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giovedì 29 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 febbraio.
Il 29 febbraio 1712 in Svezia fu seguito, strano a dirsi, dal 30 febbraio! Per capire come è successo, dobbiamo esaminare il contesto storico. 
Prima del 18° secolo la Svezia aveva in adozione il calendario giuliano (nome che deriva da Giulio Cesare, che lo introdusse nel 46 a.C.). Tuttavia, questo calendario aveva un errore di 11 minuti e 14 secondi rispetto all'anno solare, il che significava che il calendario lentamente si discostava dalla realtà astronomica. 
Nel 1699, la Svezia decise quindi di adottare a partire dal 1700 il calendario gregoriano (introdotto da papa Gregorio XIII nel 1582), che aveva un meccanismo di correzione per evitare lo scostamento dell'anno solare del calendario giuliano. Tuttavia, la transizione non fu facile, poiché richiedeva di saltare una decina di giorni dal calendario giuliano per allinearlo con il gregoriano. 
In particolare, la Svezia decise di compiere il passaggio in modo graduale, eliminando tutti gli anni bisestili (con il 29 febbraio) dal 1700 al 1740. Nel 1700 effettivamente la Svezia non inserì il 29 febbraio in calendario, ma la stessa cosa non accadde né nel 1704 né nel 1708. Perché? Perché nel frattempo era scoppiata la Grande Guerra del Nord contro l'impero russo (1700-1721) e la Svezia aveva cose più importanti a cui pensare. 
Questo, però, rimise in discussione l'intera decisione di cambiare calendario e così, resosi conto della dimenticanza, nel 1712 il Re Carlo XII decise di tornare pienamente al vecchio calendario giuliano. Per fare questo era necessario recuperare il giorno perso nel 1700. Il 1712 era già un anno bisestile, con il 29 febbraio, e la decisione fu proprio quella di aggiungere anche il 30 febbraio. 
Quando nel 1753 la Svezia decise definitivamente di passare al calendario gregoriano, effettuò stavolta il passaggio in modo diretto, forse ricordando gli errori di inizio secolo. Gli svedesi saltarono così dal 17 febbraio al 1 marzo.

mercoledì 28 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 febbraio.
Il 28 febbraio 1983 va in onda negli Stati Uniti l'ultimo episodio di M*A*S*H, che diventa il telefilm più visto della storia della tv americana.
11 stagioni, 251 episodi, per un totale di 11 anni, dal 1972 all'83. Gli spettatori che il 28 Febbraio 1983 sono rimasti incollati al piccolo schermo, canale CBS superano di gran lunga quello di ogni passato evento americano. 105,9 milioni di telespettatori.
Stiamo parlando della già mitica serie televisiva M*A*S*H ideata da Larry Gelbart, ispirata all’omonimo film di Altman datato 1970 che a sua volta è stato liberamente tratto dal romanzo che Richard Hooker scrisse nel 1968. Questo mix di letteratura, realtà e fiction racconta gli anni della guerra di Corea; i suoi protagonisti sono i medici del 4077th Mobile Army Surgical Hospital statunitense in Huijeongbu dal 1950 al 1953, il M.A.S.H appunto. Il Capitano Benjamin Franklin porta con sé l’appellativo di Occhio di Falco Pierce, datogli dal padre dall’«unico libro letto dal vecchio», L’ultimo dei mohicani. È l’indiscusso protagonista di M*A*S*H ed è anche il più insofferente alle regole. Il Capitano “Trapper” John è un ex-quarterback e un seduttore, come suggerito dal nome, oltre che il burlone del gruppo. Il più pacato sembra essere il Capitano BJ Hunnicutt, medico persino nel DNA, perché quarto per generazione in una famiglia di chirurghi. E infine lei, il Maggiore Margaret Houlihan, il cui soprannome, “Hotlips”, deriva da una scena di sesso simil-comica.
Il romanzo e il film sono stati entrambi di stampo umoristico, ma M*A*S*H, il telefilm, ha connotazioni più drammatiche. Lunga storia anche per questo cambio di registro, che ha visto sorgere polemiche per lo strano sfottò verso la tragica guerra di Corea, in un periodo anti-bellico come gli anni dei figli dei fiori. …Come gli anni della guerra nel Vietnam, così come dichiarato dal critico cinematografico Goffredo Fofi: «Il film parla della guerra in Corea e allude al Vietnam, ma come Kubrick nel Dottor Stranamore, sceglie la strada “enorme” della farsa e non quella della denuncia.»
Ma come detto, quel M*A*S*H Altmaniano fa parte di un’altra storia. L’evento a cifre colossali è l’ultimissima puntata di un telefilm che al di là delle sue nobili origini letterarie e cinematografiche, è riuscito a sopravvivere 251 episodi. Si è concluso nel modo più logico, il ritorno a casa. Con qualche lacrimuccia dei protagonisti per la tanto desiderata libertà, il M*A*S*H viene smantellato. Restano i commenti di chi ha salutato la serie tv di Larry Gelbart. C’è chi ricorda maggiormente il film e chi già rimpiange Hotlips, chi ripiegherà su Happy Days, e chi spera in un seguito che però appare improbabile. Ma si sa, the show must go on. E la tv americana produrrà altri numeri. E di certo continuerà a tenerci incollati al suo piccolo schermo.

martedì 27 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 febbraio.
Il 27 febbraio 1940 Martin Kamen e Sam Ruben scoprono l'isotopo 14 del carbonio.
Il loro obiettivo era quello di studiare il movimento del carbonio nella fotosintesi. Per riuscirci Martin Kamen e Sam Ruben, ricercatori dell' Università di Berkeley, speravano di poter usare uno degli isotopi di questo elemento (atomi di carbonio che presentano un numero di neutroni nel nucleo diverso da sei): il carbonio 11. Purtroppo per loro questo atomo è molto difficile da tracciare in quanto resiste nella sua forma stabile appena 21 minuti.
Per questo motivo, i due erano da tempo molto demoralizzati. Tuttavia, quella mattina del 27 febbraio 1940, analizzando i dati relativi a cinque giorni di esperimenti realizzati con il ciclotrone dell'università alla ricerca di questo isotopo, Kamen e Ruben trovarono qualcosa di cui rallegrarsi: un nuovo isotopo del carbonio con sei protoni e ben 8 neutroni, il carbonio 14. A tradire la presenza di questo atomo fu l'energia da lui emessa. Questo infatti è un isotopo radioattivo, ovvero si trasforma (decade) nel tempo in un altro elemento, l'azoto 14, emettendo energia. Questo atomo, inoltre, è molto più stabile del suo fratello più piccolo: ha un'emivita (cioè un tempo di decadimento) di più di 5mila anni.
I due ricercatori si concentrarono sulla loro scoperta per due anni poi, con l'ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale, furono dirottati su altri campi di ricerca. Kamen, immigrato dal Canada, venne chiamato a lavorare al Progetto Manhattan, salvo venire licenziato nel 1944 e cacciato da Berkeley perché sospettato di essere una spia del Kgb, il servizio segreto sovietico. Sette anni dopo sarebbe stato formalmente accusato e processato, e gli sarebbe stato tolto il passaporto. Solo alla fine degli anni 50 sarebbe riuscito a liberarsi delle accuse e a riabilitare la sua reputazione. Sam Ruben invece cominciò a studiare le proprietà di un gas velenoso realizzato con il carbonio 11, il fosgene, e morì in seguito a un incidente di laboratorio.
Chi si dedicò seriamente, e con successo, allo studio di questo isotopo del carbonio fu invece, dieci anni dopo la sua scoperta, Willard Frank Libby, chimico dell' Università di Chicago. Il ricercatore calcolò che l'emivita dell'isotopo era di 5568 anni, un valore molto vicino a quello indicato nel 1962 dai ricercatori dell' Università di Cambridge oggi considerato valido. Libby teorizzò anche che analizzando il contenuto di carbonio 14 di un reperto di origine organica, non più antico di 60mila anni, fosse possibile ricostruire la sua origine temporale. E mise a punto una tecnica che gli permise di datare perfettamente un'imbarcazione risalente all'Antico Egitto. Una tecnica, oggi conosciuta come datazione al radiocarbonio, che gli valse la vittoria del premio Nobel per la Chimica nel 1962 e che rivoluzionò l' archeologia.

lunedì 26 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 febbraio.
Il 26 febbraio 1815 Napoleone Bonaparte fugge dall'Isola d'Elba.
Napoleone lasciò l’isola d’Elba il 26 febbraio 1815, alle sette di sera. In realtà non si trattò di una fuga ma di una partenza ben preparata da tempo nei minimi dettagli.
Fu un susseguirsi di eventi: i primi di febbraio infatti, approfittando di un attracco forzoso dell'imbarcazione Inconstant (un bastimento a due alberi costruito nei cantieri di Livorno nel 1810 lungo 30 metri e con 14 cannoni) che si era arenata nei pressi della rada di Portoferraio, Napoleone, con la scusa di doverla far riparare, la incominciò a riarmare di cannoni e la caricò con patate e acquavite e tutto ciò che poteva servirgli per il viaggio.
La notte del 25 febbraio fu molto concitata e Napoleone preparò tutte le cose da portare via; poi, approfittando dello scirocco e della partenza del suo “controllore” inglese Campbell per Firenze, il 26 febbraio si imbarcò sul brigantino e partì con un piccolo esercito composto da 673 uomini, fra cui molti giovani delle famiglie elbane più in vista.
Il giorno in cui l’imperatore salpò dall’Elba per approdare poi il 1 marzo a S. Juan in Francia, erano presenti sull’isola anche la madre Letizia e la sorella Paolina.
Come si legge in Souvenirs et anecdotes de l'île d'Elbe di Pons de l'Hérault, che fu direttore delle miniere di Rio e testimone diretto dei giorni di Napoleone all’Elba, quando Napoleone arrivò al porto per salire sulla piccola imbarcazione che lo avrebbe condotto a bordo dell’Inconstant a salutarlo c’era una folla di persone fra cui anche l’allora sindaco di Portoferraio.
I cittadini e le cittadine elbane al passaggio di Napoleone rimasero in silenzio e si scoprirono il capo per salutarlo ma molte furono anche le parole che gli rivolsero sia di augurio, che di raccomandazione e di gratitudine.
Il pittore Joseph Beaume ha fissato i momenti precedenti la partenza di Napoleone dall’Isola d’Elba in un dipinto del 1836 dal titolo “Napoléon Ier quittant l'île d'Elbe, 26 février 1815”, esposto presso il Musée Naval et Napoléonien di Antibes in Costa Azzurra.

