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giovedì 28 febbraio 2013

#RaccontiSaggi: La lezione della farfalla

http://www.ilromanziere.com/ilromanziere/farfalle_porcellana.jpg
Un giorno, apparve un piccolo buco in un bozzolo; un uomo che passava per caso, si mise a
guardare la farfalla che per varie ore, si sforzava per uscire da quel piccolo buco.
Dopo molto tempo, sembrava che essa si fosse arresa ed il buco fosse sempre della stessa
dimensione. Sembrava che la farfalla ormai avesse fatto tutto quello che poteva, e che non
avesse più la possibilità di fare niente altro. Allora l’uomo decise di aiutare la farfalla: prese un temperino ed aprì il bozzolo.La farfalla uscì immediatamente. Però il suo corpo era piccolo e rattrappito e le sue ali erano poco sviluppate e si muovevano a stento. L’uomo continuò ad osservare perché sperava che, da un momento all’altro, le ali della farfalla si aprissero e fossero capaci di sostenere il corpo, e che essa cominciasse a volare. Non successe nulla! In quanto, la farfalla passò il resto della sua esistenza trascinandosi per terra con un corpo rattrappito e con le ali poco sviluppate.Non fu mai capace di volare. Ciò che quell’uomo, con il suo gesto di gentilezza e con l’intenzione di aiutare non capiva, era che passare per lo stretto buco del bozzolo era lo sforzo necessario affinché la farfalla potesse trasmettere il fluido del suo corpo alle sue ali, così che essa potesse volare.
Era la forma con cui Dio la faceva crescere e sviluppare.
A volte, lo sforzo é esattamente ciò di cui abbiamo bisogno nella nostra vita.
Se Dio ci permettesse di vivere la nostra esistenza senza incontrare nessun ostacolo, saremmo limitati. Non potremmo essere così forti come siamo. Non potremmo mai volare.
Chiesi la forza…e Dio mi ha dato le difficoltà per farmi forte. Chiesi la sapienza… e Dio mi ha dato problemi da risolvere. Chiesi la prosperità… e Dio mi ha dato cervello e muscoli per lavorare. Chiesi di poter volare… e Dio mi ha dato ostacoli da superare.
Chiesi l’amore… e Dio mi ha dato persone con problemi da poter aiutare. Chiesi favori… e Dio mi ha dato opportunità.
Non ho ricevuto niente di quello che chiesi…
Però ho ricevuto tutto quello di cui avevo bisogno.

fonte web:  http://nostripensieri.altervista.org/wordpress/?tag=racconti-saggi

mercoledì 27 febbraio 2013

Caterina de' Medici: la Corte

Francesco I e Anne d'Heilly da un artista
Caterina a corte incontrerà la sua rivale Diana di Poitiers che per 26 anni le ruberà la scena e il marito. A lei nel 1531 Enrico dedicherà le insegne durante  l’incoronazione di Eleonora seconda moglie di Franceso I. Da quel momento  Enrico porterà sempre i colori bianco e nero di Diana.
Ma vediamo chi c’è a Corte con Caterina?
Francesco il primogenito e Delfino di Francia, ha subito la prigionia in spagna, è schivo, ama la letteratura e zappare. Carlo, il minore, focoso, amabile e bello, Margherita e Maddalena, poi la Regina. Ci sono ancora la sorella del Re Margherita di Navarra e l’amante del Re Anne d’Heilly poi Duchessa d’Etampes.


Duchessa d'Etampes


Diana di Poitiers
Tra la Duchessa d'Etampes e Diania di Poitiers ci sarà una guerra continua tanto che per tutto il regno di Francesco I, Diana non sarà ammessa nel ristretto circolo dove è regina indiscussa Anne d'Heilly. Tra le due rivali saranno frequenti le scenate e le lotte.

Con tutti Caterina avrà un ottimo rapporto.
E’ sorridente, elegante e sottomessa.

martedì 26 febbraio 2013

Caterina de' Medici: il matrimonio

Il matrimonio venne celebrato con grandi fasti il 23 ottobre e il 28 il Papa benedì gli anelli.
Il 1 novembre concesse la remissione di tutti i peccati per coloro che si fossero recati alla Cattedrale di Marsiglia per un Pater Ave Gloria. Parteciparono in 10.000.

Ripartì il 7 novembre 1533.
Papa Clemente VII morirà nell’ ottobre 1534


Ancora una volta gli avvenimenti ponevano Caterina in una situazione precaria. Era stata portata al rango più elevato che mai avesse potuto sognare, ed ora si trovava bruscamente relegata nella modesta situazione di una 'principessa Cenerentola', col peso umiliante delle sue origini straniere e di una dubbia nobiltà di fronte agli orgogliosi grandi signori francesi

lunedì 25 febbraio 2013

Caterina de' Medici: Il suocero

Francesco I
II visconte di Tavannes,  scrittore contemporaneo, così dice di lui:

" La intemperanza dei piaceri lo condusse a morte immatura. Provò fortuna assai varia ch'egli non sempre sostenne con intrepido viso. Le donne furono  onnipotenti su lui; creavano i ministri ed i generali, guidavano tutti gli affari del regno. La volutta vinceva di leggieri gl'impulsi, soventi volte,  magnanimi del di lui animo. Contrariamente ad Alessandro, del quale è fama che vedesse Ie donne  sol quando non aveva più affari, Francesco vedeva gli affari sol quando non aveva più donne”

Caterina de' #Medici: la Chiesa

 500 anni fa in Francia, Caterina de' Medici, riuscì a far approvare una norma per la quale la Chiesa avrebbe contribuito alle spese dello stato. Vi ricordo che nel 1562 in Francia vigeva la legge Salica ovvero la discendenza femminile non aveva alcun diritto al trono.
 Calvino considerava la reggenza da parte di una donna come uno dei castighi di Dio. Nonostante questo, Caterina fu reggente e Governante di Francia per quasi 30 anni nel periodo più difficile della storia proprio a causa dell'intransigenza religiosa.

sabato 23 febbraio 2013

Caterina de' Medici: La Dote

Maria Salviati
 Nel 1532 viene affidata alle cure di Maria Salviati moglie di Giovanni dalle Bande Nere.
Un ambasciatore Veneziano  scrive di lei: 
« Questa fanciulla è entrata nell'anno decimoterzo; è di natura assai vivace; mostra gentile spirito; è bene accostumata, e fu educata colle Monache nel monastero delle Murate in Fiorenza: donne di molto buon nome e santa vita. E' piccola di persona, scarna, e di viso non delicato; ha gli occhi grossi, propri  alla Casa de'Medici. »

Clemente VII

 Il 10 marzo del 1533 il Papa Clemente VII aveva concluso due matrimoni: quello di Caterina con Enrico di Valois e quello di Alessandro de’ Medici con Margherita figlia di Carlo V. 



