetta, infatti, muore il 23 marzo del 1603.
Pochi mesi più tardi, il 19 luglio, Walter Raleigh viene arrestato per il suo coinvolgimento nel grande complotto organizzato nei confronti del successore della regina, Giacomo I. Per questo viene imprigionato nella Torre di Londra.
Il 17 novembre inizia il processo nei suoi confronti, che si svolge nella Great Hall del Castello di Winchester. Raleigh si difende personalmente, dovendo contrastare le accuse del suo amico Henry Brooke, che egli chiama a testimoniare. Ritenuto comunque colpevole, Sir Walter Raleigh rimane incarcerato nella torre fino al 1616.
Nel corso della prigionia si dedica alla scrittura e completa il primo volume di The Historie of the World. Nella prima edizione, che viene pubblicata nel 1614, parla della storia antica della Grecia e di Roma.
Il mondo intero non è che una vasta prigione nella quale ogni giorno qualcuno viene estratto a sorte per essere giustiziato.
Divenuto nel frattempo padre di Carew, concepito e nato mentre è imprigionato, Raleigh nel 1617 viene perdonato dal re, che gli concede il permesso di condurre una seconda spedizione nel Venezuela, alla ricerca di El Dorado. Nel corso del viaggio, una parte degli uomini di Raleigh, guidati dal suo amico Lawrence Keymis, attacca l'avamposto spagnolo di Santo Tomè de Guayana sul fiume Orinoco, venendo meno - così - ai trattati di pace siglati con la Spagna e contravvenendo agli ordini dello stesso Raleigh.
Quest'ultimo è disposto a concedere il proprio perdono solo a patto che venga evitata qualsiasi ostilità nei confronti delle colonie e delle navi spagnole. Nel corso dei combattimenti, Walter - figlio di Raleigh - viene colpito e muore. Raleigh viene informato dell'avvenimento da Keymis, il quale implora perdono per quanto successo, ma non ricevendolo decide di suicidarsi.
Successivamente Raleigh torna in Inghilterra, e viene a sapere che l'ambasciatore spagnolo ha chiesto la sua condanna a morte: il re Giacomo non ha altra alternativa che accettare la richiesta. Raleigh, così, viene portato da Plymouth a Londra da Sir Lewis Stukeley, rifiutando numerose opportunità di fuggire.
Imprigionato al Palazzo di Westminster, viene decapitato il 29 ottobre del 1618 dopo la concessione della possibilità di vedere l'ascia che lo avrebbe ucciso. Le sue ultime parole sono: "Strike, man, strike" (Colpisci, uomo, colpisci). Secondo altre fonti le sue ultime parole, sarebbero state: "I have a long journey to take, and must bid the company farewell." (Ho un lungo viaggio da affrontare, e devo congedarmi dalla compagnia). Aveva 66 anni.
mercoledì 28 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 ottobre.
Il 28 ottobre 1922 diverse migliaia di militanti del giovane Partito Nazionale Fascista, costituitosi meno di un anno prima, confluivano da varie località d'Italia verso la capitale, per chiedere a gran voce che venisse dato a Mussolini l'incarico di formare un governo. Fu la cosidetta marcia su Roma, che fu poi celebrata negli anni a venire come l'inizio dell'Era Fascista.
Mussolini era rimasto a Milano in attesa degli eventi.
La marcia su Roma si pone in un contesto di estrema fragilità della situazione politica ed economica del paese, da poco uscito, sebbene vittorioso, dalla Grande Guerra con un'economia provata dallo sforzo bellico. Governi deboli e poco incisivi diedero la spinta alla volontà di cambiamento, alla ricerca di un uomo forte che potesse dare una speranza e risollevare il paese. Mussolini in quegli anni tesseva alleanze strategiche, a partire da quella con D'Annunzio, molto amato dagli italiani.
La marcia su Roma ebbe un prologo quando i fascisti il 2 agosto occuparono militarmente Ancona, una città notoriamente ribelle ai totalitarismi. L'occupazione non ebbe ostacoli, nè reazioni da parte dell'esercito: era la dimostrazione che il paese considerava come ineluttabile il passaggio al fascismo.
La mattina successiva alla Marcia il Re si convinse che non vi era altra soluzione che concedere a Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo. Questi partì il 30 da Milano (in treno) e alle 18 presentò il suo governo, che aveva al suo interno solo tre fascisti di orientamento moderato, più altre personalità del mondo civile e militare (tra cui il generale Armando Diaz).
Era l'inizio del ventennio fascista.
10 anni dopo, a commemorazione del primo decennale della Marcia su Roma, Mussolini ordinò che in ogni città o paese, grande o piccolo che fosse, si desse a una strada il nome di Via Roma. Ancora oggi, a distanza di 90 anni, Via Roma è il toponimo più diffuso in Italia.
Il 28 ottobre 1922 diverse migliaia di militanti del giovane Partito Nazionale Fascista, costituitosi meno di un anno prima, confluivano da varie località d'Italia verso la capitale, per chiedere a gran voce che venisse dato a Mussolini l'incarico di formare un governo. Fu la cosidetta marcia su Roma, che fu poi celebrata negli anni a venire come l'inizio dell'Era Fascista.
Mussolini era rimasto a Milano in attesa degli eventi.
La marcia su Roma si pone in un contesto di estrema fragilità della situazione politica ed economica del paese, da poco uscito, sebbene vittorioso, dalla Grande Guerra con un'economia provata dallo sforzo bellico. Governi deboli e poco incisivi diedero la spinta alla volontà di cambiamento, alla ricerca di un uomo forte che potesse dare una speranza e risollevare il paese. Mussolini in quegli anni tesseva alleanze strategiche, a partire da quella con D'Annunzio, molto amato dagli italiani.
La marcia su Roma ebbe un prologo quando i fascisti il 2 agosto occuparono militarmente Ancona, una città notoriamente ribelle ai totalitarismi. L'occupazione non ebbe ostacoli, nè reazioni da parte dell'esercito: era la dimostrazione che il paese considerava come ineluttabile il passaggio al fascismo.
La mattina successiva alla Marcia il Re si convinse che non vi era altra soluzione che concedere a Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo. Questi partì il 30 da Milano (in treno) e alle 18 presentò il suo governo, che aveva al suo interno solo tre fascisti di orientamento moderato, più altre personalità del mondo civile e militare (tra cui il generale Armando Diaz).
Era l'inizio del ventennio fascista.
10 anni dopo, a commemorazione del primo decennale della Marcia su Roma, Mussolini ordinò che in ogni città o paese, grande o piccolo che fosse, si desse a una strada il nome di Via Roma. Ancora oggi, a distanza di 90 anni, Via Roma è il toponimo più diffuso in Italia.
martedì 27 ottobre 2020
#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 ottobre.
La sera del 27 ottobre 1962 nelle campagne di Bascapè, un piccolo paese in provincia di Pavia, precipitava in fase d'atterraggio a Linate l'aereo su cui volava da Catania il presidente dell'Eni Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William Mc Hale.
L'inchiesta fu rapidamente archiviata come un incidente dovuto alle pessime condizioni del tempo.
Successivamente nuovi reperti rinvenuti nel 1997 e l'uso di tecnologie di indagini impossibili nel 62 portarono a provare che l'aereo precipitò per l'esplosione di un ordigno nascosto nel cruscotto ed azionato dal meccanismo di apertura del carrello.
Le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta consentirono di supporre che fu la mafia, per fare un favore a qualcuno, a sabotare il velivolo. Il pubblico ministero Calìa appurò che Mario Ronchi, un agricoltore che abitava in una cascina in località Albaredo, a 300 metri dal punto d’impatto dell’aereo, rilasciò a caldo una dichiarazione a un giornalista televisivo della Rai secondo cui aveva visto l'aereo precipitare già avvolto nelle fiamme. Ma davanti alla commissione d’inchiesta ritrattò. Calìa appurò che l’agricoltore, in cambio del silenzio, aveva goduto per tutti questi anni di benefici economici, tra cui l’assunzione della figlia, Giovanna, per sedici anni in una società riconducibile a Cefis, la Pro.De. E scoprì che la parte sonora del nastro che era stato utilizzato per le riprese della Rai risultava cancellata proprio nel punto in cui Ronchi descriveva la dinamica dell’accaduto. La verità emerse dall’esame labiale delle immagini video nonostante l’agricoltore si ostinasse a negare, davanti al magistrato, ciò che aveva visto quella sera.
Mattei, che aveva creato dalle ceneri dell'Agip il colosso ENI, era un uomo fastidioso per le "sette sorelle americane", le grandi compagnie petrolifere che detenevano il controllo dell'oro nero e decidevano la politica estera della Casa Bianca. Mattei aveva surrogato la politica estera del Governo italiano, scompaginato i giochi delle major petrolifere, disturbato gli interessi degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica per le sue posizioni terzomondiste e le sue aperture all’Urss e agli Stati mediorientali; esercitava una forte influenza su chi avrebbe dovuto controllarlo, il ministro delle Partecipazioni statali Giorgio Bo; aveva un forte ascendente su Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica, ruolo al quale sembrava aspirasse; aveva creato dal nulla la corrente democristiana di Base, guidata da Giovanni Marcora. E con la forza e il denaro dell’Eni alimentava la politica, i partiti. E a differenza degli altri lo dichiarava.
Secondo molti osservatori, la vicenda di Mattei non si concluse con la sua morte, anzi avrebbe avuto echi e conseguenze di variegata natura, nell'immediato come a lungo termine. Innanzitutto va detto che l'incidente di Bascapé impedì di perfezionare un accordo di produzione con l'Algeria, indubbiamente un legame in potenza contrastante con gli interessi delle sette sorelle. Inoltre, alcune delle persone che ebbero a che fare con Mattei e con l'inchiesta sull'incidente morirono in circostanze misteriose. Il caso più noto è certamente quello del giornalista Mauro De Mauro, il quale si era mostrato assai disponibile a fornire a Francesco Rosi, autore del noto film, materiale (probabilmente nastri magnetici audio) ritenuto di estremo interesse per la ricostruzione dei fatti che il regista andava raccogliendo come base documentale per la sceneggiatura. Pochissimo prima dell'incontro previsto con Rosi, De Mauro (che aveva lavorato anche a "Il Giorno") scomparve nel nulla. Ufficialmente considerato un delitto di mafia, il caso De Mauro è riemerso in tempi recenti a seguito delle dichiarazioni di un pentito, Tommaso Buscetta, il quale lo poneva in collegamento con la morte di Mattei e al "favore" reso dalla mafia a ignoti, forse stranieri.
Per combinazione, la maggior parte degli investigatori che si occuparono della scomparsa di De Mauro, tanto della Polizia quanto dei Carabinieri, effettivamente morirono a loro volta assassinati dalla mafia; il più famoso fra loro era il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel frattempo divenuto prefetto di Palermo, e la stessa fine toccò al vicequestore Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile della stessa città.
Curiosamente, una delle ultime opere di Pier Paolo Pasolini fu un romanzo dal titolo Petrolio. Lo stesso Pasolini si interessò molto alla figura di Mattei, ma anche e soprattutto al mistero della sua morte.
La sera del 27 ottobre 1962 nelle campagne di Bascapè, un piccolo paese in provincia di Pavia, precipitava in fase d'atterraggio a Linate l'aereo su cui volava da Catania il presidente dell'Eni Enrico Mattei, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William Mc Hale.
L'inchiesta fu rapidamente archiviata come un incidente dovuto alle pessime condizioni del tempo.
Successivamente nuovi reperti rinvenuti nel 1997 e l'uso di tecnologie di indagini impossibili nel 62 portarono a provare che l'aereo precipitò per l'esplosione di un ordigno nascosto nel cruscotto ed azionato dal meccanismo di apertura del carrello.
Le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta consentirono di supporre che fu la mafia, per fare un favore a qualcuno, a sabotare il velivolo. Il pubblico ministero Calìa appurò che Mario Ronchi, un agricoltore che abitava in una cascina in località Albaredo, a 300 metri dal punto d’impatto dell’aereo, rilasciò a caldo una dichiarazione a un giornalista televisivo della Rai secondo cui aveva visto l'aereo precipitare già avvolto nelle fiamme. Ma davanti alla commissione d’inchiesta ritrattò. Calìa appurò che l’agricoltore, in cambio del silenzio, aveva goduto per tutti questi anni di benefici economici, tra cui l’assunzione della figlia, Giovanna, per sedici anni in una società riconducibile a Cefis, la Pro.De. E scoprì che la parte sonora del nastro che era stato utilizzato per le riprese della Rai risultava cancellata proprio nel punto in cui Ronchi descriveva la dinamica dell’accaduto. La verità emerse dall’esame labiale delle immagini video nonostante l’agricoltore si ostinasse a negare, davanti al magistrato, ciò che aveva visto quella sera.
Mattei, che aveva creato dalle ceneri dell'Agip il colosso ENI, era un uomo fastidioso per le "sette sorelle americane", le grandi compagnie petrolifere che detenevano il controllo dell'oro nero e decidevano la politica estera della Casa Bianca. Mattei aveva surrogato la politica estera del Governo italiano, scompaginato i giochi delle major petrolifere, disturbato gli interessi degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica per le sue posizioni terzomondiste e le sue aperture all’Urss e agli Stati mediorientali; esercitava una forte influenza su chi avrebbe dovuto controllarlo, il ministro delle Partecipazioni statali Giorgio Bo; aveva un forte ascendente su Giovanni Gronchi, Presidente della Repubblica, ruolo al quale sembrava aspirasse; aveva creato dal nulla la corrente democristiana di Base, guidata da Giovanni Marcora. E con la forza e il denaro dell’Eni alimentava la politica, i partiti. E a differenza degli altri lo dichiarava.
Secondo molti osservatori, la vicenda di Mattei non si concluse con la sua morte, anzi avrebbe avuto echi e conseguenze di variegata natura, nell'immediato come a lungo termine. Innanzitutto va detto che l'incidente di Bascapé impedì di perfezionare un accordo di produzione con l'Algeria, indubbiamente un legame in potenza contrastante con gli interessi delle sette sorelle. Inoltre, alcune delle persone che ebbero a che fare con Mattei e con l'inchiesta sull'incidente morirono in circostanze misteriose. Il caso più noto è certamente quello del giornalista Mauro De Mauro, il quale si era mostrato assai disponibile a fornire a Francesco Rosi, autore del noto film, materiale (probabilmente nastri magnetici audio) ritenuto di estremo interesse per la ricostruzione dei fatti che il regista andava raccogliendo come base documentale per la sceneggiatura. Pochissimo prima dell'incontro previsto con Rosi, De Mauro (che aveva lavorato anche a "Il Giorno") scomparve nel nulla. Ufficialmente considerato un delitto di mafia, il caso De Mauro è riemerso in tempi recenti a seguito delle dichiarazioni di un pentito, Tommaso Buscetta, il quale lo poneva in collegamento con la morte di Mattei e al "favore" reso dalla mafia a ignoti, forse stranieri.
Per combinazione, la maggior parte degli investigatori che si occuparono della scomparsa di De Mauro, tanto della Polizia quanto dei Carabinieri, effettivamente morirono a loro volta assassinati dalla mafia; il più famoso fra loro era il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel frattempo divenuto prefetto di Palermo, e la stessa fine toccò al vicequestore Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile della stessa città.
Curiosamente, una delle ultime opere di Pier Paolo Pasolini fu un romanzo dal titolo Petrolio. Lo stesso Pasolini si interessò molto alla figura di Mattei, ma anche e soprattutto al mistero della sua morte.
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lunedì 26 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 ottobre.
Il 26 ottobre 1881, a Tombstone in Arizona, fu compiuta una sparatoria rimasta celebre che rappresenta l'essenza stessa delle sfide tra cowboy del vecchio west: la sparatoria all'OK Corral.
Lo scontro avvenne tra i fratelli Earp (Wyatt, Morgan e Vyrgil) e Doc Holliday da una parte, contro Billy Claiborne, Frank McLaury, Tom McLaury, Billy Clanton e Ike Clanton dall'altra. I primi rappresentavano la legge, sebbene probabilmente utilizzavano questa posizione privilegiata per i loro traffici nel gioco d'azzardo. I secondi erano una famiglia di cowboy che si dice fossero dediti al furto di bestiame e non esitassero ad uccidere chi li ostacolava.
La miccia che generò la sparatoria furono le conseguenze di una rapina alla diligenza del marzo precedente nella quale morirono due persone: gli Earp tentarono di convincere Clanton senza successo a rivelare i nomi degli assalitori, ciò gli avrebbe dato buon lustro nell'elezione alla carica di sceriffo nella contea di Cochise.
Il 25 ottobre, giovedì, vi fu un violento litigio tra Morgan e Holliday da una parte, e Clanton e Tom dall'altra. Furono estratte le pistole, ma non successe nulla di più.