domenica 25 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 febbraio.
Il 25 febbraio 1964 Cassius Clay conquista la corona mondiale dei pesi massimi a soli 22 anni.
Quello che è considerato il più grande pugile di tutti i tempi, Cassius Clay alias Muhammad Ali (nome che ha adottato dopo essersi convertito alla religione islamica) è nato il 17 gennaio del 1942 a Louisville, Kentucky e ha iniziato a tirare di boxe per un caso fortuito, dopo essere capitato in una palestra mentre, bambino, era alla ricerca della sua bicicletta rubata.
Iniziato alla boxe da un poliziotto di origini irlandesi, a soli dodici anni il futuro campione del mondo Cassius Marcellus Clay Jr. cominciò ben presto a raccogliere trionfi nelle categorie dilettantistiche. Campione olimpico a Roma nel 1960, si trovò però nel suo paese d'origine, gli Stati Uniti d'America, a combattere con un avversario ben più temibile di chiunque potesse incontrare sul ring: la segregazione razziale. Molto sensibile al problema e trascinato dal suo spirito battagliero ed indomito, Alì prese subito a cuore le tematiche che colpivano in prima persona i fratelli neri meno fortunati di lui.
Proprio a causa di un episodio di razzismo il giovane pugile arriverà a gettare il proprio oro olimpico nelle acque del fiume Ohio (solo nel 1996 ad Atlanta il CIO - Comitato Olimpico Internazionale - gli riconsegnò una medaglia sostitutiva).
Allenato da Angelo Dundee, Muhammad Ali arrivò al mondiale a ventidue anni battendo in sette riprese Sonny Liston. Fu in quel periodo che Cassius Clay cominciò a farsi conoscere anche per le sue dichiarazioni provocatorie e sopra le righe che ebbero l'inevitabile conseguenza di far parlare molto di lui. Cosa che forse non sarebbe comunque successa se Alì, grazie al suo enorme carisma anche mediatico, non avesse avuto una reale presa sul pubblico. In effetti il suo modo di essere, spavaldo fino ad arrivare alla spacconeria, era una notevole novità "spettacolare" per quei tempi, esercitando un fascino immediato sul pubblico, sempre più assetato, grazie a quel meccanismo, di notizie e di informazioni sulla sua attività.
Immediatamente dopo aver conquistato la corona, Cassius Clay annunciò di essersi convertito all'Islam e di aver assunto il nome di Muhammad Ali. Da quell'istante cominciarono anche i suoi guai che culminarono nella chiamata alle armi nel 1966 dopo essere stato riformato quattro anni prima. Affermando di essere un "ministro della religione islamica" si definì "obiettore di coscienza" rifiutandosi di partire per il Vietnam ("Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro", dichiarò alla stampa per giustificare la propria decisione) e venne condannato da una giuria composta di soli bianchi a cinque anni di reclusione.
Fu quello uno dei momenti più bui della vita del campione. Decise di ritirarsi e venne attaccato per il suo impegno nelle lotte condotte da Martin Luther King e Malcolm X. Poté tornare a combattere nel 1971 quando fu assolto grazie a una irregolarità nelle indagini svolte su di lui.
Persa la sfida con Joe Frazier ai punti, riuscì a tornare campione del mondo AMB solo nel 1974 mettendo al tappeto George Foreman a Kinshasa, in un incontro passato alla storia e ad oggi ricordato sui manuali come uno dei più grandi eventi sportivi di sempre (celebrato fedelmente, dal film-documentario "Quando eravamo re").
Da quando però nel 1978 il giovane Larry Holmes lo sconfisse per K.O. tecnico all'11a ripresa, iniziò la parabola discendente di Muhammad Ali. Disputò il suo ultimo incontro nel 1981 e da allora iniziò a impegnarsi sempre più nella diffusione dell'Islam e nella ricerca della pace.
Nel 1991 Muhammad Ali si recò a Bagdad per parlare personalmente con Saddam Hussein, allo scopo di evitare la guerra con gli Stati Uniti ormai alle porte.
Colpito negli ultimi anni di vita dal terribile morbo di Parkinson, Muhammad Ali ha commosso l'opinione pubblica di tutto il mondo, turbata dal violento contrasto esistente fra le immagini esuberanti e piene di vita di un tempo e l'uomo sofferente e privato delle sue forze che si presentava ora al mondo.
Alle Olimpiadi americane di Atlanta 1996, Muhammad Ali sorprese e allo stesso tempo commosse il mondo intero accendendo la fiamma olimpica che inaugurava i giochi: le immagini mostrarono ancora una volta gli evidenti segni dei tremori dovuti alla sua malattia. Il grande atleta, dotato di una forza di volontà e di un carattere d'acciaio, non si fece moralmente sconfiggere dalla malattia che lo accompagnò per trent'anni e continuò a combattere le sue battaglie di pace, in difesa dei diritti civili, rimanendo sempre e comunque un simbolo per la popolazione di colore americana.
Muhammad Ali si è spento il 3 giugno 2016 a Phoenix, all'età di 74 anni, ricoverato in ospedale a causa dell'aggravarsi delle sue condizioni.

sabato 24 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 febbraio.
Il 24 febbraio 1826, con la firma del trattato di Yandaboo, ha fine la prima delle tre guerre anglo birmane, la quale passò alla storia soprattutto per la vicenda della campana di Shwedagon.
Ci vollero ben tre guerre nel corso dell’Ottocento prima che gli inglesi avessero la meglio sul bellicoso Regno di Birmania e lo trasformassero nell’ennesima colonia dello sterminato Impero Britannico. Fu proprio al termine della prima guerra anglo birmana nel 1825 che si verificò un episodio singolare: nel corso del saccheggio che seguì la vittoria, gli inglesi asportarono dalla Pagoda di Shwedagon di Rangoon (oggi Yangon) una grande campana donata al Buddha nel 1779 da re Singu, il quarto della dinastia Konbaung.
La campana – 23 tonnellate di bronzo per due metri di altezza – era destinata a essere trasportata dai vincitori a Calcutta come trofeo di guerra, ma durante le operazioni di carico sulla nave qualcosa andò storto e l’enorme manufatto finì sul fondo del fiume Yangon. Il peso e la scarsità di mezzi rendevano l’operazione di recupero troppo complessa e, dopo alcuni tentativi infruttuosi, gli inglesi decisero di abbandonarla nella melma. Tempo dopo però la popolazione locale chiese l’autorizzazione per tentarne il recupero, a patto che la campana venisse rimessa al suo posto. Gli inglesi, certi di un insuccesso, accordarono il permesso. Incredibilmente, grazie a una serie di immersioni in condizioni estreme durante le quali i birmani riuscirono a posizionare centinaia di pali di bambù sotto il pesante bronzo, l’impresa riuscì.
Oggi la campana fa bella mostra di sé, anche se danneggiata dalla caduta, sotto un tempietto del lato nord-ovest della Pagoda di Shwedagon. E due quadri di pittori locali illustrano i momenti cruciali dello straordinario episodio.

venerdì 23 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 febbraio.
Il 23 febbraio 303 d.C. l'imperatore Diocleziano inizia la persecuzione dei cristiani.
Il Cristianesimo si era diffuso in tutto l'impero, era penetrato nella corte, nel Senato, nell'esercito, nella burocrazia, nelle classi ricche e colte come nelle povere e ignoranti, aiutato dalle guerre, dalle ribellioni, dall'anarchia politica e amministrativa, dal disagio economico, dalla decadenza del sentimento nazionale, dalla immissione nei territori dell' impero di numerosissimi barbari, dall'intiepidirsi della fede pagana, dalla diffusione di certe dottrine filosofiche, dalle migliorate condizioni della schiavitù e dalle numerosa opere assistenziali istituite dalle comunità cristiane fiorentissime. Il Cristianesimo, malgrado le persecuzioni sofferte, aveva saputo organizzarsi potentemente. Le chiese disponevano di ingenti beni e si era formata una gerarchia, che in certe città aveva una grandissima autorità anche fuori della cerchia della comunità cristiana.
La diffusione e la potenza del Cristianesimo, nonché la dottrina da esso predicata e i sentimenti che nei seguaci inculcava, non potevano non preoccupare Diocleziano. Il Cristianesimo era un elemento dissolvente dell' impero: divideva i cittadini credenti da quelli che professavano altre fedi, predicava l'astensione dalle pubbliche cariche, univa il romano al barbaro, era contrario alla guerra e all'esercito, non riconosceva la divinità dell'imperatore.
Diocleziano non era un pagano fanatico e nei suoi primi anni fu molto tollerante verso i Cristiani, ma quando due magistrati di Samosato si rifiutarono apertamente di sacrificare agli dei in ringraziamento della vittoria sui Persiani, quando i sacerdoti affermarono che le viscere delle vittime consultate, non rispondevano per la presenza disturbatrice nell'esercito di soldati di altra fede, quando il suo consiglio privato concordemente si pronunciò per la persecuzione dei Cristiani e questa venne approvata dall'oracolo di Apollo Didimeo, l'imperatore non riuscì più resistere alle pressioni di Galerio che odiava i seguaci di Cristo e stabilì di prendere dei provvedimenti.
Il 23 febbraio del 303, giorno in cui ricorrevano le feste terminali, il prefetto del pretorio, seguito da uno stuolo di soldati e dal popolino pagano, invase il tempio cristiano di Nicomedia, bruciò i libri sacri e ordinò che la chiesa fosse saccheggiata e distrutta.
Il giorno dopo fu pubblicato un editto che ordinava la distruzione delle chiese e dei libri dei Cristiani, ne scioglieva le comunità, ne confiscava i beni, proibiva le riunioni, escludeva dalle cariche pubbliche e dalla cittadinanza romana i sudditi che appartenevano alla religione di Cristo e rimetteva nella schiavitù i liberti se non ritornavano al paganesimo. Un cristiano osò strappare e lacerare l'editto, ma venne arrestato e bruciato vivo. Qualche tempo dopo scoppiò un incendio nel palazzo imperiale di Nicomedia; mentre in Siria -approfittandone- ebbero luogo tra le truppe e i funzionari civili dei moti antidinastici. L'uno e gli altri vennero attribuiti ai Cristiani; molti ne furono arrestati e processati, e tutti — e fra questi, alcuni addetti al palazzo imperiale — sebbene si proclamassero innocenti, vennero mandati al martirio.
La distruzione delle chiese e dei libri sacri ordinata dall'editto provocò in Oriente tumulti e tentativi di resistenza da parte delle comunità cristiane, cui tenne dietro un secondo editto che comminava pene più severe. Con questo l'imperatore ordinava che i Cristiani venissero ricercati ed obbligati a sacrificare agli dei e che tutti i vescovi e i preti che si rifiutavano di consegnare i libri sacri venissero messi in carcere. Al secondo seguì un terzo editto col quale, in occasione delle prossime feste con cui si sarebbe celebrato solennemente il primo ventennio dell'avvento all'impero dei due Augusti (Vicennalia), si accordava l'amnistia a coloro che, abbandonato il Cristianesimo, ritornassero all'antica fede pagana, e si annunziava una maggior severità contro di quelli che si ostinassero a rimaner Cristiani.
Non in tutte le parti dell'impero gli editti vennero applicati col medesimo rigore. Nell'Occidente, specie nella Gallia e nella Britannia dove i Cristiani erano meno numerosi, per merito di Costanze Cloro e della sua corte in gran parte convertita al Cristianesimo, la persecuzione fu molto blanda e si limitò alla distruzione di qualche chiesa e alla proibizione delle assemblee dei Cristiani; in Oriente invece, più per opera di Galerio che di Diocleziano, gli editti vennero applicati con un rigore che a volte confinò con la ferocia. In una città della Frigia — secondo la tradizione ecclesiastica — gli abitanti cristiani furono chiusi in una chiesa e perirono tra le fiamme; molti vescovi vennero gettati nelle prigioni, altri furono deportati nella Pannonia, come il vescovo di Antiochia, a lavorare nelle cave di marmo.
Davanti alla ferocia dei persecutori non tutti i Cristiani ebbero la forza e il coraggio di resistere: non furono pochi quelli che abiurarono e sacrificarono ai vecchi dei, parecchi vescovi consegnarono i libri sacri e ci furono anche di quelli che, dopo di avere fatto apostasia, aiutarono i magistrati a perseguitare gli antichi compagni di fede. Nel novembre del 303 vennero celebrati con gran pompa i Vicennalia e il trionfo dei due Augusti. Roma per pochi giorni tornava ad essere la capitale dell'impero e tornava ad assistere ai cortei trionfali in onore di coloro che per la sua grandezza avevano combattuto e vinto.
Il 20 novembre Diocleziano e Massimiano fecero il loro ingresso nella metropoli sopra un magnifico carro tirato da quattro elefanti, seguiti dai senatori, da un numeroso stuolo di magistrati e ufficiali, da una selva di insegne, dai trofei delle vittorie e dalle figure di Narsete, delle sue donne e dei suoi figli. Le feste furono accompagnate da un'amnistia e da elargizioni alle principali città per un totale di trecentodieci milioni di denari.

