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sabato 31 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 dicembre.
Il 31 dicembre 192 l'imperatore Commodo viene assassinato.
 Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, fu un monarca saggio ed equilibrato, il suo regno considerato illuminato. Rispettato e benvoluto dal popolo e temuto dalle popolazioni barbare. Penultimo esponente della famiglia degli "Antonini" i cui imperatori passarono alla storia per la loro saggezza ed equilibrio nell'esercizio del potere. Nel 177 associò a se stesso sul trono suo figlio naturale Marco Aurelio Commodo e mai scelta fu più infausta di questa. Padre e figlio, nell'anno 180 "D.C." , erano impegnati nella difesa dei confini settentrionali quando Marco Aurelio morì lasciando il figlio alla solitaria guida del vasto impero. Commodo, contrariamente al padre, non era attratto dagli studi; prediligeva gli spettacoli e gli esercizi fisici. Era crudele e indolente e poco propenso a dedicarsi alla cura e alla crescita di Roma. Inizialmente, nei primi anni di governo, Commodo sembrava voler continuare l'opera del padre, ma ben presto venne fuori la vera natura del personaggio.
Concluse una frettolosa pace con i "Marcomanni" e altre tribù barbare che gli permisero di tornare a Roma dove fu accolto da trionfatore. Una volta a Roma si disinteressò della conduzione politica e militare dell'impero e delegò questi compiti ad elementi di dubbia fama, attenti più al loro tornaconto personale che alle esigenze dello Stato e del popolo. I più famosi furono Saotero, Tarrutieno Paterno e Figidio Perenne che l'imperatore nominò prefetto del pretorio. Alla morte di quest'ultimo, salì al potere un liberto originario della Frigia: Cleandro. Questi, uno dei protetti di Commodo, diventato addirittura console, era un uomo avido e astuto. Ma le liti all'interno della corte dell'imperatore posero presto termine al suo governo e Cleandro finì assassinato come molti nemici di Commodo.
La politica di Commodo, ammesso che abbia avuto una politica, fu quella di "Ridimensionare" il potere dei senatori rompendo così una armonia che costoro avevano raggiunto con la stirpe degli "Antonini" . Ai senatori, ad esempio, fu tolto il comando degli eserciti che furono affidati ad esponenti della "Classe Equestre" . Anche a causa di questa politica nacquero congiure che più di una volta minacciarono la vita dell'imperatore. Ma, visto che non si occupava della vita politica e dell'amministrazione dello Stato, quali erano i passatempi preferiti di Commodo? Come detto aveva una predilezione per gli esercizi fisici e quindi per la lotta, la caccia e, soprattutto, i giochi gladiatori. Spesso e volentieri scendeva nel Colosseo e si cimentava in lotte con gli animali o in scontri con altri gladiatori. Grazie alla sua possente corporatura era convinto di essere la reincarnazione di Ercole e pretendeva di essere trattato come una divinità. Era addirittura arrivato a cambiare il nome dell' "Urbe" in "Colonia Commodiana" . La continua umiliazione della figura imperiale, la disastrosa situazione economica, le rivalità interne alla corte e l'aspro scontro con il senato, erano tutti segnali di un imminente epilogo drammatico del regno di Commodo. Dopo alcuni tentativi a vuoto il complotto riuscì e il gladiatore Narcisso, uno dei suoi favoriti, riuscì a passare le maglie della sicurezza e a strangolare l'imperatore nella vasca da bagno. Dopo 12 anni di regno finì uno dei più feroci e depravati imperatori della storia romana.
Il giorno successivo, 1º gennaio, i congiurati sparsero la voce dell'improvvisa e provvidenziale morte dell'Imperatore per un colpo apoplettico e di come quel fortuito evento avesse evitato appena in tempo il piano di Commodo per assassinare i consoli designati, Quinto Pompeio Sosio Falcone e Gaio Giulio Erucio Claro Vibiano, per poi recarsi in Senato, accompagnato da un gladiatore e vestito egli stesso in abiti da arena, per essere assieme a questi acclamato console per l'ottava volta. Leto ed Eletto si recarono quindi dal Praefectus Urbi Publio Elvio Pertinace, generale e console in carica e collega dell'imperatore defunto, offrendogli la porpora imperiale. Questi, temendo dapprima per la propria vita, si convinse ad accettare solo quando, condotto al Palatino, vide il corpo di Commodo privo di vita.
A Roma, la notizia della morte del Principe spinse il Senato ed il popolo a chiedere che il cadavere fosse trascinato con un uncino e precipitato nel Tevere, così come voleva un'antica usanza per i nemici della Patria.
Pertinace diede tuttavia incarico affinché Commodo fosse segretamente sepolto nel mausoleo di Adriano. Avutane notizia, il Senato dichiarò allora Commodo hostis publicus e ne decretò la damnatio memoriae: venne ripristinato il nome corretto delle istituzioni, mentre le statue e gli altri monumenti eretti dall'Imperatore defunto venivano abbattuti.
Appena due anni dopo tuttavia, nel 195, l'imperatore Settimio Severo, cercando di legittimare il proprio potere ricollegandosi alla dinastia di Marco Aurelio e in aperta contrapposizione con il Senato, riabilitò la memoria di Commodo, ordinando che ne fosse decretata l'apoteosi. Commodo passò quindi dall'essere un nemico dello Stato alla condizione di divus, con un apposito flamine preposto al proprio culto.
Nel 2000 compare il film Il gladiatore, ispirato molto liberamente alla vita di Commodo, in quanto rimane ben poco fedele alle fonti antiche. Lì il ruolo dell'imperatore è impersonato da Joaquin Phoenix. Nella finzione cinematografica la morte di Marco Aurelio avviene per mano di Commodo stesso: Marco morì, invece, molto probabilmente di peste. Per l'aspetto fisico (completamente sbarbato, durante il suo regno aveva invece la barba al pari di suo padre) e alcuni aspetti (ad esempio l'attrazione incestuosa per la sorella) il personaggio di Commodo appare ispirato più alla iconografia di Caligola che a quella che ci è nota tramite statue e monete. Infine, al contrario di come si vede nel film, Commodo non morì nel Colosseo, dopo circa un anno di regno, ma fu assassinato nel suo palazzo dopo dodici anni di principato, dal suo maestro gladiatore.

venerdì 30 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 dicembre. Il 30 dicembre 1896 viene giustiziato Josè Rizal, eroe filippino. Figura nobilissima di idealista, medico, scrittore, poeta, José Rizal si può accostare all'eroe dell'indipendenza cubana e grande poeta in lingua spagnola, José Martí, anche se - forse - rispetto a quest'ultimo fu un intellettuale meno "organico", nel senso gramsciano della parola, e se la sua personalità e le sue esigenze e aspirazioni etiche e politiche appaiono più problematiche e, per certi spetti, contraddittorie. Il suo "Ultimo adiòs", composto in prigione alla vigilia dell'esecuzione capitale, costituisce ancor oggi un classico della letteratura spagnola, e un testo che tutti gli studenti filippini conoscono e che leggono con viva commozione. Il nome di Protasio Rizal y Alonso (o anche Rizal y Mercado) era pressochè sconosciuto al pubblico europeo allorché, nel 1887, apparve a Berlino un libro intitolato Noli me tangere. In esso si descrivevano, con vivida efficacia, gli abusi del governo spagnolo nelle Filippine e, in particolare, il ruolo nefasto assunto dal clero regolare nell'arcipelago del Sud-est asiatico. Il suo autore, un giovane medico filippino di sangue misto, allora ventiseienne, divenne improvvisamente celebre, ma più ancora acquistò risonanza la causa sociale e politica da lui patrocinata. L'opinione pubblica d'Europa e d'America (il libro verrà tradotto in inglese nel 1912 col titolo The Social Cancer, ossia Il cancro sociale), scoprì che esisteva una nazione filippina malgovernata ed esausta, che esisteva un problema filippino. E sia il nome di Rizal che le tematiche da lui sollevate conobbero una ulteriore celebrità quando a Gand, in Belgio, fu pubblicato quattro anni dopo El filibusterismo (nel 1912 in Inghilterra, col titolo The Reign of Greed, ossia Il regno dell'avidità), che era la continuazione del primo romanzo. Questa volta, nel mirino dello scrittore erano inquadrati, in modo particolare, gli ordini religiosi spagnoli nelle Filippine. Il successo fu grandissimo. L'impressione prodotta dai due libri sull'opinione pubblica mondiale fu paragonata a quella provocata da La capanna dello zio Tom circa la presa di coscienza del problema schiavistico negli Stati Uniti d'America, e da Max Havelaar di Multatuli (pseudonimo di Eduard Douves Dekker) circa i foschi retroscena della colonizzazione olandese a Giava e nell'arcipelago indo-malese. Se è esatto quel che disse Metternich a proposito de Le mie prigioni di Silvio Pellico, che un libro, cioè, può far più danno all'oppressore di una battaglia perduta, il giovane medico aveva raggiunto, con la sola forza della sua penna, una gran parte del suo scopo. Delle Filippine, adesso, si parlava nel mondo, e se ne parlava perfino in Spagna, l'occhiuta e sospettosissima madrepatria, che già da tempo teneva d'occhio Rizal per le sue simpatie nazionaliste. Ma chi era José Rizal, il protagonista di questo caso letterario sorto apparentemente dal nulla, in virtù della drammatica urgenza del suo appello? E quali erano le reali condizioni della sua patria, sullo scorcio del XIX secolo? Di tutte le colonie spagnole dell'impero "che non vede mai tramontare il Sole", le Filippine ebbero in sorte il trattamento peggiore. Conquistate intorno al 1571 da Miguel Lopez de Legaspi a scorno dei Portoghesi e respinti, nella prima metà del '600, tutta una serie di tentativi di occupazione degli avidi Olandesi, le isole erano state considerate più o meno come un'appendice dei lontanissimi domini americani della Spagna, fino a che questi si erano sfasciati. La conquista iberica delle Filippine, mai del tutto completata per la fortissima resistenza dei Moros musulmani a Mindanao e nelle Isole Sulu, aveva avuto fin dall'inizio un carattere spiccatamente religioso. La forzata e rapidissima cristianizzazione degli indigeni ad opera di un esercito di frati agostiniani, domenicani, francescani, gesuiti e recolletti produsse una situazione di diretta dipendenza del potere politico da quello religioso. E questo anomalo processo storico fu aggravato dal fatto che la ripartizione delle terre e dei lavoratori indigeni nel sistema tradizionale delle encomiendas, avvantaggiò assai più gli ordini religiosi che non privati cittadini spagnoli. Una volta assommato nelle proprie mani sia il potere spirituale che quello economico, il clero divenne il vero arbitro del sistema coloniale. Il vescovo di Manila esercitava de facto un potere equivalente, se non addirittura superiore, a quello del governatore generale; e la prova ne è che, ogni qual volta quest'ultimo si trovò in conflitto col vescovo finì per soccombere, pur disponendo teoricamente del potere politico-militare. In un caso, nel 1719, si arrivò al punto che il governatore fu ucciso in un tumulto di piazza sobillato e guidato dai frati, perché aveva fatto arrestare il vescovo a causa di una sua grave insubordinazione. All'interno del clero, poi, lo strapotere dei frati finì per provocare una serie di attriti fra questi e l'autorità dello stesso vescovo, al quale arrivarono a negare il diritto di visita pastorale nelle missioni e nelle parrocchie loro affidate, che erano la stragrande maggioranza dell'arcipelago. E benchè, in questo caso, l'autorità episcopale potesse avvantaggiarsi sia dell'appoggio del governatore, sia di quello del papa e dello stesso re di Spagna, furono i frati ad uscire sostanzialmente vittoriosi dalla prova di forza. Di conseguenza, il clero regolare riuscì a conquistarsi una tale indipendenza che giunse a costituire un vero stato entro lo stato esercitando il controllo diretto sulla gran massa della popolazione. Nel XVI e XVII secolo questi frati erano, almeno, animati da un forte zelo missionario: non di rado essi svolsero un ruolo benefico nei confronti degli indigeni, difendendoli dalla rapacità del potere politico. Ma la situazione nel XIX secolo era, ormai, del tutto diversa. Considerato nel suo complesso, il clero regolare spagnolo dava una penosa impressione di avidità, oscurantismo e corruzione. Peggio ancora, esso deliberatamente non fece mai nulla per promuovere la formazione di un clero indigeno. Fin verso il 1850 erano pochissime le parrocchie rette da preti filippini, e se il loro livello di preparazione rimase a lungo molto basso, la colpa era della politica ecclesiastica spagnola che aveva avuto di mira unicamente la perpetuazione del proprio monopolio spirituale. Tale atteggiamento del clero spagnolo fu giustamente sentito dagli indigeni come una vera e propria forma di discriminazione razziale. Di conseguenza, quando - negli ultimi decenni dell'Ottocento - il numero dei preti filippini aumentò, essi costituirono un gruppo ideologicamente cosciente e compatto nel proprio risentimento antispagnolo. Dal punto di vista economico, le Filippine furono le vittime del disastroso sommarsi dei peggiori aspetti del colonialismo spagnolo. I conquistatori non introdussero una vera classe di proprietari terrieri, come in Messico e nel Perù; i conquistadores delle Filippine erano i rifiuti della corrispondente classe americana, sia moralmente che materialmente del tutto incapaci di assumere il controllo dell'economia. Il loro ruolo fu quindi assunto, come si è detto, dagli ordini religiosi. Quanto agli indigeni, essi furono ripartiti tra le encomiendas e privati di ogni forma di partecipazione all'amministrazione civile. Solo a livello di villaggio la Spagna si servì dei cacicchi quali intermediari fra i governatori bianchi e la massa della popolazione. Ma i cacicchi, prima della conquista spagnola, erano stati unicamente dei capi-villaggio senza particolari privilegi economici; la Spagna ne fece una classe di proprietari terrieri indigeni, a spese delle terre delle comunità rurali; una classe che, naturalmente era legata a doppio filo al potere coloniale. E poiché essi e i loro familiari erano i soli indigeni che avessero la prospettiva di accedere a una formazione culturale di tipo europeo, da qui ebbe origine la secolare divisione tra la massa del popolo filippino e le sue élites intellettuali. Le condizioni