 La sua dote doveva consistere in 100.000 scudi del Sole francesi; inoltre, come indennizzo  per i beni fondi dell’eredita di suo padre ai quali ella rinunziava, era aggiunta la somma di 3.000 scudi. 50.000 scudi dovevano essere sborsati subito a Marsiglia o a Lione; gli altri, metà dopo sei mesi, metà dopo un anno.
 L'eredità materna che era rimasta a Caterina in Francia, naturalmente, non aveva a che fare con questa pontificia dote. Il Papa chiese un prestito a Filippo Strozzi, che sborsò 80.000 scudi in cambio di un fermaglio di Benvenuto Cellini, che alla morte del Papa venne chiesto indietro da Pio III e Filippo Strozzi ci rimise parecchi denari.
Isabella D'Este

 Accompagnavano Caterina: Corredi, Mobili, Opere d’arte, Gioielli (le più grandi perle mai viste, poi donate alla nuora Maria Stuart), Oggetti di ogni genere. 
 All'approvvigionamento della biancheria e degli abiti la duchessa Salviati  impiegò Ie sarte più abili. 
 Fu lei a ordinare a Mantova, per tramite della marchesa Isabella d'Este, due corsetti, due gonne per i ricami dei quali mandava tre libbre d'oro, due libbre d'argento e due libbre di seta. 
 Si preoccupò anche di acquistare lenzuola di seta nera e di seta cremisi.

 I gioielli e le gemme regalati da Clemente VII costituivano un notevole  tesoro sia d'arte che di valore. Li conosciamo dall'elenco firmato da Francesco I quando l'inviato del papa, Filippo Strozzi, li ebbe consegnati al re: erano stimati in 27.900 scudi d'oro. 
 I più belli erano: 

  • una cintura d'oro, ornata con otto rubini balasci e diamanti;
  • un grosso diamante tagliato a tavoletta del valore di 6 500 scudi incastonato in un anello d'oro e smalto bianco, nero e nocciola;
  • una parure detta «tavola di smeraldo
    »
    , sorretta da tre anelli smaltati «a forma di punta di diamante» con una perla pendente « a forma di pera».

Caterina de' #Medici: la forchetta

 Fu Caterina de Medici a far conoscere la forchetta ad Enrico II suo consorte. I nobili si dotarono quindi di forchette ma molti di loro continuarono a mangiare il cibo con le mani. La forchetta era un segno di eleganza, di raffinatezza, di prestigio per questo tutti coloro che volevano dimostrare di appartenere ad una certa classe sociale se ne dotarono. Certo che non sempre sapevano usarla e quindi a tavola si ricreavano scene piuttosto buffe con i commensali protesi sui piatti e il cibo che cadeva ripetutamente nel piatto. Solo nel '700 la forchetta divenne di uso comune nelle classi elevate. Questo fu uno dei molti interventi di Caterina de Medici, Regina di Francia, atti al miglioramento delle condizioni igieniche.

venerdì 22 febbraio 2013

Caterina de' Medici: la scelta del marito

ASPIRANTI ALLA MANO DI CATERINA DE’ MEDICI

Giacomo V Stuart di Scozia tra l’altro suo  zio da parte materna
Il Conte di Vaudemont, fratello del duca Antonio di Lorena, e di Claudio duca di Guisa che reclamava diritti sul regno di Napoli.
Il duca di Richmond figlio naturale di Enrico VIII
Federico Gonzaga Duca di Mantova
Guidobaldo della Rovere per il Ducato di Urbino
del cui titolo si fregiava Caterina

Ippolito de’ Medici
Enrico di Valois figlio di Francesco I di Francia




Ella non potea chiamarsi povera, dice Branthome, parlando di Caterina," poichè portava alla corona di Francia terre, Ie quali oggi producono centomila lire: Ie contee di Auvergne e Lauraguais, Ie signorie di Leverons, Donzenac, Boussac, Correges, Hondecourt, tutte appartenenti  all’eredità di sua madre; per non parlare  del suo corredo, e dei suoi possedimenti italiani.

Oltre la considerevole dote la cosa più importante era trovare nel Papa, zio di Caterina, un alleato.

Caterina de' #Medici: il Concilio di Trento

 I rappresentanti del clero francese inviati al Concilio di Trento del 1562 avevano espresso chiaramente la posizione di Caterina de Medici che sottolineava un cattivo uso delle ricchezze del Clero e negligenza nei loro doveri.
 Le richieste della Francia erano di avere la comunione sotto le due specie (per i protestanti e per i cattolici), la messa in lingua volgare e non solo in latino, il divieto da parte della Chiesa di amministrare la giustizia terrena dietro pagamento di un indulto. Ricordo che fu proprio lo zio di Caterina, Leone X, a creare un tariffario per procurarsi la remissioni dai vari peccati. Tutto aveva un prezzo e quando scrivo tutto intendo proprio ogni forma di crimine compresi quelli non ancora commessi ma che si pensava di poter commettere. Questo servì alla Chiesa per finanziare la Cappella Sistina e le varie guerre di quegli anni. Con questo sistema molti sacerdoti si erano sposati e molti crimini erano stati condonati. 
 Gli articoli di riforma vennero proposti al Concilio proprio nel momento in cui Caterina de Medici faceva decretare la vendita generale dei beni temporali della Chiesa in Francia per riordinare le finanze francesi dissestate dai governi precedenti e dalle guerre tra protestanti e cattolici.
Si opposero a queste richieste Italiani e Spagnoli. Vi ricordo che ancora oggi in Italia la Chiesa non paga l'ICI a differenza di altri stati europei.
 Per tornare al Concilio, questo si chiuse senza tener conto delle richieste della Francia anzi ribadendo la presenza reale nell'Eucarestia, la salvezza dietro pagamento, le intercessione dei santi, il valore delle indulgenze. (immagine di Botero, Il Cardinale -1993)

giovedì 21 febbraio 2013

Mangiare e sottrarsi alla #competizione #predatore-preda. Il #Trickster nei racconti di #Coyote, #Coniglio, #Corvo e #Thlòkunyana, Lewis #Hyde, il #briccone fa il mondo, #citazione


Il trickster fa soltitamente affidamento sulla preda affinché lo aiuti a far scattare la trappola da lui costruita. In questo frammento [precedente] di racconto di un nez percé dell’Idaho nordorientale, lo sbarramento  per i salmoni di Coyote mette a frutto le energie impiegate dai salmoni stessi. Questi navigano nel fiume contro corrente, per andare a deporre le uova; l’appetito o l’istinto sessuale indica loro una determinata traiettoria che Coyote abilmente sfrutta. Anche in presenza di un’esca, l’appetito della vittima è ciò che ne “determina” il movimento. Il pesce cade in trappola da solo, mentre l’esca rimane ferma. Allo stesso modo, in un racconto crow delle Grandi Pianure vediamo Coyote catturare due bisonti facendoli fuggire controsole, perché non vedano dove vanno, e sospingendoli in direzione di un dirupo.  L’agilità di molti animali erbivori rientra fra le loro difese naturali nei confronti degli animali predatori. Coyote (o gli indiani americani che massacravano i bisonti in questa maniera) sfrutta tale meccanismo istintivo per dirigere le bestie verso il sole e il dirupo, così che la stessa agilità degli animali finisce per ritorcersi contro di loro. In quanto inventore di trappole, il trickster è un tecnico dell'appetito e degli istinti.

E tuttavia […] il trickster può anche finire vittima dei propri congegni. Egli è al tempo stesso un eroe culturale e uno sciocco, un abile predatore e una stupida vittima. Affamato, escogita talvolta degli stratagemmi per procurarsi da mangiare; in altri casi, smarrisce la propria arguzia. Un mito apache del Texas in cui Coniglio gioca una serie di tiri a Coyote si conclude nel modo seguente:


Coniglio giunse in un campo di cocomeri in mezzo al quale era conficcato un pupazzo di gomma. Lo colpì con il piede e vi rimase attaccato. Lo stesso accadde quando lo colpì con l’altro piede, poi con le mani, una dopo l’altra, e infine con la testa. Fu così che lo trovò Coyote.
“Cosa fai lì?” gli chiese.