giovedì 22 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 febbraio.
Il 22 febbraio 2017 la NASA annuncia la scoperta di un sistema solare simile al nostro, distante circa 40 anni luce.
TRAPPIST-1, una stella nana rossa ultra fredda distante poco più di 39 anni luce dal nostro sistema solare, ospita sette pianeti di tipo terrestre. Tre di questi erano già stati scoperti mediante una serie di osservazioni condotte nel 2015.
Poco più di un anno fa, un team di astronomi aveva annunciato una scoperta entusiasmante derivante da precedenti osservazioni: la scoperta di tre pianeti di tipo terrestre in orbita intorno ad una nana rossa ultra fredda. Utilizzando il metodo fotometrico dei transiti, erano stati in grado di scoprire tre pianeti delle dimensioni della Terra in orbita intorno a questa nana rossa. I due pianeti più interni hanno evidenze di essere in rotazione sincrona alla loro stella ospite. Il team ha fatto le sue osservazioni da settembre a dicembre 2015 e ha pubblicato i suoi risultati nel numero di maggio 2016 della rivista Nature.
MASS J23062928-0502285 (nota anche come TRAPPIST-1 dal sistema di osservazione che l’ha studiato) è una stella nana ultrafredda – molto più fredda e più rossa del Sole. Queste stelle sono molto comuni nella nostra galassia e vivono molto a lungo. Nonostante sia così vicina alla Terra, questa stella è troppo debole e troppo rossa per essere vista a occhio nudo o anche con un telescopio amatoriale nella banda visibile: con l’opportuna strumentazione è visibile nella costellazione dell’Acquario.
Ora, un team internazionale di trenta astronomi ha raccolto una serie di evidenze sufficienti per affermare che il sistema contiene in effetti ben sette pianeti, tutti di tipo terrestre. Il dato più affascinante è che i pianeti scoperti risulterebbero in gran parte nella zona abitabile del sistema e questo, come abbastanza ben noto recentemente dopo sempre più numerose scoperte di esopianeti, significa che potrebbero ospitare acqua allo stato liquido. Questo fa di TRAPPIST-1 il primo caso di sistema con un così elevato numero di pianeti in zona abitabile e per di più con dimensioni terrestri. Questa scoperta apre profonde implicazioni nella ricerca di vita extraterrestre nei sistemi extrasolari.
TRAPPIST-1 non è molto più grande di Giove, ed emette una piccola frazione della luminosità totale del nostro Sole. I sette pianeti che orbitano attorno alla stella nana, denominati TRAPPIST-1b, 1c, 1d, 1e, 1f, 1g, e 1h, sono raccolti in un sistema solare decisamente più piccolo del nostro. Un anno (o un giorno, essendo in rotazione sincrona) sul pianeta più interno dura solo 1,5 giorni terrestri, sul secondo dura appena 2,4 giorni terrestri, mentre l’orbita del terzo pianeta è meno certa, con un range che va da 4,5 a 73 giorni terrestri. Il fatto che le stelle nane rosse costituiscono dal 30 al 50% delle stelle della nostra galassia (il cui numero è compreso tra 100 e 400 miliardi), fa di esse la tipologia più abbondante (considerando che le stelle simili al nostro sole ammontano invece ad un 10%).
Il primo pianeta extrasolare (o esopianeta) è stato scoperto 27 anni fa e da allora l’idea della vita come la conosciamo, presente in altri sistemi planetari, s’è fatta strada secondo vie che sino ad allora erano rimaste inesplorate. Il sistema cosiddetto “dei transiti” ha rivelato via via nuovi pianeti e con la missione Kepler, il numero di esopianeti scoperti ha visto un aumento esponenziale. Michael Gillon, astronomo presso l’Università di Liegi e i suoi colleghi, hanno usato lo stesso metodo per individuare i sette pianeti di questa scoperta. I primi tre sono stati individuati utilizzando un telescopio terrestre, mentre i successivi quattro attraverso il telescopio orbitante della NASA Spitzer. Lo studio suggerisce che i diametri e le masse dei pianeti, stimate sulla base dell’abbassamento della luminosità stellare in prossimità del transito del pianeta, sono compatibili con quelle dei pianeti rocciosi. Date le distanze calcolate e la determinazione della zona di abitabilità del sistema solare, ecco l’affermazione secondo cui l’acqua allo stato liquido potrebbe trovare ampio spazio su questi pianeti. Questo non significa che possiamo saltare alla conclusione di presenza di vita. Come già visto anche per il caso di Proxima b, ci sono svariate condizioni al contorno che possono determinare fattori decisamente poco favorevoli allo sviluppo di vita, dai brillamenti solari alle emissioni di masse coronali: sfortunatamente proprio le nane rosse hanno questa prerogativa con fenomeni anche violenti. Altro aspetto è che tutti i pianeti sembrano orbitare in risonanza, il che potrebbe significare che rivolgono sempre lo stesso lato verso la stella. Dal punto di vista opposto, nessuno di questi fattori può a priori escludere la vita su qualcuno di questi pianeti. TRAPPIST-1 è una stella “molto tranquilla”, ha detto Gillon, per quanto tranquille possano essere delle masse gassose incandescenti come le stelle. Gillon ha anche aggiunto che la rivoluzione in risonanza e la rotazione sincrona potrebbero anche essere un vantaggio, nel senso che potrebbero aver indotto ad un robusto riscaldamento sincrono dei nuclei planetari. Questo calore potrebbe di conseguenza aver sciolto il ghiaccio in acqua liquida e generato un comportamento vulcanico alla base di un isolamento di una atmosfera planetaria. Da qui al passo successivo, ovvero la presenza di vita, il tragitto è breve.
«La scoperta di TRAPPIST-1 e del suo sistema planetario è solo l’inizio», ha detto Gillon. In futuro gli astronomi puntano ad utilizzare le potenzialità in infrarosso del James Webb Space Telescope per rilevare le atmosfere dei pianeti e verificare la presenza di ossigeno e altri gas utili allo sviluppo della vita. Lo stesso vale per il futuro Extremely Large Telescope dell’ESO.
«Può ogni pianeta di questi ospitare la vita? Semplicemente non lo sappiamo» ha detto Ignas A.G. Snellen, un ricercatore della Leiden University che ha rivisto lo studio per Nature, «ma una cosa è certa: in pochi miliardi di anni, quando il Sole avrà esaurito tutto il suo combustibile e il Sistema Solare avrà cessato di esistere, TRAPPIST-1 sarà ancora una stella molto giovane. Brucia il suo idrogeno così lentamente che sopravvivrà ancora per centinaia di miliardi di anni, 700 volte l’età attuale dell’Universo e quindi un tempo sicuramente ragionevole per lo sviluppo di vita».

mercoledì 21 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 febbraio.
Il 21 febbraio 2012 l'Eurogruppo concede alla Grecia ulteriori 130 miliardi di euro in aiuti, scongiurando così il default dell'economia ellenica.
Nel 2009, la Grecia ha dato il via alla crisi annunciando che il suo deficit di bilancio sarebbe stato del 12,9 per cento del PIL, che è più di quattro volte il limite del 3 per cento imposto dall’UE. Le agenzie di rating Fitch, Moody’s e Standard & Poor hanno subito tagliato il rating della Grecia, spaventando gli investitori e aumentando il costo dei prestiti futuri. Il tutto ha reso sempre più difficile che la Grecia potesse trovare i fondi per rimborsare i suoi titoli di Stato.
Nel 2010, la Grecia ha annunciato un pacchetto di austerità per abbassare il deficit al 3 per cento del PIL in due anni, progettato per rassicurare le agenzie e i mercati. Appena quattro mesi dopo, la Grecia ha avvertito che sarebbe andata in default, lo stesso.
L’UE e il FMI hanno fornito 240 miliardi di euro in fondi di emergenza in cambio di ulteriori misure di austerità. Questo ha dato alla Grecia abbastanza soldi solo per pagare gli interessi sul proprio debito già esistente e mantenere le banche capitalizzate.
Le misure di austerità hanno rallentato ulteriormente l’economia greca riducendo le entrate fiscali necessarie per ripagare il debito. La disoccupazione è salita al 25 per cento e numerose rivolte sono esplose per le strade. Il sistema politico greco è entrato in un periodo di profonda crisi.
Nel 2011, l’European Financial Stability Facility (EFSF), un altro strumento di prestito finanziato dai paesi dell’UE, ha aggiunto altri 190 miliardi di euro al piano di salvataggio. Nel 2012, il rapporto debito-PIL della Grecia era salito al 175 per cento, quasi tre volte il limite del 60 per cento indicato dall’UE. Gli obbligazionisti finalmente accettano un taglio sull’investimento, accettando una svalutazione del 75 per cento sui 77 miliardi di dollari del valore del debito.
Ma come è stato possibile arrivare fino a questo punto?
I semi della crisi greca sono stati piantati nel 2001, quando la Grecia ha adottato l’euro come moneta. La Grecia era un membro dell’Unione Europea dal 1981, ma non poteva entrare nella zona euro. Il suo deficit di bilancio era stato troppo alto per i criteri di Maastricht.
Tutto è andato bene per i primi anni. Come altri paesi della zona euro, la Grecia ha beneficiato del potere della moneta unica, che permetteva tassi di interesse più bassi e un afflusso di capitali di investimento e prestiti.
Nel 2004, la Grecia ha annunciato di aver mentito per poter aggirare i criteri di Maastricht. L’UE, tuttavia, non ha imposto delle sanzioni. Perché no?
Per tre cause principali:
1. Anche Francia e Germania stavano spendendo di sopra del limite nello stesso momento, sarebbe stato ipocrita sanzionare la Grecia.
2. C’era forte incertezza su quali sanzioni esattamente applicare. Potevano espellere la Grecia, ma sarebbe stata una decisione dirompente che avrebbe indebolito l’euro.
3. L’UE era impegnata a rafforzare il potere della moneta unica sui mercati valutari internazionali. Un euro forte avrebbe potuto convincere altri paesi dell’UE, come il Regno Unito, Danimarca e Svezia, ad adottare l’euro.
Di conseguenza, il debito greco ha continuato a crescere fino a quando la crisi è scoppiata nel 2009. Ora, l’UE deve stare dietro alla Grecia. In caso contrario, dovrà affrontare le conseguenze della Grexit, e non solo.
La Grecia è diventata l’epicentro della crisi del debito in Europa dopo l’implosione di Wall Street nel 2008. Con i mercati finanziari globali ancora in ripresa, la Grecia ha annunciato nell’ottobre 2009 di aver rivisto al rialzo le cifre del deficit per anni, sollevando allarmismi circa la solidità del sistema finanziario greco.
Improvvisamente, la Grecia è rimasta fuori dai prestiti sui mercati finanziari. Dalla primavera del 2010, ha iniziato ad avvicinarsi alla bancarotta che minacciava di scatenare una nuova crisi finanziaria.
Per scongiurare una simile calamità, la cosiddetta Troika - il FMI, la Banca centrale europea e la Commissione europea - ha messo in campo il primo dei due piani di salvataggio internazionali per la Grecia, per un totale di più di 240 miliardi di euro. Naturalmente, il piano di salvataggio aveva delle sue condizioni.
Le istituzioni creditrici hanno imposto condizioni di austerità che hanno richiesto tagli drastici e aumenti sulle tasse. Quest’ultime hanno inoltre spinto la Grecia a rivedere la conformazioni della propria economia, semplificando le dinamiche di governo, dando fine all’evasione fiscale e rendendo la Grecia un Paese più attraente per gli investimenti dall’estero.
I finanziamenti avrebbero dovuto far guadagnare tempo alla Grecia per stabilizzare le proprie finanze e sedare i timori del mercato su una possibile rottura nell’Unione.
Nonostante il piano di salvataggio abbia aiutato, i problemi economici della Grecia non sono scomparsi. La crescita economica si è ridotta di un quarto in cinque anni e la disoccupazione è al di sopra del 25 per cento.
I fondi di salvataggio servivano - e servono tutt’ora - soprattutto a ripagare i prestiti internazionali della Grecia piuttosto che a sostenere la sua economia. E il governo ha ancora una carico di debito sconcertante che non sarà in grado di ripagare senza una ripresa nel Paese.
Molti economisti e molti greci danno la colpa alle misure di austerità per gran parte dei problemi del paese. Il partito di sinistra Syriza ha vinto di nuovo le elezioni promettendo di rinegoziare il piano di salvataggio; Tsipras infatti sosteneva già che l’austerità aveva creato una «crisi umanitaria» in Grecia.
Ma anche i creditori hanno di che rimproverare alla Grecia: Atene non ha condotto le revisioni economiche necessarie e previste dal piano di salvataggio.
Mentre il dibattito infuria, l’unico punto su cui tutti concordano è che la Grecia è ancora una volta andata a corto di liquidità.
Il 20 agosto 2022, dopo 12 anni, si è conclusa la sorveglianza europea nei confronti della Grecia. Alla fine di giugno la Commissione europea ha deciso che lo stretto controllo imposto nei confronti di Atene dal 2010 non è più giustificato, dopo che a fine aprile il governo ha restituito in anticipo al Fondo monetario internazionale (Fmi) l’ultima tranche (1,58 miliardi di dollari) del prestito ricevuto. “Dopo dodici anni […] si chiude un capitolo difficile per il nostro paese”, ha dichiarato il ministro delle finanze Christos Staikouras. “La Grecia torna a una normalità europea e non sarà più un’eccezione nell’eurozona”.
Nonostante le rassicurazioni offerte dal primo ministro di destra Kyriakos Mitsotakis, i greci non credono a un ritorno alla normalità e non riescono a cancellare dalla memoria un decennio che per loro è sinonimo di crollo, impoverimento, regressione e umiliazione. Ci vorranno decenni prima che il paese si riprenda dalla terapia d’urto che gli è stata imposta e che ha portato danni colossali.
La Commissione europea, dal canto suo, si limita a ignorare il problema. In una lettera firmata dal vicepresidente Valdis Dombrovskis e dal commissario all’economia Paolo Gentiloni, Bruxelles sottolinea che il governo greco ha rispettato la maggior parte degli impegni presi. Questo è l’elemento essenziale per l’Europa, che per quanto riguarda tutto il resto non ha voglia di dilungarsi sull’argomento.