materiali di vita degli indigeni furono costantemente gravose sotto il regime coloniale. Nelle piantagioni, essi conducevano una esistenza miserabile, costretti a cedere metà del raccolto ai latifondisti e a versar loro anche gran parte dell'altra metà, per pagare i debiti contratti con l'acquisto di sementi e attrezzi agricoli. La Spagna non fece assolutamente nulla per promuovere un razionale sfuttamento del suolo, che andasse al di là di una economia di puro sfruttamento estensivo: essa si limitò, nella prima fase, a vivere di rendita sulla spoliazione dell'aristocrazia locale; e, in seguito, delegò la gestione della terra agli ordini religiosi, ai caicchi e ai pochi encomienderos creoli. Sino alla fine del XIX secolo - tanto durò il dominio politico spagnolo - solo una modesta percentuale delle terre arabili dell'arcipelago era stata messa a coltura, e anche questa percentuale trascinava una vita stentata, basata su sistemi quanto mai rudimentali. L'unica maniera di controbilanciare la stagnazione dell'economia causata dall'arretratezza agricola, sarebbe stata quella di far leva sul commercio, dando impulso agli scambi con la Cina e con le Indie Orientali olandesi; ma, anche qui, il colonialismo spagnolo diede prova di una straordinaria miopia. Per circa due secoli e mezzo, il commercio delle Filippine fu aggiogato al carro degli interessi messicani, e dirottato dai suoi naturali mercati estremo-orientali. Ma poiché perfino questo commercio transpacifico fra Acapulco e Manila (essenzialmente seta e spezie contro oro e argento) ledeva il monopolio metropolitano, esso dal 1593 fu limitato a uno o due soli galeoni annuali. E tutto il commercio al minuto fu lasciato nelle mani dei Cinesi, che nell'arcipelago finirono per diventare i soli detentori di ogni attività commerciale, impedendo la formazione di una piccola e media borghesia indigena. Gli Spagnoli disprezzavano i Cinesi di tutto cuore, ma trovavano conveniente lasciar loro il ruolo di agenti del piccolo commercio; salvo poi incanalare gli scoppi ricorrenti di furore degli indigeni contro di essi nei soliti pogrom, più o meno come facevano le autorità zariste con la piccola borghesia ebraica in Russia e in Polonia, nella stessa epoca. Una tale valvola di sfogo del frustrato sentimento nazionale era quanto mai necessaria per mantenere almeno il controllo dei centri commerciali, giacchè nelle campagne, e specialmente nelle isole più periferiche, il dominio della Spagna non fu mai saldo. All'esterno era minacciato dalle scorrerie dei pirati Moros che conducevano una vera guerra santa anticristiana; all'interno, da innumerevoli rivolte agrarie, tutte però a carattere locale e scarsamente coscienti sul piano politico, sicché poterono esser domate ogni volta senza eccessivo sforzo. È del resto significativo il fatto che la Spagna - a differenza, ad esempio, di quanto dovette fare a Cuba nella seconda metà dell'800 - non ebbe mai bisogno di tenere consistenti forze armate nelle Filippine. A mantenere l'ordine bastavano le milizie indigene. In questo caso la geografia e le composizione etnica frammenate dell'arcipelago, che non avevano mai favorito il sorgere di un sentimento nazionale unitario, giocarono un ruolo decisivo a vantaggio dei dominatori. Quanto ai pirati musulmani e agli altri predoni europei, Inglesi e Olandesi, essi erano tenuti in rispetto dalla flotta. Ai primi dell'800, e specialmente dopo il crollo dell'impero spagnolo nelle Americhe, finalmente le autorità di Madrid si convinsero a riportare il commercio delle Filippine nella sua rotta naturale, quella diretta in Spagna per la via del Capo di Buona Speranza. Però questi tentativi non godettero mai di un sufficiente incentivo finanziario, e una Compagnia commerciale per le Filippine, creata in Spagna con la diretta partecipazione del sovrano, finì per fare bancarotta. A quel punto furono le nazioni economicamente più progredite, e specialmente la Gran Bretagna, ad avvantaggiarsi della fine del monopolio commerciale imposto alle isole dalla Spagna per circa tre secoli. Manila divenne un ottimo centro di affari per gli agenti commerciali inglesi, americani e tedeschi e, per la prima volta, l'aristocrazia indigena sorta dal cacicchismo - che qui svolgeva il ruolo politico-culturale della inesistente borghesia indigena - venne a contatto con le idee occidentali di democrazia e libertà. Quando, poi, la situazione politica interna della Spagna , fra il 1868 e il 1870, conobbe una breve parentesi di liberalismo, le isole conobbero un significativo rafforzamento della coscienza nazionale, cui pose termine la brusca reazione del 1871. Tuttavia in quella breve stagione le Filippine avevano vissuto l'esperienza di un governatore generale come De La Torre; e tale esperienza non venne più dimenticata, nonostante i processi e le fucilazioni che accompagnarono la restaurazione di un dominio coloniale di vecchio stampo. La presa di coscienza anti-coloniale era obiettivamente favorita da una circostanza, una delle pochissime e forse l'unica veramente positiva che si dovesse alla dominazione spagnola: l'esistenza di un sistema scolastico relativamente sviluppato, il migliore che - alla fine dell'ottocento - esistesse in qualunque altra colonia europea dell'Asia orientale. Dal 1611 Manila ospitava la prima università dell'Estremo Oriente - quella di San Tomàs, fondata dai padri domenicani; e nel corso del XIX secolo la Spagna compì, effettivamente, un grosso sforzo per diffondere l'istruzione pubblica nell'arcipelago. Il risultato fu che, a partire dal 1870 circa, le Filippine erano il solo paese dell'Asia ove una aliquota considerevole della popolazione indigena riceveva una istruzione primaria e dove non solo i figli, ma anche le figlie (novità assoluta) dei benestanti potevano condurre gli studi superiori e universitari con una frequenza notevole. Ciononostante, molti giovani filippini preferivano recarsi, dopo i corsi superiori, a frequentare l'università in Europa, non di rado nella stessa Spagna. Colà essi vennero a contatto in maniera diretta, cosa mai accaduta in passato, con le fonti stesse della cultura democratica dell'Ottocento, dando così un ulteriore impulso al nascente nazionalismo filippino. Nel panorama culturale dell'arcipelago si formò pertanto il fenomeno degli ilustrados, ossia degli intellettuali che provenivano dalla ristretta élite indigena, avevano una conoscenza solo indiretta delle esigenze sociali della gran massa dei loro compatrioti, e nutrivano un complesso rapporto di amore-odio verso la Spagna, vista alternativamente come la madrepatria che aveva permesso la loro crescita economica e culturale, o come la matrigna che non sapeva più che farsene di questi suoi figli divenuti troppo emancipati e indipendenti, e perciò politicamente sospetti. Se, però, erano malvisti dalla Spagna, gli ilustrados per la stessa natura della intellighenzia filippina non costituivano un gruppo omogeneo, e le loro vedute politiche a proposito della emancipazione nazionale risentivano di una certa confusione. Alcuni di essi sostenevano la necessità di riforme amministrative, accompagnate da una più stretta unione con la Spagna, di cui le Filippine avrebbero dovuto diventare una provincia, come quelle metropolitane. Erano piuttosto pochi quelli che, invece, avevano già chiara l'impossibilità di un riscatto economico e sociale senza passare attraverso il nodo cruciale di una rottura definitiva con l'antica madrepatria. La punta di diamante del movimento degli ilustrados era costituita da alcuni intellettuali - tra i quali Rizal e Marcelo del Pilar erano dei più attivi - che formavano il cosiddetto "movimento di propaganda". Sia Rizal che del Pilar erano scrittori e servivano la causa del riscatto filippino essenzialmente con la loro attività di pubblicisti e romanzieri. Il fatto che del Pilar scrivesse in lingua tagalog, una delle principali dell'arcipelago, assurta oggi a lingua nazionale, mentre Rizal adoperava lo spagnolo, è già un indicatore significativo della loro diversità ideologica e del loro differente grado di coscientizzazione politico-culturale. Colui che sarebbe diventato il simbolo della rinascita nazionale filippina, José Protasio Rizal, nacque il 19 giugno 1861 a Calamba, nell'isola di Luzon e non lontano dalla capitale Manila, da una famiglia di proprietari terrieri. Nelle sue vene scorreva sangue spagnolo, cinese e filippino. Suo padre era un facoltoso piantatore di canna da zucchero e sua madre, Teodora Alonso, era una delle donne più colte di tutto l'arcipelago. Pare che ella abbia esercitato un influsso preponderante sugli orientamenti culturali del figlio e sulla sua precoce inclinazione per le manifestazioni artistiche. All'inizio del 1872, concluso l'esperimento liberale del governatore De La Torre, le autorità diedero un nuovo giro di vite, ripristinarono la censura sulla stampa e mandarono alla garrota, fra l'altro, tre sacerdoti filippini, sotto l'imputazione di aver partecipato a un complotto rivoluzionario. L'accusa era totalmente infondata e uno storico moderno ha definito l'esecuzione di quei tre religiosi "un assassinio giudiziario", tanto più odioso in quanto era evidente che si era voluto colpire in essi la libertà di opinione e di parola, e cioè le loro simpatie liberali. José Rizal non aveva ancora compiuto undici anni: tale fu il clima politico nel quale crebbe affacciandosi alla giovinezza. A Manila frequentò l'Ateneo e poi l'Università di san Tomàs, e intanto diede i primi saggi della sua inclinazione artistica, scrivendo poesie e modellando sculture. Nel 1882 partì per la Spagna per proseguire i suoi studi, e all'Università di Madrid seguì corsi di medicina e arti liberali, confermando le doti brillanti della sua intelligenza e l'eclettismo dei suoi interessi culturali. Fu a quell'epoca che si mise in evidenza come il più attivo nel piccolo gruppo degli studenti filippini residenti in Spagna, veso il quale i compagni guardavano come al loro capo naturale. Con giovanile entusiasmo non si peritava di sostenere la causa dell'emancipazione della sua patria, emancipazione che doveva essere al tempo stesso sociale e culturale. Non parlava di indipendenza politica e non ne parlò mai nemmeno in seguito. La Spagna avrebbe dato prova di saggezza se avesse ascoltato la voce del nazionalismo filippino moderato, con il quale esistevano dei reali punti di convergenza. Invece, come a suo tempo il duca d'Alba nei confronti di Egmont e di Horn, essa non seppe cogliere questa sua ultima occasione e preferì imboccare la strada della repressione più ottusa. Conseguita la laurea in medicina, Rizal lasciò Madrid ma non fece ritorno, per il momento, nelle Filippine, dedicandosi invece a una lunga serie di viaggi di studio attraverso l'Europa. Seguì corsi di medicina alle università di Parigi e di Heidelberg, e contemporaneamente frequentò corsi di filosofia e di etnologia. In tal modo ampliò i suoi orizzonti al punto che, in quegli anni, benchè fosse appena venticinquenne, era probabilmente uno dei più colti, se non il più colto, dei suoi connazionali. Il successo letterario venne, come si è detto, nel 1887, con la pubblicazione - in Germania - di Noli me tangere; e fu un successo di scandalo. In quel libro Rizal non prendeva di mira tanto la Spagna, quanto l'opera nefasta svolta dagli ordini religiosi e specialmente da agostiniani, francescani e domenicani. Fedele al suo punto di vista iniziale - una fedeltà che avrebbe pagato a caro prezzo - era tuttavia convinto che il governo spagnolo sarebbe stato ancora capace di una riforma amministrativa e sociale. Ma prima, secondo lui, era necessario estromettere i frati dalle Filippine, o almeno privarli delle basi economiche del loro strapotere. Erano loro i peggiori nemici del popolo filippino: e questa tesi venne ribadita nel 1891 dal secondo romanzo, El filibusterismo. Fu a quell'epoca, se non prima, che il governo di Madrid segnò sul proprio libro nero il nome del giovane medico, un po' romantico e idealista, come quello di un pericoloso sovversivo. Così, quando Rizal concluse il suo giro per le università europee e tornò a Manila - siamo ancora nel 1887-, pur non subendo un provvedimento ufficiale di esilio si accorse che l'unica maniera per evitare ritorsioni contro la sua famiglia era quella di lasciare definitivamente le Filippine. Allora decise di ritornare in Europa. Per parecchi anni scrisse una gran quantità di articoli per il giornale ufficiale del nazionalismo filippino, La solidaridad (La solidarietà), fondato a Barcellona da Lopez Jaena e poi trasferitosi a Madrid. Nel 1895 il giornale cessò per sempre le sue pubblicazioni, non per l'intervento della polizia spagnola ma per mancanza di fondi. È possibile che a tale sorte abbia contribuito il suo programma moderato, tuttavia il fatto che esso venne stampato pubblicamente per sei anni proprio in Spagna, dimostra la buona fede del "gruppo di propaganda" e il suo sincero desiderio di una riforma di governo che vedesse lealmente collaborare le autorità spagnole e gli intellettuali filippini. L'utopismo di questa impostazione derivava dal fatto che, sin dal tempo delle sua affermazione nelle Filippine, il potere politico spagnolo si era sostenuto a vicenda con quello religioso e che scalzare quest'ultimo era adesso difficile, non solo perché aveva messo profonde radici ma anche perché ciò avrebbe provocato un fatale indebolimento dello stesso potere politico. La loro sorte era così strettamente legata che essi dovevano mantenersi insieme, o insieme perire. Dalle colonne de La Solidaridad, con tenacia e coraggio, Rizal sostenne questo impossibile programma politico fino al 1892, allorché lasciò nuovamente l'Europa. Bisogna comunque riconoscergli il merito di aver fatto molto per fornire una base ideologica e politica, ma soprattutto culturale, al nascente Risorgimento filippino. Tra l'altro, nel 1890 commentò e fece pubblicare l'opera di Antonio Morgas, Sucesos de las Islas Filipinas, nella quale si ricordava la peculiarità e la ricchezza della storia filippina, prima della conquista ad opera degli Spagnoli. Ciò equivaleva a un preciso programma ideologico: favorire la riappropriazione della propria storia e della propria cultura da parte del popolo filippino, dopo il plurisecolare sforzo