“Il proprietario del campo si è infuriato perché ho rifiutato i cocomeri che voleva spartire con me e mi ha attaccato qui dicendomi che presto sarà di ritorno con un pollo perché mi decida a mangiare con lui. Gli ho risposto che non l’avrei fatto”.
“Sei uno sciocco. Prenderò io il tuo posto”.
Coyote liberò Coniglio rimanendo a sua volta impigliato nella trappola. Quando arrivò il padrone e lo vide lo impallinò per bene.


[…]

Così il trickster è in grado di costruire trappole ma non è sufficientemente scaltro da evitarle lui stesso. A mio parere perciò il mito contiene il racconto del progressivo sviluppo dell’intelligenza dedita alla caccia. Coyote può escogitare la trappola per i pesci in quanto è stato a sua volta un pesce. Niente batte l’astuzia se non una maggiore astuzia. Le astuzie di Coyote si affinano proprio perché ha incontrato altri tipi di astuzie, esattamente come l’ingenuo campagnolo può diventare infine un uomo di mondo se un certo numero di truffatori riesce a fargli aprire gli occhi.

[…]

Se questo mito contiene un racconto del progressivo aumento dell’intelligenza, dove porta? Cosa accade quando un carnivoro raggiunge 10/10?

Vi è un bel po’ di folclore sui coyote dell'America Occidentale. Un mito riporta che in tempi antichi gli allevatori di pecore cercavano di liberarsi di lupi e coyote lasciando all’aperto carcasse avvelenate di animali. Pare che in questo modo i lupi morissero numerosi, mentre i coyote presero a fiutare le trappole e a evitarle. Un altro racconto riferisce che con le loro trappole metalliche i cacciatori finivano per catturare topi muschiati, visoni, volpi e molfette, ma raramente coyote. Questi ultimi sviluppano un loro particolare rapporto con le trappole. Come è stato scritto da un naturalista, “è difficile sfuggire alla conclusione […] che i coyote abbiano un innato senso dell'umorismo. Come altrimenti spiegare, per esempio, la ben nota attitudine di coyote esperti nello scovare trappole, a rivoltarle e a urinarvi e a defecarvi sopra? (Leydet)”

[…]

Quando un coyote defeca su una trappola egli non è né predatore né preda, bensì qualcosa di diverso. Un frammento di un mito locale dei tlingit dell’Alaska ci aiuta a meglio decifrare questo qualcosa:

[Corvo] giunse in un posto dove molte persone erano accampate per pescare […]. Entrò in una casa e chiese cosa usassero come esca. “Grasso” gli fu risposto. “Lasciatemi vedere se ne avete messo abbastanza” disse lui e si fermò a osservare come applicavano e maneggiavano le loro trappole. La volta successiva che uscirono per pescare, Corvo li seguì e non visto si lasciò scivolare sott’acqua per afferrare l’esca. Sentendo abboccare qualcosa, i pescatori tirarono velocemente su le canne, ma nulla era attaccato ai loro ami.

[…]

Un motivo analogo lo troviamo in Africa con il trickster zulu conosciuto come Thlokunyana. Questi è rappresentato come un ometto, “grande come una donnola”, e infatti uno degli altri suoi appellativi fa riferimento a una donnola rossa con una coda appuntita nera. Un cantastorie zulu descrive questo animale come

più intelligente di tutti gli altri, poiché grande è la sua astuzia. Se viene sistemata una trappola per un gatto selvatico, [la donnola] vi si precipita immediatamente, prendendo il topo messo come esca per il gatto; lo tira fuori e, quando il gatto arriva, lo ha nel frattempo già divorato.

[…]

Coyote nei fatti e nel folclore, Corvo e Thlokunyana nella mitologia: in ciascuno di questi casi il trickster si avvede della trappola e catturarlo diventa estremamente difficile. Il coyote che evita la carcassa cosparsa di stricnina è forse il caso più semplice; non resta avvelenato, ma neppure si procura da mangiare. Corvo e Thlokunyana sono a questo proposito più astuti. Sono trickster che rubano l'esca, trickster che separano il cibo dalla trappola e lo mangiano. Tutti questi racconti presentano un rapporto predatore-preda – pescatore e pesce, ad esempio -, ma il ladro di esche non entra direttamente nella contrapposizione. come una parassita o un epizoo, si riempie la pancia senza prendere parte alla competizione tra cacciatore e preda. Da tale posizione, egli diventa una sorta di critico delle consuete regole della caccia e come tale le sovverte, cosicché le trappole in cui si imbatte perdono la loro efficacia.

[…]

L’intelligenza del trickster scaturisce dall’appetito attraverso due vie; egli cerca simultaneamente di  saziare il proprio appetito e di deludere l'appetito altrui. […] Qui il trickster si nutre dello scontro tra predatore e preda; piuttosto che entrare in competizione su tale terreno, però, se ne serve per agire per proprio conto. Oltre all’astuzia, un'altra forza del trickster è forse il desiderio di sottrarsi alla competizione per il cibo, o almeno di vedere quanto può tenersene a distanza pur continuando a riempirsi lo stomaco (giacché se cessasse del tutto di mangiare non sarebbe più trickster).



(Lewis Hyde, Il briccone [= Trickster] fa il mondo. Malizia, mito e arte, Torino, Bollati Boringhieri, 2001)


(nell’immagine, raffigurazione di Huehuecoyotl, da Antonio d’Alonzo, Il Trickster, http://www.esonet.it/News-file-article-sid-585.html )















Il #Bene e il #Male, Jean #Baudrillard, citazione


Il Bene e il Male crescono di pari passo e con lo stesso ritmo. Il trionfo dell’uno non implica la scomparsa dell’altro, anzi… Il Bene non riduce il Male né succede il contrario: l’uno e l’altro sono irriducibili, e il rapporto che li unisce è inestricabile


(Jean Baudrillard, “Lo spirito del terrorismo”, art. originale pubblicato su “La Stampa”, 06-11-2001”)




Caterina de #Medici: Le Mutande

 Anche l'uso delle MUTANDE è stato introdotto da Caterina de' Medici alla Corte di Francia. L'uso comune si estese agli strati sociali più bassi solo nel'900. Prima le mutande o "Bretelle da Culo" le portavano gli atleti e le ballerine per evitare, con gli esercizi del corpo di mostrare le parti intime. Un'altra categoria di persone che indossavano le mutande erano le prostitute. Caterina de' Medici però aveva introdotto in Francia anche la cavalcatura all'Amazzone. Fino a quel momento le donne stavano sedute con entrambe le gambe dallo stesso lato del cavallo permettendo loro solo il trotto: "Ambio". Caterina invece cavalcava alla stessa velocità degli uomini ed era l'unica ammessa nella squadra di caccia di Francesco I re di Francia suo suocero. Per poter cavalcare ed evitare problemi in caso di caduta Caterina indossava quel curioso indumento: le MUTANDE. Presto a corte divenne una moda e tante le signore che si rivolsero a sarti italiani per farsene realizzare di pregiate con pizzi e ricami preziosi. Nel 1700 le mutande diventeranno un indumento erotico molto apprezzato dagli uomini di corte che fino a quel momento ne avevano deprecato l'uso.