martedì 20 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 febbraio.
Il 20 febbraio 1909 Tommaso Marinetti pubblica sul Figaro il manifesto del futurismo.
Il Manifesto del Futurismo, pubblicato in francese su "Le Figaro" il 20 febbraio 1909 con il titolo Le Futurisme, era stato inviato in forma di volantino a vari intellettuali e scrittori italiani e già pubblicato il 5 febbraio sulla "Gazzetta dell'Emilia".
A motivo di questo primo manifesto e dei trenta redatti nell'arco dei successivi vent'anni (la gran parte compresi tra il 1909 e il 1917), emerge chiara l'intenzione di voler plasmare, distruggendola e rifondandola, una nuova concezione della vita e dell'arte. La Belle Époque, i cui limiti cronologici vanno dalla fine dell'Ottocento alla Prima Guerra Mondiale, vede un susseguirsi di scoperte scientifiche ed invenzioni tecniche che mutano radicalmente ed in modo assai veloce la concezione della vita nelle città: l'introduzione dell'automobile, dell'elettricità, della rete ferroviaria, assieme allo sviluppo dell'aviazione e all'espansione dell'industria, crea, secondo i futuristi, l'urgenza di rifondare alcuni modelli estetici sulle nuove percezioni e concezioni dell'esistenza e di ripensare a nuove modalità di linguaggio per le generazioni future, destinate a vivere in un'epoca caratterizzata da una profonda rottura con i valori del passato.
I primi futuristi, Paolo Buzzi, Aldo Palazzeschi, Enrico Cavacchioli, Corrado Govoni, Libero Altomare, Folgore, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini, Balilla Pratella, Antonio Sant'Elia, e naturalmente Filippo Tommaso Marinetti, l'ispiratore, fondatore e finanziatore di tutta l'impresa, propongono nuove concezioni alla base della pittura (Manifesto dei Pittori futuristi, 1910); della musica (Manifesto dei Musicisti futuristi, 1911); della drammaturgia (Manifesto dei drammaturghi futuristi, 1911); della scrittura (Manifesto tecnico della letteratura futurista, 1912 e Distruzione della sintassi. L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà, 1913); dell'architettura (Manifesto dell'architettura futurista, 1914) e di tanti altri ambiti, a partire dalle posizioni generali già dichiarate nel manifesto fondativo del 1909. Mossi in primo luogo dal desiderio, condiviso da gran parte della loro generazione, che l'Italia sfrutti l'occasione storica di conquistarsi il ruolo di grande potenza, i futuristi propongono negli 11 punti del primo manifesto una rottura col passato dal carattere energico e aggressivo:
1. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerarietà.
2. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
Una nuova categoria estetica che sostituisca il languore “antiquario” dell'arte dei secoli precedenti:
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità […]
L'eroismo bellico che porta alla rigenerazione sociale (la tragedia della Prima Guerra Mondiale deve ancora avvenire), e il disprezzo per il sentimentalismo romantico che lega l'immaginario collettivo ad abitudini e a valori obsoleti:
9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari […] e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie […]
Ed infine, l'intenzione di “cantare” il presente e la nuova realtà nella quale l'uomo contemporaneo vive e si prodiga:
11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne […]; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi […]; i piroscafi […]; le locomotive […]; e il volo scivolante degli aeroplani […]
Esauritosi intorno al 1916, il Futurismo ha vissuto una seconda fase col “Manifesto dell’aeropittura” del 1929, rivestendo una grande influenza anche sulla scenografia, il balletto, la musica e il cinema.