dei frati per cancellarne anche il solo ricordo. Ma poiché operava in un ambito strettamente culturale, e per di più lontano dalla sua patria, Rizal non ebbe una grande influenza sulla formazione della coscienza nazionale tra le masse agricole ignoranti e malnutrite; questo ruolo gli toccò in sorte dopo la morte, quando la sua figura divenne il simbolo del riscatto nazionale - come quella di José Martì per l'isola di Cuba; o, se si vuole, come quella di Mazzini per l'Italia. Ma ciò sarebbe avvenuto non senza una fondamentale ambiguità, poiché trasformare in simbolo dell'indipendenza un uomo che non aveva mai parlato di indipendenza, tradisce una strumentalizzazione politica troppo scoperta. L'opera più importante svolta da Rizal in vita non fu tanto direttamente indirizzata verso la sua patria, bensì nell'eco che seppe suscitare sulla questione filippina presso l'opinione pubblica internazionale. Da questo punto di vista nessuno altro Filippino giovò quanto lui alla causa nazionale: né letterati come Jaena e del Pilar, né politici come Aguinaldo e Bonifacio. È probabile che la scelta di abbandonare il tagalog, per scrivere i suoi libri e i suoi articoli in spagnolo - una lingua a diffusione mondiale - abbia risposto, in Rizal, a un ben preciso calcolo di natura politica, e non solamente al moderatismo delle sue posizioni, alieno da una rottura definitiva con la madrepatria iberica. Nel 1892 la sua attività di scrittore e di propagandista, in Europa, fu bruscamente troncata dalla notizia che in patria la situazione era precipitata. La tenuta paterna di Calamba era stata espropriata a vantaggio dei domenicani; e suo padre e le sue sorelle - ai quali, come si è visto, era molto legato - erano stati cacciati di casa. Con la generosità propria del suo carattere, sia per rendersi conto di persona della situazione, sia per placare, eventualmente, il governo spagnolo attirando su di sé le rappresaglie, immediatamente s’imbarcò per le Filippine e fece ritorno a Manila. Quasi appena arrivato, si gettò nuovamente nell'attività politica e fondò la Liga Filipina, un'effimera associazione che non sopravvisse alla sua morte e i cui metodi di lotta erano rigorosamente pacifici. I punti cardinali del suo programma erano l'equiparazione delle Filippine alle altre province spagnole, l'eguaglianza giuridica di Filippini e Spagnoli, la libertà di stampa e di associazione e, soprattutto, la sostituzione del clero regolare spagnolo con il clero secolare indigeno nelle parrocchie. Tanto fu sufficiente perché le autorità lo facessero arrestare appena pochi giorni dopo, e mandare al confino a Dapitan, nella lontana isola di Mindanao. Rizal trascorse a Mindanao quasi tutta la restante parte della sua vita. In quei quattro anni scarsi ebbe ancora il tempo di fondare una scuola, un ospedale e di proseguire con passione le sue ricerche mediche. Nel luglio 1896 i capi di una organizzazione segreta sorta nel frattempo, con un programma bren più radicale, il Katipunan, trovarono il modo di entrare in contatto con lui per chiedergli consiglio. Ciò dimostra il prestigio che Rizal si era ormai acquistato anche presso uomini che, come Andrés Bonifacio, principale animatore del Katipunan, non credevano alle riforme ma pensavano apertamente alla lotta armata. Rizal, comunque, rispose - in linea con tutto il suo pensiero politico - che i tempi non gli sembravano maturi per passare a una rivoluzione; che il popolo non era pronto; e che bisognava, casomai, lavorare ancora per parecchi anni, onde preparare il terreno a un'azione che avesse delle prospettive di successo. Questo fu l'ultimo contributo che Rizal dette, in vita, al processo di emancipazione della sua patria. Un mese dopo, per prevenire le autorità spagnole che erano venute in possesso dei piani insurrezionali, il Katipunan lanciò l'attacco. La rivoluzione dilagò da un'isola all'altra, e scosse dalle fondamenta, come mai era accaduto in passato, il dominio coloniale in tutto l'arcipelago. Nel frattempo Rizal aveva fatto domanda alle autorità per potersi imbarcare e raggiungere, via Spagna, l'isola di Cuba. Il suo scopo non era certamente quello di unirsi all'esercito spagnolo, colà impegnato per domare la rivolta dei guerriglieri indipendentisti, come un qualsiasi mercenario - come pure è stato scritto. Piuttosto, pare che egli intendesse prestare la sua qualificata esperienza di medico e di studioso per combattere la micidiale epidemia di febbre gialla, che infuriava a Cuba in quel momento. Il permesso di partire gli venne accordato, ma, nel frattempo, lo scoppio della rivoluzione nelle Filippine aveva deciso il suo destino. Così, quando arrivò in Spagna, non solo non ebbe l'autorizzazione a proseguire per l'isola di Cuba, ma fu arrestato a Barcellona sotto l'accusa di cospirazione rivoluzionaria e rinviato, come prigioniero, a Manila. Il processo a suo carico sotto la grave accusa di alto tradimento fu istruito nella capitale filippina e si tenne per via direttissima. Nelle colonie spagnole, dove il corso della giustizia era tradizionalmente di una lentezza esasperante, questa volta non si volle perder tempo. Così, si giunse alla sentenza a tempo di record, entro la fine dell'anno. Come nel caso dei tre sacerdoti nel 1872, la condanna a morte di Rizal si configurò né più né meno che come un deliberato assassinio giudiziario. Non vi erano prove che egli avesse avuto la benché minima parte nella preparazione della rivolta, per la buona ragione che non aveva commesso il fatto. Non faceva nemmeno parte del Katipunan e non ne condivideva gli obiettivi né la strategia. Ma il potere coloniale, messo alle strette dall'insurrezione popolare come mai era accaduto negli oltre trecento anni del suo dominio sulle Filippine, voleva dare a ogni costo un monito di tipo terroristico. Scelse come vittima, per darlo, la persona forse meno adatta, e credette politica intelligente trattare un riformatore moderato come un pericolosissimo rivoluzionario. Fu un errore grossolano, perché nessuno meglio del pacifista Rizal si prestava a impersonare il ruolo di martire della libertà filippina. Inoltre, con la stolida brutalità di cui diede prova, il regime coloniale convinse anche i nazionalisti più moderati che l'unica maniera di risolvere il problema filippino era quella di far ricorso alle armi. La Spagna è sempre stata propensa ad accusare le sue ex colonie di "ingratitudine", manifestando una singolare incomprensione dei motivi della loro lotta per l'indipendenza. Di una tale "ingratitudine" parla anche un'iscrizione ai piedi della statua di Cristoforo Colombo a Siviglia, prova tangibile del fatto che la Spagna non ha mai potuto comprendere come i suoi vecchi sudditi d'oltremare, beneficati dei doni preziosi del cristianesimo e della "civiltà", siano stati capaci di mostrarsi tanto disconoscenti da respingere il suo "materno" abbraccio. La realtà è che la Spagna, nella sua politica coloniale, manifestò la stessa gretta testardaggine che l'aveva indotta a dissanguarsi nella crociata antiprotestante in Europa, nel XVI e XVII secolo, senza mai un lampo di ravvedimento; e che, alla fine del XIX, era troppo decrepita e debole per non considerare con terrore anche i più ragionevoli appelli riformisti da parte delle sue ultime colonie - le Filippine, Cuba e Portorico (quelle africane essendo troppo arretrate, sotto ogni aspetto, per aver elaborato un processo analogo). In un certo senso, stroncando con violenza dissennata l'ala moderata del nazionalismo filippino, si può dire che essa gettò con le proprie mani il grosso della popolazione nelle braccia dei rivoluzionari. José Rizal affrontò il plotone d'esecuzione, a Manila, il 30 dicembre 1896, all'età di trentacinque anni. La vigilia della fine, rinchiuso nella fortezza di Santiago, aveva scritto il suo testamento spirituale affidandolo ai versi di Ultimo adiós, capolavoro assoluto della poesia in lingua spagnola. Da quel momento il suo nome divenne il grido di battaglia della rivoluzione filippina; e ancor oggi, nelle scuole di quel paese, si insegna alla gioventù a salutare in lui il precursore dell'indipendenza nazionale. Un grandioso monumento commemorativo, con la sua statua, è vigilato in permanenza da una sentinella armata. Rizal era un intellettuale romantico e un riformista di tipo ottocentesco, e non lasciò alcuna precisa eredità politica. Nel corso del 1897, pressato dalla violenza delle repressione militare spagnola, il Katipunan si spezzò. Il suo vecchio leader, Andrés Bonifacio, che era un uomo del popolo dalle umili origini che, con sacrificio personale, si era fatto una vasta cultura, fu messo in minoranza da Emilio Aguinaldo, che aveva maggiori doti militari ma che era un rappresentante del cacicchismo, ossia degli interessi dell'aristocrazia fondiaria indigena. Aguinaldo venne riconosciuto, nel marzo, presidente della Repubblica delle Filippine e, qualche tempo dopo, si sbarazzò di Bonifacio mandandolo davanti al plotone d'esecuzione, reo di aver tentato di resistergli. Da quel momento fu chiaro che l'obiettivo dell'indipendenza, se anche fosse stato raggiunto, inevitabilmente sarebbe stato svuotato di ogni serio obiettivo di riforma sociale. L'eliminazione fisica di Bonifacio, sostenitore della necessità di espropriare i latifondi a favore delle masse rurali, era del resto il naturale punto d'arrivo di un secolare processo di estraniamento reciproco fra elites indigene economiche e intellettuali e la grande maggioranza della popolazione, costretta a lavorare nella miseria e in condizioni giuridiche semi-servili. Verso la fine del 1897 le autorità spagnole avevano spento gli ultimi focolai di rivolta e costretto Aguinaldo e i suoi amici a rifugiarsi ad Hong Komg. Da lì, dapprima Aguinaldo tentò di intavolare delle ambigue trattative con il potere coloniale spagnolo, riuscendo ad ottenere denaro per acquistare armi, in cambio di vaghe promesse non mantenute. In un secondo momento, Aguinaldo entrò in contatto col commodoro statunitense Dewey, comandante della squadra navale americana dell'Estremo Oriente. Così, quando - nel 1898 - scoppiò la guerra ispano-americana, egli fu svelto a cogliere l'occasione e rientrò nelle Filippine con l'aiuto di Dewey, riaccendendo il fuoco sopito dell'insurrezione. Il resto è storia nota. L'alleanza americana non era che il preludio al passaggio delle Filippine sotto una nuova dominazione coloniale. Una volta sconfitta la Spagna, gli Stati Uniti si rimangiarono senza rimorsi tutte le promesse e riuscirono perfino a impedire che i patrioti, dopo aver liberato praticamente tutto l'arcipelago, entrassero nella capitale. In tal modo le Filippine passarono dalla Spagna agli Stati Uniti contro il pagamento di 20 milioni di dollari, e addirittura 70.000 marines furono mandati per ridurre Aguinaldo alla ragione. Vi riuscirono, dopo una sanguinosa guerriglia durata circa tre anni, nel 1901. A proposito della coerenza etico-politica dell’ex “presidente” filippino basterà dire che, dopo essere stato liberato dagli Americani in seguito al suo giuramento di fedeltà ai nuovi padroni, durante l’occupazione giapponese del 1941-44 passò al servizio di Tokyo, collaborando con gli invasori. Catturato di nuovo dagli Americani nel 1945, di nuovo fu perdonato e, nel 1950, entrò a far parte del governo delle Filippine indipendenti, in seno al quale si adoperò per il ristabilimento di buone relazioni con gli Stati Uniti. Le Filippine sono ancor oggi una pedina nel gioco del neocolonialismo americano, governate o meglio sgovernate per circa vent’anni da un erede della tradizione cacicca, Ferdinand Marcos. La sua brutale dittatura ha eliminato fisicamente, nell’agosto del 1983, il capo dell’opposizione Benigno Aquino, uomo integro e amatissimo, più o meno come Aguinaldo aveva fatto eliminare, a suo tempo, Andrés Bonifacio. Il riscatto politico e sociale delle masse filippine non è mai avvenuto, neanche dopo la fine della truce e corrotta dittatura di Marcos e di sua moglie Imelda e il ritorno alla democrazia con la vedova di Aquino, Cory; e alla miseria dei contadini si è aggiunta quella del proletariato urbano, creato a ritmo vertiginoso dall’americanizzazione della società filippina. Manila continua ad essere, ancor oggi, probabilmente la città più corrotta dell’Asia (come l’Avana lo era dei Caraibi al tempo della dittatura di Fulgencio Batista), ove fioriscono le mafie più arroganti e si fa commercio dei vizi più turpi. Né la fama di corruzione risparmia lo stesso governo filippino. Milioni di dollari di “aiuti” americani sono finiti sfacciatamente nelle tasche di ministri e generali. E sulle montagne di Luzon ha imperversato a lungo la guerriglia organizzata dal Kuk, il movimento comunista locale, che ha goduto di un discreto seguito fra le popoplazioni rurali. A ciò si aggiunga la guerriglia, ora molto più cruenta e pericolosa, scatenata dagli indipendentisti islamici nel Sud dell’arcipelago a partire dal 1971, che ha conosciuto momenti di estrema violenza e che sembra ben lontana dall’essere domata. Si calcola che essa sia costata, fino a questo momento, non meno di 150.000 morti. Certamente non era questo il futuro che aveva sognato per la sua patria l’idealista José Rizal.

giovedì 29 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 dicembre.
Il 29 dicembre 1998 due capi dei Khmer rossi chiedono pubblicamente scusa per il genocidio cambogiano degli anni settanta, che si stima abbia provocato oltre un milione di vittime.
Il regime dei Khmer rossi è considerato come uno dei più sanguinari del XX secolo.
Dal 1975 al 1979, in soli 3 anni e 8 mesi di governo, il Partito Comunista di Kampuchea provocò la morte di un numero imprecisato di persone; certamente più di un milione, qualche storico arriva ad ipotizzarne quasi tre, considerando esecuzioni, carestie e morti per mancanza di cure mediche. Se consideriamo che la popolazione cambogiana allora arrivava a 7 milioni, è possibile affermare che il regime dei Khmer rossi è quello che ha causato più morti tra tutti quelli del XX secolo, non solo a causa delle esecuzioni politiche, ma anche a causa dei lavori forzati, dell’evacuazione delle città attraverso la giungla compiuta senza alcun mezzo di trasporto e delle pessime condizioni igieniche nelle quali i cambogiani erano costretti a sopravvivere.