#Cinema: Golem, di Paul Wegener

arsenalecinema.it
 DER GOLEM, WIE ER IN DIE WELT KAM

 di Paul Wegener, Carl Boese

 con P. Wegener, Albert Stert Steinrück, Lyda Salmonova
 Germania, 1920, 85’


 Alle 22.30 il Golem di Paul Wegener (1920) con la musica dal vivo di Silvia Bolognesi al contrabbasso e Mauro Orselli, composizione e percussioni.

mercoledì 20 febbraio 2013

Caterina de' Medici: Enrico III e la cortigiana Veronica Franco

Alla morte di Carlo IX, Caterina mandò un messo in Polonia per chiedere ad Enrico III di tornare per governare la Francia. Il messo non arrivò in tempo perchè Enrico III era già scappato. In Polonia gli avevano tagliato i viveri e si aspettavano un re che governasse con il pungno di ferro mentre lui era abituato alla Corte e alla mamma che faceva tutto per lui. Fuggì cavalcando per 72 ore di fila e giunto sul suolo dell'Imperatore la cavalla che montava morì sfiancata sotto le sue gambe. I suoi inseguitori Polacchi poco poterono da quel momento in poi.
tratta da http://www.allposters.it/
Finalmente fuori pericolo Enrico III si concesse un po' di svago passando per le varie corti spendendo copiosamente i denari che la madre, premurosa gli fece anticipare dai diversi banchieri tedeschi e veneziani. Per la verità Enrico III spese molto più di quanto non gli era stato accreditato in molte attività ricreative. Tra queste le feste e alcune donne, nonostante non avesse fama di essere eterosessuale. Tra le Cortigiane frequentate a Venezia spicca Veronica Franco (15461591) veneziana, poetessa e scrittrice. Veronica Franco venne iscritta nel libro delle cortigiane indicando di lei indirizzo e tariffe per le diverse prestazioni. Per un suo bacio occorreva sborsare 5-6 scudi mentre una prestazione completa costava 50 scudi. Ma Veronica vogliamo ricordarla qui per un'altra questione molto più meritevole di attenzione ella infatti difese le donne, ne evidenziò il potere e la disparità sociale a cui erano sottoposte. Propose al consiglio veneziano una cassa per le donne che versavano in gravi difficoltà, ma la sua proposta fu rifiutata.
Della sua vita ha scritto Margaret F. Rosenthal nel The Honest Courtesan. 
Tra  le citazioni a lei attribuite  Se siamo armate e addestrate siamo in grado di convincere gli uomini che anche noi abbiamo mani, piedi e un cuore come il loro; e anche se siamo delicate e tenere, ci sono uomini delicati che possono essere anche forti e uomini volgari e violenti che sono dei codardi. Le donne non hanno ancora capito che dovrebbero comportarsi così, in questo modo riuscirebbero a combattere fino alla morte; e per dimostrare che ciò è vero, sarò la prima ad agire, ergendomi a modello.

 

martedì 19 febbraio 2013

#Libri #Ilguardiano #invisibile di Redondo Dolores


In un bosco accanto al fiume Baztán, all'estremo nord della Spagna, sul confine tra i Paesi Baschi e la Navarra, viene ritrovato il cadavere di una adolescente, nudo e ricomposto secondo uno strano rituale. Sul ciglio della strada, le scarpe, una accanto all'altra. Sul corpo, gli avanzi di un dolce tipico della regione e alcuni peli che non sono umani. Amaia Salazar, capo della squadra Omicidi della Policía Foral de Navarra, deve occuparsi del caso. Nata e cresciuta a Elizondo, lo stesso paese della vittima, la detective torna nei luoghi dell'infanzia, dove l'attendono le indagini e problemi familiari che sperava di essersi lasciata per sempre alle spalle. Con l'aiuto dei suoi collaboratori, Amaia scopre delle analogie con un secondo omicidio, quello di una ragazza strangolata un mese prima. L'assassino deve essere qualcuno di cui le vittime si fidavano e probabilmente il rituale che esegue su di loro è una sorta di purificazione, per restituire alle giovani donne la loro purezza verginale. Ma nella zona c'è chi ha idee molto diverse. Per strada, sottovoce, la gente del posto già sussurra teorie e antiche leggende, invocando le creature che, secondo la mitologia locale, a volte scendono dalle montagne per proteggere la natura e i suoi abitanti. Se il mitico basajaun, guardiano invisibile dei boschi, fosse davvero riemerso dai ricordi d'infanzia di Amaia, insieme alle ombre di un passato che continua a tormentarla? 

fonte: http://www.ibs.it/code/9788807019289/redondo-dolores<br>/guardiano-invisibile.htm

#Italy e i suoi #Borghi: Albori - Campania

http://www.fotoeweb.it/sorrentina/Albori.htm 

Il nome

 
Incerte le origini del toponimo: la più affascinante è quella che lo fa derivare da Arvo, un argonauta al seguito di Giasone che, attratto dalla bellezza del luogo, vi si sarebbe stabilito dopo una tempesta.
Albolo sarebbe invece il personaggio goto o longobardo che avrebbe dato il nome al casale.
Il nome potrebbe anche designare il luogo in cui anticamente si andava a far legname - albores, alberi - per costruire le navi. O infine richiamare Albola, una sorgente di acqua minerale esistente nella zona.

La Storia

• IX secolo (prima metà), si hanno le prime notizie di insediamenti nella zona di Albori.
• 1324, in un documento viene citato per la prima volta il casale di Albori, sorto a 300 metri di altitudine per sfuggire alle incursioni costiere dei Saraceni.
• 1500 ca., è istituita per regio decreto l'imposta detta "gabella del pane", in base alla quale nel casale può vendere il pane solo l'appaltatore o persona da lui delegata.
• 1610, è costituita la parrocchia di Àlbori.

http://www.fotoeweb.it/sorrentina/Albori.htm

 Àlbori è una miniatura dell'eterno richiamo del Mediterraneo
 
Un grumo di case colorate di fronte al mare, addossate le une alle altre e strette tra viuzze e vicoletti, costruiti in base alla strategia difensiva degli arabi, che si interrompono in uno slargo dove, ancora oggi, la sera, si ritrovano gli abitanti.
Le donne recitano il rosario, gli uomini si raccontano la giornata, la brezza marina placa i dolori, il cielo si riempie di stelle.
Se l'infedeltà alle forme, alle armonie, ai colori del Mediterraneo è grande nella caotica Vietri e, purtroppo, in molti punti della pur bella costa amalfitana, qui ad àlbori, in posizione più appartata, a 300 metri di altitudine, si respira l'aria dei tempi antichi.
Lo sguardo non abbraccia oscenità e incuria ma le verdi pendici del Monte Falerzio, dov'è bello passeggiare tra cappelle votive dedicate ai santi protettori e panorami di Campania felix che includono sempre l'infinito azzurro del Tirreno.
E marinara è sicuramente l'origine del borgo, come testimonia l'attuale Marina di àlbori            . Probabilmente gli abitanti, terrorizzati dai continui blitz dei pirati saraceni, decisero di rifugiarsi più a monte dove costruirono l'attuale borgo, protetto dall'abbraccio del Monte Falerzio.
Gli edifici in pietra e calce, sormontati dalle caratteristiche tegole napoletane, sono stati oggetto di studio da parte di numerosi architetti. Il nuovo paese, infatti, ha mantenuto l'architettura mediterranea originaria, con case a volta dai colori decisamente vivi, che servivano a farle riconoscere da lontano ai propri abitanti quando, ottimi naviganti, si allontanavano da esse o vi si riavvicinavano dopo lunghi periodi trascorsi in mare. Nel periodo invernale, quando la navigazione non era possibile, gli abitanti si dedicavano all'agricoltura, coltivando quel poco di terreno che riuscivano a strappare alla montagna.
La felice combinazione di mare e monte è dunque la caratteristica di àlbori, che non è nemmeno priva di tesori d'arte.
Nella piazza sorge la chiesa dedicata a Santa Margherita, giovane martire di Antiochia, al cui interno si possono ammirare pregevoli affreschi di scuola napoletana, di cui fu esponente illustre il decoratore barocco Francesco Solimena (1657-1747).

