Buongiorno, oggi è il 31 maggio.
Il 31 maggio 1916, nell'ambito della prima guerra mondiale, si ebbe la battaglia navale dello Jutland.
La Prima Guerra Mondiale ridusse in maniera netta l'importanza delle Marine militari europee. Ciò valse soprattutto per la Royal Navy britannica. Questa venne tuttavia impegnata con successo, nel Blocco totale di ogni via commerciale verso Germania e Austria-Ungheria.
Dopo il 1900, la Germania diede il via alla creazione di una Flotta d'alto mare, iniziando a minacciare direttamente l’egemonia navale britannica. Fino ad allora il Kaiser aveva posseduto poco più di una forza di difesa costiera, ma all'inizio del XX secolo cominciò anche progettare corazzate simili a quelle della Royal Navy. Nel frattempo aveva costruito alcuni incrociatori, potenzialmente anche in grado di minacciare le navi mercantili avversarie.
L'artefice dell’espansione navale tedesca fu l'ammiraglio Alfred von Tirpitz, il cui chiodo fisso era la costruzione delle corazzate (le famose “Dreadnought” inventate dagli inglesi). La sua filosofia navale era stata definita “la teoria del rischio”, costituire cioè una minaccia per la Royal Navy grazie a una forza di corazzate che, pur non esattamente in grado di sconfiggerla, ne avrebbe limitato il potere, minacciandola con il pericolo di rovinosi attacchi di sorpresa. Guglielmo II, per quanto fosse per metà inglese e ammiraglio onorario della Royal Navy, abbracciò completamente la teoria del rischio di Tirpitz. Il suo pensiero strategico si formò sulla base dell'amore-odio per la supremazia mondiale britannica. Il Kaiser desiderava anche fondare un impero oltremare sul modello britannico, il che richiedeva la creazione di una flotta di incrociatori per il servizio all'estero. Inizialmente Tirpitz si dimostrò favorevole alla costruzione degli incrociatori, ma dopo l'approvazione della legge navale nel 1900 osteggiò il progetto. A quel punto, però, le mire imperiali tedesche erano ormai inarrestabili. Tirpitz, il creatore della marina tedesca, si era opposto alle spese per gli incrociatori. Nel suo rapporto del giugno 1897, sul quale si basava il programma navale imperiale tedesco, scrisse che “le incursioni contro le navi mercantili e la guerra transatlantica contro l'Inghilterra hanno così poche speranze, data la nostra carenza di basi e l'abbondanza di quelle inglesi, che dobbiamo ignorare questo tipo di guerra”. In seguito avrebbe rivisto tale posizione, ma essa intanto determinò la composizione e lo schieramento della flotta tedesca nel 1914, con grande vantaggio della Gran Bretagna.
La Kriegsmarine tedesca, la seconda flotta più forte del mondo (dopo quella britannica), poteva vantare una sostanziale parità nei confronti degli avversari. La Germania poteva quindi tentare di rompere l'isolamento forzato, con buone probabilità di successo. Nel maggio del 1916 la Hochseeflotte avrebbe simulato, con lo spostamento di poche unità, l'occupazione degli Stretti di Danimarca.
La “Grand Fleet” britannica sarebbe caduta nella trappola e avrebbe inviato il grosso delle proprie forze verso gli Stretti: le navi tedesche, più leggere e manovrabili, avrebbero attaccato di colpo gli avversari, distruggendoli.
L'Ammiragliato di Londra cadde in pieno nel tranello ordinando sei incrociatori di battaglia e quattro supercorazzate “Dreadnought”, di dirigersi verso il punto dove riteneva si sarebbero trovati i "pochi" incrociatori tedeschi (lo Stretto dello Jutland). L’Inghilterra mise in moto anche 24 corazzate semplici, altri 3 incrociatori da battaglia, 26 incrociatori leggeri e 79 cacciatorpediniere.
La Germania schierava 16 corazzate, 11 incrociatori leggeri, 5 incrociatori da battaglia e 61 cacciatorpediniere. Lo scontro tra le due possenti forze avvenne il 31 maggio 1916: la battaglia sarebbe divenuta la maggiore del Primo conflitto mondiale, e una delle più importanti nella Storia Navale.
Dopo circa cinque ore, le due flotte si separarono, avendo entrambe subito gravi danni. Dal punto di vista del morale e delle perdite, risultava indubbia la vittoria tedesca; ma la Grand Fleet non era stata annientata.