Il fine del Partito Comunista di Kampuchea era “purificare” la Cambogia da ogni contaminazione occidentale. Per fare questo, i Khmer rossi non si limitarono a isolare la Cambogia dal resto del mondo, ma decisero di cancellare ogni aspetto della Cambogia pre-rivoluzione che poteva contenere “tracce” della cultura occidentale. Abolirono la moneta, collettivizzarono l’economia, desertificarono la capitale Phnom Penh, e tutte le altre città. Smantellarono religione, sistema scolastico e abolirono tutte le professioni borghesi. Imposero ai cambogiani una nuova identità, in nome dell’uguaglianza esplicitata da una sorta di divisa imposta a tutti: un “sampot” nero.
Con i Khmer rossi assistiamo al tentativo di materializzare un’utopia che contiene in sé l’idea del genocidio. Nella Cambogia dei Khmer rossi c’è il completo rigetto della civiltà urbana più siamese, più cinese, più occidentale che puramente Khmer; il rigetto dell’antico ordine assimilato all’ordine straniero. Fare “tabula rasa” attraverso “qualsiasi mezzo” è l’intento del “partito dei puri” in questione, quello dei Khmer rossi. Per sopperire a qualsiasi mancanza di “consenso rivoluzionario” si ricorreva alla violenza più estrema.
La tragedia del popolo cambogiano è rimasta per lungo tempo in secondo piano nel panorama internazionale. Solo nel 1997, un anno prima della morte di Pol Pot, il Khmer Rouge Trial Task Force stabilì di creare una struttura legale e giudiziaria con lo scopo di processare i leader rimanenti dei Khmer rossi per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità.
Il primo processo a carico di uno dei responsabili del genocidio in Cambogia si è svolto a Phnom Pen nel febbraio 2009. Il primo dirigente del Partito Comunista di Kampuchea a sedere sul banco degli imputati fu Kaing Guek Eav, conosciuto anche col nome di guerra Deuch.
Deuch fu considerato direttamente responsabile della morte di 15-20 mila persone che sono transitate tra il 1975 ed il 1979 dalla prigione di Tuol Sleng o S-21, della quale era il direttore, e per questo fu condannato a 35 anni di carcere.
Il 27 giugno 2011 è cominciato il processo ad altri quattro leader membri del Kena Mocchim , il Comitato Centrale dei Khmer rossi:
-Nuon Chea, il “Fratello Numero 2”, Vice-Capo dell'Alto Comando dei Khmer Rossi;
-Khieu Samphan, il “Fratello Numero 4”, Capo di Stato della Kampuchea Democratica e Primo Ministro del governo Khmer;
-Ieng Sary, il “Fratello Numero 3”, cognato di Pol Pot e Ministro degli Affari Esteri della Kampuchea Democratica, fu responsabile di alcuni dei cosiddetti campi di rieducazione;
-Ieng Thirith, moglie di Ieng Sary, responsabile della “Alleanza della Gioventù democratica Khmer”, formata da ragazzini totalmente devoti al regime, usata da Pol Pot nel controllo dell’apparato del Partito.
Nel 2014 Nuon Chea e Khiey Samphan sono stati condannati all'ergastolo per crimini contro l'umanità e nel 2018 la pena è stata ribadita anche per genocidio.

mercoledì 28 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 dicembre.
Il 28 dicembre 1879 si ebbe il cosiddetto "disastro del Tay Bridge".
Il disastro del Tay Bridge fu un catastrofico evento causato da un cedimento strutturale che avvenne il 28 dicembre 1879, quando il primo ponte sul Tay, sul Firth of Tay, tra Dundee e Wormit in Scozia, cedette durante un violenta tempesta di pioggia e vento mentre passava un treno.
Il ponte, all'epoca il più lungo del mondo, era stato progettato dal noto ingegnere ferroviario Thomas Bouch. Lungo 2 miglia (oltre 3 km) era stato inaugurato neppure 19 mesi prima, il 1° giugno 1878, con una grande e pomposa cerimonia. Durante una violenta tempesta la sera del 28 dicembre 1879, la sezione centrale del ponte, conosciuta come "travate alte", collassò, trascinando nel crollo un treno con 6 carrozze che percorreva la sua linea unica e che finì con tutto il suo carico umano nelle fredde acque dell'estuario del Tay. Vi furono 75 vittime, ovvero tutti coloro che erano a bordo tra passeggeri ed equipaggio. Solo 48 corpi furono recuperati.
La tempesta di vento della sera del 28 dicembre 1879 vide raffiche fino a forza 10, forse anche fino a forza 11, da ovest/sudovest investire il ponte perpendicolarmente scendendo lungo il corso del Tay. I venti quella sera furono così violenti che l'alta torre del Kilchurn Castle, sul Loch Awe, crollò mentre centinaia di scozzesi videro i tetti delle loro case scoperchiati.
Gli investigatori determinarono subito molti difetti nella progettazione del Tay Bridge, nei materiali e nei processi che contribuirono al crollo. Bouch dichiarò di aver ricevuto informazioni errate riguardo il carico del vento, ma le sue dichiarazioni successive indicarono che in realtà non prese nessun accorgimento per il carico del vento. Fu consigliato a Bouch che non era necessario calcolare il carico del vento per travate più corte di 200 piedi (61 metri), e non procedette al calcolo per il nuovo progetto (problemi tecnici costrinsero infatti a rivedere la progettazione quando già si era iniziata la costruzione del manufatto) con travature più lunghe. La sezione centrale del ponte, dove la ferrovia correva all'interno delle travature alte invece che al di sopra di quelle inferiori, per permettere un passaggio alto abbastanza per l'alberatura navale, era invece, con il suo baricentro alto, potenzialmente molto vulnerabile a venti in quota.
Sembra che né Bouch né gli appaltatori abbiano regolarmente visitato la fonderia sul posto dove veniva riciclato il ferro del precedente ponte parzialmente costruito. La ghisa cilindrica delle colonne che sostenevano la tredicesima campata del ponte, lunga 75 metri, era di scarsa qualità. Le indagini permisero di stabilire che le colate imperfette venivano contraffatte ai collaudi, anche essi successivamente valutati come inadeguati.
La tesi che gli ultimi vagoni vennero sbalzati dalla linea e colpirono le travature, causando il collasso, fu avanzata da Bouch in sua difesa. Fu rigettata dall'inchiesta ufficiale che ritenne che tale ipotesi non potesse spiegare come un ponte potesse essere così debole da collassare a causa di un solo deragliamento. Tale ipotesi non fu inoltre neanche in grado di fornire una spiegazione per il collasso di un tratto di quasi mezzo chilometro.
La locomotiva NBR 224, costruita da Thomas Wheatley presso le fonderie Cowlairs, sopravvisse al disastro, fu recuperata dal fiume e riparata. Rimase in servizio fino al 1919, con il soprannome di "The Diver" (la Tuffatrice). A causa del disastro nel quale fu coinvolta molti conducenti superstiziosi si rifiutarono in seguito di guidarla attraverso il nuovo ponte ricostruito. Thomas Bouch morì, a soli 58 anni, 10 mesi dopo la tragedia, il 30 ottobre 1880.
Già nel 1883 iniziarono i lavori per il nuovo ponte, questa volta a doppio binario, che fu costruito a breve distanza dal primo e inaugurato il 13 luglio 1887. Questo ponte è tuttora in esercizio. Il 28 gennaio 2002, per la prima volta, la circolazione dei treni sul ponte fu interrotta precauzionalmente a causa dell'imperversare di una violenta tempesta di vento, con raffica massima a 105 miglia orarie.

martedì 27 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 dicembre.
Il 27 dicembre 537 viene consacrata a Istambul, allora Costantinopoli, la chiesa di Santa Sofia.
Istanbul è una città con un'ineguagliabile patrimonio storico ed architettonico, lo si deve ad  alcuni monumenti in particolare, tra cui quello di  Santa Sofia. Riduttivo chiamarla basilica, moschea o museo, perché come dimostrano i nomi con cui è oggi conosciuta nel mondo, è questo un luogo che raccoglie in sé molto più e che nella storia ha conosciuto una moltitudine di esperienze.
Arrivati nel quartiere di Sultanahmet, si rimane estasiati da tanta grandezza e bellezza,  tanto che ci viene in mente l'antico proverbio di un anonimo “l'intensità della vita non si misura con il numero dei respiri ma in base ai luoghi e ai momenti che ci hanno fatto mancare il fiato...”. Letteralmente, questa antica struttura che fu basilica e sede patriarcale, poi moschea e che ora è un museo, emoziona talmente tanto da togliere il fiato, che non viene di certo ripreso, quando girato lo sguardo, nella grande piazza esterna, ci si ritrova davanti l'altro venerabile monumento della città, la Moschea Blu. Annoverata come tra le più grandi opere architettoniche del mondo, la celeberrima chiesa di Santa Sofia è conosciuta con diversi altri nomi, quasi a voler caratterizzare la sua molteplice natura: Haghia Sofia o Hagia Sophia in greco (Άγια Σοφία), Aya Sofia in turco (Ayasofya), basilica della Santa Sapienza o appunto Santa Sofia dal latino (Sancta Sophia).
La struttura attuale, conosciuta come la terza chiesa, venne edificata da Giustiniano nel VI secolo. Per secoli fu questa la basilica più importante di tutto il cristianesimo, rimanendo per quasi un millennio la cattedrale più grande del mondo (venne poi sostituita da quella di Siviglia nel 1520). La sua storia pare tuttavia andare ancora più indietro nel tempo, arrivando fino al grande  Costantino, nel 337; egli tuttavia mai ebbe modo di vedere terminata la sua costruzione. L'imperatore Teodosio II nei primi anni del V secolo fece riedificare la chiesa di Costantino, la seconda chiesa, che poi venne semidistrutta in un incendio durante la rivolta di Nika nel 532 (venne risparmiata la piccola sacrestia).
La terza chiesa di Giustiniano venne costruita immediatamente dopo l'incendio, con grande passione e dispendio economico: vennero impiegati i materiali più preziosi; la cupola, la prima del genere per potenza architettonica ed ingegneristica, venne rivestita di mosaici d'oro e pietre preziose. Due gli architetti che ebbero modo di riportare alla luce l'antica chiesa di Costantinopoli, i greci Antemio di Tralle (che curò la parte ingegneristica) e Isidoro di Mileto (detto il vecchio), che fu anche un noto matematico. Ad essi nel tempo si susseguirono diversi altri architetti, tra cui Mileto il giovane e il grande architetto ottomano Sinan. I favolosi mosaici che un tempo ne decoravano la cupola furono gravemente danneggiati dal terremoto del 558, dai successivi crolli parziali del soffitto nel 989 e 1346, dai saccheggi dei crociati e alle varie trasformazioni religiose avvenute nel tempo. Un gioiello di raro successo architettonico nella storia antica, il primo capolavoro dell'architettura bizantina. Ha influenzato nel tempo il mondo ortodosso, cattolico e musulmano, dando a tutti la stessa carica e significato spirituale. Per oltre 900 anni Santa Sofia è stata sede del patriarca ortodosso di Costantinopoli e principale luogo cerimoniale ecclesiastico ed imperiale.
Per mano dei crociati, mandati da Roma nel 1204 (IV crociata), la chiesa venne saccheggiata e dissacrata; il patriarca sostituito con un vescovo latino. Evento questo che come è noto confermò l'avvento del Grande Scisma d'Oriente, già avvenuto nel 1054 e con il quale venne cementata la divisione tra la chiesa greco-ortodossa e la chiesa romano-cattolica. Importante sapere che infatti parte del patrimonio un tempo contenuto all'interno della chiesa di Santa Sofia può oggi essere ammirato nella Basilica di San Marco a Venezia. Secondo la cronaca (ancora oggi molto dibattuta) lasciataci dal crociato Robert de Clari nel 1208, con la razzia dei crociati  furono portati via e depositati nelle chiese d'Occidente diversi tesori sacri di immane importanza, tra cui la Sacra Sindone (si narra infatti che la reliquia passò di mano in mano, tra cui Otto de la Roche, duca d'Atene e i cavalieri templari prima di arrivare a Torino).
Quando nel 1453 gli Ottomani di Mehmet II conquistarono Costantinopoli non poterono non erigere questa sacra struttura al livello del loro Dio, trasformandola in una moschea imperiale. Vi andarono aggiunti i minareti, le tombe imperiali e le fontane che oggi tutti ammiriamo.
La struttura e le decorazioni degli  interni, sembrano proprio raggiungere lo scopo che fu dei suoi padri cristiani e musulmani: l'immagine terrestre del paradiso. Ammirarle significa regalare al visitatore sensazioni sacre, divine quasi. Santa Sofia può dirsi divisa in tre parti principali: il piano terra, il piano superiore (che comprende le cupole e le pareti alte) e le gallerie. La planimetria è quella classica di una basilica, che al piano terra è di forma rettangolare (con misure di 70x75). L'intera area è coperta da una cupola centrale di 31 metri di diametro (un pochino più piccola della cupola del Pantheon di Roma). Sono inoltre presenti, tre navate formate da arcate divisorie di doppio ordine e un'abside, opposta alla porta d'ingresso.
 La Porta Imperiale è l'ingresso alla grande struttura, un tempo usata solo dagli imperatori. Sopra l'arcata vi troviamo uno dei primi grandi mosaici bizantini datato IX secolo: quello del Cristo seduto al trono, con vicino l'imperatore inginocchiato (che si suole identificare in Leone VI il saggio, imperatore bizantino nell'866). Ad essa si aggiungono, al lato opposto, le grandi opere ottomane, come il Mihrab che aiutava i musulmani a dirigere le preghiere verso la Mecca, la grande scala sulla destra, il Minbar, che impressiona per la finezza delle decorazioni dorate e che porta al pulpito dal quale veniva dato il sermone, la Loggia del Sultano costruita dagli italiani fratelli Fossati all'atto della loro restaurazione del XIX secolo. La Piazza dell'Incoronazione è invece il luogo in cui ergeva il trono dell'imperatore di Bisanzio, la troviamo tra i quattro müezzin in marmo e la biblioteca di Mahmut I del 1739. Tra una colonna e l'altra (alte circa 20 metri) e i piccoli recinti di cultura ottomana (come i maqsura, dove gli anziani usavano leggere il corano), è bene andare alla ricerca di quella di San Gregorio Taumaturgo, all'angolo sinistro subito dopo l'entrata, che la tradizione vuole possedere dei poteri curativi.