lunedì 19 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 febbraio.
Il 19 febbraio 1861 viene abolita in Russia la servitù della gleba.
Le vicende dell’immenso impero zarista nel corso del XIX secolo appaiono come un alternarsi di tentativi riformatori e di reazioni conservatrici. All’origine vi è la consapevolezza di parte dell’opinione pubblica delle condizioni di arretratezza tecnica, economica ma anche culturale e civile dell’Impero. Un’arretratezza che si traduce anche in debolezza politica e militare di fronte alle altre potenze europee, come dimostra la sconfitta nella guerra di Crimea. Le vicende dell’abolizione del servaggio da parte di Alessandro II nel 1861, forse la riforma più rilevante poiché mette in discussione i fondamenti stessi della società russa, evidenziano comunque i limiti e le contraddizioni dell’azione riformatrice dall’alto.
Il colpo di Stato che aveva detronizzato Paolo I porta al potere nel 1801 il figlio Alessandro. Questi rende nota la sua intenzione di governare abbandonando la politica del padre e riprendendo al suo posto le “sagge vedute” di Caterina. La cosa nuova rispetto alla visione chiusa di Paolo I sta nel fatto che si va costituendo intorno alla persona dello zar, il quale negli anni della formazione (1785-1794) aveva avuto un precettore svizzero di idee repubblicane (Frédéric-César Laharpe), un gruppo di giovani nobili di sentimenti che potremmo definire appena liberali. Questo gruppo si riunisce in un comitato privato segreto che progetta delle “riforme”, ma non ha alcun ruolo nella politica del governo, affidato a coloro che hanno organizzato l’assassinio di Paolo I. L’analisi delle proposte fatte dal comitato al sovrano, che vi partecipa, e della loro formalizzazione in disegni di legge è molto interessante. Consente prima di tutto di capire che la cultura provinciale del comitato non è in grado, per esempio, di comprendere il rapporto tra alcune teorie, come quella economica, conosciuta attraverso la Ricerca sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni di Adam Smith, o quella giuridica, ricavata dalla lettura della Magna charta libertatum del 1215 insieme all’Habeas corpus act del 1679, e le concrete pratiche delle istituzioni di governo: in Russia non esiste né una società civile, né un parlamento, né una qualche comprensione del concetto di libertà individuale da tutelare dall’arbitrio dello Stato.
Ciò non significa che non ci sia con Alessandro una notevole e pregevole produzione legislativa atta a modernizzare l’amministrazione e a introdurre, attraverso l’intervento del governo, una qualche modifica nella struttura sociale; per esempio, quella che si propone di ampliare la “classe degli agricoltori liberi”. Significa che tale produzione legislativa non è né l’effetto di una pressione di forze economiche che intendono liberarsi dal modello servile, né un’offerta a una classe d’imprenditori che voglia promuovere lo sviluppo liberista del Paese, ma è indirizzata dal ceto di governo allo stesso ceto di governo, come una soluzione “tecnica” che non va oltre l’idea di miglioramento del sistema. Gli esiti sono quindi irrilevanti. Risultati di una qualche importanza si ottengono invece, anche se limitatamente ai grandi centri urbani, nel campo dell’istruzione pubblica di base, investita dalle Direttive per la cultura popolare, e nel riordinamento delle scuole superiori e del sistema universitario. Un ruolo di primo piano nelle “riforme” lo svolge, specialmente dopo la chiusura del comitato, Michail M. Speranskij, che arriva ai vertici dello Stato avendo percorso, non da nobile ma da grand commis d’état, una prestigiosa carriera nelle istituzioni. Egli ottiene infatti l’incarico di preparare un progetto di costituzione che avrebbe dovuto modificare il sistema assolutistico, introducendo la separazione dei poteri e la rappresentanza. Ne viene onorato con il licenziamento, l’esilio e la deportazione.
L’età di Alessandro è attraversata dal nome di Bonaparte. Non si tratta solo del fatto che la campagna napoleonica di invasione della Russia genera nella popolazione la prima grande idea di una guerra patriottica e la vittoria militare impone lo zar come protagonista della Santa Alleanza. Si tratta anche del fatto che si va costruendo la struttura di un discorso che vede nella diffusione delle idee della Rivoluzione francese la fine dell’ancien régime come modello politico “naturale” e, allo stesso tempo, con un’operazione che non sarà dimenticata nella preparazione ideologica del Congresso di Vienna e verrà sviluppata nella cultura della Restaurazione, fa della riparazione un imperativo “messianico” che si appropria, rovesciandola, della stessa terminologia laica dell’Illuminismo.
Di fronte alla politica di Alessandro, malgrado il cedimento impostogli dalla più alta aristocrazia di corte nel caso Speranskij, quella di Nicola I (nato nel 1796) appare subito come radicalmente conservatrice, anche perché abolisce ogni possibilità di interpretare le idee del predecessore come liberali. Il giorno stesso dell’abdicazione del fratello maggiore Costantino, che avrebbe dovuto succedere allo zio Alessandro, morto senza lasciare eredi, egli si trova di fronte alla rivolta dei decabristi: un gruppo di ufficiali della nobiltà liberale, appartenenti a una società segreta che propone anche per la Russia un modello politico costituzionale, se non addirittura repubblicano, e vuole di conseguenza abolire il sistema economico fondato sulla servitù della gleba. Al contrario di quanto era avvenuto all’epoca di Caterina, il movimento decabrista ha radici molto profonde nell’intellettualità liberale, che si è formata alle idee della cultura politica occidentale e concepisce il proprio impegno in termini etici. La rivolta di Pietroburgo, cui partecipano circa tremila soldati, il 14 dicembre 1825, va incontro al fallimento. Ma la repressione organizzata da Nicola – con impiccagioni, deportazioni e lavoro forzato – pone il movimento all’inizio del processo di emancipazione che caratterizzerà tutto il XIX secolo. È una scelta conseguente alle idee politiche del sovrano, che concepisce lo Stato come Stato di polizia e non intende in alcun caso lasciare il benché minimo spazio alla manifestazione di un pensiero che non sia l’esaltazione dell’autocrazia. La sua politica estera non è che una variante della politica interna: repressione di ogni movimento rivoluzionario (quello polacco nel 1830-1831 e quello ungherese nel 1848-1849). Nicola riprende in considerazione il problema della presenza russa nel Mediterraneo che, fin da Pietro il Grande, aveva procurato conflitti permanenti con l’Impero ottomano. Ma questa volta lo scontro si internazionalizza e coinvolge le principali potenze europee (dall’Inghilterra alla Francia) che, con la guerra di Crimea, infliggono alla Russia una delle più brucianti sconfitte della storia contemporanea.
Nato nel 1818, Alessandro II riceve un’iniziazione alle idee liberali seguendo le lezioni di Michail Speranskij e un buon addestramento alle pratiche politiche perché, differentemente da quanto in precedenza era accaduto ai figli dello zar destinati alla successione, entra a far parte del consiglio di Stato e poi partecipa attivamente con incarichi importanti al consiglio dei ministri. Dopo l’incoronazione nel 1855, tutta l’energia del nuovo sovrano viene consacrata alla guerra in Crimea: un conflitto che, come abbiamo detto, vede scendere in campo contro la Russia una possente coalizione di Stati che, alla fine delle ostilità, impongono la pace di Parigi.
Sono molti gli studiosi i quali ritengono che la riflessione sulla sconfitta di Sebastopoli (espugnata dalle forze anglo-francesi nel settembre 1855) abbia avviato il processo di trasformazione dello Stato russo, per metterlo in grado di partecipare alla pari alle politiche di potere dei Paesi europei. Tutto ha inizio dalle discussioni intorno alla possibile abolizione della servitù della gleba come obsoleto modello economico-sociale dell’impero. Esistono alcuni precedenti, senza però conseguenze, nel programma dei decabristi (che conoscono gli interventi di Giuseppe II) e nelle discussioni clandestine tra gli intellettuali quando l’Austria e la Prussia, nel 1848, si muovono per abolirne le ultime vestigia. Lo stesso Alessandro nel 1846 viene incaricato di presiedere un comitato di studio sulla questione contadina. Ma l’iniziativa si arena presto. Alessandro prende una decisione nell’aprile del 1856. Avverte che il sistema della proprietà della terra fondata sulla servitù dei contadini deve essere riformato e lo fa adottando un linguaggio assolutamente inedito nella Russia: “È meglio cominciare ad abolire il servaggio dall’alto piuttosto che aspettare che esso cominci ad essere abolito dal basso”. Non sappiamo a chi, tra i consiglieri del sovrano, si possa ascrivere una consapevolezza del genere. Sta di fatto che essa fa balenare l’idea della rivoluzione contadina, che nel frattempo sta diventando un programma politico. Gli studi sulle proposte che arrivavano al comitato dai saperi accademici (anche stranieri), oltre che dai tecnici dello Stato più avanzati, e le ricerche sulle discussioni interne ed esterne che esse provocavano, anche col “rischio” di essere estese alla società civile, sono numerosissimi e offrono un ventaglio d’interpretazioni piuttosto variegato.
Ciò che impressiona nella prima fase è la localizzazione (territori lituani e alcune zone limitrofe governate dal generale Vladimir I. Nazimov) e la rapidità dell’azione: il 2 dicembre 1857 Alessandro promulga la prima limitatissima disposizione emancipatoria. Essa, nota come Rescritto Nazimov, viene superata dalle famose lettere di Jakov I Rostovcev il quale, a nome del comitato, imprime un’accelerazione al processo che deve portare alla promulgazione della legge (3 marzo 1861). L’analisi della trasformazione degli enunciati dalle prime stesure fino alla redazione definitiva consente di capire che le forze di resistenza sono in grado di limitare sempre di più l’attuazione del provvedimento in senso occidentale. Se è vero che, nel primo discorso ai nobili di Mosca, Alessandro ha alluso al fatto che, a proposito del servaggio dei contadini, i poteri hanno il dovere di anticipare la domanda proveniente dalla società, e se è vero che questa domanda è avvertita (spesso ancora in modo confuso) da alcuni spericolati segmenti della nobiltà sensibili all’idea di modernità e progresso, è vero anche che non si può fare impunemente circolare nell’emergente opinione pubblica una parola come “emancipazione”. Essa circola però nella stampa. Ha un effetto di ridondanza epidemica, nel senso che del termine si potevano impossessare (e s’impossesseranno) tutti coloro i quali ritenevano di trovarsi in uno stato o condizione di “servaggio” intellettuale e culturale, politico e morale, religioso e nazionale, di genere e di condizione. In ogni caso, la parola emancipazione non appare nel testo di legge (manifest ob otmene krepostnogo prava).
Difficile stabilire se ci sia una connessione strutturale o di sistema tra gli interventi fatti nei diversi campi, o se si sia trattato di operazioni appena collegate da una concomitante pressione dall’esterno e dall’interno delle istituzioni. Sta di fatto che, tra il 1856 e il 1864, vengono fatti investimenti in tutto il campo dell’istruzione, anche con l’introduzione di importanti misure amministrative (nomine di sovrintendenti con adeguata preparazione professionale nei distretti scolastici), e si allargano le possibilità d’accesso alle scuole superiori. Ma è soprattutto nelle università che le innovazioni sono sensibili, con l’immissione di un personale docente qualificato e numeroso che in poco tempo, abolite diverse limitazioni, attira studenti provenienti anche da famiglie della burocrazia statale media. Ai primi fermenti di agitazione, provocati dalle richieste studentesche di andare oltre le “riforme” tecniche, Alessandrò si irrigidisce. L’università di Pietroburgo, nel 1861, viene chiusa e tutto sembra regredire alla situazione oscurantista inscenata da Nicola come risposta al Quarantotto europeo, con la nomina a ministro dell’Istruzione pubblica di un ammiraglio.
Esiste una corrente storiografica che ha concentrato tutto il suo interesse sul problema del rapporto tra emancipazione dei servi della gleba e riordinamento delle istituzioni locali. Anche qui è difficile dare un ordine preciso alle iniziative dal punto di vista di una loro relazione causale, dato che i primi provvedimenti risalgono al 1859 e fanno già riferimento a rappresentanze dei contadini. Ma è soprattutto nel periodo di tempo in cui si comincia a realizzare il nuovo sistema di trasformazione dei servi in lavoratori salariati della terra (quelli che non hanno la possibilità del riscatto) e piccoli proprietari (quelli che accettano la ripartizione) che la riforma delle istituzioni locali diviene urgente. La volost’, termine che appartiene al linguaggio politico dell’intera Europa orientale, diventa l’organo di autogoverno di diversi villaggi e ogni mir vi elegge i suoi delegati. L’uso della nozione di autogoverno non deve però essere preso in senso letterale. In realtà, esiste una serie d’importanti intermediari tra potere centrale e locale che dà credibilità al sospetto che queste unità amministrative siano rudimentali strumenti governativi di controllo, in un momento cui il mondo rurale, proprio per effetto della riforma contadina, è in fermento. La successiva misura sarà in effetti realizzata a livello più alto nel 1864 quando, su proposta di Nikolaj Miljutin, vengono istituiti gli zemstva in cui le volosti entrano, accanto agli altri ceti di un governatorato (proprietari fondiari e borghesia), per gestire, attraverso i proventi di una parte della tassazione, l’amministrazione locale (dall’istruzione pubblica elementare all’assistenza sanitaria di base). Gli zemstva, dovendo eleggere i giudici di pace, svolgono anche un ruolo nella riforma del sistema giudiziario, regolamentato nel 1864. Per quanto riguarda l’aspetto formale assunto nella fase conclusiva, presentata dal responsabile di settore del consiglio di Stato (Pavel P. Gagarin), esso sembra introdurre in Russia una sorta di sistema inglese per la presenza del procuratore dello Stato e della giuria. Non meno importanti sono la riforma dell’ordinamento militare e la trasformazione dell’esercito, così come il riordino dell’apparato tributario, che dà la possibiltà di entrate fiscali tali da garantire l’erogazione di prestiti quando Alessandro si convince, dopo la generale depressione determinata dall’isolamento internazionale seguente alla guerra di Crimea, che la Russia non può rinunciare a una politica espansionistica alla stregua delle altre potenze europee. In questo quadro si colloca non solo la campagna orientale per l’egemonia in tutto il territorio siberiano, simboleggiata nelle estremità dalla costruzione delle città fortificate di Chabarovsk e di Vladivostok; non solo la progressiva acquisizione (a partire dal 1863 fino al 1875) di numerosi canati uzbechi (Kokan, Buchara, Khiva), che costituiscono il sistema imperiale russo in Asia centrale, ma anche la penetrazione nei Balcani, motivata dalla volontà di “liberare” gli ortodossi dall’oppressione islamica, culminata nella guerra russo-turca (1876-1878).
Se è vero che l’impegno nella politica estera e l’espansionismo in Asia e nei Balcani ha costituito un indubbio successo della Russia di Alessandro, non si può dire altrettanto delle “riforme”. Non perché esse non abbiano prodotto dei risultati, ma perché sono state corredate da tutta una serie di retrocessioni del pensiero emancipatorio e da una serie di misure contraddittorie che spesso hanno ripristinato lo status quo ante, visto che non hanno modificato la struttura economico-sociale della Russia. Esse, poi, non hanno impedito che all’interno di una società alla quale non venivano offerte possibilità di sviluppo in base alle capacità si radicalizzassero sempre di più le opposizioni dei democratici e dei rivoluzionari (si pensi all’evoluzione del movimento populista fino alla Narodnaja Volja), con il conseguente irrigidimento delle posizioni dei “riformisti” di Stato che ritornavano progressivamente all’assolutismo. Dopo i due attentati falliti del 1879 e 1880, Alessandro cerca, per un istante, di riprendere la politica delle riforme, tinte addirittura dalle venature “democraticiste” del generale Michail Loris-Melikov, che implora la partecipazione dei cittadini nelle decisioni politiche. Ma il terzo attentato, il 13 marzo 1881, non va a vuoto. Il successore, Alessandro III, reagisce immediatamente inasprendo il regime autocratico e aprendo la repressione dei movimenti di emancipazione, cosa che porta all’allontanamento dal governo di coloro i quali hanno sostenuto le politiche liberali. I suoi Regolamenti temporanei, che sembrava potessero fare riferimento a una situazione d’emergenza, diventano invece il manifesto del suo governo e quindi ne orientano il programma. Tutta la politica interna di Alessandro III può essere definita come una sequenza di controriforme: valgano per tutte quelle sulla cancellazione dell’autonomia universitaria e lo smantellamento delle associazioni studentesche; la riduzione degli zemstva in organi periferici del potere centrale con addirittura la soppressione della rappresentanza rurale; la riduzione della base censitaria nelle elezioni per le amministrazioni locali. Anche la politica estera obbedisce prima di tutto all’idea che bisogna riprendere il modello della reazione internazionale e Alessandro III firma, proprio mentre viene incoronato, l’alleanza dei tre imperatori con Francesco Giuseppe d’Austria e Guglielmo I di Germania.