Il pomeriggio successivo vi fu la sparatoria: in meno di un minuto furono esplosi oltre 30 colpi di pistola che portarono alla morte dei due McLaury e di Clanton, e al ferimento di Morgan, Vyrgil e Doc, che tuttavia sopravvissero.
Il fatto rimase pressochè sconosciuto fino al 1931, quando lo scrittore Stuart Lake pubblicò la biografia Wyatt Earp, frontier marshal, narrando l'episodio con i toni epici di un romanzo. Lake riscrisse poi la storia nel 1946 per il regista John Ford che la utilizzò nel suo film Sfida infernale (My Darling Clementine) con Henry Fonda. Fu tuttavia il successivo film di John Sturges del 1957, Sfida all'O.K. Corral, con Burt Lancaster e Kirk Douglas, a dare la più ampia notorietà al duello di Tombstone, che da allora è popolarmente conosciuto proprio con il titolo di questo film. In seguito la sparatoria è stata narrata, più o meno fedelmente, in numerosi altri libri e film western. Oggi Tombstone è una cittadina turistica ricostruita fedelmente nella quale si possono rivivere le atmosfere del selvaggio west di fine 800.
Il 26 ottobre 1881, a Tombstone in Arizona, fu compiuta una sparatoria rimasta celebre che rappresenta l'essenza stessa delle sfide tra cowboy del vecchio west: la sparatoria all'OK Corral.
Lo scontro avvenne tra i fratelli Earp (Wyatt, Morgan e Vyrgil) e Doc Holliday da una parte, contro Billy Claiborne, Frank McLaury, Tom McLaury, Billy Clanton e Ike Clanton dall'altra. I primi rappresentavano la legge, sebbene probabilmente utilizzavano questa posizione privilegiata per i loro traffici nel gioco d'azzardo. I secondi erano una famiglia di cowboy che si dice fossero dediti al furto di bestiame e non esitassero ad uccidere chi li ostacolava.
La miccia che generò la sparatoria furono le conseguenze di una rapina alla diligenza del marzo precedente nella quale morirono due persone: gli Earp tentarono di convincere Clanton senza successo a rivelare i nomi degli assalitori, ciò gli avrebbe dato buon lustro nell'elezione alla carica di sceriffo nella contea di Cochise.
Il 25 ottobre, giovedì, vi fu un violento litigio tra Morgan e Holliday da una parte, e Clanton e Tom dall'altra. Furono estratte le pistole, ma non successe nulla di più.
Il pomeriggio successivo vi fu la sparatoria: in meno di un minuto furono esplosi oltre 30 colpi di pistola che portarono alla morte dei due McLaury e di Clanton, e al ferimento di Morgan, Vyrgil e Doc, che tuttavia sopravvissero.
Il fatto rimase pressochè sconosciuto fino al 1931, quando lo scrittore Stuart Lake pubblicò la biografia Wyatt Earp, frontier marshal, narrando l'episodio con i toni epici di un romanzo. Lake riscrisse poi la storia nel 1946 per il regista John Ford che la utilizzò nel suo film Sfida infernale (My Darling Clementine) con Henry Fonda. Fu tuttavia il successivo film di John Sturges del 1957, Sfida all'O.K. Corral, con Burt Lancaster e Kirk Douglas, a dare la più ampia notorietà al duello di Tombstone, che da allora è popolarmente conosciuto proprio con il titolo di questo film. In seguito la sparatoria è stata narrata, più o meno fedelmente, in numerosi altri libri e film western. Oggi Tombstone è una cittadina turistica ricostruita fedelmente nella quale si possono rivivere le atmosfere del selvaggio west di fine 800.
domenica 25 ottobre 2020
#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 ottobre.
Il 25 ottobre 1983 una coalizione di paesi caraibici invase l'isola di Granada. Si trattava di circa 200 soldati di Barbados e Giamaica, e oltre 7000 statunitensi, coadiuvati dalla marina e dall'aviazione. Le forze armate di Granada contavano circa 1500 uomini e già alla sera del 27, grazie all'azione congiunta dei marines e dei bombardamenti dalle navi, l'isola di Granada veniva conquistata. L'azione fu fortemente voluta da Ronald Reagan in risposta al colpo di stato del 13 agosto che aveva portato al potere una giunta militare filocomunista e favorevole a Cuba, durante scontri che si dice siano costati la vita di oltre 100 civili. Nonostante Cuba si fosse dissociata in via formale dal colpo di stato così sanguinoso, Reagan decise di invadere lo stesso.
Nei combattimenti persero la vita 19 soldati americani, 45 di Granada e 24 civili.
Nella risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU n°38/7 del 2 novembre 1983 si stabilì che l'invasione costituiva una grave violazione del diritto internazionale e un attentato all'indipendenza, sovranità e inviolabilità territoriale del paese; si chiedeva inoltre di interrompere al più presto l'intervento armato e ritirare le truppe straniere.
L'occupazione militare durò fino al 15 dicembre. L'organizzatore del colpo di stato, Bernard Coard, fu processato dagli americani e condannato all'ergastolo, pena poi commutata in 30 anni di carcere ed infine sospesa il 5 settembre 2009. Furono organizzate elezioni nel dicembre dell'anno successivo, nelle quali vinse un partito filo-americano. Oggi il 25 ottobre a Granada è festa nazionale e ricordata come il giorno del ringraziamento.
Il 25 ottobre 1983 una coalizione di paesi caraibici invase l'isola di Granada. Si trattava di circa 200 soldati di Barbados e Giamaica, e oltre 7000 statunitensi, coadiuvati dalla marina e dall'aviazione. Le forze armate di Granada contavano circa 1500 uomini e già alla sera del 27, grazie all'azione congiunta dei marines e dei bombardamenti dalle navi, l'isola di Granada veniva conquistata. L'azione fu fortemente voluta da Ronald Reagan in risposta al colpo di stato del 13 agosto che aveva portato al potere una giunta militare filocomunista e favorevole a Cuba, durante scontri che si dice siano costati la vita di oltre 100 civili. Nonostante Cuba si fosse dissociata in via formale dal colpo di stato così sanguinoso, Reagan decise di invadere lo stesso.
Nei combattimenti persero la vita 19 soldati americani, 45 di Granada e 24 civili.
Nella risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU n°38/7 del 2 novembre 1983 si stabilì che l'invasione costituiva una grave violazione del diritto internazionale e un attentato all'indipendenza, sovranità e inviolabilità territoriale del paese; si chiedeva inoltre di interrompere al più presto l'intervento armato e ritirare le truppe straniere.
L'occupazione militare durò fino al 15 dicembre. L'organizzatore del colpo di stato, Bernard Coard, fu processato dagli americani e condannato all'ergastolo, pena poi commutata in 30 anni di carcere ed infine sospesa il 5 settembre 2009. Furono organizzate elezioni nel dicembre dell'anno successivo, nelle quali vinse un partito filo-americano. Oggi il 25 ottobre a Granada è festa nazionale e ricordata come il giorno del ringraziamento.
sabato 24 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 ottobre.
Il 24 ottobre 1917 iniziava la battaglia più tragica della storia dell'esercito italiano, per la quale ancora oggi è in uso il termine "una Caporetto" per definire un'azione disastrosa.
Alle ore 2 del 24 ottobre 1917 la 14a Armata austro-tedesca (costituita da 8 divisioni austriache e 7 tedesche), agli ordini dell’abile generale tedesco Otto von Below, lanciava una potente offensiva (denominata “Waffentreue” – “Fedeltà d’Armi”) contro le linee italiane in corrispondenza delle conche di Plezzo e Tolmino, considerate dal generale Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore dell’armata mista, le posizioni più deboli dello schieramento avversario in quel settore del fronte isontino, con l’obiettivo di raggiungere il fiume Tagliamento. Alla destra della 14a Armata operava la 10a Armata austro - ungarica mentre a sud della 14a Armata, sul basso Isonzo, agiva il Gruppo d’Esercito del generale Boroevic. L’azione sferrata con nuovi procedimenti tattici sconosciuti all’esercito italiano (breve e terrificante preparazione di artiglieria nelle retrovie, lancio di granate con gas tossici sulle posizioni di Plezzo e Tolmino e infiltrazioni di reparti scelti nei fondi valle alle spalle dei reparti italiani) nel giro di poche ore apriva una consistente breccia in corrispondenza di Tolmino ad opera della 12a Divisione slesiana e della divisione Alpenkorps che risalendo la valle dell’Isonzo con grande rapidità giunsero alle spalle delle linee del IV Corpo d’Armata, in coincidenza di Caporetto, determinando il ripiegamento disordinato della 2a Armata del generale Capello. Nella giornata del 25 ottobre le falle aperte in corrispondenza di Plezzo, Caporetto e Tolmino si allargarono sempre di più, al punto che divenne impossibile arrestare il nemico. Il giorno 26 i tedeschi conquistavano Monte Maggiore e si aprivano così le vie per Cividale e Udine. Il giorno 27 ottobre in seguito al precipitare degli eventi il generale Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’esercito, dava l’ordine di ripiegamento generale al fiume Tagliamento alla 2a e 3a Armata e alle truppe della Zona Carnia. Il 28 cadeva Udine e, dopo una disperata resistenza davanti ai ponti del fiume Tagliamento, le divisioni italiane proseguivano la ritirata sino al Piave. Durante quella drammatica battaglia (passata alla storia come Battaglia di Caporetto) l’esercito italiano perse 300.000 uomini (prigionieri in gran parte della 2a Armata), 3500 pezzi di artiglieria, 1730 mortai e bombarde, 2800 mitragliatrici e una ingente quantità di materiale.
Nei primi giorni dell’offensiva caddero 10.000 soldati e più di 30.000 furono i feriti. L’Esercito ebbe, inoltre, 350.000 sbandati che poi vennero raccolti e recuperati. La sera del 27 ottobre, dopo aver raggiunto Treviso, il generale Cadorna emetteva il Bollettino di Guerra con il quale si imputava la sconfitta alla “mancata resistenza di reparti della 2a Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. Con quel disonorevole Bollettino il generale Cadorna addebitava alla truppa la responsabilità della rotta di Caporetto e non invece a manchevolezze ed errori del suo Comando.
In seguito alla sconfitta, il generale Cadorna fu sostituito al comando dal generale Armando Diaz, e la guerra prese una piega completamente diversa.
Il 24 ottobre 1917 iniziava la battaglia più tragica della storia dell'esercito italiano, per la quale ancora oggi è in uso il termine "una Caporetto" per definire un'azione disastrosa.
Alle ore 2 del 24 ottobre 1917 la 14a Armata austro-tedesca (costituita da 8 divisioni austriache e 7 tedesche), agli ordini dell’abile generale tedesco Otto von Below, lanciava una potente offensiva (denominata “Waffentreue” – “Fedeltà d’Armi”) contro le linee italiane in corrispondenza delle conche di Plezzo e Tolmino, considerate dal generale Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore dell’armata mista, le posizioni più deboli dello schieramento avversario in quel settore del fronte isontino, con l’obiettivo di raggiungere il fiume Tagliamento. Alla destra della 14a Armata operava la 10a Armata austro - ungarica mentre a sud della 14a Armata, sul basso Isonzo, agiva il Gruppo d’Esercito del generale Boroevic. L’azione sferrata con nuovi procedimenti tattici sconosciuti all’esercito italiano (breve e terrificante preparazione di artiglieria nelle retrovie, lancio di granate con gas tossici sulle posizioni di Plezzo e Tolmino e infiltrazioni di reparti scelti nei fondi valle alle spalle dei reparti italiani) nel giro di poche ore apriva una consistente breccia in corrispondenza di Tolmino ad opera della 12a Divisione slesiana e della divisione Alpenkorps che risalendo la valle dell’Isonzo con grande rapidità giunsero alle spalle delle linee del IV Corpo d’Armata, in coincidenza di Caporetto, determinando il ripiegamento disordinato della 2a Armata del generale Capello. Nella giornata del 25 ottobre le falle aperte in corrispondenza di Plezzo, Caporetto e Tolmino si allargarono sempre di più, al punto che divenne impossibile arrestare il nemico. Il giorno 26 i tedeschi conquistavano Monte Maggiore e si aprivano così le vie per Cividale e Udine. Il giorno 27 ottobre in seguito al precipitare degli eventi il generale Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’esercito, dava l’ordine di ripiegamento generale al fiume Tagliamento alla 2a e 3a Armata e alle truppe della Zona Carnia. Il 28 cadeva Udine e, dopo una disperata resistenza davanti ai ponti del fiume Tagliamento, le divisioni italiane proseguivano la ritirata sino al Piave. Durante quella drammatica battaglia (passata alla storia come Battaglia di Caporetto) l’esercito italiano perse 300.000 uomini (prigionieri in gran parte della 2a Armata), 3500 pezzi di artiglieria, 1730 mortai e bombarde, 2800 mitragliatrici e una ingente quantità di materiale.
Nei primi giorni dell’offensiva caddero 10.000 soldati e più di 30.000 furono i feriti. L’Esercito ebbe, inoltre, 350.000 sbandati che poi vennero raccolti e recuperati. La sera del 27 ottobre, dopo aver raggiunto Treviso, il generale Cadorna emetteva il Bollettino di Guerra con il quale si imputava la sconfitta alla “mancata resistenza di reparti della 2a Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. Con quel disonorevole Bollettino il generale Cadorna addebitava alla truppa la responsabilità della rotta di Caporetto e non invece a manchevolezze ed errori del suo Comando.
In seguito alla sconfitta, il generale Cadorna fu sostituito al comando dal generale Armando Diaz, e la guerra prese una piega completamente diversa.
venerdì 23 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 ottobre.
La sera del 23 ottobre 2002 un gruppo di 42 terroristi ceceni, molti dei quali donne, irruppero nel teatro Dubrovka di Mosca prendendo in ostaggio i circa 850 spettatori e lavoratori presenti, avanzando la richiesta che le truppe russe abbandonassero immediatamente il territorio ceceno, in cui era in corso una guerra per l'indipendenza.
I terroristi erano armati di pistole e fucili, inoltre molti di loro indossavano cinture e corpetti imbottiti di esplosivo.
Le trattative andarono avanti per alcuni giorni, durante i quali furono liberati molti ostaggi, principalmente bambini, persone malate e buona parte dei cittadini non russi presenti a teatro.
La mattina del 26 ottobre le forze speciali russe decisero di intervenire. Attraverso i condotti di areazione immisero nel teatro massicce dose di Fentanyl, un potente anestetico, e irruppero nel teatro. I combattimenti che ne seguirono portarono alla morte dei terroristi e di almeno 130 ostaggi.
I corpi dei morti e di coloro che avevano perso i sensi a causa del Fentanyl vennero ammassati indistintamente nel piazzale del teatro alla pioggia e alla neve, e solo in un secondo momento furono trasportati negli obitori e negli ospedali, poichè non veniva consentito alle ambulanze di entrare nella zona recintata.
Il presidente russo Vladimir Putin, durante un'apparizione televisiva del 26 ottobre, difese il blitz affermando che "il governo aveva fatto l'impossibile, salvando centinaia, centinaia di persone". Chiese perdono per non essere riusciti a salvare più ostaggi e dichiarò il lunedì successivo giorno di lutto nazionale per commemorare le persone morte.
L'uso massiccio del Fentanyl provocò poi negli anni successivi la morte di diversi ostaggi o l'insorgere di gravi malattie, anche se ciò non è dimostrabile.
L'inchiesta russa che seguì all'evento fu archiviata nel 2007 senza alcun colpevole; la corte europea per i diritti dell'uomo ha preso in considerazione la vicenda nel 2007, rimarcando che l'uso della forza era lecito in ragione del rischio immediato, rimproverando tuttavia l'insufficiente predisposizione di ambulanze e antidoti, necessari per l'immediato soccorso delle vittime.
La sera del 23 ottobre 2002 un gruppo di 42 terroristi ceceni, molti dei quali donne, irruppero nel teatro Dubrovka di Mosca prendendo in ostaggio i circa 850 spettatori e lavoratori presenti, avanzando la richiesta che le truppe russe abbandonassero immediatamente il territorio ceceno, in cui era in corso una guerra per l'indipendenza.
I terroristi erano armati di pistole e fucili, inoltre molti di loro indossavano cinture e corpetti imbottiti di esplosivo.
Le trattative andarono avanti per alcuni giorni, durante i quali furono liberati molti ostaggi, principalmente bambini, persone malate e buona parte dei cittadini non russi presenti a teatro.
La mattina del 26 ottobre le forze speciali russe decisero di intervenire. Attraverso i condotti di areazione immisero nel teatro massicce dose di Fentanyl, un potente anestetico, e irruppero nel teatro. I combattimenti che ne seguirono portarono alla morte dei terroristi e di almeno 130 ostaggi.