 Dal piano terra, e ancora meglio dalle gallerie, si ha modo di ammirare gli splendidi mosaici di Santa Sofia, risalenti al periodo bizantino e cristiano successivo e raffiguranti il Cristo, la Vergine Maria, Santi, imperatori e imperatrici. I più noti e meglio conservati sono quello della Porta Imperiale di cui sopra e quello dell'entrata sud-occidentale, scoperto durante la restaurazione dei fratelli Fossati e raffigurante la Vergine Maria con il bambino Gesù, affiancata dall'imperatore Costantino che le mostra una modello della città e Giustiniano che a lei offre la stessa basilica (il significato dei monogrammi alla destra e alla sinistra della Madonna? “Madre di Dio”).
 Tra gli altri mosaici si ammirano anche quello della Vergine con bambino dell'abside di Theotolos, notabile in alto, nella parete della cupola superiore e classificato come uno dei primi ad essere creati (venne inaugurato nell'867, nonostante pare sia una ricostruzione di quello che andò precedentemente distrutto). Si accompagnano ad esso, il mosaico dell'imperatore Alessandro III e il mosaico dell'imperatrice Zoe, con nel mezzo il Cristo e l'imperatore Costantino IX Monomaco. Del 1122 è il mosaico di Comnenus (nella parete est della galleria meridionale), raffigurante la Vergine Maria vestita di blu, con in grembo il bambin Gesù e affianco lo stesso imperatore Giovanni II Comnenus e imperatrice ungherese Irene, mentre del 1261 è il cosiddetto mosaico di Deisis (che deriva cioè dal tema iconografico bizantino) raffigurante appunto la Vergine Maria, Giovanni Battista e Cristo Pantocratore (Onnipotente).
 Oltre ai mosaici, Santa Sofia emoziona anche per i grandi medaglioni di calligrafia turca presenti, in totale sono otto, tutti riproducenti i nomi sacri musulmani: Allah, califfo Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali, Mohammed, Hasan Husayn. Li troviamo nella più pura espressione arabo-islamica, grandi e circolari, appesi alle alte pareti delle gallerie superiori (quello di Allah accanto all'abside, sotto il mosaico raffigurante l'Arcangelo Gabriele). Furono aggiunte nel XIX secolo durante la restaurazione della moschea. In aggiunta, non si ha di certo modo di non notare le splendide piastrelle di Iznik, decoranti l'antico mausoleo di Selim II, edificato nel 1577 sotto progetto dell'architetto Sinan e la fontana delle abluzioni, costruita in stile roccoco turco.
Nel 1935 il presidente della nuova Repubblica turca, Mustafa Kemal Ataturk, trasformò la Santa Sofia in un museo aperto a tutte le culture del mondo. Dal 2006 sono sempre più numerose le celebrazioni di rito islamico che pare abbiano luogo all'interno della struttura.

lunedì 26 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 dicembre.
Il 26 dicembre 1933 viene brevettata la radio a modulazione di frequenza, che consentì di avere un segnale molto più pulito e trasmissibile a maggiori distanze rispetto alla modulazione di ampiezza.
Dalle colline bolognesi alla selva del Messico: la radio nella sua ormai lunga storia ha svolto un ruolo importante nella comunicazione tra persone appartenenti alla stessa comunità così come a popolazioni di paesi lontani.
Utilizzando le ricerche di Hertz, Branly e Lodge e dell’italiano Righi, che avevano dimostrato l’esistenza delle onde elettromagnetiche descritte da Maxwell, Guglielmo Marconi sperimentò per la prima volta il telegrafo senza fili nel 1895 nella villa di campagna della sua famiglia, vicino a Bologna, mandando il segnale al di là della collina dei Celestini, di fronte al suo laboratorio.
Sperimentare la trasmissione del segnale radio a distanza divenne l’ossessione di Marconi, che si trasferì in Inghilterra per brevettare la sua invenzione e nel 1901, alle ore 12.30 del 12 dicembre, realizzò lo storico esperimento di trasmissione del segnale oltre Oceano. Intuendo il ruolo geopolitico strategico di questo servizio, i governi degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei diedero vita a grandi corporation nazionali per la gestione del traffico telegrafico-radiofonico, come la Rca americana (Radio Corporation of America), che già nel 1923 controllava un terzo del traffico transatlantico e la metà di quello transpacifico.
Lo stesso Marconi vedeva nel carattere pubblico della trasmissione del segnale un difetto e non un pregio della propria invenzione. Proprio per il pericolo di interferenza e di disturbo alle comunicazioni commerciali e militari, le attività amatoriali vennero proibite negli Stati Uniti con l’entrata in guerra nel 1917, per riprendere poi nel periodo post bellico.
E’ del 1916, a opera di David Sarnoff, un impiegato dell’azienda americana di Marconi, l’idea di produrre una radio come oggetto domestico, che consisteva principalmente di un ricevitore, che permetteva di ascoltare suoni, concerti e opere trasmesse da un unico trasmettitore.
Le parole di Sarnoff descrivono bene la sua intenzione: “Ho in mente un piano che potrebbe fare della radio uno strumento domestico, come il grammofono o il pianoforte. Il ricevitore sarà progettato nella forma di una scatola radiofonica musicale adatta a ricevere diverse lunghezze d’onda che si potranno cambiare a piacimento spingendo un bottone.
La scatola musicale avrà un amplificatore e un altoparlante telefonico incorporati al suo interno. Sarà tenuta in salotto e si potrà ascoltare musica, conferenze, concerti.”
Una radio come mezzo di comunicazione di massa, dunque, che però dovette attendere ancora qualche anno per affermarsi.
E’ solo verso la fine del secondo decennio, una volta finita la prima guerra mondiale, che nacquero le prime società di radiodiffusione: sistemi pubblici in Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, e network privati e commerciali negli Stati Uniti.
Il primo servizio regolare trasmesso alla radio, di due ore al giorno per due settimane, fu mandato in onda dalla stazione Marconi di Chelmsford in Cornovaglia, dal 23 febbraio 1920. In Europa la radio da subito fu controllata da una gestione pubblica, con scopi educativi e informativi, oltre che di intrattenimento. Nel 1922 nacque la British Broadcasting Company, una corporation sotto stretto controllo statale. Nel 1924 in Italia fu fondata l’Uri, l’Unione Radiofonica Italiana, che nel 1928 si trasformò in Eiar, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, concessionario e monopolista delle diffusioni fino al 1944, quando assunse la denominazione Rai, Radio Audizioni Italia.
Diversa è la strada che la radiofonia prese negli Stati Uniti, dove la prima trasmissione regolare quotidiana andò in onda da Detroit, il 31 agosto 1920. Nel novembre 1922 in tutto il territorio nordamericano esistevano solo cinque stazioni radio. Nel giro di pochi mesi esse passarono a 450 grazie alla diffusione e alla passione degli americani per il jazz. Fin dall’inizio, grazie anche al Radio Act del 1912 che stabiliva che qualunque cittadino americano potesse ottenere una licenza, entrarono nel settore grandi corporation commerciali, come il gigante della telefonia At&T, la General Electric, la Westinghouse.
Alla moltiplicazione di radio istituzionali, che trasmettevano dai campus universitari e dalle scuole, si affiancarono così numerosissime radio commerciali che da subito inaugurarono il modello di finanziamento dei programmi con la vendita di pubblicità. Queste puntavano sul ruolo che la radio ricopriva di "orecchio sul mondo", cosa che permetteva di raccogliere le voci e i suoni delle grandi città del pianeta e di portarli nel salotto di casa.
In epoca Fascista in Italia la radio svolse un ruolo strategico nella costruzione del mito dell’impero e della figura di Mussolini, abile comunicatore che entrava grazie ad essa in tutte le case con i suoi discorsi.
La Bbc diventò nel corso della seconda guerra mondiale la  voce simbolo del mondo libero che numerosi italiani e tedeschi ascoltavano in clandestinità per capire cosa stesse accadendo al di fuori dei propri confini. La radio svolgeva così una doppia funzione: quella di propagandare il messaggio del regime e quella di portare voci e informazioni dall’esterno.
A fine anni ’50 esplose il fenomeno delle radio pirata (Radio Merkur, Radio Caroline, Radio Nord), che trasmettevano da stazioni poste in acque internazionali e che proponevano una programmazione musicale innovativa, rispondente ai gusti e alle aspettative delle giovani generazioni.
Le radio pirata misero a rischio la popolarità delle grandi radio pubbliche, soprattutto per l’immediato successo ottenuto tra le band più popolari del momento, come i Beatles e i Beach boys, che volevano essere presenti nei loro programmi. Le prime trasmissioni pirata arrivavano dalle coste dei mari del nord, in Danimarca, Svezia, Germania e Inghilterra.
Nel decennio degli anni ’60 la radio accompagnò i movimenti di contestazione giovanile. Grazie alla sua leggerezza, accoppiata al telefono, e all’evoluzione tecnologica che l’aveva resa più accessibile ed economica anche nella fase di emissione, diventò lo strumento privilegiato per diffondere le idee dei movimenti, la loro propaganda politica e le contestazioni; dalla primavera di Praga alle manifestazioni studentesche in tutta Europa fino alle proteste in America contro la guerra del Vietnam.
Le radio libere erano radio povere, spesso avevano sede in appartamenti privati o in stabili occupati, e raggiungevano soprattutto la popolazione locale.
Tra esse rimane storica l’esperienza di Radio Alice di Bologna, chiusa con la forza dalla polizia il 12 marzo 1977, dopo i giorni delle manifestazioni di piazza.
Oggi, nella maggior parte dei paesi europei e negli Stati Uniti, convivono tipicamente tre tipologie di radio: le radio pubbliche, le radio commerciali e le radio comunitarie, queste ultime più legate al territorio, spesso gestite da volontari e inserite in progetti a natura sociale e culturale.
Le radio web hanno anche permesso, nel corso delle guerre dei nostri giorni, di ascoltare la voce e le testimonianze delle popolazioni coinvolte. Nei paesi del Sud del mondo, invece, la radio tradizionale rimane il principale mezzo di comunicazione e svolge tuttora un ruolo importante di informazione ma anche di educazione, come dimostrano numerosissime esperienze di radio africane, asiatiche e sudamericane.
La radio ha giocato, in molti casi di guerra civile e di ribellione nei confronti di regimi e di governi autoritari, un ruolo nel mantenere in contatto le popolazioni che si riconoscevano in quegli ideali e che potevano così partecipare alle azioni e alle dimostrazioni proposte. Un esempio per tutti, quello di Radio Rebelde del Chiapas, che da anni racconta le esperienze, le parole e le proposte delle popolazioni indigene zapatiste del Sud del Messico da un luogo non meglio precisato della Selva Lacandona.

domenica 25 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 dicembre.
Il 25 dicembre 1065 viene consacrata a Londra l'abbazia di Westminster.
 Capolavoro dell’architettura gotica inglese e patrimonio UNESCO, Westminster Abbey è una pagina unica della storia di Londra: racchiude circa 600 monumenti ed è la cattedrale gotica più alta del Regno Unito. Le navate si elevano per 31 metri e l’abbazia è stata costruita tra il 1200 e il 1500, sul luogo in cui sorgeva un monastero benedettino. L’abbazia è sotto la giurisdizione della Corona, che ancora oggi controlla le nomine del clero. Dal 1066 ospita le incoronazioni di re e regine d’Inghilterra, e fin dalla fondazione custodisce i resti e i monumenti di almeno cinquemila personaggi importanti del Paese: Santi e Sovrani, Poeti e uomini di Stato.
Il nome “Westminster” deriva dalla prima chiesa sorta qui, e dedicata a San Pietro: fu fondata nel 1065 da Re Edoardo, ultimo dei re anglosassoni, che fece ampliare un monastero benedettino. Re Edoardo chiamò la chiesa “West Minster”, abbazia occidentale, per distinguerla dalla“East Minster”, la Cattedrale di St.Paul. Oggi, tracce del monastero normanno si trovano negli archi rotondi e nelle massicce colonne che sostengono la volta sotterranea. Nel Natale del 1066, qui fu incoronato Guglielmo il Conquistatore, e nel 1161 furono trasferite le spoglie di Re Edoardo in un nuovo sepolcro, oggi sotto l’altare centrale. L’abbazia sopravvisse per due secoli, fino al 1245, quando Enrico III decise di costruirvi un edificio in stile gotico. Sotto il decreto del Re d’Inghilterra, l’Abbazia di Westminster fu progettata non soltanto per essere un grande monastero e luogo di fede, ma anche un luogo di incoronazione e sepoltura dei monarchi: da Guglielmo il Conquistatore in poi, con l’eccezione di Eduardo V e Edoardo VIII, mai incoronati, tutti i re sono stati incoronati qui. Verso il 1376, Enrico VII fece realizzare la navata maggiore, mentre due secoli dopo furono aggiunte le due torri occidentali. Il risultato di questi lavori è oggi un ricco mausoleo, dominato da grandi vetrate, sculture vittoriane ed elementi tardo-gotici.