Ciò avrebbe avuto conseguenze pesantissime per lo svolgimento della guerra e per la stessa Germania. Il governo tedesco, disilluso fino alla paranoia nei confronti della propria flotta, decise di affidarsi all'unica arma capace, a suo dire, di garantire risultati strategicamente significativi: il sottomarino.
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mercoledì 31 maggio 2023
martedì 30 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 30 maggio.
Il 30 maggio 1879 apre al pubblico, dopo una ristrutturazione, il "nuovo" Madison Square Garden.
Sotto quei riflettori è passata una buona parte della storia della cultura popolare a stelle e strisce. Non c'è memorabile partita di basket, storico concerto rock, leggendario incontro di pugilato, combattuta partita di hockey; non c'è imperdibile spettacolo teatrale o ricordato evento di massa che non possa essere accostato a quel nome. Ha vissuto tre vite quel tempio dello sport e spettacolo (quattro, se si conta la prima, quando era un deposito della stazione ferroviaria);ci sono stati tre diversi edifici per un solo, mitico nome: Madison Square Garden. L'ultimo costruito è l'arena sorta nel 1968 sopra alla Pennsylvania Station. Ancora qualche anno e poi dovrà lasciare il passo all'ampliamento dell'importante scalo ferroviario. Lo ha deciso il Consiglio Comunale. (Con tutta probabilità) lo stadio dovrà essere abbattuto e trasferito, ricostruito in un'altra zona della metropoli. Troppo pressanti le esigenze di sviluppo della città per non chiedere al Garden di vivere altrove un'altra vita: la quinta.
Fu P.T. Barnum a dare forma alla prima vita del Garden. Quando attorno al 1871, il deposito ferroviario venne trasferito, l'inventore del "Più grande spettacolo del mondo", della più ambiziosa ed esotica performance circense dell'epoca, prese in leasing l'edificio e lo fece diventare un originale teatro per il suo circo o per altri show. Da grande imprenditore, Barnum aveva capito che quella location era speciale per i newyorchesi. Negli anni a seguire, uscito di scena lui, il Primo Garden si trasformò: divenne un velodromo, il ciclismo su pista era uno degli sport più seguiti negli Usa, e ospitò alcuni incontri di pugilato. I proprietari di allora - nomi mitici della finanza statunitense come JP Morgan e Andrew Carnagie - capirono che il business poteva essere ampliato. Decisero quindi di abbattere il vecchio edificio e di costruirne uno più grande.
Il Secondo Garden vide la luce il 6 giugno del 1890. Poteva contenere 17.000 persone. La sua storia durò poco meno di 40 anni. Tra le sue mura vennero combattuti importanti incontri di boxe, ma la struttura andò presto in sofferenza finanziaria e la società che ne era diventata proprietaria, la New York Life Insurance Company, decise di demolirla, per farne costruire una nuova, sempre chiamata Madison Square Garden, questa volta tra la 49° e la 50° strada a Manhattan. Era il 1928. Iniziava la terza vita, per lo più dedicata ai guantoni. Leggendari pugili salirono su quel ring. Henry Amstrong, l'unico a essere campione contemporaneamente in tre categorie; Sugar Ray Robinson, Jack La Motta, Rocky Marciano: nomi che hanno fatto la storia dello sport mondiale, con i loro trionfi e le loro sconfitte, con il loro sudore e le loro vicende private.
Ma il Garden non fu solo sangue e pugni: mantenne la sua anima poliedrica, la sua capacità di essere polo d'attrazione dello spettacolo non solo sportivo. Vero palcoscenico della cultura popolare statunitense per le forme espressive che quella cultura creava. Fu proprio quella la sua fortuna. I concerti di Frank Sinatra e di Elvis Presley, quell'indimenticabile sera del 1962 quando Marilyn Monroe cantò "Happy Birthday Mister President" davanti a JFK e a 15.000 persone che si erano radunate nello stadio per festeggiare il compleanno di John Fitzgerald Kennedy.