I corpi dei morti e di coloro che avevano perso i sensi a causa del Fentanyl vennero ammassati indistintamente nel piazzale del teatro alla pioggia e alla neve, e solo in un secondo momento furono trasportati negli obitori e negli ospedali, poichè non veniva consentito alle ambulanze di entrare nella zona recintata.
Il presidente russo Vladimir Putin, durante un'apparizione televisiva del 26 ottobre, difese il blitz affermando che "il governo aveva fatto l'impossibile, salvando centinaia, centinaia di persone". Chiese perdono per non essere riusciti a salvare più ostaggi e dichiarò il lunedì successivo giorno di lutto nazionale per commemorare le persone morte.
L'uso massiccio del Fentanyl provocò poi negli anni successivi la morte di diversi ostaggi o l'insorgere di gravi malattie, anche se ciò non è dimostrabile.
L'inchiesta russa che seguì all'evento fu archiviata nel 2007 senza alcun colpevole; la corte europea per i diritti dell'uomo ha preso in considerazione la vicenda nel 2007, rimarcando che l'uso della forza era lecito in ragione del rischio immediato, rimproverando tuttavia l'insufficiente predisposizione di ambulanze e antidoti, necessari per l'immediato soccorso delle vittime.
giovedì 22 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 ottobre.
Il 22 ottobre 1865, nella stazione di Parigi - Montparnasse nel XV Arrondissement, l'espresso numero 56 proveniente da Granville entra in stazione coi suoi 131 passeggeri. Il macchinista, Guillame Pellerin, ha un'esperienza ventennale, maturata tutta nelle ferrovie francesi all'interno delle quali non ricevette mai un richiamo. Eppure, per cause che nessuno riuscì mai a chiarire, quel treno entrò in stazione ad una velocità altissima, inadeguata, senza decelerare all'altezza dei primi segni di frenata posti fuori la Gare parigina. Pare che il macchinista fu costretto da non meglio specificati inconvenienti a partire da Granville con dieci minuti circa di ritardo, e questo causò in lui una forte voglia di evitare qualunque ritardo, spingendo il suo treno oltre i limiti di velocità, ritardando fino all'ultimo l'inizio delle manovre di arresto. Quando si accorse di cosa stava per accadere, il capotreno azionò il freno di emergenza, che però si rivelò guasto: il convoglio, allora, penetrò come una lama nella stazione, non si fermò nella sede opportuna, saltò sui marciapiedi e le strutture in cemento, per poi letteralmente bucare la struttura esterna della stazione, cadendo con la locomotiva sulla sottostante fermata dei tram e lasciando tutti i vagoni all'interno della struttura della stazione stessa. la locomotiva sfiorò anche un'edicola posta vicino alla fermata, all'interno della quale si registrò l'unica vittima della vicenda, la signora che vendeva i giornali la quale fu colpita non dal treno ma da pezzi di cemento caduti dalla facciata dell'edificio sfondato. Per il resto, si registrarono feriti ma nessun altro morì a causa dell'incidente. Ci volle quasi una settimana solo per togliere la locomotiva dalla posizione che aveva assunto dopo l'urto.
Il funerale della donna fu pagato dalla compagnia ferroviaria ed ai suoi due figli fu corrisposta una rendita. Il macchinista fu condannato a due mesi di prigione e 50 franchi d'ammenda mentre il capotreno a soli 25 franchi d'ammenda.
Il 22 ottobre 1865, nella stazione di Parigi - Montparnasse nel XV Arrondissement, l'espresso numero 56 proveniente da Granville entra in stazione coi suoi 131 passeggeri. Il macchinista, Guillame Pellerin, ha un'esperienza ventennale, maturata tutta nelle ferrovie francesi all'interno delle quali non ricevette mai un richiamo. Eppure, per cause che nessuno riuscì mai a chiarire, quel treno entrò in stazione ad una velocità altissima, inadeguata, senza decelerare all'altezza dei primi segni di frenata posti fuori la Gare parigina. Pare che il macchinista fu costretto da non meglio specificati inconvenienti a partire da Granville con dieci minuti circa di ritardo, e questo causò in lui una forte voglia di evitare qualunque ritardo, spingendo il suo treno oltre i limiti di velocità, ritardando fino all'ultimo l'inizio delle manovre di arresto. Quando si accorse di cosa stava per accadere, il capotreno azionò il freno di emergenza, che però si rivelò guasto: il convoglio, allora, penetrò come una lama nella stazione, non si fermò nella sede opportuna, saltò sui marciapiedi e le strutture in cemento, per poi letteralmente bucare la struttura esterna della stazione, cadendo con la locomotiva sulla sottostante fermata dei tram e lasciando tutti i vagoni all'interno della struttura della stazione stessa. la locomotiva sfiorò anche un'edicola posta vicino alla fermata, all'interno della quale si registrò l'unica vittima della vicenda, la signora che vendeva i giornali la quale fu colpita non dal treno ma da pezzi di cemento caduti dalla facciata dell'edificio sfondato. Per il resto, si registrarono feriti ma nessun altro morì a causa dell'incidente. Ci volle quasi una settimana solo per togliere la locomotiva dalla posizione che aveva assunto dopo l'urto.
Il funerale della donna fu pagato dalla compagnia ferroviaria ed ai suoi due figli fu corrisposta una rendita. Il macchinista fu condannato a due mesi di prigione e 50 franchi d'ammenda mentre il capotreno a soli 25 franchi d'ammenda.
mercoledì 21 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 ottobre.
Il 21 ottobre 1805 fu combattuta la battaglia di Trafalgar, una celebre battaglia navale, molto importante nell'ambito delle guerre napoleoniche, che vide la vittoria della Royal Navy sotto il comando di Lord Nelson, sulla flotta combinata franco-spagnola il 21 ottobre 1805, a largo di Capo Trafalgar, vicino Cadice.
Nelson fu ferito a morte da un colpo di moschetto che gli perforò un polmone: restò in vita abbastanza da sapere della vittoria dell'Inghilterra. Anche se diciotto navi francesi e spagnole ammainarono le bandiere in segno di resa, il forte vento che li aveva favoriti disperse i vincitori sopraffacendoli e permettendo loro di catturare solo quattro vascelli avversari; in compenso, gli inglesi non persero alcuna nave, ebbero 24 morti e un centinaio di feriti. La nave ammiraglia Vìctory si diresse prima verso Gibilterra, con il corpo di Nelson imbalsamato in una botte piena di brandy. Ai turisti che visitano la cattedrale di San Paolo, a Londra, viene raccontato che i marinai bevvero dalla botte e che da allora il grog distribuito sulla Royal Navy è stato ribattezzato "Sangue di Nelson".
All'inizio, sembrò che la battaglia non portasse realmente risultati positivi, perchè le forze napoleoniche ottennero poco dopo brillanti vittorie sugli austriaci a Ulm (resa del generale Mack senza nemmeno combattere e successiva presa di Vienna senza colpo ferire) e su austriaci e russi ad Austerlitz; tuttavia, Trafalgar ebbe numerose conseguenze a lungo termine. Per cominciare, naturalmente, la morte di Nelson, che aveva dominato non solo la Royal Navy ma anche l'intera guerra navale del tempo. Egli morì da eroe, ma anche se fosse sopravvissuto, non avrebbe più potuto uguagliare il successo del 21 ottobre 1805: infatti, l'Inghilterra non fu impegnata in altri importanti scontri sul mare per oltre un secolo, fino alla battaglia dello Jutland, nel 1916.
La seconda conseguenza fu che, in mancanza di altri importanti combattimenti navali durante le guerre contro Napoleone, l'Inghilterra potè continuare il blocco, riuscendo a tenere imbottigliate le navi francesi in vari porti; solo una scaramuccia di minore importanza contro una flotta franco-veneta avvenuta nel 1811 a Lissa, in Adriatico, ruppe la monotonia dell'assedio. Senza una flotta operativa, Napoleone non era in grado di minacciare seriamente un'invasione della Gran Bretagna, né di attaccare i possedimenti inglesi sparsi nel mondo. Il massimo che poteva fare era cercare di mantenere in funzione il suo sistema continentale per negare all'Inghilterra l'accesso al redditizio mercato europeo.
Il persistente blocco navale inglese ebbe un effetto collaterale in Nord America: avendo bisogno di marinai per i suoi equipaggi, la Gran Bretagna cominciò a praticare l'arruolamento forzato, costringendo stranieri (di solito americani) a imbarcarsi sulle unità della Royal Navy. Questo vero e proprio atto di pirateria violava il diritto internazionale e, insieme alle restrizioni sulla neutralità commerciale sollecitate dalle ordinanze reali emanate dietro parere del Consiglio privato del sovrano ( 1806), irritò a tal punto gli americani da farli entrare in guerra nel 1812. Riguardo alla guerra in Europa, soprattutto, il dominio dei mari dopo Trafalgar permise all'Inghilterra di trasportare truppe sul continente. Gli sbarchi cominciarono in Portogallo e in Spagna nel 1809, dando inizio a quella che sarebbe stata chiamata l"'ulcera spagnola", che tanto logorò la potenza militare Francese e fornì esperienza preziosa all'esercito britannico, gettando le basi della sconfitta finale subita da Napoleone a Waterloo, in Belgio, nel 1815.
Dopo che tutte le nazioni importanti del continente erano state battute da Napoleone almeno una volta, l'Inghilterra emerse come il leader ideale della coalizione che alla fine riuscì ad abbatterlo. Si può affermare che la vittoria di Waterloo ebbe origine a Trafalgar , dieci anni prima. Dopo aver lottato nei secoli precedenti contro l'Olanda e la Francia per il predominio marittimo, la Gran Bretagna godette della supremazia sui mari fino alla seconda guerra mondiale: ciò permise l'espansione dell'impero britannico per tutto il XIX secolo, ma provocò anche la gelosia della Germania, la cui corsa all'armamento navale alla fine di quel secolo e all'inizio del successivo contribuì allo scoppio della prima guerra mondiale.
La superiorità della Royal Navy, ribadita a Trafalgar, salvò l'Inghilterra da qualsiasi minaccia d'invasione da parte francese nei primi anni del XIX secolo, esattamente come fece nel caso della Germania nel 1940. Sul piano tattico la battaglia non ebbe storia. Nelson godeva infatti di equipaggi e cannonieri nettamente migliori rispetto ai francesi ed agli spagnoli. Nelson impostò la battaglia per subire un doppio taglio a T. Questa tattica che sarebbe stata suicida un secolo dopo (vedere Tsushima e Jutland ad esempio) si rivelò vincente perchè permise agli inglesi, pur in inferiorità numerica, di concentrare più navi rispetto agli avversari nel punto nevralgico nello scontro e di far valere quindi la superiorità delle proprie artiglierie. L'unica manovra che avrebbe potuto far vincere la flotta combinata sarebbe consistita nell'accerchiare l'intera flotta inglese. Per far questo l'avanguardia e la retroguardia avrebbe dovuto muoversi in maniera veloce ed armonica avvinghiando le due linee inglesi, guidate dalla Victory e dalla Royal Sovereign. Il povero Villenueve, tanto disprezzato dai posteri, aveva capito questo ed aveva dato ordini ben precisi per effettuare l'accerchiamento.
Purtroppo il poco vento (la battaglia fu combattuta al rallentatore in situazione di quasi bonaccia) ed il fatto che la retroguardia guidata dal Rayo non ubbidì all'ordine non partecipando quasi alla battaglia, vanificò il disperato tentativo dell'ammiraglio francese di uscire vittorioso dallo scontro. Può essere considerato ironico che Villenueve, tanto biasimato per essere scappato con la retroguardia dalla baia di Abukir senza nemmeno combattere, perse lo scontro decisivo di Trafalgar a causa di un suo subordinato che gli giocò lo stesso scherzo!
Per celebrare la vittoria fu costruita a Londra una piazza, Trafalgar Square, al centro della quale vi è una alta colonna con una statua di Nelson. La piazza, sede della National Gallery, è spesso teatro di manifestazioni politiche e di protesta, e tutti gli anni ospita un grandioso albero di Natale.
Il 21 ottobre 1805 fu combattuta la battaglia di Trafalgar, una celebre battaglia navale, molto importante nell'ambito delle guerre napoleoniche, che vide la vittoria della Royal Navy sotto il comando di Lord Nelson, sulla flotta combinata franco-spagnola il 21 ottobre 1805, a largo di Capo Trafalgar, vicino Cadice.
Nelson fu ferito a morte da un colpo di moschetto che gli perforò un polmone: restò in vita abbastanza da sapere della vittoria dell'Inghilterra. Anche se diciotto navi francesi e spagnole ammainarono le bandiere in segno di resa, il forte vento che li aveva favoriti disperse i vincitori sopraffacendoli e permettendo loro di catturare solo quattro vascelli avversari; in compenso, gli inglesi non persero alcuna nave, ebbero 24 morti e un centinaio di feriti. La nave ammiraglia Vìctory si diresse prima verso Gibilterra, con il corpo di Nelson imbalsamato in una botte piena di brandy. Ai turisti che visitano la cattedrale di San Paolo, a Londra, viene raccontato che i marinai bevvero dalla botte e che da allora il grog distribuito sulla Royal Navy è stato ribattezzato "Sangue di Nelson".
All'inizio, sembrò che la battaglia non portasse realmente risultati positivi, perchè le forze napoleoniche ottennero poco dopo brillanti vittorie sugli austriaci a Ulm (resa del generale Mack senza nemmeno combattere e successiva presa di Vienna senza colpo ferire) e su austriaci e russi ad Austerlitz; tuttavia, Trafalgar ebbe numerose conseguenze a lungo termine. Per cominciare, naturalmente, la morte di Nelson, che aveva dominato non solo la Royal Navy ma anche l'intera guerra navale del tempo. Egli morì da eroe, ma anche se fosse sopravvissuto, non avrebbe più potuto uguagliare il successo del 21 ottobre 1805: infatti, l'Inghilterra non fu impegnata in altri importanti scontri sul mare per oltre un secolo, fino alla battaglia dello Jutland, nel 1916.
La seconda conseguenza fu che, in mancanza di altri importanti combattimenti navali durante le guerre contro Napoleone, l'Inghilterra potè continuare il blocco, riuscendo a tenere imbottigliate le navi francesi in vari porti; solo una scaramuccia di minore importanza contro una flotta franco-veneta avvenuta nel 1811 a Lissa, in Adriatico, ruppe la monotonia dell'assedio. Senza una flotta operativa, Napoleone non era in grado di minacciare seriamente un'invasione della Gran Bretagna, né di attaccare i possedimenti inglesi sparsi nel mondo. Il massimo che poteva fare era cercare di mantenere in funzione il suo sistema continentale per negare all'Inghilterra l'accesso al redditizio mercato europeo.
Il persistente blocco navale inglese ebbe un effetto collaterale in Nord America: avendo bisogno di marinai per i suoi equipaggi, la Gran Bretagna cominciò a praticare l'arruolamento forzato, costringendo stranieri (di solito americani) a imbarcarsi sulle unità della Royal Navy. Questo vero e proprio atto di pirateria violava il diritto internazionale e, insieme alle restrizioni sulla neutralità commerciale sollecitate dalle ordinanze reali emanate dietro parere del Consiglio privato del sovrano ( 1806), irritò a tal punto gli americani da farli entrare in guerra nel 1812. Riguardo alla guerra in Europa, soprattutto, il dominio dei mari dopo Trafalgar permise all'Inghilterra di trasportare truppe sul continente. Gli sbarchi cominciarono in Portogallo e in Spagna nel 1809, dando inizio a quella che sarebbe stata chiamata l"'ulcera spagnola", che tanto logorò la potenza militare Francese e fornì esperienza preziosa all'esercito britannico, gettando le basi della sconfitta finale subita da Napoleone a Waterloo, in Belgio, nel 1815.
Dopo che tutte le nazioni importanti del continente erano state battute da Napoleone almeno una volta, l'Inghilterra emerse come il leader ideale della coalizione che alla fine riuscì ad abbatterlo. Si può affermare che la vittoria di Waterloo ebbe origine a Trafalgar , dieci anni prima. Dopo aver lottato nei secoli precedenti contro l'Olanda e la Francia per il predominio marittimo, la Gran Bretagna godette della supremazia sui mari fino alla seconda guerra mondiale: ciò permise l'espansione dell'impero britannico per tutto il XIX secolo, ma provocò anche la gelosia della Germania, la cui corsa all'armamento navale alla fine di quel secolo e all'inizio del successivo contribuì allo scoppio della prima guerra mondiale.