Dopo il Big Ben e le cabine telefoniche rosse, la facciata sull’ingresso ovest dell’abbazia è una delle immagini celebri di Londra. La parte gotica inferiore dell’ingresso fu completata nel 15° secolo e le torri sono dell’inizio del 1700. Dal 1995, dopo un restauro di 23 anni, le nicchie ai lati ospitano quattro figure allegoriche: Pietà, Verità, Giustizia e Pace. In alto, sopra il portale, dieci statue di martiri hanno i volti di eroi del nostro tempo, tra cui Martin Luther King, e rappresentano tutti coloro che sono morti e che continuano a morire a causa di oppressioni e persecuzioni. L’abbazia ha tre navate e si estende in altezza, offrendo uno spettacolo impressionante soprattutto nella navata centrale, su cui si aprono le bifore, il coro e i finestroni. Alla morte di Enrico III, nel 1272, la costruzione dell’abbazia non era completa, e quindi parte della navata normanna rimase all’inizio dei nuovi lavori. La navata attuale fu iniziata nel 1376 e terminata due secoli dopo, con l’aggiunta delle vetrate istoriate. Gli elementi più sfarzosi sono anche i più recenti: il coro, per esempio, è del 1848, e la balaustra del 1839. Ai lati del coro, il monumento di Isaac newton e quello di Lord Stanhope, segretario di Stato. Ad Enrico VII, primo Re della dinastia Tudor, si deve la costruzione della Lady Chapel: sovrastata da un soffitto a volte realizzato dallo scultore italiano Torrigiano, la cappella ospita gli scranni dei Cavalieri dell’Ordine di Bath, mentre ad est c’è la Vetrata su cui è illustrata la Battaglia d’Inghilterra, di Hugh Easton. Dietro l’altare c’è un monumento rinascimentale con le spoglie di Enrico VII e sua moglie, Elisabetta di York. Il Sanctuary, anche chiamato the Confessor’s Chapel, è il luogo in cui avviene l’incoronazione dei sovrani da quasi mille anni. Qui ci sono le spoglie di Edoardo il Confessore. Al centro del Santuario si apre l’Altare Maggiore: qui avvengono le cerimonie di incoronazione. Sul soffitto, un magnifico mosaico dell’Ultima Cena, di Antonio Salviati; di fronte all’altare, un prezioso pavimento di marmo del 1268, decorato secondo il metodo Cosmati: disegni piccoli e intricati, fatti con minuscoli pezzetti di marmi colorati. Nel transetto sud c’è il Poets’Corner, una delle aree più famose dell’abbazia. Il primo ad essere seppellito qui fu Geoffrey Chaucer, l’autore dei Canterbury Tales. Nei 150 anni successivi, quest’angolo è diventato la memoria letteraria di Londra: oggi qui sono sepolti o commemorati tutti i rappresentanti della letteratura inglese, da Shakespeare a Kipling, da Dickens alle sorelle Bronte.

sabato 24 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 dicembre.
Il 24 dicembre 1865 viene fondato il Ku Klux Klan da alcuni veterani confederati della guerra civile americana.
Il termine Ku Klux Klan viene utilizzato per indicare le organizzazioni nate negli Stati Uniti per propugnare la superiorità della razza bianca. La storia del movimento americano si può suddividere in 3 periodi: dal 1865 al 1874 quando si sviluppa come una confraternita di ex militari dell'esercito degli Stati Confederati d'America; dal 1915 al 1944 quando diventa un vero e proprio movimento; dal dopoguerra ad oggi quando il movimento si trasforma in una serie di piccole organizzazioni. Il Ku Klux Klan è stato creato a Pulaski, nel Tennessee, nella notte del 24 dicembre 1865 da un gruppo di giovani della buona società locale, reduci dell'esercito della Confederazione. Nessuno di loro immaginava che il gruppo sarebbe diventato una delle principali organizzazioni del razzismo americano.
Il gruppo ha assunto maggiore importanza dopo la convention di Nashville, che si è svolta nell'estate del 1867, durante la quale il generale Nathan Bedford Forrest ha ottenuto il titolo di “Grande Mago". L'organizzazione voleva da un lato aiutare le vedove e gli orfani di guerra e dall'altro opporsi all'estensione del diritto di voto ai neri. Nel 1869 Forrest ha poi sciolto la confraternita, perché pensava che si fosse allontanata troppo dagli obiettivi iniziali. Nel 1871 il presidente americano Ulysses Simpson Grant ha firmato il “Klan Act and Enforcement Act”, con il quale l'organizzazione veniva dichiarata un gruppo terroristico illegale. L'atto inoltre autorizzava l'uso della forza per sconfiggere le attività della confraternita. Il documento è poi stato dichiarato incostituzionale nel 1882, anche se in quegli anni era servito ad eliminare l'organizzazione da molti paesi degli Stati Uniti.
La seconda fase del Ku Klux Klan si è sviluppata durante la prima guerra mondiale, quando molti bianchi hanno iniziato a pensare che le persone di colore, i banchieri ebrei e le altre minoranze fossero la causa principale dei problemi economici del paese. Fondatore di questa seconda fase è stato nel 1915 William J. Simmons, che ha anche introdotto il nuovo simbolo dell'organizzazione: la croce che brucia. Questa seconda fase dell'organizzazione ha iniziato a perdere consensi nel corso degli Anni Trenta e nel 1944 l'organizzazione è stata di nuovo sciolta. Negli anni Venti e Trenta si è diffusa anche una sottosezione dell'organizzazione, chiamata Black Legion, che ha operato nel Midwest ed è ricordata per la violenza dei suoi attacchi, soprattutto contro socialisti e comunisti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, molti gruppi hanno ripreso il nome Ku Klux Klan per indicare la loro opera di opposizione al Movimento per i diritti civili. Alcuni di questi gruppi sono ancora attivi.
A partire dal 1915, gli appartenenti al Ku Klux Klan si potevano riconoscere per le tuniche bianche che indossavano. Oltre alla tunica si utilizzava anche un cappuccio bianco di forma conica, per nascondere la faccia, con dei buchi per gli occhi. Secondo alcune spiegazioni, questa “divisa” era stata scelta per intimorire i neri, che consideravano quelle maschere come la materializzazione degli spiriti dei soldati sudisti morti durante la guerra di secessione, tornati sulla terra per vendicarsi e punire i propri nemici. Secondo altre spiegazioni la tunica era il simbolo di umiltà perché il compito che dovevano svolgere gli era stato assegnato direttamente da Dio e dovevano svolgerlo nel migliore dei modi mantenendo l'anonimato.

venerdì 23 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 dicembre.
Il 23 dicembre 1961 si ebbe, sulla ferrovia Cosenza-Catanzaro, il disastro della Fiumarella.
Quel giorno gli studenti calabresi del Catanzarese, come ogni mattina, si alzano prestissimo per prendere il treno che dai loro paesini dell’interno – partenza alle 6,43 da Soveria Mannelli (Sila piccola), poi Decollatura, Serrastretta, San Pietro Apostolo, Cicala e Gimigliano, con termine al capolinea Catanzaro Centro – li farà arrivare, procedendo verso sud-est, alle scuole del capoluogo di provincia. Quel mattino stanno già pregustando le prossime vacanze natalizie. È l’ultimo giorno di scuola, poi il via a presepi, preghiere a Gesù bambino, regali, giochi, dolci, scorpacciate, tutte a base delle tradizionali pietanze calabresi.
Il treno è composto dall’automotrice Breda M2 123 e dal rimorchio Breda RA 1006. Al suo interno viaggiano 99 passeggeri (molti dei quali, appunto, studenti). Un’ora dopo la partenza dalla stazione di Soveria Mannelli, il convoglio transita sopra il viadotto del torrente Fiumarella, in curva. Sono le 7,45, proprio lassù il rimorchio esce dal binario e, dopo aver rotto l’asta di trazione (un gancio di tipo tranviario), precipita nel torrente, 40 metri più giù. Il disastro è terribile. Segue il caos delle sirene, i corpi straziati, il sopraggiungere dei parenti…
Settantuno viaggiatori muoiono subito, gli altri rimangono gravemente feriti. Trentuno risiedevano a Decollatura, la comunità più colpita. I sogni di un futuro migliore grazie allo studio scolastico, di una vita ancora tutta da scoprire, svaniscono per tanti, insieme alle speranze delle loro famiglie. Si tratta del più grave incidente ferroviario per numero di vittime avvenuto in Italia. In effetti, un altro massacro era avvenuto qualche decennio prima, un po’ più a nord, ma sempre nel profondo Sud.
Infatti a Balvano (Potenza), il 3 marzo 1944, si era verificata la sciagura del treno 8017, con un numero maggiore di morti, mai realmente calcolato (600?). Ma quella tragedia non fu dovuta a incidenti o deragliamenti meccanici, come quella del torrente Fiumarella, bensì all’avvelenamento da monossido di carbonio dei passeggeri entro la galleria delle Armi, a causa dello slittamento delle ruote delle locomotive a vapore, con conseguente arresto del convoglio e letali fumi che avvolsero i passeggeri.
Tornando al viadotto della Fiumarella, la causa meccanica diretta fu, come detto, la rottura del gancio di trazione di tipo tranviario. In realtà, le condizioni della rete ferroviaria in questione erano molto precarie. Si trattava di una linea che era stata studiata per carichi di 8-9 tonnellate delle locomotive, ma, con l’avvento di nuovi mezzi più pesanti e veloci, tutta la rete si era via via degradata, risultando pericolosa in più punti.
Sebbene, dunque, la linea ferroviaria non versasse in ottime condizioni, nel processo per stabilire le responsabilità della tragedia fu imputato sostanzialmente il conducente del treno, Ciro Miceli, che, disperato, ammise onestamente le proprie colpe. Il convoglio viaggiava a 60-65 km orari, invece che ai previsti 30 con cui andava affrontata la curva. Inoltre, pare che nella cabina di comando vi fossero più persone del dovuto e che la frenata improvvisa, provocata dall’allarme di uno dei presenti, avesse peggiorato le cose, agevolando la rottura del gancio e la conseguente caduta del rimorchio nel precipizio. Il macchinista fu quindi condannato a una decina di anni di carcere per omicidio colposo. Le vittime furono interamente risarcite in fase istruttoria, per cui non si costituirono nel processo penale.
Dopo varie polemiche e un acceso dibattito parlamentare, il Governo si avvalse della facoltà riconosciutagli dalla Concessione per il riscatto delle ferrovie concesse. Così, con la legge n. 1855 del 23 dicembre 1963, venne approvato il riscatto, si revocò la concessione alla Mediterranea Calabro Lucane e si posero le nuove Ferrovie Calabro Lucane sotto la gestione commissariale governativa. Il traffico ferroviario rimase interrotto per alcuni anni e sostituito tra Soveria Mannelli e Catanzaro da autoservizio. Quindi, con decreto ministeriale n. 1044 del 20 maggio 1969, redatto secondo gli indirizzi della legge n. 369 del 18 marzo 1969, furono stanziati 16 miliardi di lire al fine di porre la rete delle nuove ferrovie nelle condizioni di soddisfare in modo sicuro e conveniente le esigenze del traffico locale.
Vari monumenti in ricordo delle vittime del disastro ferroviario sono stati innalzati nel territorio dei comuni più colpiti. Altri si progettano. Eppure, come ha detto un residente in quei luoghi, pure lui bambino all’epoca dei fatti: «Moltissimi familiari ancora oggi si rifiutano di parlare di quella strage, quasi come se non fosse passato, ormai, mezzo secolo. Superstiti e testimoni “non se la sentono” di fornire la propria disponibilità a parlare, neanche per realizzare filmati o iniziative di commemorazione».
È bene precisare che non si tratta di omertà (perché mai, poi?), ma di pudore. E, soprattutto, dolore: «Più di trenta morti, quasi tutti giovani o giovanissimi – continua il testimone – è un peso troppo grande per una piccola comunità. Lo è ancora oggi. Ancora oggi, a 60 anni di distanza, il dolore di questa piccola comunità è molto forte, fino al punto che è difficile ottenere delle testimonianze che consentirebbero di ricostruire quella vicenda, farla conoscere e far conoscere il vissuto del paese anche per capire come quella strage lo ha colpito, lo ha cambiato… Qualcuno racconta di come da ragazzo andava con suo padre a lavorare nei campi e di come questo lavoro fosse ritmato dai canti: “Ma dopo di allora, non abbiamo più cantato!”».

giovedì 22 dicembre 2022

#Almananaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 dicembre.
Il 22 dicembre è il primo giorno di inverno, dopo il solstizio invernale che ha avuto luogo ieri.
Il Solstizio d'inverno è il momento in cui il Sole raggiunge, nel suo moto apparente lungo l'eclittica (l'orbita della terra giace su un piano immaginario, dove si trova anche il Sole, che prende il nome di piano dell'eclittica. L'eclittica è il cammino apparente che il Sole traccia nel cielo durante l'anno), il punto di declinazione (è quindi l'angolo al centro sotteso da un arco di meridiano celeste compreso fra l'equatore celeste e il parallelo passante per l'oggetto, analogo alla latitudine terrestre) minima o massima.
Nel nostro emisfero, quello boreale, la declinazione raggiunge il valore massimo positivo in corrispondenza del solstizio d'estate, mentre raggiunge il massimo negativo nel Solstizio d'Inverno. Tuttavia l'orario preciso in cui tale fenomeni si verifica ritarda di anno in anno di circa 6 ore, per poi ritornare indietro negli anni bisestili, ed è per questo che il Solstizio d'inverno può cadere tra il 21 ed il 22 Dicembre. Quest'anno si è verificato il 21 Dicembre alle ore 15:59 (ora di Greenwich).
Contrariamente a quanto si pensi non è stata Santa Lucia (il 13) il giorno più corto dell'anno. In realtà in prossimità del 13 dicembre si è verificato il periodo in cui il Sole è tramontato più presto: per le prime due settimane di dicembre l'orario del tramonto si mantiene quasi costante, tra le 16.41 e le 16.42. Il giorno più breve dell'anno in realtà è proprio il 21 dicembre, quando il Sole è tramontato un po' più tardi, circa 3 minuti dopo, alle 16.44, ma anche il suo sorgere è stato ritardato di alcuni minuti, avendo luogo alle 7.36 (il 13 dicembre sorge alle 7.31): in definitiva, il Sole resta sopra l'orizzonte circa 2 minuti in meno rispetto al giorno 13. Quindi in effetti il giorno più corto dell'anno è il 21 dicembre. L'errore del noto proverbio è dovuto al calendario giuliano in uso prima del 1582, che non considerando i giorni bisestili aveva perso una decina di giorni rispetto all'anno astrologico. Con l'avvento del calendario gregoriano quei giorni sono stati recuperati, e il proverbio non funziona più.
Il solstizio è una data importante per molti popoli. Non dimentichiamo, inoltre, che quell’avvenimento iniziò ad essere celebrato dai nostri antenati, ad esempio presso le costruzioni megalitiche di Stonehenge, in Gran Bretagna, di Newgrange, Knowth e Dowth, in Irlanda o attorno alle incisioni rupestri di Bohuslan, in Iran, e della Val Camonica, in Italia, già in epoca preistorica e protostorica. Esso, inoltre, ispirò il “frammento 66” dell’opera di Eraclito di Efeso (560/480 a.C) e fu allegoricamente cantato da Omero (Odissea 133, 137) e da Virgilio (VI° libro dell’Eneide). Quello stesso fenomeno, fu invariabilmente atteso e magnificato dall’insieme delle popolazioni indoeuropee: i Gallo-Celti lo denominarono “Alban Arthuan” (“rinascita del dio Sole”); i Germani, “Yulè” (la “ruota dell’anno”); gli Scandinavi “Jul” (“ruota solare”); i Finnici “July” (“tempesta di neve”); i Lapponi “Juvla”; i Russi “Karatciun” (il “giorno più corto”).