Il prodotto del borgo

Siamo, come diceva Goethe, nella terra dove fioriscono i limoni, che qui hanno sapore e profumo speciali (si chiamano "sfusati") e danno il classico limoncello della Costa di Amalfi.
 
 
 Il piatto del borgo
 
Il menu caratteristico prevede le penne "alla cuppitiello" (con salsa di verdure di stagione), le pietanze a base di pesce insaporite da succo di limone amalfitano, le "palle di ciuccio", caratteristiche crocchette di patate agrodolci. Il tutto accompagnato da vini di produzione locale.
 
 fonte:http://www.borghitalia.it/html/borgo_it.php?codice_borgo=574&codice=elenco&page=1


lunedì 18 febbraio 2013

Caterina de' Medici: l'Infanzia 2

A Firenze con la morte di Lorenzo II duca di Urbino, i medici erano stati cacciati, grazie all'intervento di Clarice Orsini, Alessandro e Ippolito de'Medici si erano allontanati in tutta fretta dalla città. 

"Siccome era I'ora di desinare Clarice rimase a pranzo, dopo iI quale tornò ad insistere perché i giovani partissero innanzi d'esser mandati via.
Fra iI popolo circolò la voce che madonna Clarice avesse usato parole ingiuriose e villane; e insultando ai nataIi  ilIegittimi di Alessandro e d'Ippolito, avesse loro intimato di sgombrare iI palazzo:  la casa di Cosimo iI vecchio non essere stalla da muli."


Allontanati Alessandro e Ippolito, Passerini cercò la sicurezza di Caterina mandandola alla Villa del Poggio, ma Iacopo Rinuccini  andò a riprenderla e la mise al Convento di Santa Lucia che in quel periodo faceva parte della fazione avversa ai Medici nonostante fosse dovuta ai Medici la costruzione di quel convento e la sua esistenza.
Clarice non sopportando di vedere la nipote tra estranei andò al convento a riprendersela, ma dato che Ippolito e Alessandro non avevano ceduto i castelli fuggendo promessi alla Signoria fuggendo anche da Lucca, la situazione a Firenze peggiorò e Caterina venne rimessa in Convento.
A Firenze si temeva il peggio perché il Papa incollerito dal comportamento della città, della profanazione della tomba e avendo fatto pace con i Borboni manciava alla volta di Firenze per piegarne la volontà.

Caterina passò dal Convento di Santa Lucia a quello di Santa Caterina dal quale venne tolta per paura della peste. Clarice moriva il 3 maggio 1528 e la piccola si trovava presso le Murate che erano tendezialmente  per i Medici ma che nel marasma generale si divise in varie fazioni. Caterina si faceva ben volere da  tutti intanto nella Signoria Leonardo Bartolini facinoroso sfegatato proponeva di mettere la bimba in un bordello in modo da impedire al Papa di utilizzarla per scopi politici.  La proposta venne bocciata con orrore, ma con il peggiorare della situazione si pensò anche di appenderla nuda fuori dai bastioni per farla colpire dalle armi dirette verso la città. Fortunatamente non lo fecero pensando che Caterina potesse essere un ostaggio importante.

Nel luglio 1530 Aldobrandini incaricato dalla Repubblica si recò alle Murate per portar via Caterina de’ Medici e condurla a Santa Lucia in via San Gallo dove le monache erano dalla parte dei popolani e quindi meno facile rapirla, ma le suore piasero, si inginocchiarono e supplicarono. La bimba disse di voler restare suora tra le reverende madri. Aldobrandini lasciò le Murate, ma dalla Signoria ricevette nuovamente il compito di portare via la bimba e il 7 luglio la condusse a Santa Lucia. 

Le Suore la vestirono da suora e le tagliarono i capelli ed è così che la videro i fiorentini mentre veniva condotta al nuovo convento.

Caterina nel tempo conservò immutata gratitudine verso le suore delle murate che beneficiò di tanti doni fino alla sua morte. A soli 11 anni al momento della resa della città intercesse anche per l’Aldobrandini convincendo suo zio Clemente VII a non mandarlo a morte. Fu costretto all’esilio e ad una ammenda che poi sborsò Caterina per lui.




#Sensuale o #Ranocchia: L'amore ai tempi del colera

http://i187.photobucket.com/albums/x204/Ashelia72/donna.jpg


Risalivano a quell’epoca le sue teorie più semplicistiche sul rapporto tra il fisico delle donne e le sue attitudini amatorie.
Diffidava del tipo sensuale, quelle che sembravano capaci di mangiarsi crudo un caimano e che di solito a letto erano le più passive, Il suo tipo era l’opposto: quelle ranocchiette squallide per le quali nessuno si prendeva la fatica di voltarsi a guardare per la strada, che sembravano restare senza niente quando si toglievano i vestiti, che facevano pena per lo scricchiolio delle ossa al primo impatto e che però potevano lasciare il più chiacchierone dei corteggiatori pronto per il secchio dell’immondizia.


L'amore ai tempi del colera, Gabriel Garcia Marquez

domenica 17 febbraio 2013

#Donne: "Angelina e la sua vita" all'Apres midi d'une femme

 L'esordio letterario di Roberta Vedovato sarà al centro di un pomeriggio di teatro, danza, letture e canti dedicati alle donne della città di Vicenza.
 L'Apres midi d'une femme avrà luogo il 9 marzo, ore 16.00, alle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari ed è un appuntamento coordinato con l'evento 8 marzo 2013 - Giornata della donna a Vicenza.
 L'Accademia dei Sensi tutta è lieta dell'occasione di ribalta per Roberta.
 Le diciamo tutti insieme il nostro in bocca al lupo!

Caterina de' Medici: l'Infanzia

 Nel giro di 20 giorni dalla sua nascita, il 13 aprile 1519 Caterina rimase orfana di entrambi i genitori.
 Il papa Leone X aveva investito molto sul matrimonio di Lorenzo de' Medici Duca d'Urbino con una nobile francese Madeleine de La Tour d'Auvergne che portava in dote molti possedimenti.
Alfonsina Orsini
 Pur di far sposare a Lorenzo una donna così importante il papa non esitò a sottrarre il ducato di Urbino ai della Rovere per consegnarlo a suo nipote. Dopo quasi un anno in Francia Lorenzo e Madeleine vennero richiamati a Firenze. Madeleine piacque subito per il suo stile e la sua grazia raccontano gli storici che indossasse perfettamente i costumi fiorentini. Aveva 16 anni quando sposò Lorenzo che allora ne aveva 26. Il ritorno a Firenze fu fatale. Lorenzo si ammalò, qualcuno dice di malattie veneree e si stabilì alla Villa del Poggio. Maddalena subito dopo il parto ebbe la prima febbre alla quale non dettero molto peso. Portarono Caterina dal padre che parve riprendersi, la battezzarono immediatamente consapevoli delle precarie condizioni in cui versavano i genitori. Francesco I, se fosse nato un maschio avrebbe fatto da padrino, ma data la situaione non c'era proprio il tempo di avvisarlo. Tennero a battesimo la piccola Caterina il cappellano di San Lorenzo e la badessa delle Murate. Morti i genitori venne affidata per i primi due anni alla nonna famosa per la sua tirchieria Alfonsina Orsini.