La superiorità della Royal Navy, ribadita a Trafalgar, salvò l'Inghilterra da qualsiasi minaccia d'invasione da parte francese nei primi anni del XIX secolo, esattamente come fece nel caso della Germania nel 1940. Sul piano tattico la battaglia non ebbe storia. Nelson godeva infatti di equipaggi e cannonieri nettamente migliori rispetto ai francesi ed agli spagnoli. Nelson impostò la battaglia per subire un doppio taglio a T. Questa tattica che sarebbe stata suicida un secolo dopo (vedere Tsushima e Jutland ad esempio) si rivelò vincente perchè permise agli inglesi, pur in inferiorità numerica, di concentrare più navi rispetto agli avversari nel punto nevralgico nello scontro e di far valere quindi la superiorità delle proprie artiglierie. L'unica manovra che avrebbe potuto far vincere la flotta combinata sarebbe consistita nell'accerchiare l'intera flotta inglese. Per far questo l'avanguardia e la retroguardia avrebbe dovuto muoversi in maniera veloce ed armonica avvinghiando le due linee inglesi, guidate dalla Victory e dalla Royal Sovereign. Il povero Villenueve, tanto disprezzato dai posteri, aveva capito questo ed aveva dato ordini ben precisi per effettuare l'accerchiamento.
Purtroppo il poco vento (la battaglia fu combattuta al rallentatore in situazione di quasi bonaccia) ed il fatto che la retroguardia guidata dal Rayo non ubbidì all'ordine non partecipando quasi alla battaglia, vanificò il disperato tentativo dell'ammiraglio francese di uscire vittorioso dallo scontro. Può essere considerato ironico che Villenueve, tanto biasimato per essere scappato con la retroguardia dalla baia di Abukir senza nemmeno combattere, perse lo scontro decisivo di Trafalgar a causa di un suo subordinato che gli giocò lo stesso scherzo!
Per celebrare la vittoria fu costruita a Londra una piazza, Trafalgar Square, al centro della quale vi è una alta colonna con una statua di Nelson. La piazza, sede della National Gallery, è spesso teatro di manifestazioni politiche e di protesta, e tutti gli anni ospita un grandioso albero di Natale.
martedì 20 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 ottobre.
Il 20 ottobre 1944 il comando generale della 15a Air Force americana decise di compiere un bombardamento su Milano a seguito di un rapporto della RAF che sosteneva che vi fosse una grossa attività negli impianti siderurgici della città.
La missione fu svolta da 3 stormi di aerei, due dei quali compirono la missione senza particolari problemi nè impedimenti. Il terzo stormo invece, il 451°, composto da 35 aeroplani (un 36esimo era subito tornato alla base per problemi tecnici) ebbe una storia tutta diversa. Il comandante del secondo gruppo di 18 aerei si accorse di essere fuori rotta e che non avrebbero mai raggiunto l'obiettivo previsto, pertanto ordinò di tornare alla base considerando la missione fallita.
Non potendo rientrare alla base con il carico di bombe per motivi di sicurezza (circa 2000 kg di esplosivo per ogni aereo), invece di ordinare lo sgancio in campagna o in mare il capitano disse di farlo lì dov'erano, sopra i quartieri civili che stavano sorvolando in quel momento. L'abitato di Gorla fu raggiunto da 37 tonnellate di esplosivo che distrussero case, negozi e officine.
Una bomba in particolare, causò quella che da allora verrà sempre chiamata la strage di Gorla: fu colpita la scuola "Francesco Crispi" e 184 bambini, i loro insegnanti e alcuni genitori che erano accorsi per tentare di salvarli furono uccisi.
Nessuno venne mai chiamato sul banco degli imputati, né a Norimberga né successivamente, a rispondere di questa azione.
Sul terreno dove sorgeva la scuola elementare, concesso dal Comune di Milano ai parenti delle vittime, venne innalzato il monumento ossario intitolato ai "Piccoli Martiri di Gorla", realizzato dallo scultore Remo Brioschi ed inaugurato nel terzo anniversario della strage. Nella cripta, durante gli anni successivi vennero trasferite, a gruppi, le spoglie dei bambini morti a Gorla in seguito al bombardamento e dei loro insegnanti.
Il piccolo corridoio centrale è dominato dall'iscrizione: "E vi avevo detto di amarvi come fratelli".
La scuola elementare riedificata a Gorla venne dedicata ai Piccoli martiri di Gorla, denominazione successivamente scomparsa nell'accorpamento scolastico.
Il 20 ottobre 1944 il comando generale della 15a Air Force americana decise di compiere un bombardamento su Milano a seguito di un rapporto della RAF che sosteneva che vi fosse una grossa attività negli impianti siderurgici della città.
La missione fu svolta da 3 stormi di aerei, due dei quali compirono la missione senza particolari problemi nè impedimenti. Il terzo stormo invece, il 451°, composto da 35 aeroplani (un 36esimo era subito tornato alla base per problemi tecnici) ebbe una storia tutta diversa. Il comandante del secondo gruppo di 18 aerei si accorse di essere fuori rotta e che non avrebbero mai raggiunto l'obiettivo previsto, pertanto ordinò di tornare alla base considerando la missione fallita.
Non potendo rientrare alla base con il carico di bombe per motivi di sicurezza (circa 2000 kg di esplosivo per ogni aereo), invece di ordinare lo sgancio in campagna o in mare il capitano disse di farlo lì dov'erano, sopra i quartieri civili che stavano sorvolando in quel momento. L'abitato di Gorla fu raggiunto da 37 tonnellate di esplosivo che distrussero case, negozi e officine.
Una bomba in particolare, causò quella che da allora verrà sempre chiamata la strage di Gorla: fu colpita la scuola "Francesco Crispi" e 184 bambini, i loro insegnanti e alcuni genitori che erano accorsi per tentare di salvarli furono uccisi.
Nessuno venne mai chiamato sul banco degli imputati, né a Norimberga né successivamente, a rispondere di questa azione.
Sul terreno dove sorgeva la scuola elementare, concesso dal Comune di Milano ai parenti delle vittime, venne innalzato il monumento ossario intitolato ai "Piccoli Martiri di Gorla", realizzato dallo scultore Remo Brioschi ed inaugurato nel terzo anniversario della strage. Nella cripta, durante gli anni successivi vennero trasferite, a gruppi, le spoglie dei bambini morti a Gorla in seguito al bombardamento e dei loro insegnanti.
Il piccolo corridoio centrale è dominato dall'iscrizione: "E vi avevo detto di amarvi come fratelli".
La scuola elementare riedificata a Gorla venne dedicata ai Piccoli martiri di Gorla, denominazione successivamente scomparsa nell'accorpamento scolastico.
lunedì 19 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 ottobre.
Il 19 ottobre 1987, lunedì, fu il giorno della prima grande crisi finanziaria mondiale, passata alla storia come "lunedì nero".
In questa giornata infausta per le borse mondiali, vi fu un autentico tracollo degli indici del Dow-Jones, che trascinarono dietro sé buona parte degli indici delle borse di tutto il mondo.
Il completo sistema informatizzato interno alla borsa newyorchese fece perdere il controllo sulle vendite delle azioni e, ulteriormente, la ferma convinzione di lasciare che il mercato si regolasse da sé risultò, ancora una volta, fallimentare.
Gli indici finanziari americani, che da lungo tempo erano in costante aumento, finirono per risultare enormemente sopravvalutati, e quindi, a rischio di crollo.
Il Dow-Jones, a fine seduta, perse circa il 23% del proprio valore, crollando quasi uniformemente in tutti i propri indici.
Differentemente da altre crisi finanziarie, la crisi del '87 si risolse in breve tempo, e dunque gli indici ritornarono a livelli medi senza alcun problema.
Inoltre dopo questo episodio i meccanismi automatici delle borse vennero aggiornati in maniera tale da sospendere i titoli per eccesso di ribasso, e questi miglioramenti evitarono che altre crisi simili accadessero nuovamente.
Fra le ulteriori cause della esasperata fiducia che gonfiò la borsa americana prima della crisi, possiamo certamente considerare la situazione politica mondiale, con l'URSS che andava piano piano a sgretolarsi, il risolversi dell'equilibrio verso una delle due potenze in causa, nonché l'importanza del dollaro, che assieme alla valuta tedesca e giapponese, rimaneva la più forte valuta di scambio a livello mondiale.
Un altra particolarità dell'avvenimento fu che, contrariamente a tante altre crisi simili, gli economisti avevano da tempo annunciato la situazione, senza però riuscire ad evitarla.
Da segnalare inoltre che, a livello mondiale, la borsa che venne trascinata più a fondo nel ribasso fu quela della Nuova Zelanda, con un 60% complessivo di perdite azionarie.
Il 19 ottobre 1987, lunedì, fu il giorno della prima grande crisi finanziaria mondiale, passata alla storia come "lunedì nero".
In questa giornata infausta per le borse mondiali, vi fu un autentico tracollo degli indici del Dow-Jones, che trascinarono dietro sé buona parte degli indici delle borse di tutto il mondo.
Il completo sistema informatizzato interno alla borsa newyorchese fece perdere il controllo sulle vendite delle azioni e, ulteriormente, la ferma convinzione di lasciare che il mercato si regolasse da sé risultò, ancora una volta, fallimentare.
Gli indici finanziari americani, che da lungo tempo erano in costante aumento, finirono per risultare enormemente sopravvalutati, e quindi, a rischio di crollo.
Il Dow-Jones, a fine seduta, perse circa il 23% del proprio valore, crollando quasi uniformemente in tutti i propri indici.
Differentemente da altre crisi finanziarie, la crisi del '87 si risolse in breve tempo, e dunque gli indici ritornarono a livelli medi senza alcun problema.
Inoltre dopo questo episodio i meccanismi automatici delle borse vennero aggiornati in maniera tale da sospendere i titoli per eccesso di ribasso, e questi miglioramenti evitarono che altre crisi simili accadessero nuovamente.
Fra le ulteriori cause della esasperata fiducia che gonfiò la borsa americana prima della crisi, possiamo certamente considerare la situazione politica mondiale, con l'URSS che andava piano piano a sgretolarsi, il risolversi dell'equilibrio verso una delle due potenze in causa, nonché l'importanza del dollaro, che assieme alla valuta tedesca e giapponese, rimaneva la più forte valuta di scambio a livello mondiale.
Un altra particolarità dell'avvenimento fu che, contrariamente a tante altre crisi simili, gli economisti avevano da tempo annunciato la situazione, senza però riuscire ad evitarla.
Da segnalare inoltre che, a livello mondiale, la borsa che venne trascinata più a fondo nel ribasso fu quela della Nuova Zelanda, con un 60% complessivo di perdite azionarie.
domenica 18 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 ottobre.
Il 18 ottobre 202 a.C. si svolse, nei pressi di Zama, la battaglia che di fatto pose fine alla seconda guerra punica, tra Publio Cornelio Scipione ed Annibale.
Scipione poteva contare per la fanteria su 23.000 uomini tra Romani e Italici più 6.000 Numidi. La cavalleria poteva contare 2.400 tra Romani e Italici, 4.000 Numidi e 600 Berberi. Non era in superiorità numerica ma disponeva di una cavalleria superiore, i cavalieri numidi di Massinissa, che erano stati spesso decisivi a sostegno di Annibale in Italia, e un reparto di 300 cavalieri romani, particolarmente addestrati e molto ben equipaggiati, che Scipione aveva addestrato in Sicilia.
Annibale poteva contare sui 15.000 veterani d'Italia, molti dei quali Italici o Spagnoli, 15.000 fanti Libi e Cartaginesi, recentemente levati dal senato cartaginese e di dubbia utilità sul campo, 12.000 mercenari tra Liguri, Celti, Balearici e Mauritani più 4.000 Macedoni. La cavalleria contava 2.000 cartaginesi e 2.000 numidi. A questi si aggiungevano 80 elefanti africani delle foreste, più piccoli di quelli delle savane, ma comunque pericolosi.
I due eserciti si schierarono in una vasta piana priva d’impedimenti, luogo ideale per lo svolgimento di una grande battaglia campale.
Annibale schierò il suo esercito su tre linee, tenendo in considerazione la qualità delle sue truppe. Davanti all'esercito erano schierati gli elefanti da guerra nella speranza di mettere in disordine le prime linee della fanteria romana. In prima linea i vari nuclei di mercenari o alleati italici, galli e liguri, molti di questi erano sempre stati travolti dai legionari e avevano seguito a malincuore il condottiero cartaginese, ormai stanchi della guerra. A questi Annibale sapeva che poteva chiedere soltanto un impeto iniziale che si sommasse a quello degli elefanti, non certo una resistenza ad oltranza. La seconda fila, a poca distanza dalla prima, era formata dalle reclute africane, cioè da quei contingenti frettolosamente arruolati da Cartagine per fronteggiare l’invasione romana. Anche da questi non ci si poteva attendere molto, privi di esperienza e addestramento adeguati, erano in grado di affrontare i romani solo dopo l’intervento di elefanti e mercenari. In terza fila, distante oltre uno stadio dalle prime due (circa 178 metri), Annibale aveva tenuto i suoi veterani d'Italia pronti a intervenire anche con manovre tattiche più complesse e magari sferrare il colpo decisivo. Sulle ali la cavalleria, su cui Annibale non faceva molto affidamento se non quello di riuscire a neutralizzare e bloccare la cavalleria romana, superiore in numero e addestramento. Quindi uno schieramento differenziato tra le truppe opportunamente studiato, elefanti e mercenari costituiranno la prime due ondate in successione, le reclute africane costituiranno un sostegno e un rincalzo, in riserva i veterani per scontrarsi contro le forze romane ormai logore.
Anche Scipione aveva schierato le sue forze su tre linee, come di consueto. Ma, invece di alternare i manipoli nella solita formazione a scacchiera, dispose i manipoli in colonna per creare delle "corsie" di scorrimento in cui far incanalare il prevedibile attacco degli elefanti. Perciò in prima linea pose i manipoli degli hastati, coi velites che mascheravano gli intervalli delle "corsie" e a fare da esca: sarebbero stati loro ad assorbire il primo impatto con gli elefanti, avevano l’ordine di spostarsi quando gli elefanti fossero arrivati quasi a contatto con la fanteria lasciando così aperti i varchi e consentendo ai pachidermi di infilarsi nelle “corsie” per essere bersagliati anche ai fianchi. In seconda linea erano piazzati i manipoli dei principes, mentre quelli dei triarii, secondo la tradizione, erano di riserva in terza linea. La cavalleria romana di Caio Lelio era sulla sinistra mentre sulla destra stava la cavalleria numidica di Massinissa. Inoltre, tra le prime file dispose parecchi uomini con strumenti a percussione e trombe che avevano il compito di far rumore per spaventare gli elefanti.
La battaglia, come aveva previsto Scipione, fu aperta dalla carica degli elefanti da guerra cartaginesi.
I pachidermi però, sconvolti dal fitto lancio di giavellotti dei velites e spaventati dai suoni provenienti dalle fila romane, furono in parte ricacciati indietro e, scivolando sui fianchi delle fanterie cartaginesi, andarono a disordinare le ali di cavalleria. Vedendo la difficoltà delle ali di cavalleria cartaginesi, Caio Lelio e Massinissa ne approfittano attaccandole e, dopo una breve mischia, entrambi i contingenti della cavalleria di Annibale furono messi in fuga inseguiti da vicino dai cavalieri nemici. Gli altri elefanti ebbero più successo ma furono incanalati negli spazi lasciati dai manipoli, dove passarono senza procurare grossi danni per hastati, principes e triarii, solo i velites pagarono un prezzo pesante, messo comunque in conto da Scipione che ha ottenuto quello che voleva: la sua linea è rimasta ordinata, gli hastati sono integri e i principes non sono stati coinvolti.
A questo punto le fanterie avanzarono e vennero a contatto, tranne i veterani cartaginesi che mantennero la posizione.
Lo scontro fu molto violento e ne nacque una mischia confusa con grandi varchi che si aprivano nella formazione dei mercenari laddove alcuni si diedero alla fuga, inoltre, la linea delle reclute africane non intervenne subito a sostegno perché il fronte era occupato dai fuggitivi ai quali fu impedito di passare per non disordinare i ranghi. Appena ebbero il fronte sufficientemente libero alcuni reparti di reclute si unirono alla mischia entrando in contatto per primi con gli hastati che avevano lasciato la posizione gettandosi all'inseguimento dei fuggiaschi. Fu necessario il supporto dei principes nei punti in cui gli hastati non avevano recuperato la posizione. Nel disordine creatosi, i romani, meglio addestrati e armati, riescono a prevalere. Le prime due file cartaginesi, ora mischiate, cominciano a ripiegare abbandonando la linea di combattimento, alcuni fuggono.