Per molti il Solstizio d'Inverno è il passaggio dalle Tenebre alla Luce, è da questo giorno che il sole resta progressivamente sempre più a lungo nel cielo allungando così le nostre giornate. Questa è una festa di luce, dai profondi messaggi iniziatici ed esoterici legati al risveglio interiore. 
 Secondo la tradizione le porte Solstiziali sono controllate dai due Giovanni; il Battista al solstizio estivo e l'Evangelista a quello invernale. Il solstizio stesso è chiamato "la porta", un tempo custodita dal guardiano Giano Bifronte (con l'avvento del cristianesimo il romano Giano dai due volti ha ceduto il posto ai due Giovanni) che sono il simbolo di una contemporanea esistenza di due dimensioni, che durante i solstizi si congiungono e le porte sono aperte ed è permesso il varco. 
Nelle tradizioni germanica  e celtica precristiana, Yule era la festa del solstizio d'inverno. L'etimologia della parola "Yule" (Jól) non è chiara. È diffusa (ma probabilmente errata) l'idea che derivi dal norreno Hjól ("ruota"), con riferimento al fatto che, nel solstizio d'inverno, la "ruota dell'anno si trova al suo estremo inferiore e inizia a risalire". I linguisti suggeriscono invece che Jól sia stata ereditata dalle lingue germaniche da un substrato linguistico pre-indoeuropeo. Nei linguaggi scandinavi, il termine Jul ha entrambi i significati di Yule e di Natale, e viene talvolta usato anche per indicare altre festività di dicembre. Il termine si è diffuso anche nelle lingue finniche (e indica il Natale), sebbene tali lingue non siano di ceppo germanico.
 Un simbolo solstiziale è il Vischio, pianta sacra per i druidi, che veniva recisa dall'albero su cui nasceva seguendo una solenne cerimonia. La raccolta del vischio avveniva specialmente in due momenti particolari dell'anno: a Samhain e nel Giorno di San Giovanni. Il Vischio era considerato la panacea per tutti i mali. Essa è una pianta parassita che affonda le sue radici nell'altrui forza, non tocca terra e veniva considerata una emanazione divina. Gli antichi la chiamavano anche "scopa del fulmine", pensavano che nascesse quando una folgore colpiva un albero. Per rispetto a questa sua natura divina i druidi lo tagliavano usando rispettosamente un falcetto d'oro. E' ben augurale per l'anno che viene, averne un ramoscello nelle case.

mercoledì 21 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 dicembre.
Il 21 dicembre 1958 Charles De Gaulle viene eletto primo presidente della neonata Quinta Repubblica Francese.
Nel settembre del 1958 l’esito del referendum popolare con cui fu approvata la nuova Costituzione della Quinta Repubblica si tradusse in un generale e unanime voto di fiducia a favore di De Gaulle. La Costituzione conferiva il potere esecutivo a un presidente eletto con suffragio indiretto, che nominava i ministri e aveva il potere di sciogliere il Parlamento e di governare per decreto in caso di emergenza. Il potere dell’Assemblea nazionale di rovesciare il governo veniva fortemente ristretto. Nel 1962 un emendamento proposto da De Gaulle istituì l’elezione popolare diretta del presidente, il cui potere crebbe ulteriormente.
Il problema più urgente che De Gaulle si trovò ad affrontare fu la questione algerina, impossibile da risolvere militarmente. Nel 1960 egli aprì i negoziati di pace con i ribelli algerini, che perseguì – nonostante nuove rivolte di ufficiali dell’esercito, il suo tentato assassinio e la violenza terroristica – fino a giungere agli accordi di Evian e alla proclamazione dell’indipendenza dell’Algeria.
 La ferma volontà di De Gaulle di accrescere il prestigio internazionale della Francia e di riaffermarne l’indipendenza in politica estera lo condusse nel 1959 a ordinare la chiusura delle basi missilistiche statunitensi in Francia e a ritirare la flotta del Mediterraneo (e in seguito tutte le forze francesi) dal comando dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO). Per ridurre la dipendenza dalla protezione nucleare americana sviluppò una forza nucleare francese. Posto fine al secolare contrasto con la Germania, si riavvicinò poi all’URSS, riprese le relazioni diplomatiche con i paesi arabi e riconobbe la Cina popolare (1964).
Dal punto di vista economico gli anni della sua presidenza furono un’epoca d’oro per la Francia.
Tra il 1959 e il 1970 l’indice della produzione industriale raddoppiò quasi e il prodotto nazionale lordo crebbe a una media del 5,8% annuo tra il 1960 e il 1975, un tasso superato solo da quello del Giappone. Il potere d’acquisto continuò a salire e il popolo francese raggiunse un benessere senza precedenti.
Tuttavia, verso la metà degli anni Sessanta, si manifestarono segni di un malessere acuto. La spinta inflazionistica crebbe e tornò la disoccupazione, soprattutto tra i laureati, il cui numero era fortemente aumentato in seguito alla democratizzazione dell’istruzione superiore degli anni Cinquanta. Nel maggio del 1968 scoppiò la rivolta; lo sciopero iniziato dagli studenti di Parigi, che per protesta contro la brutalità della polizia avevano occupato gli edifici dell’università, fu imitato da studenti e lavoratori in tutto il paese, ed entro la terza settimana di maggio il paese fu paralizzato da uno sciopero generale. De Gaulle sciolse l’Assemblea nazionale e indisse nuove elezioni, che diedero al suo partito una maggioranza assoluta. Nella primavera del 1969, in seguito all’esito negativo di un referendum in merito a due riforme costituzionali, De Gaulle diede le dimissioni, si ritirò definitivamente dalla vita politica e morì l’anno seguente.

martedì 20 dicembre 2022

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 dicembre.
Il 20 dicembre 1968 il cosiddetto "killer dello Zodiaco" uccide a Benicia, California, le prime due vittime accertate.
Il caso dello Zodiac Killer è forse uno dei più misteriosi dai tempi di Jack Lo Squartatore. Un assassino spietato, senza identità e completamente folle. Così come il suo predecessore inglese, anche lo Zodiac Killer ha intrattenuto numerose corrispondenze con polizia e stampa. Inutile aggiungere che, ancora oggi, il caso è insoluto e aperto.
Domenica, 30 ottobre 1966, lo Zodiac Killer fa, probabilmente, il suo debutto. La vittima si chiama Cheri Jo Bates, una studentessa 18enne che frequenta il Riverside City College.
L'assassino la adesca proprio nel parcheggio vicino alla libreria del College. Le ha sabotato la macchina e gentilmente si è presentato alla fanciulla in difficoltà. Insieme tentano di riavviare il motore, senza successo, quindi l'assassino le propone uno strappo a casa.
Un vicolo buio e appartato, è lì che lo Zodiac Killer compie il massacro, senza motivazioni di stupro o furto: la ragazza non subisce violenza sessuale e le sue cose rimangono intatte.
Cheri Jo viene uccisa con una brutalità senza pari, tre pugnalate al torace, una alla schiena, il coltello affonda sette volte nella sua gola, troncandole la laringe, la vena giugulare e la carotide. La troveranno quasi decapitata.
Non si può certo dire che l'assassino sia stato perfetto. Nelle vicinanze del corpo viene rinvenuto un orologio da uomo, fermo sulle 12.23, con tracce di vernice sul cinturino. C'è anche una impronta di scarpe e tracce di pelle e capelli sono rimaste sotto le unghie della povera Cheri Jo Bates.
Il fatto che l'assassino e la ragazza siano rimasti appartati al buio per più di un'ora suggerisce agli investigatori la pista dell'omicidio passionale. Le indagini vengono quindi indirizzate verso gli amici e gli ex fidanzati della ragazza. È a questo punto che il killer si presenta.
Il 29 novembre 1966, la centrale di polizia di Riverside e la sede del giornale "Enterprise" ricevono la copia carbone di una lettera battuta a macchina. Spedite da una cassetta di posta sperduta nella campagna, senza francobollo e senza indirizzo del mittente, le lettere sono intitolate "La Confessione". La firma, quasi a prendersi gioco dei destinatari, è stata invece sostituita da 12 linee, come in un gioco di enigmistica.
All'interno di questa lettera lo Zodiac Killer descrive, senza risparmiare sui particolari, la dinamica dell'omicidio, dal momento dell'abbordaggio al taglio della gola. La parte più preoccupante è però il finale: "Lei era giovane e bella ma è morta. Non è la prima e non sarà nemmeno l'ultima. Passo notti insonni a pensare chi sarà la mia prossima vittima. Forse la bionda che fa la babysitter e che attraversa ogni giorno un vicolo buio verso le sette, o forse sarà la brunetta a cui ho chiesto informazioni. […] Spargerò le loro parti per la città in modo che tutti vedano. […] Guardatevi da... Io ora mi avvicino furtivamente alle vostre ragazze."
Viste le numerose contraddizioni (il killer scrive, a torto, che la ragazza non ha opposto resistenza e che il coltello si è rotto nel torace della ragazza), inizialmente la lettera non fu presa in considerazione anche se la descrizione del sabotaggio all'automobile sono informazioni che la sola polizia possiede. Le lettere sono state in mano all'F.B.I. fino agli anni '90, che insiste nel classificarle come opera di uno sciacallo.
Sei mesi dopo l'omicidio Bates, la polizia di Riverside, la stampa e il padre della ragazza ricevono nuovamente una lettera in tre copie. Questa volta le buste sono affrancate e il testo è stato scritto a matita su della carta da lettere. Al posto della firma c'è un misterioso simbolo formato da una specie di Z, unita lateralmente a una sorta di 3.
"Bates doveva morire. Altre ne verranno"
Ancora oggi l'omicidio della Bates è insoluto. L'F.B.I. e le autorità locali spingono nella direzione dell'omicidio passionale, mentre gli investigatori e i giornalisti della Bay Area di San Francisco sono praticamente sicuri che l'omicida è lo stesso che colpì negli anni successivi.
Vallejo e Benicia sono due cittadine che si affacciano sulla Baia di San Pablo, vicino allo Stretto di Carquinez, poste all'incirca a 20 miglia nord-est di San Francisco. Negli anni '60 i posti tra le due cittadine erano praticamente disabitati e l'autostrada che le unisce non era del tutto asfaltata.
Poco prima delle 21.00 del 20 dicembre 1968, in queste zone, viene avvistata una macchina metalizzata a quattro porte.
Nemmeno un'ora dopo, dei ragazzi vengono seguiti da questa auto, su un sentiero di ghiaia. Spaventati cambiano strada e fuggono.
Alle 23.10, David Arthur Faraday e Betty Lou Jensen non avranno la stessa accortezza. Usciti di casa con la scusa di andare a un concerto natalizio, i due si sono appartati in una radura, per amoreggiare sull'auto. Passa un'ora, poi qualcuno comincia a fare fuoco contro di loro con una calibro 22. Comincia da dietro, sfondando il vetro posteriore e forando il pneumatico sinistro. Poi l'assassino si avvicina, fino ad arrivare alla portiera di sinistra, e ricomincia a fare fuoco.
I due adolescenti, 16 e 17 anni, corrono fuori dalla portiera opposta e tentano la fuga, ma invano. Betty Lou Jensen verrà ritrovata a 10 metri dal paraurti posteriore. Uccisa da cinque colpi alla schiena, tra la quinta e la sesta costola. Per David Faraday è bastata una sola pallottola, ben piazzata alla testa.
Stella Borges, unica testimone, dirà di aver visto allontanarsi una Chevrolet metalizzata, a quattro porte, diretta verso Benicia, prima di ritrovare i corpi dei giovani.
Nonostante la taglia messa dalla polizia sull'omicida, non verrà mai trovato il colpevole.
Sei mesi più tardi, verso le 24:00 di sabato 5 luglio 1969, Darlene Elizabeth Ferrin, 22 anni, e Michael Renault Mageau, 19 anni, vengono presi di mira da degli spari, mentre sono seduti nella propria macchina nel parcheggio del Blue Rock Springs Golf Course.
Darlene Ferrin è andata a prendere il suo amico un'ora prima, quindi si sono fermati lì per mangiare qualcosa e chiacchierare. Qui una macchina marrone, si è accostata a loro, spegnendo i fari, per poi ripartire a tutto gas verso Vallejo.
Cinque minuti dopo la macchina ritorna.
Dopo aver parcheggiato a 3 metri dall'auto dei ragazzi, il conducente scende, spegnendo i fari per nascondere il proprio viso. Convinti che si tratti di un poliziotto, i ragazzi estraggono i loro documenti e si preparano alla classica ramanzina, ma il misterioso individuo comincia a sparare attraverso il finestrino del passeggero. L'arma è una 9mm con silenziatore.
Mageau viene colpito di striscio al viso e al braccio, quindi al ginocchio. Alimentato dal dolore e dall'adrenalina, il ragazzo riesce a saltare nella parte posteriore e a nascondersi. Darlene invece non ce la fa: i colpi la raggiungono alla testa e alla schiena, morirà alle 00.38.
Prima di svenire, Mageau riesce a vedere l'assassino di profilo. Lo descriverà come un uomo di media altezza, circa 1.75, e grasso. A occhio e croce sui 90 kg. Porta degli occhiali.
Secondo i più, Darlene conosceva l'omicida, forse si trattava di uno spasimante rifiutato. La descrizione del ragazzo invece non fu tenuta molto in considerazione, poiché era sotto antidolorifici.
Alle 00:40 della stessa notte, la sede centrale della polizia di Vallejo riceve una telefonata da una cabina. La voce è matura e senza accento, parla uniformemente e costantemente, come se stesse leggendo da un copione.
"Vorrei riportare alla vostra attenzione un duplice omicidio. Dirigetevi a un miglio est sul Viale di Cristoforo Colombo, verso il parco pubblico, lì troverete dei ragazzi in una macchina marrone. Gli ho sparato con una Luger da 9mm. Ho ucciso dei ragazzi anche l'anno scorso. Buona serata."