#Stato e #Anarchia di Bakunin

« E' sulla finzione di questa pretesa rappresentanza del popolo e sul fatto concreto del governo delle masse popolari da parte di un pugno insignificante di privilegiati, eletti o no dalle moltitudini costrette alle elezioni e che non sanno neanche perché e per chi votano; è sopra questa concezione astratta e fittizia di ciò che s'immagina essere pensiero e volontà di tutto il popolo, e della quale il popolo reale e vivente non ha la più pallida idea, che sono basate in ugual misura e la teoria dello Stato e la teoria della cosiddetta dittatura rivoluzionaria. » (Michail A. Bakunin, Stato e anarchia, pag.162-163.)

#Fiducia: Il più sottile nutrimento per la vita

http://ilserpentedigaleno.blogosfere.it/images/BimbiH1N1TG.jpg

La fiducia è il più sottile dei nutrimenti per la vita. Se non ti fidi, non puoi vivere veramente. Hai sempre paura; sei circondato dalla morte, non dalla vita. Quando hai dentro di te una fiducia profonda, l’intera prospettiva cambia. Sei a casa, non c’è conflitto. Non sei uno straniero; appartieni al mondo e il mondo appartiene a te.

Norman Vincent Peale, Come acquistare Fiducia e avere Successo

sabato 16 febbraio 2013

#Icoloridell' #Amore #Sfumature della personalità

http://www.marotochi.it/immagini/sfondi/evoluzione%20di%20colori%201.j 



 I colori dell’amore
L’amore è sempre
puro, divino,
ma si tinge delle
sfumature
della personalità
del sé umano esteriore,
così come l’acqua
trasparente appare tinta
quando viene versata in
un recipiente colorato.

Paramhansa Yogananda,
 108 Palpiti d’Amore

venerdì 15 febbraio 2013

#Racconti #Saggi Taoisti: L'ombra del ciliegio

images.corriere.it/Media/Foto/2010/04/02/ciliegi2_1.jpg 
All'uscita di un borgo, sulla riva di un lago che lambiva i piedi dì una serena montagna, stava delicatamente adagiata nel suo scrigno di verzura una grande casa civettuola. Aveva un basamento di pietra ocra, ravvivato da paratie in legno dalle larghe aperture finemente lavorate. La circondava un grazioso giardino circondato da un muro di mattoni imbiancati a calce e coperto con tegole verniciate di rosa. Era la dimora di vecchio commerciante grassoccio, cui il senso degli affari aveva assicurato un più che confortevole benessere.
Nel giardino, al confine della propietà si ergeva un annoso ciliegio che dispensava all'intorno un'ombra generosa. D'estate, fuggendo la fornace di casa, il riccone amava andarvi a riposare e a farsi rinfrescare dalla brezza. Apprezzava in modo particolare il momento in cui l'ombra scavalcava il muro della sua propietà per andare ad allungarsi sulla riva del lago. La restava distevo per delle ore, cullato dal mormorio del flutti
 e dal canto dei canneti e stregato dal riflesso delle montagne nello specchio del lago.

Un giorno di canicola, mentre il mercante varcava il portone per andarsene all'ombra del suo amato ciliegio, ebbe la brutta sorpresa di vedere qualcuno sdraiato al suo posto. Non poteva trattarsi che di uno straniero: chi mai, nel circondario, avrebbe osato fare una cosa del genere?  Il suo posto estivo era conosciuto e rispettato da tutti e nessuno aveva interesse a contrariare quel potente signore.
 Il vecchio riccone apostofrò lo sconosciuto:
- Levati di mezzo! Il posto è mio!
- Vostro? chiese lo straniero sollevando la testa su cui troneggiava un ciuffo di capelli annodati alla meglio. Ma queso non è forse un luogo pubblico?
- Puo' essere, disse il commerciante, ma l'ombra è quella del mio ciliegio, quindi mi appartiene.
L'uomo, dagli abiti e dalla corporatura di un avventuriero, si alzo con un sorriso ironico e disse:
- In tal caso vendetemela cosi ci posso restare! E tirò fuori la borsa, facendone tintinnare le monete.
Quella musica, tanto cara e famigliare al ricco mercante, ebbe l'effetto di smorzargli i bollori e di lasciarlo soprappensiero.
Non aveva mai pensato di poter fare commercio di un ombra, una materia inconsistente, impalpabile e inafferrabile per eccellenza! Fedele alla principale regola degli affari secondo cui, piccolo o grande, ogni guadagno è buono, e accecato dalla sua leggendaria cupidigia, nota in tutto il paese, accettò la proposta, non prima di aver stabilito che l'ombra valeva dieci tael d'argento. Una somma modesta, ma appropiata a un bene che di solito non veniva venduto! Si era guadagnato la giornata.
Il viaggiatore non stette a mercanteggiare: chiese solo che l'atto di vendita venisse messo in debita forma per iscritto e in duplice copia. Tutto contento del colpo messo a segno, il vecchio riccone rientrò a casa e ne torno con carta, inchiostro e sigillo. L'affare fu concluso e l'acquisto dell'ombra pagato in contanti.
Su quella riva del lago non c'erano altri alberi per cui il mercante, rientrato in giardino, si accontento dell'ombra di un albicocco. Non era fresca come quella del ciliegio e non oltrepassava il muro permettendogli di contemplare il paesaggio, ma lo spilorcio vi si sdraiò con il sorriso di chi ha fatto un buon affare. Tanto più
che tra qualche giorno lo sconosciuto di passaggio se ne sarebbe sicuramente ripartito. Gli venne addirittura in mente che avrebbe potuto rivendere l'ombra a qualche altro imbecille.