Annibale riesce a riprendere il controllo di alcune unità di reclute e mercenari e le riorganizza ai lati dei veterani, cercando così di allargare il fronte per aggirare il fianco romano. Scipione, invece, riorganizzati gli hastati che già si erano gettati all'inseguimento dei fuggitivi, fece compiere ai suoi legionari il movimento sui fianchi, già utilizzato con successo in precedenza, ma questa volta solo per estendere da entrambi i lati il fronte degli hastati non per aggirare il nemico. Il fronte romano risultò così pari o di poco superiore a quello cartaginese ma con principes e triarii, finora poco impegnati, che si trovano a combattere sulle ali contro forze più stanche, anche se gli hastati, impegnati finora nello scontro, dovevano ora vedersela con i veterani cartaginesi ancora freschi.
Il combattimento tra le fanterie riprese e sembrava dovesse continuare ancora a lungo, con esito incerto, ma le cavallerie romane, che avevano ormai disperso i cavalieri nemici, fecero ritorno sul campo di battaglia attaccando alle spalle le truppe di Annibale. Queste, pressate da vicino dalla cavalleria romana, si diedero ben presto alla fuga. Come succedeva sempre nelle guerre dell'antichità, finita la battaglia iniziava I'inseguimento e con esso il massacro. Annibale riuscì a fuggire verso Cartagine ma aveva lasciato sul campo almeno 20.000 caduti e 10.000 prigionieri. Le perdite romane assommarono a un massimo di 4.000 uomini, metà dei quali numidi. Scipione aveva avuto la battaglia campale che cercava e con la vittoria aveva posto fine allo scontro mortale tra Roma e Cartagine.
La vittoria decisiva nella battaglia di Zama pose fine alla seconda guerra punica (219-202 a.C.) e sancì, di fatto, la fine della potenza cartaginese nel Mediterraneo. Cartagine, la grande città di origine fenicia che col suo impero commerciale per sessant'anni aveva conteso a Roma il predominio sul Mediterraneo occidentale, era battuta. Roma costrinse la città rivale a una pace umiliante. Un trattato pesantissimo imponeva di smantellare completamente la flotta da guerra, solo poche decine di navi, infatti, erano consentite alla marina cartaginese dalle clausole del trattato; tutte le colonie cartaginesi in Spagna passavano sotto il controllo romano; la stessa politica estera di Cartagine doveva conformarsi a quella romana e la obbligava al pagamento di un pesantissimo tributo che per cinquant'anni avrebbe gravato sulla sua economia.
Mezzo secolo dopo ci sarebbe stata una terza guerra punica, culminata con la distruzione di Cartagine, ma si trattò più di una vendetta postuma da parte di Roma che di una conseguenza di un risorto pericolo cartaginese, che dopo Zama era definitivamente tramontato.
Per paura della vendetta romana la città costrinse Annibale, il suo più grande figlio, ad andare in esilio presso il re di Siria Antioco III; dopo la sconfitta di quest'ultimo contro i Romani in Bitinia, Annibale si avvelenò per non essere consegnato a Roma. La sconfitta di Cartagine costituisce il primo elemento nella costruzione di quell'egemonia romana che in qualche modo ancora segna la civiltà del nostro continente.
Il 18 ottobre 202 a.C. si svolse, nei pressi di Zama, la battaglia che di fatto pose fine alla seconda guerra punica, tra Publio Cornelio Scipione ed Annibale.
Scipione poteva contare per la fanteria su 23.000 uomini tra Romani e Italici più 6.000 Numidi. La cavalleria poteva contare 2.400 tra Romani e Italici, 4.000 Numidi e 600 Berberi. Non era in superiorità numerica ma disponeva di una cavalleria superiore, i cavalieri numidi di Massinissa, che erano stati spesso decisivi a sostegno di Annibale in Italia, e un reparto di 300 cavalieri romani, particolarmente addestrati e molto ben equipaggiati, che Scipione aveva addestrato in Sicilia.
Annibale poteva contare sui 15.000 veterani d'Italia, molti dei quali Italici o Spagnoli, 15.000 fanti Libi e Cartaginesi, recentemente levati dal senato cartaginese e di dubbia utilità sul campo, 12.000 mercenari tra Liguri, Celti, Balearici e Mauritani più 4.000 Macedoni. La cavalleria contava 2.000 cartaginesi e 2.000 numidi. A questi si aggiungevano 80 elefanti africani delle foreste, più piccoli di quelli delle savane, ma comunque pericolosi.
I due eserciti si schierarono in una vasta piana priva d’impedimenti, luogo ideale per lo svolgimento di una grande battaglia campale.
Annibale schierò il suo esercito su tre linee, tenendo in considerazione la qualità delle sue truppe. Davanti all'esercito erano schierati gli elefanti da guerra nella speranza di mettere in disordine le prime linee della fanteria romana. In prima linea i vari nuclei di mercenari o alleati italici, galli e liguri, molti di questi erano sempre stati travolti dai legionari e avevano seguito a malincuore il condottiero cartaginese, ormai stanchi della guerra. A questi Annibale sapeva che poteva chiedere soltanto un impeto iniziale che si sommasse a quello degli elefanti, non certo una resistenza ad oltranza. La seconda fila, a poca distanza dalla prima, era formata dalle reclute africane, cioè da quei contingenti frettolosamente arruolati da Cartagine per fronteggiare l’invasione romana. Anche da questi non ci si poteva attendere molto, privi di esperienza e addestramento adeguati, erano in grado di affrontare i romani solo dopo l’intervento di elefanti e mercenari. In terza fila, distante oltre uno stadio dalle prime due (circa 178 metri), Annibale aveva tenuto i suoi veterani d'Italia pronti a intervenire anche con manovre tattiche più complesse e magari sferrare il colpo decisivo. Sulle ali la cavalleria, su cui Annibale non faceva molto affidamento se non quello di riuscire a neutralizzare e bloccare la cavalleria romana, superiore in numero e addestramento. Quindi uno schieramento differenziato tra le truppe opportunamente studiato, elefanti e mercenari costituiranno la prime due ondate in successione, le reclute africane costituiranno un sostegno e un rincalzo, in riserva i veterani per scontrarsi contro le forze romane ormai logore.
Anche Scipione aveva schierato le sue forze su tre linee, come di consueto. Ma, invece di alternare i manipoli nella solita formazione a scacchiera, dispose i manipoli in colonna per creare delle "corsie" di scorrimento in cui far incanalare il prevedibile attacco degli elefanti. Perciò in prima linea pose i manipoli degli hastati, coi velites che mascheravano gli intervalli delle "corsie" e a fare da esca: sarebbero stati loro ad assorbire il primo impatto con gli elefanti, avevano l’ordine di spostarsi quando gli elefanti fossero arrivati quasi a contatto con la fanteria lasciando così aperti i varchi e consentendo ai pachidermi di infilarsi nelle “corsie” per essere bersagliati anche ai fianchi. In seconda linea erano piazzati i manipoli dei principes, mentre quelli dei triarii, secondo la tradizione, erano di riserva in terza linea. La cavalleria romana di Caio Lelio era sulla sinistra mentre sulla destra stava la cavalleria numidica di Massinissa. Inoltre, tra le prime file dispose parecchi uomini con strumenti a percussione e trombe che avevano il compito di far rumore per spaventare gli elefanti.
La battaglia, come aveva previsto Scipione, fu aperta dalla carica degli elefanti da guerra cartaginesi.
I pachidermi però, sconvolti dal fitto lancio di giavellotti dei velites e spaventati dai suoni provenienti dalle fila romane, furono in parte ricacciati indietro e, scivolando sui fianchi delle fanterie cartaginesi, andarono a disordinare le ali di cavalleria. Vedendo la difficoltà delle ali di cavalleria cartaginesi, Caio Lelio e Massinissa ne approfittano attaccandole e, dopo una breve mischia, entrambi i contingenti della cavalleria di Annibale furono messi in fuga inseguiti da vicino dai cavalieri nemici. Gli altri elefanti ebbero più successo ma furono incanalati negli spazi lasciati dai manipoli, dove passarono senza procurare grossi danni per hastati, principes e triarii, solo i velites pagarono un prezzo pesante, messo comunque in conto da Scipione che ha ottenuto quello che voleva: la sua linea è rimasta ordinata, gli hastati sono integri e i principes non sono stati coinvolti.
A questo punto le fanterie avanzarono e vennero a contatto, tranne i veterani cartaginesi che mantennero la posizione.
Lo scontro fu molto violento e ne nacque una mischia confusa con grandi varchi che si aprivano nella formazione dei mercenari laddove alcuni si diedero alla fuga, inoltre, la linea delle reclute africane non intervenne subito a sostegno perché il fronte era occupato dai fuggitivi ai quali fu impedito di passare per non disordinare i ranghi. Appena ebbero il fronte sufficientemente libero alcuni reparti di reclute si unirono alla mischia entrando in contatto per primi con gli hastati che avevano lasciato la posizione gettandosi all'inseguimento dei fuggiaschi. Fu necessario il supporto dei principes nei punti in cui gli hastati non avevano recuperato la posizione. Nel disordine creatosi, i romani, meglio addestrati e armati, riescono a prevalere. Le prime due file cartaginesi, ora mischiate, cominciano a ripiegare abbandonando la linea di combattimento, alcuni fuggono.
Annibale riesce a riprendere il controllo di alcune unità di reclute e mercenari e le riorganizza ai lati dei veterani, cercando così di allargare il fronte per aggirare il fianco romano. Scipione, invece, riorganizzati gli hastati che già si erano gettati all'inseguimento dei fuggitivi, fece compiere ai suoi legionari il movimento sui fianchi, già utilizzato con successo in precedenza, ma questa volta solo per estendere da entrambi i lati il fronte degli hastati non per aggirare il nemico. Il fronte romano risultò così pari o di poco superiore a quello cartaginese ma con principes e triarii, finora poco impegnati, che si trovano a combattere sulle ali contro forze più stanche, anche se gli hastati, impegnati finora nello scontro, dovevano ora vedersela con i veterani cartaginesi ancora freschi.
Il combattimento tra le fanterie riprese e sembrava dovesse continuare ancora a lungo, con esito incerto, ma le cavallerie romane, che avevano ormai disperso i cavalieri nemici, fecero ritorno sul campo di battaglia attaccando alle spalle le truppe di Annibale. Queste, pressate da vicino dalla cavalleria romana, si diedero ben presto alla fuga. Come succedeva sempre nelle guerre dell'antichità, finita la battaglia iniziava I'inseguimento e con esso il massacro. Annibale riuscì a fuggire verso Cartagine ma aveva lasciato sul campo almeno 20.000 caduti e 10.000 prigionieri. Le perdite romane assommarono a un massimo di 4.000 uomini, metà dei quali numidi. Scipione aveva avuto la battaglia campale che cercava e con la vittoria aveva posto fine allo scontro mortale tra Roma e Cartagine.
La vittoria decisiva nella battaglia di Zama pose fine alla seconda guerra punica (219-202 a.C.) e sancì, di fatto, la fine della potenza cartaginese nel Mediterraneo. Cartagine, la grande città di origine fenicia che col suo impero commerciale per sessant'anni aveva conteso a Roma il predominio sul Mediterraneo occidentale, era battuta. Roma costrinse la città rivale a una pace umiliante. Un trattato pesantissimo imponeva di smantellare completamente la flotta da guerra, solo poche decine di navi, infatti, erano consentite alla marina cartaginese dalle clausole del trattato; tutte le colonie cartaginesi in Spagna passavano sotto il controllo romano; la stessa politica estera di Cartagine doveva conformarsi a quella romana e la obbligava al pagamento di un pesantissimo tributo che per cinquant'anni avrebbe gravato sulla sua economia.
Mezzo secolo dopo ci sarebbe stata una terza guerra punica, culminata con la distruzione di Cartagine, ma si trattò più di una vendetta postuma da parte di Roma che di una conseguenza di un risorto pericolo cartaginese, che dopo Zama era definitivamente tramontato.
Per paura della vendetta romana la città costrinse Annibale, il suo più grande figlio, ad andare in esilio presso il re di Siria Antioco III; dopo la sconfitta di quest'ultimo contro i Romani in Bitinia, Annibale si avvelenò per non essere consegnato a Roma. La sconfitta di Cartagine costituisce il primo elemento nella costruzione di quell'egemonia romana che in qualche modo ancora segna la civiltà del nostro continente.
sabato 17 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 17 ottobre.
Il 17 ottobre del 1931 a Chicago, in Illinois, Alphonse Capone veniva condannato a 11 di carcere e a una multa di 80000 dollari per evasione fiscale.
Figlio di emigranti, Al Capone detto scarface a causa di una cicatrice rimediata in gioventù con un rivale, costruì la sua fortuna a Chicago lavorando per Johnny Torrio nel campo nelle scommesse clandestine, fino a quando lo stesso Torrio si ritirò a seguito di un attentato e gli lasciò le sue attività illecite. Capone fece fortuna con il business del commercio illegale di alcolici (si era nel proibizionismo) affiancando alle sue attività illecite altre attività di copertura, di ristorazione e abbigliamento, che gli rendevano altrettanto.
Il segreto del suo successo era basato sulle centinaia di politici e poliziotti corrotti e a suo libro paga (tra cui il sindaco William Thompson) e sull'eliminazione di tutti coloro che ostacolavano il suo successo; a lui è attribuita la celebre strage di San Valentino, in cui alcuni sicari vestiti da poliziotti irruppero in un garage e fingendo un controllo uccisero a colpi di mitra sette persone.
Per contrastare Capone l'FBI costituì un pool di super poliziotti considerati incorruttibili che in una località segreta si dedicarono esclusivamente a tentare di incastrare Capone, detti gli intoccabili. Non era facile perchè il mafioso non era intestatario di nulla o quasi. Fu soltanto la scoperta casuale di un foglietto che, quasi come una stele di Rosetta, consentì di decifrare i codici permettendo agli intoccabili di dipanare una fitta trama di imbrogli e violenze.
Tuttavia, non fu possibile trovare alcuna prova degli oltre 200 omicidi attribuibili agli ordini di Capone, e l'unica accusa che fu possibile dimostrare fu l'evasione fiscale.
Inizialmente inviato nel carcere di Atlanta, fu presto trasferito in quello di Alcatraz non appena fu chiaro che, sempre corrompendo poliziotti e secondini, Capone viveva con agio e continuava a gestire anche dal carcere i suoi traffici.
Ad Alcatraz invece si ammalò di demenza (forse dovuta alla sifilide contratta anni prima) e fu liberato nel 39. Morì di arresto cardiaco a seguito di un ictus in Florida nel 1947 a soli 48 anni.
Il 17 ottobre del 1931 a Chicago, in Illinois, Alphonse Capone veniva condannato a 11 di carcere e a una multa di 80000 dollari per evasione fiscale.
Figlio di emigranti, Al Capone detto scarface a causa di una cicatrice rimediata in gioventù con un rivale, costruì la sua fortuna a Chicago lavorando per Johnny Torrio nel campo nelle scommesse clandestine, fino a quando lo stesso Torrio si ritirò a seguito di un attentato e gli lasciò le sue attività illecite. Capone fece fortuna con il business del commercio illegale di alcolici (si era nel proibizionismo) affiancando alle sue attività illecite altre attività di copertura, di ristorazione e abbigliamento, che gli rendevano altrettanto.
Il segreto del suo successo era basato sulle centinaia di politici e poliziotti corrotti e a suo libro paga (tra cui il sindaco William Thompson) e sull'eliminazione di tutti coloro che ostacolavano il suo successo; a lui è attribuita la celebre strage di San Valentino, in cui alcuni sicari vestiti da poliziotti irruppero in un garage e fingendo un controllo uccisero a colpi di mitra sette persone.
Per contrastare Capone l'FBI costituì un pool di super poliziotti considerati incorruttibili che in una località segreta si dedicarono esclusivamente a tentare di incastrare Capone, detti gli intoccabili. Non era facile perchè il mafioso non era intestatario di nulla o quasi. Fu soltanto la scoperta casuale di un foglietto che, quasi come una stele di Rosetta, consentì di decifrare i codici permettendo agli intoccabili di dipanare una fitta trama di imbrogli e violenze.
Tuttavia, non fu possibile trovare alcuna prova degli oltre 200 omicidi attribuibili agli ordini di Capone, e l'unica accusa che fu possibile dimostrare fu l'evasione fiscale.
Inizialmente inviato nel carcere di Atlanta, fu presto trasferito in quello di Alcatraz non appena fu chiaro che, sempre corrompendo poliziotti e secondini, Capone viveva con agio e continuava a gestire anche dal carcere i suoi traffici.
Ad Alcatraz invece si ammalò di demenza (forse dovuta alla sifilide contratta anni prima) e fu liberato nel 39. Morì di arresto cardiaco a seguito di un ictus in Florida nel 1947 a soli 48 anni.
venerdì 16 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 16 ottobre.
Il 16 ottobre 1817, nella valle dei Re, Giovanni Battista Bolzoni trovava l'ingresso della tomba, in seguito denominata KV17, del faraone Sethi I, una delle più grandi dell'intera valle.