domenica 18 febbraio 2024

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 febbraio.
Il 18 febbraio 1861 si riunisce per la prima volta il Parlamento dell’Italia unita. Torino è in festa e accoglie i rappresentanti della Penisola (all’opera di unificazione mancavano ancora Roma e una porzione dello Stato Pontificio, il Veneto, Trento e Trieste), ignara di poter godere della condizione di capitale per quattro anni appena.
Il Regno d’Italia – che sarà formalmente proclamato solo il 17 marzo – sembra la naturale prosecuzione del Regno di Sardegna. Non a caso, la legislatura che nasce con le elezioni del 27 gennaio-3 febbraio è considerata l’ottava, non la prima, del Parlamento sabaudo: in base allo Statuto Albertino, il Senato (con sede a Palazzo Madama) è di nomina regia mentre la Camera (che si riunisce a Palazzo Carignano) è eletta a suffragio maschile, in base al censo. Vanno alle urne appena 240.000 italiani su 22 milioni (ne avrebbero avuto il diritto in 418.000).
Stravince la Destra storica guidata da Camillo Benso conte di Cavour, con il 46,1% dei suffragi, che ottiene 342 deputati su 443; la Sinistra storica di Urbano Rattazzi si ferma al 20,4% (e a 62 deputati); terza e distanziatissima quella che era considerata la Sinistra estrema, con Giuseppe Mazzini come leader, che ottenne il 2,3% dei voti e mandò alla Camera 14 candidati.
Sono eletti nobili, militari, notabili di tutte le aree d’Italia, ma il Piemonte ha senz’altro un ruolo rilevante.
L’emozione, comunque, è grande: l’aula di Palazzo Carignano è stata allestita a tempo di record, in soli due mesi, e il colpo d’occhio è stupefacente. Ogni deputato può godere di un’invenzione dell’architetto Amedeo Peyron, che ha collocato un bottone-molla a disposizione di ciascuno per chiamare gli uscieri.
Dopo poco tempo ci si rese conto che l'aula era troppo piccola.
Così si decise di costruirne una più ampia con l’ampliamento del palazzo verso piazza Carlo Alberto. I lavori iniziarono nel 1863 e terminarono nel 1871, ma nel frattempo, nel 1864, la Capitale si spostò a Firenze. Quindi la nuova grande aula destinata ad ospitare il nuovo Parlamento italiano non venne mai utilizzata allo scopo per cui era stata costruita. Nel 1898 l’aula del Parlamento Subalpino fu dichiarata monumento nazionale.


sabato 17 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 febbraio.
Il 17 febbraio 1848 Re Carlo Alberto riconosce ai valdesi diritti civili e politici.
VALDO (da cui valdese) era un mercante di Lione, di poco anteriore a Francesco d’Assisi (XII-XIII sec.) che decise, al termine di una profonda crisi spirituale, di vivere l'esperienza degli apostoli al seguito di Cristo. Di conseguenza vendette i suoi beni e si consacrò alla predicazione del Vangelo. Nel prendere questa decisione egli non intendeva ribellarsi alla Chiesa: pensava anzi di collaborare al suo rinnovamento seguendo l'esempio degli apostoli; fu invece scomunicato insieme ai suoi seguaci. Il movimento valdese, detto "dei poveri", si estese in Europa, raccogliendo consensi fra il popolo.
Come tutti i movimenti considerati allora “ereticali” da Roma, anche quello valdese fu oggetto di repressione e persecuzioni da parte dei poteri civili e religiosi. Malgrado questa situazione di difficoltà e la caccia dell'Inquisizione, esso si diffuse in tutta l'Europa medievale. Le zone in cui i valdesi si impiantarono con maggior consistenza furono le Alpi Cozie, la Provenza, la Calabria e la Germania meridionale. I loro predicatori itineranti erano detti “barba” (in dialetto "zio", nel senso di persona di riguardo) da cui “barbetti", appellativo popolare con cui i valdesi vennero designati sino in tempi recenti in Piemonte.
La testimonianza del movimento, mantenutasi coerente attraverso i secoli (dal XII al XVI), era centrata su due aspetti del messaggio cristiano: la fedeltà al Vangelo e la povertà della Chiesa. La Chiesa cristiana - dicevano i valdesi - si richiama a Gesù: essa ne deve perciò prendere alla lettera gli insegnamenti rinunciando al potere politico, all'uso della forza ed alle alleanze con le potenze del mondo.
Quando sorse in Europa la Riforma protestante, i valdesi vi aderirono nel 1532 (c.d. sinodo di Chanforan), organizzandosi, con l'aiuto della Ginevra di Calvino, in comunità alternative a quella di Roma, con predicatori locali per il culto e la celebrazione dei sacramenti. In quel momento il valdismo cessava ufficialmente di essere un movimento, per diventare una vera e propria chiesa riformata.
Il messaggio protestante non fu però accolto solo dai valdesi, ma anche in molti altri ambienti del Piemonte e di altre regioni d’Italia, nella quale tuttavia il cattolicesimo mantenne il suo predominio assoluto, solo grazie all'azione della Controriforma cattolica e all'appoggio dei principi.
La legislazione vigente in Europa in materia religiosa, detta del “cuius regio et eius religio", a seguito di un accordo siglato tra l’Imperatore Carlo V e i Principi protestanti riuniti nella lega di Smalcalda, prevedeva che la religione del sovrano fosse anche quella dei suoi sudditi. Essendo i sovrani di Francia e Piemonte cattolici, l’unica forma di cristianesimo professato nelle vallate valdesi alpine, avrebbe dovuto essere perciò, per legge, solo quello cattolico romano.
Sia nel Delfinato francese che nelle aree valdesi del Piemonte, i valdesi rifiutarono di abiurare difendendosi anche con le armi. Essi rivendicavano il diritto di adorare Dio secondo la propria coscienza ed in questo si attestavano su posizioni molto moderne.
Per un complesso di circostanze politiche e militari favorevoli riuscirono ad ottenere il riconoscimento della loro religione in un'area ben definita delle Alpi Cozie, costituendo così un avamposto del protestantesimo europeo a sud delle Alpi.
Si trattava però sempre di una concessione revocabile in una situazione precaria e i rispettivi governi, francese e sabaudo, non abbandonarono il progetto di riconquistare queste terre alla fede cattolica.
Un momento particolarmente tragico si ebbe nel 1655, quando il massacro conosciuto come le “Pasque piemontesi” sollevò l'indignata protesta dell'Europa e l'intervento dell'Inghilterra di Cromwell.
Nel 1685 il re di Francia Luigi XIV vietò ai protestanti la professione della loro religione (revoca dell’Editto di Nantes) e come conseguenza anche le comunità valdesi del Piemonte furono distrutte. Solo poche migliaia di superstiti scamparono rifugiandosi in Svizzera. Rientrarono però dopo tre anni (1689) con una memorabile marcia conosciuta come il “Glorioso Rimpatrio”.
Per tutto il XVIII secolo i valdesi vissero ancora emarginati e oggetto di una legislazione discriminatoria che ne faceva dei cittadini di seconda categoria chiusi nel loro territorio, all'incirca come avveniva per gli ebrei rinchiusi nel ghetto.
Dovettero attendere il 17 febbraio 1848, con le Lettere Patenti promulgate de re Carlo Alberto, per vedere riconosciuti i loro diritti civili e politici. I valdesi festeggiano a tutt’oggi il ricordo di quella data, che li rendeva cittadini uguali agli altri di fronte allo Stato. E’ bene sottolineare che si trattava del riconoscimento dei soli diritti civili e politici, non anche religiosi. Il cattolicesimo infatti restava la religione di Stato e di conseguenza, i princìpi moderni della separazione tra Stato e Chiesa e il concetto di libertà religiosa, non vennero attuati. Né la chiesa cattolica, né la società italiana del tempo, erano ancora pronte ad accogliere queste istanze proprie del mondo moderno.
I valdesi si impegnarono invece attivamente nella difesa di questi principi, dal Risorgimento alla Resistenza, convinti della loro importanza per il rinnovamento politico e sociale del paese.
Con il 1848 e l'inizio del Risorgimento, i valdesi non furono più i soli evangelici presenti in Italia. Gruppi di esuli politici in Piemonte e di ritorno dall'Europa diedero vita ad una chiesa libera italiana; altri invece accolsero la predicazione di missionari giunti dal mondo anglosassone, esponenti, in particolare, delle chiese metodiste e battiste.
Per esprimere questo impegno nella vita sociale della nazione, sia i valdesi, sia gli altri evangelici, usarono il termine "evangelizzazione". Parlando di "evangelizzare" l'Italia essi non intendevano l’intenzione di fondare una nuova religione, ma, come Valdo, volevano rendere attuale il messaggio dell’Evangelo, diffondendo la conoscenza della Bibbia e stimolando la riflessione teologica per un rinnovamento della fede cristiana. Quest’opera di testimonianza si espresse non solo nella predicazione, con l'apertura di sale di conferenze e di locali di culto, ma anche nel campo dell’assistenza e dell'educazione. Venne creata una diffusa rete di scuole elementari e si può dire che ogni comunità evangelica ebbe una sede scolastica. Il maestro, insieme al venditore di Bibbie, fu infatti la figura caratterizzante l’evangelismo italiano della seconda metà dell’ottocento. Accanto alle scuole sorsero poi convitti, orfanotrofi, scuole di artigianato, ospedali, ricoveri per anziani, asili.