Mentre le nuvole cominciavano a farsi rosee come le guancie di una vergine alla vista un bel ragazzo, il ricco mercante vid:e a un tratto l'avventuriero varcare il portone. Temette che, rientrato in sè fosse venuto a richiedergli il propio denaro. Fortuna che esisteva un contratto scritto!
L'avventuriero gli fece un amichevole cenno con la mano prima di sedersi senza complimenti in giardino e aprire la borsa, estraendone un picnic. Il padrone di casa si precipitò di corsa a scacciare quello sfacciato dalla sua propietà.
- Vi ho venduto solo l'ombra del ciliegio, mica tutto il giardino. Levatevi di torno al piu' presto!                      - E secondo voi, dove sto seduto? chiese lo straniero. Guardate sull'ombra del ciliegio che adesso si e' spostata qui. Voi me l'avete venduta, e adesso e' mia.
Sbalordito, il riccone girò i tacchi e rientro in casa sbattendosi la porta alle spalle. Mezz'ora dopo, l'avventuriero era seduto sulla veranda, dove ora veniva a proiettarsi l'ombra del ciliegio.
Al crepuscolo, il vecchio mercante, per poco non soffocò di rabbia vedendo l'imponente figura dell'importuno scavalcare la finestra del salotto per venire a sedersi sulla poltrona dove l'ombra aveva eletto domicilio. Il vecchio ordinò al seccatore di andarsene, minacciando di farlo buttare fuori dai servi. Ma quello apri con calma il contratto e lo rilesse a voce alta, dichiarando che se non avesse potuto godere della sua propietà, si sarebbe rivolto al tribunale pretendendo risarcimenti e interessi. Arresosi a quell'inopugnabile argomento, il mercante battè in ritirata in camera sua, barricandosi dentro in attesa che la notte spegnesse l'ombra de ciliegio.
Ma era una notte di luna piena. Attraverso la tapparella di carta, l'ombra del ciliegio scivolò nella camera della giovane concubina del mercante. L'ombra sfiorò forse il suo giacilio, la sua pelle di pesca?
Pur lasciandolo intendere, la storia non lo dice e neanche il vecchio riccone si lasciò sfuggire una parola, forse troppo sordo per essere riuscito a sentire qualcosa di preciso...

Il maneggio durò parecchi giorni. Ogni mattina, l'avventuriero era immancabilmente in camera della giovane concubina, visto che il primo sole vi proiettava l'ombra del ciliegio...
Sta di fatto che il vecchio. sull'orlo del travaso di bile, fini per denunciare egli stesso la cosa alla giustizia, protestando contro l'uso abusivo del diritto di propietà. Ritenedolo un caso alquanto imbarazzante, giuridicamente interessante e quanto mai delicato, il giudice si riservò di deliberare il consiglio.
La storia non dice neanche se il magistrato appartenesse alla razza degli uomini onesti, dei giusti che impediscono al mondo di precipitare definitivamente nel caos, o se invece fosse uno di quei funzionari corrotti che volevano evitare la delusione di non ricevere un soldo da quell' esimo taccagno. Sia come sia, il verdetto decretò che l'atto di ventita era perfettamente valido e che il diritto di propietà era sacro e imprescrittibile. Dette quindi partita vinta al propietario dell'ombra e condannò il ricco al pagamento delle spese, nonché a una grossa multa ogni volta che avesse impedito alla controparte di godere della sua propietà.

L'indomani con la morte nell'anima e tra l'ilarità dei vicini, l'avaro lasciò la civettuola dimora in riva al lago per andare a vivere in una casa  che possedeva in città.
L'avventuriero si sistemò nell'abitazione abbandonata e in capo a dieci anni ne divenne legittimo propietario.
Quanto alla giovane concubina, sulla quale si sarebbe posata l'ombra del ciliegio, l'anziano mercante la lasciò insieme alle mura della vecchia casa, su insistenza, pare, di quella megera della sua legittima moglie che, con la scusa dell'evidente incuria del marito, avrebbe preso in mano gli affari domestici. E il nuovo propietario della casa in riva al lago non tardò a sposare la bella compagna abbandonata con grande gioia della medesima.

Ed ecco come fu che vendendo un ombra, vale a dire niente, per una manciata di monete d'argento, vale a dire quasi niente, Il nostro uomo d'affari perse casa e concubina, entrambe acquistate a peso d'oro.
Meglio sarebbe stato per lui frequentare i classici, nei quali avrebbe trovato la seguente ammonizione:

Chi non sa andare lontano col pensiero vedrà i guai da vicino.

tratto daRacconti dei saggi taoisti pag. 201/210 di Pascal Fauliot  - L'ippocampo
 

Quando sono nato io, #Dado, #citazione, #Comix #satira


 - Quando sono nato mio padre vestiva fric, molto fric, talmente fric che lo chiamavano fricchettone
.- Quando sono nato io mio padre veste trendy, molto trendy, talmente trendy che la gente gli dice: “Trendi conto de come te sei vestito?”

-Quando sono nato io se ti fidanzavi potevi incidere le iniziali sulla corteccia dell’albero e se lei ti lasciava potevi andarle a cancellare.
- Quando sono nato io se ti fidanzi ti tocca andare a Ponte Milvio, comprare un lucchetto, legarlo a un palo e buttare la chiave nel fiume Tevere, come dice Moccia in 3 metri sopra il cielo… e se ti lascia, te tocca andare tre metri sott’acqua a cercare la chiave.

- Quando sono nato io Cenerentola doveva tornare a casa entro la mezzanotte, altrimenti la carrozza si sarebbe trasformata in zucca.
- Quando sono nato io Cenerentola può tornare a casa anche alle undici perché, con tutto il bombardamento di musica a luci strobo che si è presa, la carrozza le sembra una zucca già dalle dieci e mezza.

- Quando sono nato io mio nonno prima di morire disse: “Viva l’Italia!”
- Quando sono nato io mio nonno prima di morire ha detto: “Italia Uno!”

(Dado, “Quando sono nato io”, da Agenda Comix 2013)



(immagine tratta da www.ilfattoquotidiano.it  )

Gypsy #Jazz: Orchestra Cocò

newspettacolo.com
 Patrus 53 ha appena pubblicato l'intervista a Lucio Villani e quindi ne approfitto per presentare un palinsesto dedicato all'apparizione al Festival Django Reinhardt 2012 di Samois-sur-Seine dell'Orchestra Cocò.
 Essa ha l'obiettivo, come essa stessa definisce, di raccontare canzoni soprattutto italiane della prima metà del novecento con una voce ed il suono di sedici corde.
 Marco Maturo è uno splendido signore piemontese prima che le fondamenta del trio, e non solo costituendone la base ritmica ma anche quella pragmatica.
 Lucio Villani sopperisce con quelle vocali alle due corde in meno del suo contrabbasso rispetto alle due chitarre, ma soprattutto è la punta onirica del gruppo, con la sua battuta pronta, l'arguta ironia, e nondimeno la grande creatività grafica.
 Augusto Creni è lo spirito libero in carne, ossa, legno e acciaio argentato, punta stilistica forte dell'affinata tecnica del grande Django Reinhardt.
 Godeteveli dunque in "Tornerai" e "Mamma mi piace il ritmo".