Sethi I, padre di Ramses II, fu il secondo faraone della XIX dinastia, la prima del Nuovo Regno e sicuramente la più potente tra le nuove dinastie. Tra le grandi opere del faraone ricordiamo il completamento della monumentale sala ipostila del tempio di Karnak (il famoso colonnato icona stessa dell'Egitto, più volte immortalato in innumerevoli film) e il suo tempio funerario ad Abydos, nel quale vi è raffigurato su una parete il faraone stesso che mostra al figlio Ramses II, ancora fanciullo, i cartigli dei faraoni che l'hanno preceduto e che hanno reso grande il paese. Questo bassorilievo è fondamentale per gli egittologi che hanno avuto la possibilità di verificare cronologicamente il susseguirsi dei re nella millenaria storia egiziana (fatta eccezione per alcuni nomi volutamente omessi, quali quelli del periodo amarniano del faraone eretico Akenaton, di Tutankamon, ecc.).
La sua tomba è interamente decorata tanto che è nota anche con il soprannome di “Cappella Sistina egizia”. Il corredo funebre è stato saccheggiato ab antiquo.
Sono presenti testi del “Libro della camera nascosta (Amduat)”, dei libri “delle porte” e “della vacca celeste”, nonché il “Rituale dell’apertura della bocca”, e le “Litanie di Ra”. Particolarmente lunga e, come si è detto, splendidamente decorata, KV17 è decisamente appropriata per un faraone dell’importanza di Sethi I . Un lungo, e solo parzialmente esplorato corridoio, si estende inoltre molti metri nella roccia oltre la camera funeraria.
La scoperta generò una eccitazione, in Europa, paragonabile solo a quella che si scatenerà un secolo dopo (nel 1922) con la scoperta della tomba di Tutankhamon. Il maldestro tentativo di copiare alcuni rilievi delle pareti e la grossolana rimozione di alcuni di essi per il trasporto a vari musei europei danneggiarono seriamente le pareti ed in qualche caso il nostro unico ricordo deriva dai dipinti fatti dai primi visitatori. Data l’importanza del sito ed il suo immenso valore storico-artistico, la tomba non è aperta al pubblico e vi sono ammessi solo Capi di Stato esteri in visita al paese.
Il 16 ottobre 1817, nella valle dei Re, Giovanni Battista Bolzoni trovava l'ingresso della tomba, in seguito denominata KV17, del faraone Sethi I, una delle più grandi dell'intera valle.
Sethi I, padre di Ramses II, fu il secondo faraone della XIX dinastia, la prima del Nuovo Regno e sicuramente la più potente tra le nuove dinastie. Tra le grandi opere del faraone ricordiamo il completamento della monumentale sala ipostila del tempio di Karnak (il famoso colonnato icona stessa dell'Egitto, più volte immortalato in innumerevoli film) e il suo tempio funerario ad Abydos, nel quale vi è raffigurato su una parete il faraone stesso che mostra al figlio Ramses II, ancora fanciullo, i cartigli dei faraoni che l'hanno preceduto e che hanno reso grande il paese. Questo bassorilievo è fondamentale per gli egittologi che hanno avuto la possibilità di verificare cronologicamente il susseguirsi dei re nella millenaria storia egiziana (fatta eccezione per alcuni nomi volutamente omessi, quali quelli del periodo amarniano del faraone eretico Akenaton, di Tutankamon, ecc.).
La sua tomba è interamente decorata tanto che è nota anche con il soprannome di “Cappella Sistina egizia”. Il corredo funebre è stato saccheggiato ab antiquo.
Sono presenti testi del “Libro della camera nascosta (Amduat)”, dei libri “delle porte” e “della vacca celeste”, nonché il “Rituale dell’apertura della bocca”, e le “Litanie di Ra”. Particolarmente lunga e, come si è detto, splendidamente decorata, KV17 è decisamente appropriata per un faraone dell’importanza di Sethi I . Un lungo, e solo parzialmente esplorato corridoio, si estende inoltre molti metri nella roccia oltre la camera funeraria.
La scoperta generò una eccitazione, in Europa, paragonabile solo a quella che si scatenerà un secolo dopo (nel 1922) con la scoperta della tomba di Tutankhamon. Il maldestro tentativo di copiare alcuni rilievi delle pareti e la grossolana rimozione di alcuni di essi per il trasporto a vari musei europei danneggiarono seriamente le pareti ed in qualche caso il nostro unico ricordo deriva dai dipinti fatti dai primi visitatori. Data l’importanza del sito ed il suo immenso valore storico-artistico, la tomba non è aperta al pubblico e vi sono ammessi solo Capi di Stato esteri in visita al paese.
giovedì 15 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 15 ottobre.
Il 15 ottobre 1815 Napoleone Bonaparte fu imbarcato sulla nave inglese Northumberland per essere condotto al suo secondo esilio, all'isola di Sant'Elena nell'oceano Atlantico, dove giunse il giorno successivo.
Qui, con un piccolo seguito di fedelissimi, Napoleone dettò le sue memorie ed espresse il suo disprezzo per gli Inglesi, personificati nell'odiosa figura del 'carceriere' di Napoleone sir Hudson Lowe. Egli dettò al conte di Las Cases il Memoriale di Sant'Elena, l'opera in cui appare nella sua fulgida grandezza e verità la figura e il senso ultimo di Napoleone. Nella seconda metà dell'aprile del 1821, lui stesso scrisse le sue ultime volontà e molte note a margine (per un totale di 40 pagine).
I dolori allo stomaco di cui già soffriva da tempo, acuitisi nel clima inospitale dell'isola e dal duro regime inglese, lo condussero alla morte il 5 maggio 1821: poco dopo aver appreso la notizia Alessandro Manzoni scrisse la famosa ode Il cinque maggio, che ebbe una forte eco in tutta Europa e che fu tradotta in tedesco da Johann Wolfgang Goethe. Fu vera gloria?, egli si chiese. Ai posteri l'ardua sentenza: noi chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar.
Le ultime parole di Napoleone furono: "Francia, esercito, Giuseppina" (France, les Armée, Josephine): i tre più grandi amori della sua vita. Egli chiese di essere seppellito sulle sponde della Senna, ma fu invece seppellito a Sant'Elena. Nel 1840 i suoi resti furono trasportati in Francia e inumati all'Hôpital des Invalides a Parigi. Nove anni dopo la morte di Napoleone, i Borboni furono cacciati. La statua dell'imperatore venne restaurata sulla colonna di Place Vendome. Quando Gerolamo Bonaparte portò la notizia a Letizia, la vecchia madre ormai inferma, essa si rianimò e cercò con gli occhi il busto del figlio: L'imperatore è tornato a Parigi, sussurrò.
La causa della morte di Napoleone non è certa. La versione ufficiale parla di morte dovuta ad un tumore allo stomaco, come risultò dall'autopsia. Lo stesso padre di Napoleone morì per la stessa malattia. Ci sono anche varie teorie che sostengono la tesi del lento avvelenamento con l'arsenico. Infine secondo un'altra teoria furono i medici di Napoleone a causarne la morte: a causa del tumore allo stomaco cercavano di alleviargli i dolori sottoponendolo a clisteri giornalieri e gli somministravano sostanze varie per farlo vomitare. Queste cure privarono l'organismo di Napoleone di potassio, avendo come risultato una grave forma di tachicardia che lo uccise.
Nel 1955 furono pubblicati i diari di Louis Marchand, cameriere di Napoleone. La sua descrizione negli ultimi mesi prima della morte porta alcuni alla conclusione che sia stato avvelenato con l'arsenico. L'arsenico a quel tempo era talvolta utilizzato come veleno ed era difficilmente rilevabile se somministrato per un lungo periodo di tempo.
Nel 2001 Pascal Kintz dell'Istituto di medicina legale di Strasburgo aggiunse credibilità a questa ipotesi con uno studio sul livello di arsenico da sette a ventotto volte superiore al livello normale trovato in una ciocca di capelli di Napoleone conservata dopo la sua morte.
Analisi più recenti sulla rivista Science et Vie mostrarono che una simile concentrazione di arsenico era presente in campioni di capelli di Napoleone presi nel 1805, 1814 e 1821. L'investigatore incaricato (Ivan Ricordel, responsabile di tossicologia della Polizia di Parigi), stabilì che se l'arsenico fosse stata la causa della morte, sarebbe dovuto morire anni prima. L'arsenico era del resto usato in molte carte da parati (per il colore verde) e spesso in qualche medicina, sicché il gruppo sostenne che facilmente la fonte poteva essere qualche lozione per i capelli.
Il 15 ottobre 1815 Napoleone Bonaparte fu imbarcato sulla nave inglese Northumberland per essere condotto al suo secondo esilio, all'isola di Sant'Elena nell'oceano Atlantico, dove giunse il giorno successivo.
Qui, con un piccolo seguito di fedelissimi, Napoleone dettò le sue memorie ed espresse il suo disprezzo per gli Inglesi, personificati nell'odiosa figura del 'carceriere' di Napoleone sir Hudson Lowe. Egli dettò al conte di Las Cases il Memoriale di Sant'Elena, l'opera in cui appare nella sua fulgida grandezza e verità la figura e il senso ultimo di Napoleone. Nella seconda metà dell'aprile del 1821, lui stesso scrisse le sue ultime volontà e molte note a margine (per un totale di 40 pagine).
I dolori allo stomaco di cui già soffriva da tempo, acuitisi nel clima inospitale dell'isola e dal duro regime inglese, lo condussero alla morte il 5 maggio 1821: poco dopo aver appreso la notizia Alessandro Manzoni scrisse la famosa ode Il cinque maggio, che ebbe una forte eco in tutta Europa e che fu tradotta in tedesco da Johann Wolfgang Goethe. Fu vera gloria?, egli si chiese. Ai posteri l'ardua sentenza: noi chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar.
Le ultime parole di Napoleone furono: "Francia, esercito, Giuseppina" (France, les Armée, Josephine): i tre più grandi amori della sua vita. Egli chiese di essere seppellito sulle sponde della Senna, ma fu invece seppellito a Sant'Elena. Nel 1840 i suoi resti furono trasportati in Francia e inumati all'Hôpital des Invalides a Parigi. Nove anni dopo la morte di Napoleone, i Borboni furono cacciati. La statua dell'imperatore venne restaurata sulla colonna di Place Vendome. Quando Gerolamo Bonaparte portò la notizia a Letizia, la vecchia madre ormai inferma, essa si rianimò e cercò con gli occhi il busto del figlio: L'imperatore è tornato a Parigi, sussurrò.
La causa della morte di Napoleone non è certa. La versione ufficiale parla di morte dovuta ad un tumore allo stomaco, come risultò dall'autopsia. Lo stesso padre di Napoleone morì per la stessa malattia. Ci sono anche varie teorie che sostengono la tesi del lento avvelenamento con l'arsenico. Infine secondo un'altra teoria furono i medici di Napoleone a causarne la morte: a causa del tumore allo stomaco cercavano di alleviargli i dolori sottoponendolo a clisteri giornalieri e gli somministravano sostanze varie per farlo vomitare. Queste cure privarono l'organismo di Napoleone di potassio, avendo come risultato una grave forma di tachicardia che lo uccise.
Nel 1955 furono pubblicati i diari di Louis Marchand, cameriere di Napoleone. La sua descrizione negli ultimi mesi prima della morte porta alcuni alla conclusione che sia stato avvelenato con l'arsenico. L'arsenico a quel tempo era talvolta utilizzato come veleno ed era difficilmente rilevabile se somministrato per un lungo periodo di tempo.
Nel 2001 Pascal Kintz dell'Istituto di medicina legale di Strasburgo aggiunse credibilità a questa ipotesi con uno studio sul livello di arsenico da sette a ventotto volte superiore al livello normale trovato in una ciocca di capelli di Napoleone conservata dopo la sua morte.
Analisi più recenti sulla rivista Science et Vie mostrarono che una simile concentrazione di arsenico era presente in campioni di capelli di Napoleone presi nel 1805, 1814 e 1821. L'investigatore incaricato (Ivan Ricordel, responsabile di tossicologia della Polizia di Parigi), stabilì che se l'arsenico fosse stata la causa della morte, sarebbe dovuto morire anni prima. L'arsenico era del resto usato in molte carte da parati (per il colore verde) e spesso in qualche medicina, sicché il gruppo sostenne che facilmente la fonte poteva essere qualche lozione per i capelli.
mercoledì 14 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 14 ottobre.
Il 14 ottobre 1066 si svolse, tra Sassoni e Normanni, la famosa battaglia di Hastings.
Anche se molti ritengono che la causa della battaglia sia da riscontrare nella perpetua sete di potere dei vari successori e delle casate e regioni contrastanti, la scintilla che innesco la lotta tra sassoni e normanni, fu sì la voglia di Guglielmo il conquistatore, duca di Normandia, di rubare il trono ad Aroldo II, re di Inghilterra, ma giocò un ruolo notevole anche Aroldo III di Norvegia, in quanto pretenzioso contendente come erede al trono. Come succede spesso, aiutate dalla voglia che il proprio re fosse ancora vivo, cominciarono a nascere leggende sulla morte di Aroldo II.
La prima, la più accreditata, vedeva il re morire in battaglia trafitto da una freccia all’occhio e successivamente finito dai soldati avversari. Per altro si narra della maledizione del nome Aroldo, nome legato alla morte con una freccia. La seconda invece riguarda la sua fuga dal campo per rifugiarsi in Cornovaglia dove morì nel 1080.
In tutto questo anche la sua sepoltura ha diatribe tra gli studiosi. Secondo alcuni non venne sepolto, Guglielmo si rifiutò di concedergli il rito. Secondo altri venne posto in una bara nell’Abbazia di Waltham o nell’Abbazia di Battle, quest’ultima sorta proprio sul campo di battaglia a Hastings.
La battaglia, come ogni scontro che si rispetti, inizia con lo schieramento. Fu una schermaglia con quantità di soldati omogenea per numero (8000 da entrambe le parti), ma eterogenea per qualità degli individui. Infatti la tattica dei due comandanti veniva a a costruirsi in diverso modo. Guglielmo, forte di 2000 cavalieri, cercò di scoprire il nemico facendolo correre in campo aperto, in modo da tale da facilitare l’operazione dei suoi uomini a cavallo.
Aroldo II invece, privo di cavalleria, doveva fare affidamento su di una formazione salda e compatta, attorniata di forti scudi e difesa strenuamente dalla sua migliore fanteria, gli huskarli, che avrebbero spaccato l’avanzata nemica con i loro grandi scudi. Fu così che la mattina iniziò lo scontro.
Aroldo era posto su di una collina dove i suoi uomini stretti e chiusi negli scudi aspettavano il nemico. Guglielmo cominciò a tempestare il nemico con nugoli di frecce dei suoi arcieri, ma l’effetto fu inutile. O sorvolavano il nemico o si piantavano negli scudi enormi. Guglielmo allora mise in campo la cavalleria e la sua fanteria più veloce, corazzata leggermente. Anche qui la sortita offensiva fu quasi inutile. La collina ripida sfiancò sia gli uomini appiedati, sia i cavalli che cozzarono contro la linea preparata da Aroldo.
Un’unica nota positiva venne da un distaccamento di fanti di Aroldo che presi dall’euforia inseguirono i nemici, staccandosi dal resto del gruppo e sancendo di fatto la loro fine. In seguito, forse con un poco di ritardo, Aroldo fece contrattaccare i suoi che si lanciarono sulla sinistra dell’esercito di Guglielmo, dove i Bretoni erano posizionati, rendendoli privi di stabilità e facendoli separare leggermente dal centro dove il loro comandante portava lo stendardo papale.
Un’ulteriore voce che vedeva Guglielmo ucciso da una freccia, serpeggiò nelle file normanne che cominciarono a credere di aver già perso la battaglia. “Guardatemi bene, sono ancora vivo, e per grazia di Dio sarò vincitore”. Con queste parole lo stesso duca uscì da una mischia gridando e risollevando gli animi dei suoi uomini.
L’abilità tattica di Guglielmo, visto che i suoi uomini si stavano sfaldando sempre più, venne fuori nel momento migliore. Forti della loro posizione rialzata e delle file sempre compatte, gli anglosassoni mentalmente avevano la vittoria in pugno. Guglielmo fece una finta. Ordinò alla fanteria centrale di ritirarsi per permettere al resto della cavalleria di rifiatare ed essere ignorata per qualche momento. I sassoni inseguirono i fanti Bretoni che subito si fermarono per affrontarli. Era troppo tardi ormai. La posizione sopraelevata della collina era stata sgombrata e i cavalieri, approfittando dell’avventata decisione di inseguimento del nemico, si gettarono sulle prime linee dei fanti sassoni, falciandoli letteralmente.