venerdì 16 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 febbraio.
Il 16 febbraio 1989 ha inizio a Gerusalemme il processo a Ivan Demjanjuk, detto Ivan il Terribile, per i crimini commessi durante la seconda guerra mondiale nei campi di concentramento e sterminio nazisti.
Nato in Ucraina, John (Iwan) Demjanjuk fu accusato di crimini commessi come collaboratore dei Nazisti. Per questi crimini, Demjanjuk è stato processato quattro volte.
Le indagini sul passato di Demjanjuk durante il periodo dell’Olocausto cominciarono nel 1975. In seguito ai processi svoltisi negli Stati Uniti, nel corso degli anni Demjamjuk perse due volte la cittadinanza americana, subì una volta l’ordine di deportazione ed fu poi estradato dagli Stati Uniti per ben due volte per poter essere processato, prima in Israele e poi in Germania. Il recente processo in Germania, terminato nel maggio del 2011, potrebbe essere stato l’ultimo a vedere imputato un criminale di guerra del periodo nazista. In questo caso, esso rappresenterebbe la fine di 65 anni di procedimenti cominciati con il Tribunale Militare Internazionale e i processi di Norimberga del 1945.
Alcuni avvenimenti del passato di Demjanjuk non sono mai stati messi in discussione: nato nel marzo del 1920 a Dobovi Maharyntsi - un paesino nella regione di Vinnitsa Oblast in quella che era allora l’Ucraina sovietica - e successivamente arruolato nell’armata rossa, Demjanjuk venne catturato dalle truppe tedesche durante la battaglia di Kerch, nel maggio del 1942. Dopo la guerra, nel 1952, Demjanjuk emigrò negli Stati Uniti dove ottenne la cittadinanza nel 1958. Dopo essersi stabilito a Seven Hills, Ohio, nei sobborghi di Cleveland, lavorò per molti anni in un impianto della Ford.
Il Dipartimento di Giustizia americano cominciò le indagini su Demjanjuk nel 1975 e decise di avviare le pratiche per la de-naturalizzazione nel 1977, sostenendo egli avesse falsificato alcuni documenti per l’immigrazione e per la richiesta di cittadinanza con l’intento di nascondere gli anni in cui aveva lavorato nel centro di sterminio di Treblinka, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il caso contro Demjanjuk cominciò alla fine degli anni quaranta con le indagini condotte sul campo di sterminio di Sobibor dove si presumeva Demjanjuk avesse lavorato, supposizione avvalorata dalla testimonianza del russo Ignat’ Danil’chenko. Danil’chenko affermò infatti di conoscere Demjanjuk in quanto entrambi avevano prestato sevizio a Sobibor e nel campo di concentramento di Flossenbürg, fino al 1945. Tuttavia, dopo che, in alcune fotografie, diversi Ebrei sopravvissuti identificarono Demjanjuk come uno degli impiegati che a Treblinka lavoravano vicino alle camere a gas, i funzionari del governo americano decisero di perseguirlo per quei reati. Nel 1979, il neo-istituito Ufficio per le Indagini Speciali (OSI) del Dipartimento di Giustizia rilevò l’inchiesta.
Dopo una lunga indagine e il successivo processo nel 1981, la Corte Federale di Cleveland tolse a Demjanjuk la cittadinanza statunitense. Mentre le autorità americane si accingevano a deportare Demjanjuk, il governo israeliano ne richiese l’estradizione. Dopo l’udienza di rito, le autorità americane accordarono l’estradizione in Israele, dove Demjanjuk sarebbe stato processato per crimini contro il popolo ebraico e contro l’umanità. Demjanjuk fu la seconda persona ad essere giudicata in Israele per quel tipo di crimini dopo la condanna di Adolf Eichmann nel 1961, il quale fu poi giustiziato nel 1962.
Il processo a Demjanjuk si aprì a Gerusalemme il 16 febbraio 1987. L’accusa sostenne che quando Demjanjuk era stato fatto prigioniero dai Tedeschi, egli si era offerto volontario per far parte dell’unità speciale delle SS (le Squadre di Protezione, Schutzstaffel) di stanza nel campo di addestramento di Trawniki (vicino a Lublino, in Polonia) dove aveva poi lavorato come istruttore nel corpo di polizia ausiliario che doveva venire assegnato all’Operazione Reinhard, il piano cioè che prevedeva l’eliminazione di tutti gli Ebrei che risiedevano nella parte di Polonia occupata dai Tedeschi. L’accusa sostenne che Demjanjuk fosse la guardia del centro di sterminio di Treblinka conosciuto dai prigionieri come “Ivan il Terribile” e che egli fosse incaricato del funzionamento e della manutenzione dei motori diesel usati per pompare monossido di carbonio nelle camere a gas del campo. Diversi sopravvissuti ebrei che erano stati a Treblinka identificarono Demjanjuk come “Ivan il Terribile”, una prova fondamentale della sua presenza nel centro di sterminio.
Un’altra prova sostanziale contro Demjanjuk fu il documento di identificazione di Trawniki ritrovato negli archivi sovietici. Le autorità di Trawniki rilasciavano quel documenti agli impiegati assegnati alla sorveglianza dei distaccamenti situati fuori dal campo. La difesa sostenne che il documento era un falso ad opera dei Sovietici contro Demjanjuk, nonostante i numerosi test scientifici ne provassero l’autenticità. Demjanjuk, che allora aveva 67 anni, testimoniò in propria difesa sostenendo di aver trascorso la maggior parte della guerra prigioniero dei Tedeschi nel vicino campo di Chelmo, in Polonia.
Pur essendo un elemento chiave dell’impianto accusatorio, sia del governo americano che della procura israeliana, quella tessera di identità non provava la presenza di Demjanjuk a Treblinka, ma solo il suo essere stato, prima, una delle guardie di una tenuta occupata dalle SS a Okzów, vicino a Chelmo, nel settembre 1942, e poi, a partire dal marzo 1943, un sorvegliante nel centro di sterminio di Sobibor. Nonostante il fatto che la tessera contenesse alcune informazioni che contraddicevano la testimonianza dei sopravvissuti di Treblinka, essa costituiva l’unico documento a situare Demjanjuk a Trawniki come agente della polizia ausiliaria (cioè del gruppo di ausiliari tra cui venivano scelti i sorveglianti di Treblinka). Nessuna prova fu mai trovata, risalente al tempo di guerra, che collocasse senza ombra di dubbio Demjanjuk a Treblinka.
Un’altra prova per l’accusa era rappresentata dai segni presenti nella parte inferiore dell’avambraccio sinistro di Demjanjuk, cioè ciò che rimaneva di un tatuaggio riportante il suo gruppo sanguigno. Le SS avevano introdotto la pratica di tatuare il gruppo sanguigno alle Waffen SS (le SS dell’esercito) nel 1942. Alcuni membri delle unità delle SS chiamate Teste di Morto operanti nei campi di concentramento tedeschi avevano lo stesso tatuaggio, in quanto dopo il 1941 erano stati considerati amministrativamente come parte delle Waffen SS. Tuttavia, il sistema dei tatuaggi non fu mai messo in pratica in modo sistematico e quindi quella prova fisica suggeriva soltanto, ma non dimostrava, che Demjanjuk potesse essere stato una guardia del campo di concentramento.
L’esistenza dei segni lasciati dal “tatuaggio da SS” portò gli avvocati dell’accusa, sia negli Stati Uniti che in Israele, a dare eccessiva importanza a questa prova; in particolare ciò fu dovuto alla confusione esistente nella pubblica opinione tra quel tipo di tatuaggio (che era obbligatorio) e quello costituito da caratteri runici diffuso tra le SS e che era invece solo volontario. In effetti, non esiste alcuna prova che i prigionieri di guerra addestrati come sorveglianti a Trawniki venissero tatuati.
Grazie soprattutto all’identificazione operata dai sopravvissuti, la corte israeliana riconobbe Demjanjuk colpevole dei crimini ascrittigli e, il 25 aprile 1988, lo condannò a morte; si trattava della seconda volta in tutta la sua storia che un tribunale di Israele infliggeva la pena capitale a un imputato riconosciuto colpevole (il primo era stato Eichmann).
Mentre l’inevitabile appello presentato da Demjanjuk seguiva il proprio iter – appello che l’avrebbe portato di fronte alla Corte Suprema d’Israele – quella che era stata fino ad allora l’Unione Sovietica si disintegrò, nel 1991, e di conseguenza centinaia di migliaia di pagine di documenti precedentemente sconosciuti divennero disponibili, sia all’accusa che alla difesa. Nei dati del KGB di Kiev, in Ucraina, i difensori di Demjanjuk trovarono dozzine di dichiarazioni di sorveglianti di Treblinka che i Sovietici avevano processato all’inizio degli anni ’60.
Nessuna di quelle testimonianze indicava che Demjanjuk fosse stato impiegato a Treblinka. Tuttavia, esse si riferivano più volte a un certo Ivan Marchenko il quale, dall’estate del 1942 fino alla rivolta dei prigionieri del 1943, era stato incaricato di far funzionare i motori che producevano il gas a Treblinka e che si era distinto tra gli agenti ausiliari per la particolare crudeltà, compiendo azioni che erano coerenti con i precedenti racconti degli Ebrei sopravvissuti. Dopo essere ritornato a Trawniki nell’agosto del 1943, Marchenko si era trasferito a Trieste, in Italia, ed era poi scomparso verso la fine della guerra. Cosa ne accadde dopo rimane un mistero.
L’esistenza di queste dichiarazioni creò il ragionevole dubbio che Demjanjuk non avesse mai lavorato a Treblinka, portando la Corte Suprema israeliana ad annullare la condanna il 29 luglio 1993, senza pregiudizio, lasciando cioè aperta la possibilità al sistema giudiziario israeliano di processare Demjanjuk per altri crimini.
Tale nuovo processo fu possibile grazie alla scoperta della corrispondenza interna del personale del campo di addestramento di Trawniki, rinvenuta negli Archivi del Servizio di Sicurezza della Federazione Russa, a Mosca. Questi documenti collocavano infatti Demjanjuk nel centro di sterminio di Sobibor almeno a partire dal marzo 1943 e nel campo di Flossenbürg dal 1° ottobre 1943. Inoltre, le prove che dimostravano la sua presenza a Sobibor concordavano con le informazioni sulla tessera identificativa di Trawniki e con la testimonianza di Danil’chenko.
In aggiunta a queste prove, dopo l’estradizione di Demjanjuk in Israele, gli investigatori dell’OSI, esaminando i dati originali riguardanti l’amministrazione e il personale di Flossenbürg, trovarono riferimenti al numero militare identificativo di Demjanjuk a Trawniki (1393) che corroborava così in modo indipendente la testimonianza di Danil’chenko che Demjanjuk avesse lavorato a Flossenbürg.
Nell’estate del 1991, un investigatore dell’OSI che stava esaminando gli Archivi Nazionali della Lituania a Vilnius, alla ricerca di documenti sulla polizia lituana, trovò per caso un documento che identificava Demjanjuk come membro di un distaccamento di sorveglianti addestrati a Trawniki e poi assegnati al campo di concentramento di Majdanek, tra il novembre 1942 e l’inizio di marzo 1943.
Dopo l’estradizione in Israele, la famiglia di Demjanjuk, utilizzando la Legge sul Libero Accesso alle Informazioni, aveva presentato al dipartimento di Giustizia americano la richiesta di poter visionare tutti i documenti investigativi posseduti dall’OSI e relativi a Demjanjuk, a Trawniki e a Treblinka. Dopo aver ricevuto i documenti e dopo anni di udienze, il collegio di avvocati americani di Demjanjuk presentò una denuncia contro il governo americano per costringerlo ad annullare la revoca della cittadinanza, accusando allo stesso tempo l’OSI di inadempienza processuale.
Nel frattempo, Israele si rifiutò di perseguire ulteriormente Demjanjuk per le sue azioni a Sobibor (nonostante legalmente avesse a disposizione quell’opzione) e si preparò a rilasciarlo. Sulla base della scoperta, avvenuta nel giugno del 1993, che un funzionario americano dell’OSI nel 1981 aveva per sbaglio trattenuto documenti che avrebbero potuto essere utili alla difesa di Demjanjuk, una sentenza della Corte d’Appello di Cincinnati vietò al Procuratore Generale americano, Janet Reno, di impedire il ritorno di Demjanjuk negli Stati Uniti. Dopo altri cinque anni di battaglie legali, la Corte Distrettuale di Cleveland restituì la cittadinanza americana a Demjanjuk, il 20 febbraio 1998, ma nuovamente senza pregiudizio, lasciando così aperta l’opzione per l’OSI di procedere con un nuovo processo nel caso fossero emerse nuove prove.
Dopo un’attenta revisione, durata cinque anni, di migliaia di documenti su Trawniki non disponibili prima del 1991, gli investigatori dell’OSI furono in grado di ricostruire, attraverso documenti del tempo di guerra, l’intera carriera di Demjanjuk dal 1942 al 1945, prima come guardia addestrata a Trawniki e poi come sorvegliante in diversi campi di concentramento. Con queste nuove prove, la squadra dell’OSI fu tra l’altro in grado di effettuare anche una ricostruzione più completa e documentata dell’importanza del campo di Trawniki durante l’Olocausto e del processo attraverso il quale le autorità dei campi decidevano l’assegnazione del personale.
Nel 1999, l’OSI inoltrò una nuova richiesta per la revoca della cittadinanza a Demjanjuk, sostenendo che egli avesse fatto parte della polizia ausiliaria addestrata a Trawniki, servendo poi a Trawniki stesso, a Sobibor e a Majdanek e, più tardi, avesse fatto parte del battaglione delle SS Testa di Morto di stanza a Flossenbürg. In seguito a queste nuove prove, Demjanjuk perse nuovamente la cittadinanza americana nel 2002, questa volta in modo definitivo. Dopo che una Corte d’Appello federale confermò la decisione, nel dicembre del 2004 l’OSI inoltrò la richiesta di deportazione. Un anno più tardi, nel dicembre 2005, una Corte d’Immigrazione americana ordinò che Demjanjuk venisse deportato in Ucraina, suo paese natale.
Demjanjuk presentò appello contro la deportazione adducendo diversi argomenti tra i quali il fatto che tale atto, considerata la sua età e la sua salute cagionevole, violava la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura. Il 19 maggio 2008 la Corte Suprema americana negò validità all’appello. Lo stesso anno, le autorità tedesche espressero il proprio interesse a perseguire a loro volta Demjanjuk per il reato di complicità in omicidio commesso durante gli anni di servizio a Sobibor.
Demjanjuk venne quindi deportato dagli Stati Uniti in Germania, nel maggio del 2009. Al suo arrivo, le autorità tedesche lo arrestarono e lo trasferirono nel carcere di Stadelheim a Monaco.
Nel luglio 2009, la procura tedesca rinviò a giudizio Demjanjuk con ben 28.060 capi d’accusa di complicità in altrettanti omicidi avvenuti a Sobibor. L’autorità giurisdizionale della Germania si basava sul fatto che le vittime erano state portate a Sobibor su 15 convogli ferroviari provenienti dal campo di Westernbork (Olanda) tra l’aprile e il luglio del 1943 e che tra di esse vi fossero anche cittadini tedeschi fuggiti in Olanda negli anni Trenta.
All’età di 89 anni Demjanjuk sostenne di essere troppo debole per sostenere un processo, ma la corte decise che il procedimento potesse svolgersi ugualmente, con due sessioni al giorno di 90 minuti l’una. Nel novembre del 2009, Demjanjuk sedeva di nuovo sul banco degli imputati. Durante quest’ultimo, recente processo, l’impianto accusatorio si basò non tanto sulle testimonianze dei sopravvissuti, ma su documenti del tempo di guerra che dimostrano come egli avesse lavorato a Sobibor. Inoltre, visto che i testimoni dei processi precedenti erano ormai deceduti, la corte di Monaco permise che quelle testimonianze fossero lette durante il processo, per stabilire l’avvenuto sterminio e determinare l’identità e la cittadinanza di molte delle vittime.
Dopo 16 mesi di udienze, a metà marzo del 2011, il processo si è concluso e il 12 maggio Demjanjuk è stato riconosciuto colpevole e condannato a cinque anni di prigione. In attesa del processo d'appello, Demjanjuk è stato liberato ed è poi morto in una clinica tedesca il 17 marzo 2012.
I processi a John Demjanjuk hanno attirato l’attenzione dei media internazionali per ben tre decenni. Inoltre, queste lunghe battaglie legali hanno confermato come la possibilità di ottenere finalmente giustizia per le vittime dei crimini contro l’umanità sia strettamente legata alla possibilità di disporre della relativa documentazione storica.