mercoledì 13 febbraio 2013

#Thriller: Il Maresciallo - Parte II

© 2013 Accademia dei Sensi
Licenza CC BY-NC-ND 3.0
 di Gaspare Polizzi


 Questi si alzò, salutò la donna – che sembrava essersi dimenticata della sua presenza – e uscì dal casolare. Bellantoni e Romor avevano completato il loro lavoro, e i tre s'incamminarono lentamente verso il paese.
 Alla sera, prima di cena, il Maresciallo si concesse una partita a dama con Don Luciano: gli era simpatico quel prete pallido, timido, caparbio e solo apparentemente fragile, e nella sua compagnia e nella concentrazione del gioco scioglieva le tensioni o la noia delle giornate di servizio. E mentre Don Luciano, con aria serafica, mangiava l'ennesima pedina, il Maresciallo (forse con la segreta intenzione di distrarre il suo avversario) gli raccontò della strage delle galline e degli alberi, e dell'atteggiamento ostinato della donna, e delle sue strane frasi.
 “Lei non conosceva la Signora Marta, vero?”, domandò il prete “Lasci che Le dica qualcosa di quella povera donna.” E Don Luciano raccontò: Marta Cassetti viveva in quella casa da quando si era sposata, trent'anni prima. Aveva avuto tre figli maschi. Il primogenito era partito a cercar lavoro, e se n'erano perse le tracce. Si diceva che fosse in Belgio, a fare il minatore, o in Olanda, imbarcato su un rimorchiatore. I due figli più giovani erano rimasti in paese, ed erano cresciuti lavorando nei campi insieme al padre. Allo scoppio della guerra, il secondogenito era partito coscritto, ed era morto durante la campagna di Grecia. Per la madre e il padre, uno strazio.
 Il più giovane, che mostrava simpatie antifasciste, era tenuto costantemente d'occhio. Un bel giorno, si era dato alla macchia, e aveva costituito, insieme ad altri giovani della zona, un piccolo nucleo di partigiani, male organizzati e peggio armati. Comunque, erano riusciti a dare qualche fastidio alla guarnigione tedesca acquartierata in paese: qualche scaramuccia, il furto di un camion di vettovaglie, cose così. Fino a quando erano stati sorpresi nottetempo da un reparto nemico: li avevano disarmati, legati e rinchiusi in un ovile, e poi avevano lanciato dentro le bombe a mano. Alla strage aveva assistito, da lontano, un pastore, che aveva avvisato i parenti di coloro che aveva riconosciuto.
 La morte atroce del figlio e dei suoi compagni aveva suscitato in quella donna l'orrore per qualunque arma. Malediceva chiunque ne portasse una, cacciatore, soldato o bandito che fosse. Aveva perfino gettato in un pozzo i coltelli e l'ascia del marito. E i monelli del paese ne avevano fatto il loro zimbello: la chiamavano “la pazza di Duerivi”, e nei pomeriggi d'estate si presentavano davanti alla sua casa con rami di salice come archi e fucili e fingevano battaglie e assalti, finché il pianto e le maledizioni della loro vittima li inducevano a scappar via.
 Il marito di Marta era morto poco tempo dopo. Una sincope, mentre zappava l'orto.
Si diceva che i Tedeschi fossero stati avvisati da uno del paese: una spia che, per farsi bello con i più forti, o farsi perdonare qualche mancanza, aveva venduto quei poveri giovani. La Signora Marta s'era fatta convinta che quella spia fosse il farmacista, e non perdeva occasione per accusarlo e urlargli il suo disprezzo; specialmente la domenica, davanti alla chiesa. Infatti, in quegli anni Marta, si era recata in paese assai di rado, quasi soltanto per assistere alle funzioni religiose. Poi, da quasi un anno aveva smesso di frequentare la chiesa. A Don Luciano, che era andato a trovarla, aveva detto che la gente le sembrava sciocca e cattiva, e che oramai sentiva Dio vicino a sé soltanto nella solitudine della campagna. E, confessò il prete, in quel momento era stato tentato di darle ragione, mestamente.

martedì 12 febbraio 2013

#Thriller: Il Maresciallo - Parte I


© 2013 Accademia dei Sensi
Licenza CC BY-NC-ND 3.0
 di Gaspare Polizzi

 Il vino odorava di terra assolata e di ciliegie mature. Il Maresciallo restò così, immobile: con il bicchiere sollevato a mezzo, ancora per qualche istante, poi lo portò alle labbra e bevve. Sentì su di sé gli occhi della donna, seduta davanti a lui, con le mani in grembo, nella grande stanza. “Le piace?”, domandò. “Lo fa mio cugino, a Genazzano. La vigna è piccola, ma la terra è buona. E lui non si risparmia.”
 Era anziana, sui sessant'anni, magra e un po' curva. Gli occhi le brillavano di una luce malata, come se la terzana la divorasse. Il maresciallo finì il vino, e rifiutò, con un gesto, la muta offerta di un altro bicchiere che la donna gli fece immediatamente, alzando la brocca. Meglio restare lucido.
 Circa due ore prima, durante una delle periodiche perlustrazioni che facevano in quella zona, lontana dal paese e difficile da raggiungere, Bellantoni e Romor avevano incontrato la donna che vagava per le campagne, piangente e con un cucciolo di cane morto tra le braccia. A fatica, si erano fatti spiegare dove abitava e cosa era accaduto, e, mentre uno dei due l'accompagnava a casa, l'altro correva in caserma ad avvisare il Maresciallo.
 E adesso, mentre i due carabinieri si davano da fare a pochi metri dal casolare dove la vecchia viveva, il Maresciallo attendeva che lei si decidesse a raccontare. Al suo arrivo, Romor gli aveva mostrato ciò che aveva sconvolto la donna: nel recinto, le galline erano tutte morte, in un vero macello di penne e sangue e guano. Nessuno degli uccelli mostrava di essere stato attaccato da una volpe o da un cane randagio: presi a bastonate, piuttosto. Con ferocia e determinazione. Poco più in là, l'orto che la vecchia coltivava era ridotto a un ammasso di piante strappate e calpestate, di fosse furiosamente scavate a casaccio.
 E di quattro alberi di pesco, a un lato dell'orto, non restavano che dei ceppi – quasi dei rozzi sedili - segnati dai colpi dell'ascia, mentre i tronchi e i rami fioriti giacevano a terra, in mille pezzi.
 Ancora silenzio. Poi, all’improvviso, “Sabato sera”, spiegò la donna “Sono partita con la corriera; mio cugino, quello del vino, mi aveva promesso delle sementi per l'orto, e sono andata a prenderle. E al mio ritorno, ho trovato questo!”. Fece un gesto largo, desolato, che racchiudeva in sé tutto il suo sconforto e il suo dolore. “Perfino il cane m'hanno ammazzato, i maledetti! Era ancora un cucciolo, che male poteva fargli?”
 “Signora, lei ha dei sospetti? Qualcuno che ha motivi di rancore nei suoi confronti?”, domandò il Maresciallo. Dalla finestra si udivano le voci di Romor e Bellantoni, che avevano quasi finito di scavare una grande fossa dove seppellire le galline massacrate.
“Dovrei fare io il tuo mestiere, allora? Proprio io?”. La donna fece una pausa, poi “dimmi, Maresciallo: quante persone hai ammazzato con quella pistola?”, domandò fissandolo con quegli occhi di febbre, che mettevano inquietudine.
 “Nessuno, Signora” “Non ci credo. Sei come gli altri. Porti un’arma, e sei un assassino e un bugiardo. Ma sono affari tuoi. Ne renderai conto a Dio. Come i vigliacchi che sono venuti qui. Sembrano persone, ma sono peggio dei lupi. Lo sai che quando ero bambina, questi monti erano pieni di lupi? E io ero l'unica a non averne paura, quando arrivavano dietro la porta di casa. Sono gli uomini, che mi fanno paura. Certo, gli farebbe comodo, se io.... Ma non andrò mai via di qui. Questa era la casa e la terra di mio marito, e adesso è la terra di mio figlio. Io sto aspettando il suo ritorno. E poi, toglierò il disturbo. Ma fino a quel giorno, io me ne starò qui, a coltivare la terra, e a ricordare a tutti le cattive azioni che hanno commesso”. “Quali cattive azioni, signora? Non vuole aiutarmi?” “E proprio tu, chiedi aiuto a me, a una povera pazza? Perché lo so, cosa dicono di me in paese. Che sono matta. Matta come un cavallo.” E prese a ridere, voltando le spalle al Maresciallo.

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