Aroldo corse incontro agli uomini attaccati, ma era ormai troppo tardi. In quell’incursione Aroldo venne trafitto da una freccia e nonostante l’abilità degli huskarli, senza un comandante, in poco tempo i sassoni capitolarono. Tra le file di Guglielmo infine, quasi 2000 furono i soldati che morirono, mentre tra quelle di Aroldo, oltre allo stesso comandante, pochi furono quelli che riuscirono a fuggire al di là delle colline.
Quello che successe in seguito è storia: incoronazione di Guglielmo a re d’Inghilterra, intreccio quasi totale, almeno fino al 1453, con la Francia con cui si combatterono cruente e importanti battaglie tra cui quella dei cent’anni, e infine nascita della potenza dei Tudor che nonostante la vittoria del 1453 dei francesi contro gli inglesi, continuò a far crescere l’ascesa di questo popolo che ha cambiato la faccia del mondo occidentale.
Una curiosità: buona parte di ciò che si sa dello svolgimento della battaglia provengono dall'"arazzo di Bayeux", sopra riprodotto: si tratta di un ricamo ad ago tracciato con fili di lana di colori diversi lungo approssimativamente 70 mt e largo 50 cm.
Vi sono rappresentati ben 626 personaggi: 250 tra cavalli e muli, 550 animali di ogni genere, oltre a castelli, chiese, navi, ecc., per un totale di 1500 figure. L'opera fu compiuta probabilmente tra il 1070 e 1077 forse su ordinazione di Oddone vescovo di Bayeux e fratellastro dello stesso Guglielmo il Conquistatore, per narrare la conquista dell'inghilterra attraverso la battaglia di Hastings. Questo arazzo infatti descrive con grande accuratezza tutte le fasi dello scontro da quelle precedenti fino alla morte di Aroldo, dandoci soprattutto le raffigurazioni dettagliate delle attrezzature usate e delle tattiche seguite in quella storica battaglia.
Il 14 ottobre 1066 si svolse, tra Sassoni e Normanni, la famosa battaglia di Hastings.
Anche se molti ritengono che la causa della battaglia sia da riscontrare nella perpetua sete di potere dei vari successori e delle casate e regioni contrastanti, la scintilla che innesco la lotta tra sassoni e normanni, fu sì la voglia di Guglielmo il conquistatore, duca di Normandia, di rubare il trono ad Aroldo II, re di Inghilterra, ma giocò un ruolo notevole anche Aroldo III di Norvegia, in quanto pretenzioso contendente come erede al trono. Come succede spesso, aiutate dalla voglia che il proprio re fosse ancora vivo, cominciarono a nascere leggende sulla morte di Aroldo II.
La prima, la più accreditata, vedeva il re morire in battaglia trafitto da una freccia all’occhio e successivamente finito dai soldati avversari. Per altro si narra della maledizione del nome Aroldo, nome legato alla morte con una freccia. La seconda invece riguarda la sua fuga dal campo per rifugiarsi in Cornovaglia dove morì nel 1080.
In tutto questo anche la sua sepoltura ha diatribe tra gli studiosi. Secondo alcuni non venne sepolto, Guglielmo si rifiutò di concedergli il rito. Secondo altri venne posto in una bara nell’Abbazia di Waltham o nell’Abbazia di Battle, quest’ultima sorta proprio sul campo di battaglia a Hastings.
La battaglia, come ogni scontro che si rispetti, inizia con lo schieramento. Fu una schermaglia con quantità di soldati omogenea per numero (8000 da entrambe le parti), ma eterogenea per qualità degli individui. Infatti la tattica dei due comandanti veniva a a costruirsi in diverso modo. Guglielmo, forte di 2000 cavalieri, cercò di scoprire il nemico facendolo correre in campo aperto, in modo da tale da facilitare l’operazione dei suoi uomini a cavallo.
Aroldo II invece, privo di cavalleria, doveva fare affidamento su di una formazione salda e compatta, attorniata di forti scudi e difesa strenuamente dalla sua migliore fanteria, gli huskarli, che avrebbero spaccato l’avanzata nemica con i loro grandi scudi. Fu così che la mattina iniziò lo scontro.
Aroldo era posto su di una collina dove i suoi uomini stretti e chiusi negli scudi aspettavano il nemico. Guglielmo cominciò a tempestare il nemico con nugoli di frecce dei suoi arcieri, ma l’effetto fu inutile. O sorvolavano il nemico o si piantavano negli scudi enormi. Guglielmo allora mise in campo la cavalleria e la sua fanteria più veloce, corazzata leggermente. Anche qui la sortita offensiva fu quasi inutile. La collina ripida sfiancò sia gli uomini appiedati, sia i cavalli che cozzarono contro la linea preparata da Aroldo.
Un’unica nota positiva venne da un distaccamento di fanti di Aroldo che presi dall’euforia inseguirono i nemici, staccandosi dal resto del gruppo e sancendo di fatto la loro fine. In seguito, forse con un poco di ritardo, Aroldo fece contrattaccare i suoi che si lanciarono sulla sinistra dell’esercito di Guglielmo, dove i Bretoni erano posizionati, rendendoli privi di stabilità e facendoli separare leggermente dal centro dove il loro comandante portava lo stendardo papale.
Un’ulteriore voce che vedeva Guglielmo ucciso da una freccia, serpeggiò nelle file normanne che cominciarono a credere di aver già perso la battaglia. “Guardatemi bene, sono ancora vivo, e per grazia di Dio sarò vincitore”. Con queste parole lo stesso duca uscì da una mischia gridando e risollevando gli animi dei suoi uomini.
L’abilità tattica di Guglielmo, visto che i suoi uomini si stavano sfaldando sempre più, venne fuori nel momento migliore. Forti della loro posizione rialzata e delle file sempre compatte, gli anglosassoni mentalmente avevano la vittoria in pugno. Guglielmo fece una finta. Ordinò alla fanteria centrale di ritirarsi per permettere al resto della cavalleria di rifiatare ed essere ignorata per qualche momento. I sassoni inseguirono i fanti Bretoni che subito si fermarono per affrontarli. Era troppo tardi ormai. La posizione sopraelevata della collina era stata sgombrata e i cavalieri, approfittando dell’avventata decisione di inseguimento del nemico, si gettarono sulle prime linee dei fanti sassoni, falciandoli letteralmente.
Aroldo corse incontro agli uomini attaccati, ma era ormai troppo tardi. In quell’incursione Aroldo venne trafitto da una freccia e nonostante l’abilità degli huskarli, senza un comandante, in poco tempo i sassoni capitolarono. Tra le file di Guglielmo infine, quasi 2000 furono i soldati che morirono, mentre tra quelle di Aroldo, oltre allo stesso comandante, pochi furono quelli che riuscirono a fuggire al di là delle colline.
Quello che successe in seguito è storia: incoronazione di Guglielmo a re d’Inghilterra, intreccio quasi totale, almeno fino al 1453, con la Francia con cui si combatterono cruente e importanti battaglie tra cui quella dei cent’anni, e infine nascita della potenza dei Tudor che nonostante la vittoria del 1453 dei francesi contro gli inglesi, continuò a far crescere l’ascesa di questo popolo che ha cambiato la faccia del mondo occidentale.
Una curiosità: buona parte di ciò che si sa dello svolgimento della battaglia provengono dall'"arazzo di Bayeux", sopra riprodotto: si tratta di un ricamo ad ago tracciato con fili di lana di colori diversi lungo approssimativamente 70 mt e largo 50 cm.
Vi sono rappresentati ben 626 personaggi: 250 tra cavalli e muli, 550 animali di ogni genere, oltre a castelli, chiese, navi, ecc., per un totale di 1500 figure. L'opera fu compiuta probabilmente tra il 1070 e 1077 forse su ordinazione di Oddone vescovo di Bayeux e fratellastro dello stesso Guglielmo il Conquistatore, per narrare la conquista dell'inghilterra attraverso la battaglia di Hastings. Questo arazzo infatti descrive con grande accuratezza tutte le fasi dello scontro da quelle precedenti fino alla morte di Aroldo, dandoci soprattutto le raffigurazioni dettagliate delle attrezzature usate e delle tattiche seguite in quella storica battaglia.
martedì 13 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 13 Ottobre.
Il 13 ottobre 1977, le autorità francesi comunicarono il dirottamento del Boeing 737 Lufthansa LH181, in rotta da Palma di Majorca (nelle isole Baleari) verso la Germania, con a bordo ottantasei passeggeri e cinque membri d'equipaggio (due piloti e tre hostess). Sotto la minaccia di un commando composto da due donne e due uomini, fra cui il Capitano Mahmoud, (leader del commando ed in seguito identificato nel noto terrorista Zohair Youssef Akache), l'aviogetto modificò il proprio piano di volo, per dirigersi alla volta dell'Aeroporto Internazionale "Leonardo Da Vinci" di Fiumicino (Roma). Qui il pilota fu in grado di comunicare il numero dei terroristi a bordo, facendo cadere quattro pacchetti di sigarette sulla pista. Rifornitosi di carburante, l'aereo riprese quindi il suo viaggio verso l'aeroporto di Larnaca (Cipro), dove atterrò alle ore 20:38 circa, per effettuare un nuovo rifornimento. L'aereo decollò nuovamente, per sorvolare numerosi Paesi mediorientali. A Beirut, il permesso all'atterraggio venne negato per mezzo del blocco delle piste, come anche in Bahrein. L'LH181, trovatosi a corto di carburante, fu in ultimo costretto a toccare terra sull'aeroporto di Dubai, nonostante le proteste delle autorità locali. Intanto i terroristi a bordo esplicitarono le proprie richieste, pretendendo il rilascio dei componenti del gruppo terroristico tedesco Baader-Meinhof, detenuti in Germania. Mentre si trovava fermo sulla pista, l'apparecchio fu soggetto ad un guasto del sistema di ventilazione, che portò la temperatura all'interno dell' aereo a toccare i 49 gradi centigradi. Domenica 16 ottobre, l'aviogetto decollò verso la tappa successiva. Lo stato dell'Oman negò il permesso d'atterraggio e l'LH181 giunse ad Aden (Yemen) con soli dieci ulteriori minuti di autonomia. Nonostante il divieto opposto dalle autorità locali, l'aereo fece il suo atterraggio sulla pista.
Il Capitano dell'apparecchio, Jurgen Schuman, fu a questo punto autorizzato a lasciare brevemente l'aereo, onde controllare le condizioni dei carrelli. Ritornato in cabina, venne accusato da Mahmoud di aver comunicato con le autorità locali. Il leader del commando condusse quindi il pilota in prima classe, per ucciderlo con un colpo di pistola. Il giorno successivo, l'aereo, ora comandato dal co-pilota Jurgen Vietor, decollò alla volta dell'aeroporto di Mogadiscio, in Somalia. All'insaputa dei dirottatori, un Lufthansa 707 con a bordo trenta uomini del G.S.G.9 ed il suo Comandante Ulrich K. Wegener, aveva nel mentre seguito il volo dirottato fino a Cipro, per poi far ritorno (via Ankara) a Colonia, quale diversivo per i giornalisti e decollare nuovamente dopo due ore. Wegener aveva seguito il volo dirottato con un piccolo jet privato ed alcuni ufficiali. Nell'apparecchio erano presenti anche Hans-Jurgen Wischenewski (Ministro di Stato dell'allora Germania ovest) e lo psicologo Wolfgang Salewski. Il jet toccò terra a Mogadiscio alle 17:30 del 17 ottobre, pochi minuti dopo l'LH181 dirottato.
Dopo aver fatto isolare l'intero aeroporto dalle forze di sicurezza locali, Wegener predispose il dislocamento dei propri tiratori scelti e di unità da ricognizione, iniziando la pianificazione per un eventuale azione di forza. Wischenewski comunicò intanto al leader del commando, che la Germania era pronta a rilasciare undici membri della Baader-Meinhof e a trasportarli a Mogadiscio. Mahmoud richiese quindi anche la consegna di 10 milioni di dollari quale riscatto, postponendo la scadenza del suo ultimatum alle 02:45 del 18 ottobre, oltre le quali l'aereo ed i suoi passeggeri sarebbero stati fatti saltare in aria. Alle 19:00 del 17 ottobre, il resto della squadra giunse a Mogadiscio, ed il briefing per il piano d'attacco ebbe inizio. Col calar delle tenebre, vista la crescente instabilità del capo dei dirottatori e l'effettivo pericolo corso dagli ostaggi, venne data luce verde per l'intervento. Solo un'ora prima dell'assalto, un team di osservazione tedesco si avvicinò fino a 30 metri dall'apparecchio, localizzando la posizione di due dirottatori per mezzo di strumenti per la rilevazione termica.
Alle 02:05 del 18 ottobre, coadiuvati da due membri dello Special Air Service britannico in veste di osservatori (il Maggiore Alastair Morrison, eroe della battaglia di Mirbat e vice Comandante dello S.A.S., ed il Sergente Barry Davies), due squadre del G.S.G.9 (composte da dieci uomini ciascuna) iniziarono la manovra di avvicinamento alla coda del velivolo. Gli operatori effettuarono la progressione a piedi e muniti di scale ricoperte di gomma, le quali furono posizionate in corrispondenza delle entrate. Al fine di allontanare i dirottatori dal punto inizio attacco (individuato nel retro dell' LH181), alle 02:07 vennero accesi dei fuochi a poche centinaia di metri dal muso dell'aereo.
Come riportato dalla squadra di ricognizione assegnata alla sezione frontale del velivolo, tale evento provocò lo spostamento di due dei terroristi alla cabina di pilotaggio, ivi compreso il Capitano Mahmoud. Costoro furono trattenuti in cabina dalla torre di controllo, la quale comunicò loro le condizioni per lo scambio degli ostaggi. Pochi secondi dopo, le uscite di emergenza collocate sulle ali dell'apparecchio vennero fatte saltare in aria con cariche a cornice (tubi flessibili con una cavità sul lato, riempiti di esplosivo in grado di tagliare la carlinga di un aereo senza ferirne gli occupanti) ed il blitz ebbe inizio. Venti assaltatori guidati dallo stesso Wegener fecero irruzione all'interno dell'aereo, ordinando ai passeggeri di buttarsi a terra. Il gruppo d'assalto si divise immediatamente in due, per occuparsi del fronte e del retro dell' aereo. Un terrorista (una donna), venne abbattuto nel corridoio non appena l'attacco ebbe inizio. Un' altro, rifugiatosi nella toilette sul retro, fu ferito da una scarica di MP5, morendo pochi minuti dopo essere stato trasportato fuori dall'aereo.
Alle 02:08, due ulteriori team fecero saltare l'entrata anteriore e quella posteriore, iniziando ad evacuare gli ostaggi per mezzo degli scivoli di emergenza di quest'ultima. Nel mentre il combattimento si era spostato verso la cabina di pilotaggio, ove si trovava anche il leader dei terroristi, ucciso nei primi secondi di inizio del blitz, non prima di aver lanciato due bombe a mano, detonate sotto i sedili e che ferirono lievemente tre ostaggi ed un militare. Il quarto ed ultimo dirottatore (ancora all'interno del cockpit dell'aereo) venne abbattuto da diversi colpi di arma da fuoco cal.38, esplosi dal dallo stesso Wegener. Quando l'operazione ebbe termine, alle 02:12, tutti gli ostaggi erano stati liberati. Dei quattro terroristi, solamente Suhaila Andraws, benché colpita per ben sette volte dalla squadra d' assalto, sopravviverà al blitz. Sarà detenuta a Mogadiscio per oltre un anno e verrà in seguito rilasciata per recarsi rispettivamente a Baghdad ed in Cecoslovacchia, onde curare i postumi delle ferite riportate nello scontro. Rifugiatasi in Norvegia, verrà scoperta solo nel 1993 ed estradata in Germania per esser condannata, nel 1996, a dodici anni di prigione. Fu rilasciata tre anni dopo per problemi di salute ed attualmente vive ad Oslo col marito, un docente universitario palestinese ed attivista dei diritti umani, e sua figlia.