La storia non si conclude con la costruzione del quarto edificio nel 1968, l'attuale. Anzi. Diventa ancora più ricca. Semplicemente, si trasforma. Il Garden si dimostra ancora più eclettico. Un grande Business. Lo sport che prende piede è il basket. E' nell'arena ("Un'architettura a forma di fritella rovesciata" scriverà una volta Time) che giocano i New York Knicks davanti a un pubblico di 20.000 persone. Poi arriva anche l'hockey su ghiaccio con i Rangers, che ne fanno lo stadio di casa. I concerti non finiscono, anzi, si moltiplicano grazie alla capacità della nuova struttura: dagli anni'70 (Led Zeppelin, il concerto per il Bangladesh, Billy Joel) agli anni'80 (Michael Jackson, Madonna, David Bowie) per poi arrivare ai grandi concerti organizzati a scopo di beneficienza degli anni'90, nel 2001 dopo l'attacco alle Torri Gemelle e nel 2012 in favore delle vittime dell'uragano Sandy. Nel teatro ospitato all'interno del Garden c'è spazio anche per gli imponenti musical e per gli eventi politici: nel 1992, si tiene lì la convention democratica per la nomination di Bill Clinton per le elezioni presidenziali.
Ora, grazie alle decisioni dell'amministrazione newyorchese, il Madison Square Garden rischia di dover affrontare la sfida di una quinta vita. Lontano dall'attuale sede di Midtown, nel centro di Manhattan. I proprietari del Garden aveva chiesto la concessione perpetua del sito, ma la risposta delle istituzioni pubbliche è stata per ora diversa. C'è da scommettere che, comunque sia, il Garden rimarrà sempre quel tempio dello sport e dello spettacolo che è diventato nel corso della sua lunga storia secolare.
Il 30 maggio 1879 apre al pubblico, dopo una ristrutturazione, il "nuovo" Madison Square Garden.
Sotto quei riflettori è passata una buona parte della storia della cultura popolare a stelle e strisce. Non c'è memorabile partita di basket, storico concerto rock, leggendario incontro di pugilato, combattuta partita di hockey; non c'è imperdibile spettacolo teatrale o ricordato evento di massa che non possa essere accostato a quel nome. Ha vissuto tre vite quel tempio dello sport e spettacolo (quattro, se si conta la prima, quando era un deposito della stazione ferroviaria);ci sono stati tre diversi edifici per un solo, mitico nome: Madison Square Garden. L'ultimo costruito è l'arena sorta nel 1968 sopra alla Pennsylvania Station. Ancora qualche anno e poi dovrà lasciare il passo all'ampliamento dell'importante scalo ferroviario. Lo ha deciso il Consiglio Comunale. (Con tutta probabilità) lo stadio dovrà essere abbattuto e trasferito, ricostruito in un'altra zona della metropoli. Troppo pressanti le esigenze di sviluppo della città per non chiedere al Garden di vivere altrove un'altra vita: la quinta.
Fu P.T. Barnum a dare forma alla prima vita del Garden. Quando attorno al 1871, il deposito ferroviario venne trasferito, l'inventore del "Più grande spettacolo del mondo", della più ambiziosa ed esotica performance circense dell'epoca, prese in leasing l'edificio e lo fece diventare un originale teatro per il suo circo o per altri show. Da grande imprenditore, Barnum aveva capito che quella location era speciale per i newyorchesi. Negli anni a seguire, uscito di scena lui, il Primo Garden si trasformò: divenne un velodromo, il ciclismo su pista era uno degli sport più seguiti negli Usa, e ospitò alcuni incontri di pugilato. I proprietari di allora - nomi mitici della finanza statunitense come JP Morgan e Andrew Carnagie - capirono che il business poteva essere ampliato. Decisero quindi di abbattere il vecchio edificio e di costruirne uno più grande.
Il Secondo Garden vide la luce il 6 giugno del 1890. Poteva contenere 17.000 persone. La sua storia durò poco meno di 40 anni. Tra le sue mura vennero combattuti importanti incontri di boxe, ma la struttura andò presto in sofferenza finanziaria e la società che ne era diventata proprietaria, la New York Life Insurance Company, decise di demolirla, per farne costruire una nuova, sempre chiamata Madison Square Garden, questa volta tra la 49° e la 50° strada a Manhattan. Era il 1928. Iniziava la terza vita, per lo più dedicata ai guantoni. Leggendari pugili salirono su quel ring. Henry Amstrong, l'unico a essere campione contemporaneamente in tre categorie; Sugar Ray Robinson, Jack La Motta, Rocky Marciano: nomi che hanno fatto la storia dello sport mondiale, con i loro trionfi e le loro sconfitte, con il loro sudore e le loro vicende private.
Ma il Garden non fu solo sangue e pugni: mantenne la sua anima poliedrica, la sua capacità di essere polo d'attrazione dello spettacolo non solo sportivo. Vero palcoscenico della cultura popolare statunitense per le forme espressive che quella cultura creava. Fu proprio quella la sua fortuna. I concerti di Frank Sinatra e di Elvis Presley, quell'indimenticabile sera del 1962 quando Marilyn Monroe cantò "Happy Birthday Mister President" davanti a JFK e a 15.000 persone che si erano radunate nello stadio per festeggiare il compleanno di John Fitzgerald Kennedy.