giovedì 15 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 15 febbraio.
Il 15 febbraio 1898 la nave da guerra statunitense USS Maine affonda nel porto dell'Avana, causando la morte di 266 militari. E' il pretesto per l'inizio della guerra ispano americana.
Si definisce guerra ispano-americana la guerra che venne combattuta nell’anno 1898 fra gli Stati Uniti e la Spagna relativamente alla questione cubana.
Cuba era uno degli ultimi possedimenti coloniali della Spagna; sia in territorio cubano che in territorio filippino dal XIX secolo si erano armati gruppi di guerriglieri che lottavano per l’indipendenza dalla madre patria. La Spagna non disponeva però di risorse economiche sufficienti per poter sedare le rappresaglie, così spinse la popolazione a spostarsi verso le aree urbane e lasciare le campagne, là dove cioè  trovavano il loro fulcro i gruppi di guerriglieri. Nel 1895, inoltre, una violenta rivolta indipendentista venne repressa nel sangue dal governatore spagnolo a Cuba Valeriano Wayler; egli inviò in veri e propri campi di concentramento gli insorti e anche parecchi semplici simpatizzanti.
La guerra ispano-americana ebbe inizio quando gli Stati Uniti vennero coinvolti a seguito dell’esplosione della nave Maine, nel cui naufragio morirono ben 266 marinai. La corazzata Maine era stata inviata a Cuba dagli stessi Stati Uniti proprio a seguito delle violente repressioni al fine di proteggere i cittadini americani che vi risiedevano, visti i continui scontri fra spagnoli e cubani. In realtà quello degli scontri fu solo un pretesto per simboleggiare con la loro presenza l’appoggio morale ai cubani. Date le tensioni diplomatiche già esistenti fra i due paesi, l’allora presidente McKinley, su spinta dell’opinione pubblica manovrata dalla cosiddetta yellow press e su spinta del futuro presidente Theodore Roosevelt, venne convinto a muovere guerra alla Spagna, dando così inizio alla guerra ispano-americana.. Visto però l’aumento delle tensioni diplomatiche fra i due paesi, fu la Spagna a dichiarare per prima guerra agli Stati Uniti, il 23 aprile 1898, mentre gli USA lo fecero qualche giorno dopo, il 25 aprile. Nel mese di luglio le truppe americane guidate da Roosevelt sbarcarono su Cuba e contemporaneamente a Porto Rico. Anche la situazione nelle Filippine non era delle migliori. Nel maggio 1898 si ebbe il primo scontro fra flotta spagnola e americana, con la conseguente sconfitta della prima ad opera dell’ammiraglio George Dewey. Nel corso dello stesso anno gli Stati Uniti avevano acquistato le Hawaii.
La guerra ispano-americana venne vinta dagli Stati Uniti. Nell’arco di qualche mese venne firmato un armistizio con il quale la Spagna dovette concedere agli Stati Uniti in primo luogo il riconoscimento dell’indipendenza di Cuba che si configurò pertanto come un protettorato americano, la cessione del Porto Rico che divenne uno stato libero associato agli Stati Uniti e la cessione delle isole Guam e infine l’occupazione da parte degli USA di Manila, nelle Filippine, con gran sorpresa dei filippini insorti che credevano di aver ottenuto la tanto attesa indipendenza. Conseguenza dell’occupazione delle Filippine fu una rivolta contro l’esercito americano ivi stanziato. La guerriglia ebbe fine solo nell’anno 1902 provocando la morte di cinquemila soldati americani e di seicentomila soldati filippini. Soltanto nel 1943 l’allora governatore Aguinaldo, che nel 1901 era fuggito ritirandosi in privato, proclama l’indipendenza filippina dagli Usa, in pieno conflitto mondiale.
In seguito alle numerose perdite determinate dalla guerra ispano americana la Spagna cadde in un profondo periodo di crisi che trent’anni dopo l’avrebbe portata alla guerra civile spagnola.

mercoledì 14 febbraio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 14 febbraio.
Il 14 febbraio 869 muore a Roma Cirillo, il monaco che col fratello Metodio inventò l'alfabeto detto appunto cirillico.
Papa Giovanni Paolo II, il 31 dicembre 1980 con la lettera apostolica "Egregiae virtutis" volle porre due fratelli, Cirillo e Metodio, quali patroni d’Europa insieme con San Benedetto, in quanto evangelizzatori dei popoli slavi e dunque della parte orientale del vecchio continente. Trattasi di due santi mai canonizzati dai papi, dei quali soltanto nel 1880 il pontefice Leone XIII aveva esteso il culto alla Chiesa universale.
Originari di Tessalonica (l'odierna Salonicco), città greca a quel tempo facente parte dell'Impero Bizantino, Cirillo e Metodio evangelizzarono in particolar modo la Pannonia e la Moravia nel IX secolo. Poche notizie ci sono state però tramandate circa Cirillo e suo fratello Metodio. Sappiamo che Cirillo in realtà si chiamava Costantino ed adottò in seguito il nome Cirillo come monaco, verso il termine della sua vita. Ulteriori informazioni circa le loro attività sono pervenute sino a noi grazie a due “Vitæ”, redatte in paleoslavo, nota anche come “Leggende Pannoniche”. Si conservano inoltre le lettere che l’allora pontefice indirizzò a Metodio e la “Leggenda italica”, scritta in latino. Quest’ultima narra che a Velletri il vescovo Gauderico, devoto del papa San Clemente, le cui reliquie furono traslate in Italia proprio da Cirillo, volle redigere un resoconto sulla vita di quest'ultimo. A causa della innegabile scarsità di fonti storicamente attendibili, sono fiorite numerose leggende attorno alle figure di Cirillo e Metodio.
Nativi di Salonicco (in slavo Solun), rampolli di una nobile famiglia greca, loro padre Leone era drungario della città, posizione che gli conseguiva un elevato status sociale. Secondo la “Vita Cyrilli”, quest’ultimo era il più giovane di sette fratelli e già in tenera età pare avesse espresso il desiderio di dedicarsi interamente al perseguimento della sapienza. In giovane età si trasferì a Costantinopoli, ove intraprese gli studi teologici e filosofici. La tradizione vuole che tra i suoi precettori vi fu il celebre patriarca Fozio, ed Anastasio Bibliotecario riferisce dell'amicizia che intercorreva fra i due, così come di una disputa dottrinaria verificatasi tra loro. La curiosità tipica di Cirillo dimostrava il suo eclettismo: egli coltivò infatti nozioni di astronomia, geometria, retorica e musica, ma fu nel campo della linguistica che poté dar prova del suo genio. Oltre al greco, Cirillo parlava infatti correntemente anche il latino, l'arabo e l'ebraico. Da Costantinopoli, l'imperatore inviò i due fratelli in varie missioni, anche presso gli Arabi: fu durante la missione presso i Càsari che Cirillo rinvenne le reliquie del papa San Clemente, un Vangelo ed un salterio scritti in lettere russe, come narra la “Vita Methodii”. La missione più importante che venne affidata a Cirillo e Metodio fu quella presso le popolazioni slave della Pannonia e della Moravia.
Il sovrano di Moravia, Rostislav, poi morto martire e venerato come santo, chiese all'imperatore bizantino di inviare missionari nelle sue terre, celando dietro motivazioni religiose anche il fattore politico della preoccupante presenza tedesca nel suo regno. Cirillo accettò volentieri l’invito e, giunto nella sua nuova terra di missione, incominciò a tradurre brani del Vangelo di Giovanni inventando un nuovo alfabeto, detto glagolitico (da “глаголь” che significa “parola”), oggi meglio noto come alfabeto cirillico. Probabilmente già da tempo si era cimentato nell’elaborazione di un alfabeto per la lingua slava. Non tardarono però a manifestarsi contrasti con il clero tedesco, primo evangelizzatore di quelle terre. Nel 867 Cirillo e Metodio si recarono a Roma per far ordinare sacerdoti i loro discepoli, ma forse la loro visita fu dettata da un’esplicita convocazione da parte del papa Adriano II insospettito dall’amicizia tra Cirillo e l’eretico Fozio. Ad ogni modo il pontefice riservò loro un'accoglienza positiva, ordinò prete Metodio ed approvò le loro traduzioni della Bibbia e dei testi liturgici in lingua slava. Inoltre Cirillo gli fece dono delle reliquie di San Clemente, da lui ritrovate in Crimea. Durante la permanenza nella Città Eterna, Cirillo si ammalò e morì: era il 14 febbraio 869. Venne sepolto proprio presso la basilica di San Clemente.
Metodio ritornò poi in Moravia, ma durante un successivo viaggio a Roma venne consacrato vescovo ed assegnato alla sede di Sirmiun (odierna Sremska Mitroviča). Quando in Moravia a Rostislav successe il nipote Sventopelk, favorevole alla presenza tedesca nel regno, iniziò così la persecuzione dei discepoli di Cirillo e Metodio, visti come portatori di un'eresia. Lo stesso Metodio fu detenuto per due anni in Baviera ed infine morì presso Velehrad, nel sud della Moravia, il 6 aprile 885. I suoi discepoli vennero incarcerati o venduti come schiavi a Venezia. Una parte di essi riuscì a fuggire nei Balcani e non a caso in Bulgaria si venerano come Sette Apostoli della nazione proprio Cirillo, Metodio ed i loro discepoli Clemente, Nahum, Saba, Gorazd ed Angelario, comunemente festeggiati al 27 luglio. Il Martyrologium Romanum ed il calendario liturgico dedicano invece ai fratelli Cirillo e Metodio la festa del 14 febbraio, nell’anniversario della morte del primo.
Se l’immane opera dei due fratelli di Tessalonica fu cancellata in Moravia, come detto trovò fortuna e proseguimento in terra bulgara, anche grazie al favore del sovrano San Boris Michele I, considerato “isapostolo”, che abbracciò il cristianesimo e ne fece la religione nazionale. La vastissima attività dei discepoli di Cirillo e Metodio in questo paese diede origine alla letteratura bulgara, ponendo così le basi della cultura scritta dei nuovi grandi stati russi. Il cirillico avvicinò moltissimo i bulgari e tutti i popoli slavi al mondo greco-bizantino: questo alfabeto si componeva di trentotto lettere, delle quali ben ventiquattro prese dall’alfabeto greco, mentre le altre appositamente ideate per la fonetica slava. Ciò comportò una grande facilità nel trapiantare in slavo l’enorme tradizione letteraria greca. La nuova lingua soppiantò ovunque il glagolitico e rese celebre sino ai giorni nostri il nome del suo ideatore.


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