Il 13 ottobre 1977, le autorità francesi comunicarono il dirottamento del Boeing 737 Lufthansa LH181, in rotta da Palma di Majorca (nelle isole Baleari) verso la Germania, con a bordo ottantasei passeggeri e cinque membri d'equipaggio (due piloti e tre hostess). Sotto la minaccia di un commando composto da due donne e due uomini, fra cui il Capitano Mahmoud, (leader del commando ed in seguito identificato nel noto terrorista Zohair Youssef Akache), l'aviogetto modificò il proprio piano di volo, per dirigersi alla volta dell'Aeroporto Internazionale "Leonardo Da Vinci" di Fiumicino (Roma). Qui il pilota fu in grado di comunicare il numero dei terroristi a bordo, facendo cadere quattro pacchetti di sigarette sulla pista. Rifornitosi di carburante, l'aereo riprese quindi il suo viaggio verso l'aeroporto di Larnaca (Cipro), dove atterrò alle ore 20:38 circa, per effettuare un nuovo rifornimento. L'aereo decollò nuovamente, per sorvolare numerosi Paesi mediorientali. A Beirut, il permesso all'atterraggio venne negato per mezzo del blocco delle piste, come anche in Bahrein. L'LH181, trovatosi a corto di carburante, fu in ultimo costretto a toccare terra sull'aeroporto di Dubai, nonostante le proteste delle autorità locali. Intanto i terroristi a bordo esplicitarono le proprie richieste, pretendendo il rilascio dei componenti del gruppo terroristico tedesco Baader-Meinhof, detenuti in Germania. Mentre si trovava fermo sulla pista, l'apparecchio fu soggetto ad un guasto del sistema di ventilazione, che portò la temperatura all'interno dell' aereo a toccare i 49 gradi centigradi. Domenica 16 ottobre, l'aviogetto decollò verso la tappa successiva. Lo stato dell'Oman negò il permesso d'atterraggio e l'LH181 giunse ad Aden (Yemen) con soli dieci ulteriori minuti di autonomia. Nonostante il divieto opposto dalle autorità locali, l'aereo fece il suo atterraggio sulla pista.
Il Capitano dell'apparecchio, Jurgen Schuman, fu a questo punto autorizzato a lasciare brevemente l'aereo, onde controllare le condizioni dei carrelli. Ritornato in cabina, venne accusato da Mahmoud di aver comunicato con le autorità locali. Il leader del commando condusse quindi il pilota in prima classe, per ucciderlo con un colpo di pistola. Il giorno successivo, l'aereo, ora comandato dal co-pilota Jurgen Vietor, decollò alla volta dell'aeroporto di Mogadiscio, in Somalia. All'insaputa dei dirottatori, un Lufthansa 707 con a bordo trenta uomini del G.S.G.9 ed il suo Comandante Ulrich K. Wegener, aveva nel mentre seguito il volo dirottato fino a Cipro, per poi far ritorno (via Ankara) a Colonia, quale diversivo per i giornalisti e decollare nuovamente dopo due ore. Wegener aveva seguito il volo dirottato con un piccolo jet privato ed alcuni ufficiali. Nell'apparecchio erano presenti anche Hans-Jurgen Wischenewski (Ministro di Stato dell'allora Germania ovest) e lo psicologo Wolfgang Salewski. Il jet toccò terra a Mogadiscio alle 17:30 del 17 ottobre, pochi minuti dopo l'LH181 dirottato.
Dopo aver fatto isolare l'intero aeroporto dalle forze di sicurezza locali, Wegener predispose il dislocamento dei propri tiratori scelti e di unità da ricognizione, iniziando la pianificazione per un eventuale azione di forza. Wischenewski comunicò intanto al leader del commando, che la Germania era pronta a rilasciare undici membri della Baader-Meinhof e a trasportarli a Mogadiscio. Mahmoud richiese quindi anche la consegna di 10 milioni di dollari quale riscatto, postponendo la scadenza del suo ultimatum alle 02:45 del 18 ottobre, oltre le quali l'aereo ed i suoi passeggeri sarebbero stati fatti saltare in aria. Alle 19:00 del 17 ottobre, il resto della squadra giunse a Mogadiscio, ed il briefing per il piano d'attacco ebbe inizio. Col calar delle tenebre, vista la crescente instabilità del capo dei dirottatori e l'effettivo pericolo corso dagli ostaggi, venne data luce verde per l'intervento. Solo un'ora prima dell'assalto, un team di osservazione tedesco si avvicinò fino a 30 metri dall'apparecchio, localizzando la posizione di due dirottatori per mezzo di strumenti per la rilevazione termica.
Alle 02:05 del 18 ottobre, coadiuvati da due membri dello Special Air Service britannico in veste di osservatori (il Maggiore Alastair Morrison, eroe della battaglia di Mirbat e vice Comandante dello S.A.S., ed il Sergente Barry Davies), due squadre del G.S.G.9 (composte da dieci uomini ciascuna) iniziarono la manovra di avvicinamento alla coda del velivolo. Gli operatori effettuarono la progressione a piedi e muniti di scale ricoperte di gomma, le quali furono posizionate in corrispondenza delle entrate. Al fine di allontanare i dirottatori dal punto inizio attacco (individuato nel retro dell' LH181), alle 02:07 vennero accesi dei fuochi a poche centinaia di metri dal muso dell'aereo.
Come riportato dalla squadra di ricognizione assegnata alla sezione frontale del velivolo, tale evento provocò lo spostamento di due dei terroristi alla cabina di pilotaggio, ivi compreso il Capitano Mahmoud. Costoro furono trattenuti in cabina dalla torre di controllo, la quale comunicò loro le condizioni per lo scambio degli ostaggi. Pochi secondi dopo, le uscite di emergenza collocate sulle ali dell'apparecchio vennero fatte saltare in aria con cariche a cornice (tubi flessibili con una cavità sul lato, riempiti di esplosivo in grado di tagliare la carlinga di un aereo senza ferirne gli occupanti) ed il blitz ebbe inizio. Venti assaltatori guidati dallo stesso Wegener fecero irruzione all'interno dell'aereo, ordinando ai passeggeri di buttarsi a terra. Il gruppo d'assalto si divise immediatamente in due, per occuparsi del fronte e del retro dell' aereo. Un terrorista (una donna), venne abbattuto nel corridoio non appena l'attacco ebbe inizio. Un' altro, rifugiatosi nella toilette sul retro, fu ferito da una scarica di MP5, morendo pochi minuti dopo essere stato trasportato fuori dall'aereo.
Alle 02:08, due ulteriori team fecero saltare l'entrata anteriore e quella posteriore, iniziando ad evacuare gli ostaggi per mezzo degli scivoli di emergenza di quest'ultima. Nel mentre il combattimento si era spostato verso la cabina di pilotaggio, ove si trovava anche il leader dei terroristi, ucciso nei primi secondi di inizio del blitz, non prima di aver lanciato due bombe a mano, detonate sotto i sedili e che ferirono lievemente tre ostaggi ed un militare. Il quarto ed ultimo dirottatore (ancora all'interno del cockpit dell'aereo) venne abbattuto da diversi colpi di arma da fuoco cal.38, esplosi dal dallo stesso Wegener. Quando l'operazione ebbe termine, alle 02:12, tutti gli ostaggi erano stati liberati. Dei quattro terroristi, solamente Suhaila Andraws, benché colpita per ben sette volte dalla squadra d' assalto, sopravviverà al blitz. Sarà detenuta a Mogadiscio per oltre un anno e verrà in seguito rilasciata per recarsi rispettivamente a Baghdad ed in Cecoslovacchia, onde curare i postumi delle ferite riportate nello scontro. Rifugiatasi in Norvegia, verrà scoperta solo nel 1993 ed estradata in Germania per esser condannata, nel 1996, a dodici anni di prigione. Fu rilasciata tre anni dopo per problemi di salute ed attualmente vive ad Oslo col marito, un docente universitario palestinese ed attivista dei diritti umani, e sua figlia.
lunedì 12 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 12 ottobre.
Il 12 ottobre del 1960, durante il 902esimo incontro della 15esima assemblea generale delle Nazioni Unite, il segretario del partito comunista sovietico, Nikita Krushev, per protesta nei confronti del delegato filippino, Lorenzo Sumulong, che nel suo intervento propose di estendere gli scopi della dichiarazione sulla concessione di indipendenza ai paesi e popoli coloniali "anche ai popoli dell'est europeo, privati del libero esercizio dei loro diritti sociali e politici e inghiottiti dall'Unione Sovietica", si tolse una scarpa e la battè violentemente sul banco della sua postazione, un atto che resterà negli annali della storia.
Tuttavia l'episodio è controverso: secondo Benjamin Welles del New York Times, Krushev si tolse la scarpa destra, si alzò in piedi e la brandì in direzione del delegato filippino all’altro lato della sala, poi la picchiò sul banco.
Murrey Marder del Washington Post racconta che Krusciov apostrofò Sumulong chiamandolo “kohlui” (creatura servile) e lacchè dell’imperialismo. “Quale genere d’indipendenza c’è nelle Filippine” disse il premier russo “Dio solo sa. Tu devi guardare nella lente d’ingrandimento per vedere quella indipendenza”. Frederick Boland, irlandese e presidente della seduta, seccato ammonì Sumulong di continuare l’intervento. Il giornalista riporta il fatto che ad un certo punto della seduta Krusciov si tolse la scarpa e la agitò in direzione di Boland senza però precisare il momento esatto in cui avvenne.
Secondo Welles il leader sovietico si tolse nuovamente la scarpa durante l’intervento di Francis Wilcox, assistente del Segretario di Stato americano.
L’intervento dell’americano fu interrotto dalle proteste e Marder riferisce che il presidente Boland sbatté il martelletto con tale veemenza, per riportare l’ordine, che la testa di esso si ruppe e volò oltre le sue spalle accompagnato dagli applausi e dalle risate provenienti dalle file comuniste.
James Feron, del New York Times, intervistato in proposito nel 1997, affermò che Krushev sbatté il pugno sul tavolo, poi si tolse la scarpa, un mocassino, la agitò per poi riporla sul tavolo, in ogni caso non se ne servì per picchiare sul banco. Alla domanda perché il suo giornale invece scrisse che sbatté la scarpa, rispose che tale fu la versione dell’Associated Press.
Sharon Ghamari-Tabrizi, in suo libro del 2005, scrisse che dopo pochi minuti che Sumulong ebbe ripreso il discorso Krusciov tirò fuori una scarpa, balzò in piedi e la brandì, quindi la sbatté sul banco. Poco dopo iniziò a percuotere il tavolo con entrambi i pugni seguito dal resto della delegazione sovietica.
Il generale del KGB Nikolai Zacharov racconta che Kruscev, dopo essersi consultato con Gromyko, si alzò in piedi e sollevò la mano per chiedere un punto d’ordine al presidente che però lo ignorò. Allora egli si tolse la scarpa e iniziò a batterla ritmicamente sul tavolo come un metronomo, soltanto allora il presidente lo invitò a parlare.
John Loengard, della rivista Life, scrisse a Taubman, autore di un paio di libri su Krushev, di aver visto il segretario russo togliersi la scarpa destra di vitello marrone e metterla sul tavolo senza sbatterla. Tutti erano pronti a fotografare la scarpa sbattuta sul tavolo ma ciò non accadde.
Sono interessanti le spiegazioni del perché quella scarpa finì sul tavolo.
Qualcuno sostiene che fu un atto premeditato, la scarpa sbattuta non era una di quelle indossate dal premier sovietico ma essa fu portata apposta per quello scopo.
La nipote Nina Khrushchev, nel 2000, raccontò la storia come la conoscevano in famiglia. Al nonno cadde l’orologio sbattendo il pugno sul tavolo, nel raccoglierlo trovò la scarpa, che si era tolto perché stretta, e la prese.
Un commesso ONU raccontò che, nel tornare al suo posto, il premier sovietico perse la scarpa per un’urto fortuito con un giornalista, il commesso recuperò la scarpa e gliela passò avvolta in un fazzoletto. Quindi, secondo lui, non se la tolse, comunque la sbatté sul tavolo.
Viktor Sukhodrev, il suo interprete, raccontò che lo sbattere del pugno sul tavolo provocò l’arrestarsi dell’orologio. Irritato dal fatto che un lacchè capitalista aveva provocato la rottura del suo orologio Khrushchev si tolse la scarpa ed inizio a sbatterla sul tavolo.
Secondo alcuni testimoni i banchi stretti e la pancia del premier sovietico gli avrebbero impedito di rimettersi la scarpa.
Per chiudere, l’abitudine di sbattere i pugni sul banco per evidenziare il disaccordo con le parole dell’oratore di turno era in voga nei paesi dell’est. Krushev lo fece il 26 settembre con il Segretario Generale dell’Onu, con McMillan il 29 settembre ed il 12 ottobre con Sumulong e Wilcox.
Il 12 ottobre del 1960, durante il 902esimo incontro della 15esima assemblea generale delle Nazioni Unite, il segretario del partito comunista sovietico, Nikita Krushev, per protesta nei confronti del delegato filippino, Lorenzo Sumulong, che nel suo intervento propose di estendere gli scopi della dichiarazione sulla concessione di indipendenza ai paesi e popoli coloniali "anche ai popoli dell'est europeo, privati del libero esercizio dei loro diritti sociali e politici e inghiottiti dall'Unione Sovietica", si tolse una scarpa e la battè violentemente sul banco della sua postazione, un atto che resterà negli annali della storia.
Tuttavia l'episodio è controverso: secondo Benjamin Welles del New York Times, Krushev si tolse la scarpa destra, si alzò in piedi e la brandì in direzione del delegato filippino all’altro lato della sala, poi la picchiò sul banco.
Murrey Marder del Washington Post racconta che Krusciov apostrofò Sumulong chiamandolo “kohlui” (creatura servile) e lacchè dell’imperialismo. “Quale genere d’indipendenza c’è nelle Filippine” disse il premier russo “Dio solo sa. Tu devi guardare nella lente d’ingrandimento per vedere quella indipendenza”. Frederick Boland, irlandese e presidente della seduta, seccato ammonì Sumulong di continuare l’intervento. Il giornalista riporta il fatto che ad un certo punto della seduta Krusciov si tolse la scarpa e la agitò in direzione di Boland senza però precisare il momento esatto in cui avvenne.
Secondo Welles il leader sovietico si tolse nuovamente la scarpa durante l’intervento di Francis Wilcox, assistente del Segretario di Stato americano.
L’intervento dell’americano fu interrotto dalle proteste e Marder riferisce che il presidente Boland sbatté il martelletto con tale veemenza, per riportare l’ordine, che la testa di esso si ruppe e volò oltre le sue spalle accompagnato dagli applausi e dalle risate provenienti dalle file comuniste.
James Feron, del New York Times, intervistato in proposito nel 1997, affermò che Krushev sbatté il pugno sul tavolo, poi si tolse la scarpa, un mocassino, la agitò per poi riporla sul tavolo, in ogni caso non se ne servì per picchiare sul banco. Alla domanda perché il suo giornale invece scrisse che sbatté la scarpa, rispose che tale fu la versione dell’Associated Press.
Sharon Ghamari-Tabrizi, in suo libro del 2005, scrisse che dopo pochi minuti che Sumulong ebbe ripreso il discorso Krusciov tirò fuori una scarpa, balzò in piedi e la brandì, quindi la sbatté sul banco. Poco dopo iniziò a percuotere il tavolo con entrambi i pugni seguito dal resto della delegazione sovietica.
Il generale del KGB Nikolai Zacharov racconta che Kruscev, dopo essersi consultato con Gromyko, si alzò in piedi e sollevò la mano per chiedere un punto d’ordine al presidente che però lo ignorò. Allora egli si tolse la scarpa e iniziò a batterla ritmicamente sul tavolo come un metronomo, soltanto allora il presidente lo invitò a parlare.
John Loengard, della rivista Life, scrisse a Taubman, autore di un paio di libri su Krushev, di aver visto il segretario russo togliersi la scarpa destra di vitello marrone e metterla sul tavolo senza sbatterla. Tutti erano pronti a fotografare la scarpa sbattuta sul tavolo ma ciò non accadde.
Sono interessanti le spiegazioni del perché quella scarpa finì sul tavolo.
Qualcuno sostiene che fu un atto premeditato, la scarpa sbattuta non era una di quelle indossate dal premier sovietico ma essa fu portata apposta per quello scopo.
La nipote Nina Khrushchev, nel 2000, raccontò la storia come la conoscevano in famiglia. Al nonno cadde l’orologio sbattendo il pugno sul tavolo, nel raccoglierlo trovò la scarpa, che si era tolto perché stretta, e la prese.
Un commesso ONU raccontò che, nel tornare al suo posto, il premier sovietico perse la scarpa per un’urto fortuito con un giornalista, il commesso recuperò la scarpa e gliela passò avvolta in un fazzoletto. Quindi, secondo lui, non se la tolse, comunque la sbatté sul tavolo.
Viktor Sukhodrev, il suo interprete, raccontò che lo sbattere del pugno sul tavolo provocò l’arrestarsi dell’orologio. Irritato dal fatto che un lacchè capitalista aveva provocato la rottura del suo orologio Khrushchev si tolse la scarpa ed inizio a sbatterla sul tavolo.
Secondo alcuni testimoni i banchi stretti e la pancia del premier sovietico gli avrebbero impedito di rimettersi la scarpa.
Per chiudere, l’abitudine di sbattere i pugni sul banco per evidenziare il disaccordo con le parole dell’oratore di turno era in voga nei paesi dell’est. Krushev lo fece il 26 settembre con il Segretario Generale dell’Onu, con McMillan il 29 settembre ed il 12 ottobre con Sumulong e Wilcox.
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