Il 31 luglio 1969, l'Examiner di San Francisco, il Chronicle di San Francisco, e il Time-Harald di Vallejo ricevono tre lettere. Allegato a ogni lettera c'è un crittogramma che il 1 agosto viene pubblicato sulla prima pagina di ognuno dei tre giornali. Le lettere sono simili, anche se con parole diverse. L'assassino dimostra di essere veramente il colpevole fornendo particolari che solo lui e la polizia potevano sapere. Aggiunge inoltre che ha già ucciso una dozzina di persone e che se non venissero pubblicato i crittogrammi farà un massacro.
"In questo crittogramma in tre parti è celata la mia identità"
Ogni lettera finisce con un simbolo molto simile a una croce celtica e uno strano simbolo cifrato che è probabilmente il vero arcano da svelare per risalire all'identità del killer.
Il crittogramma viene decifrato e risolto in meno di una settimana, da un professore di liceo e da sua moglie, ma evidentemente l'assassino non ha mantenuto la promessa. Il testo che emerge infatti non è la sua identità, bensì la confessione di un collezionista di anime: "Mi piace uccidere le persone perché è molto più divertente di ogni gioco selvaggio che si possa fare in una foresta. L'uomo è l'animale più pericoloso ed elettrizzante di tutti da uccidere […] La parte migliore è che quando morirò, rinascerò in paradiso e tutte le mie vittime saranno miei schiavi. Perciò non vi darò il mio nome o tenterete di fermare la mia raccolta di schiavi per la vita ultraterrena. Ebeorietemethhpiti."
Come per il caso Bates si ricorre all'F.B.I. e questa, come nel caso Bates, insinua che l'autore non sia il vero assassino, ma qualche sciacallo che vuole estorcere soldi facili.
Il 4 agosto l'Examiner di San Francisco riceve un'altra lettera. In essa il killer sbeffeggia gli investigatori perché non riescono a risolvere il simbolo cifrato, racconta nuovamente con accuratezza l'attentato ai due ragazzi, spiegando anche come fa a sparare con sicurezza al buio. Per la prima volta si firma "Zodiac". Tutte le lettere verranno analizzate per anni, senza rintracciare impronte utili.
Il 27 settembre 1969, sulla spiaggia occidentale del Lago Berryessa, 60 miglia a nord est da San Francisco, lo Zodiac Killer torna a colpire.
Sono le 15.00 mentre tre giovani donne da Angwin, stanno parcheggiando nell'area adibita vicino al lago. Una Chevrolet azzurra si accosta a loro, all'interno c'è un uomo che sembra intento a leggere qualcosa e le ragazze non ci danno conto.
L'uomo è alto circa 1.80, sui 90kg, occhialuto, indossa una maglia nera e blu su dei pantaloni neri. Le donne si allontanano e camminano lungo la riva del lago, prendendo il sole. Quando si accorgono che l'uomo le osserva silenziosamente, fumando sigarette, si preoccupano un po'. Passano 20 minuti così, quando l'uomo finalmente si allontana.
Lo stesso uomo viene avvistato da un dentista e suo figlio.
Di tutt'altra maniera l'incontro tra l'uomo misterioso e Cecilia Ann Shepard e Bryan Calvin Hartnell, due studenti universitari.
Poco prima di essere troppo vicino alla coppia, l'assassino si butta addosso una tunica nera, con dei fori per gli occhi. Sulla vita è disegnato il solito stemma molto simile a una croce celtica.
Alla cintura è appeso un pugnale, mentre nella mano destra l'uomo impugna saldamente una pistola.
Si presenta come un evaso dalla prigione di Deer Lodge, nel Montana, ed esige l'auto dei ragazzi per scappare nel Messico. La parlata è incredibilmente monotona e calma, senza cadenze o accenti.
Bryan Hartnell con freddezza, sperando di arrivare a una soluzione pacifica e senza danni, prova a rilassare il pazzo e i due finiscono per discutere a lungo, seduti sulla vettura dei ragazzi.
All'improvviso però l'assassino perde le staffe senza motivo apparente.
Lega Cecilia e comincia a colpire la coppia con il suo coltello, probabilmente estratto da una baionetta.
Sei pugnalate per Bryan Hartnell, dieci per Cecilia Shepard. Il ragazzo si riprenderà e riuscirà a deporre per la polizia, ma la ragazza morirà nel giro di 48 ore.
Prima di andarsene, lo Zodiac Killer impugna un gessetto nero, di quelli che si utilizzano nei riti magici, e scrive sulla portiera della macchina: "Vallejo 12-20-68, 7-4-69, Sept 27-69-6:30. Con un coltello."
Anche questa volta la polizia di Vallejo riceve una telefonata, dalla stessa cabina. Non è passata nemmeno un'ora dall'aggressione.
"Vorrei segnalare un assassinio, no, un duplice omicidio. I corpi sono a due miglia a nord della sede centrale del parco. Erano in una Volkswagen bianca. Sono stato io."
11 ottobre 1969. A cadere vittima dello Zodiac Killer è un tassista 39enne di San Francisco, Paul Stine. È appena finita la corsa. Il passeggero si è fatto portare dall'angolo tra la Mason e Geary Street all'angolo tra la Washington e Maple Streets, presso Presidio Heigths. E qui, invece di pagare, estrae una pistola da 9mm e spara alla testa di Stine.
Prima di lasciare la scena del delitto, strappa un pezzo di camicia insanguinata dalla schiena del tassista e poi sparisce nella notte.
La descrizione fornita dei testimoni è sempre la stessa, anche se inizialmente dei ragazzini si sbagliano: indicano alle pattuglie un uomo di colore, e così la fuga a piedi dello Zodiac Killer è fin troppo facile.
Sul luogo del delitto vengono rintracciate le solite impronte che non porteranno mai a nessuno.
Nei giorni successivi arrivano alla stampa le solite lettere nelle quali lo Zodiac Killer si assume la responsabilità dell'omicidio. L'indirizzo del mittente c'è, ma è rappresentato dall'ormai immancabile croce celtica. Per smentire le solite voci che non si tratterebbe di lettere autentiche, lo Zodiac Killer allega al messaggio un pezzo della camicia insanguinata del tassista. Un pezzo per volta.
Nel finale delle lettere l'assassino si vanta di aver spiazzato gli investigatori, avendo cambiato all'improvviso la tipologia delle vittime, insinuando che potrebbe rubare un pulmino della scuola e uccidere tutti i bambini che ci sono sopra.
Inutile aggiungere che a queste dichiarazioni seguirà il panico. Tutti i casi insoluti della costa ovest saranno imputati allo Zodiac Killer. Da Houston ad Atlanta, fino ad arrivare a St. Louis. Si rafforzano i controlli alle uscite delle scuole e gli autisti dei pulmini vengono armati.
Seguono altre lettere, una delle quali ha un contenuto seriamente minaccioso:
"È Zodiac che vi parla. Dalla fine di ottobre ho ucciso 7 persone. Sono piuttosto arrabbiato con la polizia che dice un sacco di bugie sul mio conto, quindi cambierò continuamente il metodo di raccolta degli schiavi. Non lo annuncerò più a nessuno, quando commetterò degli omicidi, questi vi sembreranno furti, uccisioni di rabbia o futili incidenti.. […] La polizia non mi prenderà mai perché sono più intelligente di loro: 1) l'identikit che gira corrisponde a me solo quando vado a caccia di anime, il resto del tempo sono completamente diverso. 2) Non possono avere le mie impronte come dicono perché io indosso delle coperture sulle dita, sono di cemento per aeroplani. 3) Tutte le mie armi sono state comprate per corrispondenza da paesi stranieri e non potete rintracciarmi. […] La sera dell'omicidio del tassista ero al parco, dei poliziotti si sono fermati per chiedermi se avessi visto qualcuno di sospetto.." La lettera termina con una delirante descrizione di una arma potentissima, in grado di far saltare in aria un autobus, che l'assassino avrebbe costruito con le sue mani e che terrebbe in cantina.
La lettera successiva raggiunge l'avvocato Melvin Belli il 27 dicembre 1969. È allegata a una cartolina di auguri natalizi. Il killer sembra inspiegabilmente lucido e invoca addirittura aiuto. Pentito della minaccia di attentato all'autobus di bambini, chiede aiuto a Belli perché teme di perdere nuovamente il controllo e di ricominciare a uccidere. "Per piacere mi aiuti, non manterrò il controllo ancora a lungo."
Purtroppo non contatterà più Belli in seguito, facendo perdere le proprie tracce per più di tre mesi.
Domenica 22 marzo 1970. È sera, ma da poco tempo. La 23enne Kathleen Johns sta guidando sulla Highway 132, nella Contea di San Joaquin. In auto con lei c'è la figlioletta Jennifer.
Una macchina si avvicina a lei, l'autista suona il clacson, le fa gesti e le urla che ha una ruota a terra e si propone volontariamente di aiutarla a cambiarla.
L'uomo in realtà rimuove solamente i bulloni e così, quando Kathleen si rimette in marcia, la ruota si leva del tutto. Dispiaciuto per il nuovo incidente, lo sconosciuto le offre un passaggio fino alla prossima stazione di servizio.
Il viaggio dura a lungo, nella direzione di Modesto (California), tuttavia il gentile sconosciuto pare non volersi fermare a nessuna stazione di servizio.
Kathleen capisce che è in pericolo e, agguantata la figlioletta, salta giù dalla vettura. Si nascondono tra le ombre, nell'argine prosciugato di un fiumiciattolo per l'irrigazione dei campi. Il killer prova a cercarle per circa dieci minuti, aiutandosi con i fari dell'auto e una torcia, ma alla fine abbandona l'impresa e scompare nella notte.
Raggiunta la stazione di polizia di Patterson, Kathleen si siede su una sedia, pronta a raccontare allo sceriffo la propria brutta avventura e per sporgere denuncia. Alle spalle dell'uomo c'è un tabellone con gli identikit di tutti i ricercati e, proprio tra questi, la donna riconosce il colpevole. L'identikit indicato da Kathleen Johns è quello dello Zodiac Killer.
Tra l'aprile 1970 e il marzo 1971, lo Zodiac Killer inviò almeno nove lettere, ma da esse la polizia non è riuscita a risalire a nessun ulteriore crimine. Né è riuscita a rintracciare l'omicida.
Il 30 gennaio 1974, un giornale di San Francisco ricevette la prima lettera autentica in quasi tre anni. Poche parole senza senso, la firma riportava le misteriose notazioni "Me-37" e "SFPD-0" mentre  1/3 della pagina era occupato da un'enorme croce celtica, vicino alla quale compariva la dicitura "=3".
Nel 1975, Don Striepke, uno sceriffo della Contea di Sonoma stilò un rapporto con una teoria interessante. Segnando su di una mappa una serie di 40 assassini insoluti degli Stati Occidentali, si andava a formare una gigantesca Z. Questa teoria però cadrà ben presto nel dimenticatoio, poiché nella stessa zona e negli stessi anni operava anche Ted Bundy.
Il 24 aprile 1978 è stata consegnata alla stampa la 21esima lettera dello Zodiac Killer. La lettera debutta con un inquietante "sono tornato" che ha sparso il terrore tra gli abitati della Bay Area. Nessun crimine è stato rintracciato nella zona prima o dopo la lettera e ad essa sono seguite lettere senza senso, che lodavano il lavoro della polizia. Dopo accurate analisi si è scoperto che l'autore di queste lettere sarebbe proprio Dave Toschi, ufficiale di polizia e a capo delle indagini sullo Zodiac Killer.
Altra teoria bocciata severamente è quella avanzata all'inizio degli anni '80 dallo scrittore George Oakes. L'autore disse di essere in contatto telefonico con l'assassino da anni, e di conoscere bene la sua mentalità basata sull'acqua, sugli orologi e sulle matematiche binarie. Aggiunse anche di sapere l'identità del killer. L'F.B.I. senza nessuna delicatezza ha etichettato questa teoria come "a lot of bullshit".
Molto più interessante è un libro del 1986, "Zodiac" di Robert Graysmith. In questo volume il killer viene indicato con lo pseudonimo di "Robert Hall Starr".
Residente di Vallejo, "Starr" è descritto come un fanatico di armi e come un molestatore di bambini, indicato dalla polizia come il sospetto numero uno. Graysmith accredita allo Zodiac Killer un totale di 36 possibili vittime, uccise tra ottobre 1966 e maggio 1981. Oltre ai sei omicidi noti, Graysmith incluse 15 vittime collegate ad un misterioso killer non identificato della California settentrionale, e 15 vittime di un omicida "astrologico", che colpisce cioè in prossimità di un solstizio o un equinozio. Il 99% delle vittime sono donne, e il modus operandi è incostante. Ciò riporterebbe alle parole "cambierò continuamente il metodo di raccolta degli schiavi" scritto dal killer nel '69.
Effettivamente il Robert Hall Starr di Graysmith è esistito davvero. Si chiamava Arthur Leigh Allen, ed era un insegnante incriminato per molestie sessuali nei confronti di alcuni bambini. Per anni è stato sospettato di essere lo Zodiac Killer, ed è l'unico ad aver subito interrogatori e processi su questo caso. È morto nel 1992 a 58 anni, stroncato da una malattia ai reni, ma le indagini sono proseguite sempre nella sua direzione.
Nel 2002, grazie alle moderne tecnologie, è stato estratto il DNA dalla saliva rimasta sotto alcuni francobolli utilizzati da Zodiac. Il Dna ha dimostrato che Allen non era il colpevole.
È stata la prima e unica svolta da quando, nel 2000, gli ispettori Kelly Carroll e Michael Maloney, della polizia di Vallejo, hanno riaperto il caso dello Zodiaco, e non è certo una svolta positiva.
Sempre nel 2002, nello stato di Washington, un serial killer ha firmato i propri delitti con un foglietto riportante la scritta: "Sono Dio". "Quando morirò, rinascerò in paradiso" annunciava lo Zodiac Killer, ma si tende ad escludere che si tratti di lui che colpisce ancora a distanza di 30 anni.
Nell'ottobre del 2021 un gruppo di 40 investigatori suppone di averlo identificato dopo ben 50 anni. Si tratterebbe di Gary Francis Poste, un ex membro dell'aeronautica statunitense morto nel 2018, tuttavia non è stato confermato dall'FBI e dalla polizia della città di Vallejo e San Francisco.

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