La storia non si conclude con la costruzione del quarto edificio nel 1968, l'attuale. Anzi. Diventa ancora più ricca. Semplicemente, si trasforma. Il Garden si dimostra ancora più eclettico. Un grande Business. Lo sport che prende piede è il basket. E' nell'arena ("Un'architettura a forma di fritella rovesciata" scriverà una volta Time) che giocano i New York Knicks davanti a un pubblico di 20.000 persone. Poi arriva anche l'hockey su ghiaccio con i Rangers, che ne fanno lo stadio di casa. I concerti non finiscono, anzi, si moltiplicano grazie alla capacità della nuova struttura: dagli anni'70 (Led Zeppelin, il concerto per il Bangladesh, Billy Joel) agli anni'80 (Michael Jackson, Madonna, David Bowie) per poi arrivare ai grandi concerti organizzati a scopo di beneficienza degli anni'90, nel 2001 dopo l'attacco alle Torri Gemelle e nel 2012 in favore delle vittime dell'uragano Sandy. Nel teatro ospitato all'interno del Garden c'è spazio anche per gli imponenti musical e per gli eventi politici: nel 1992, si tiene lì la convention democratica per la nomination di Bill Clinton per le elezioni presidenziali.
Ora, grazie alle decisioni dell'amministrazione newyorchese, il Madison Square Garden rischia di dover affrontare la sfida di una quinta vita. Lontano dall'attuale sede di Midtown, nel centro di Manhattan. I proprietari del Garden aveva chiesto la concessione perpetua del sito, ma la risposta delle istituzioni pubbliche è stata per ora diversa. C'è da scommettere che, comunque sia, il Garden rimarrà sempre quel tempio dello sport e dello spettacolo che è diventato nel corso della sua lunga storia secolare.
lunedì 29 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 maggio.
Il 29 maggio 1940 Fausto Coppi, vincendo la tappa Firenze-Modena con quasi 4 minuti di vantaggio sul secondo, indossa per la prima volta in carriera la maglia rosa del Giro d'Italia.
Fausto Angelo Coppi nasce a Castellania, in provincia di Alessandria, il 15 settembre 1919 in una famiglia di modeste origini. Trascorre la vita a Novi Ligure, prima in viale Rimembranza, poi a Villa Carla sulla strada per Serravalle. Poco più che adolescente è costretto a trovarsi un lavoro come garzone di salumeria. Ragazzo a modo ed educato è subito apprezzato per la sua dedizione, il suo fare introverso e la sue naturale gentilezza.
Per hobby scorrazza qua e là su di una rudimentale bicicletta regalatagli dallo zio. Si distende dal lavoro con lunghe scampagnate, dove si inebria al contatto con l'aria aperta e la natura.
Nel luglio 1937 disputa la sua prima corsa. Il tracciato non è facile, anche se si svolge tutto in prevalenza da un paese di provincia all'altro. Purtroppo a metà gara è costretto a ritirarsi poiché una gomma si sgonfia inaspettatamente.
Gli inizi non sono quindi promettenti, malgrado il ritiro sia da attribuire al caso e alla sfortuna più che alle doti atletiche del giovane Fausto.
Mentre Coppi pensa al ciclismo sopra la sua testa scoppia la seconda guerra mondiale. Militare a Tortona, Caporale della terza squadra di un plotone in quadrato nella compagnia agli ordini di Fausto Bidone, viene fatto prigioniero degli inglesi in Africa, a Capo Bon.
Il 17 maggio 1943 viene internato a Megez el Bab e poi trasferito al campo di concentramento di Blida, nei pressi di Algeri.
Fortunatamente esce incolume da questa esperienza e, una volta tornato a casa, ha modo di riprendere i suoi allenamenti in bicicletta. Il 22 novembre 1945, a Sestri Ponente, si unisce in matrimonio con Bruna Ciampolini, che gli darà Marina, la prima dei suoi figli (Faustino, nascerà in seguito alla scandalosa relazione con la Dama Bianca).
Poco dopo, qualche osservatore, convintosi del suo talento, lo chiama alla Legnano, che diventa di fatto la prima squadra professionistica a cui prende parte. In seguito difenderà i colori delle seguenti squadre: Bianchi, Carpano, Tricofilina (alle ultime due abbinò il proprio nome). Alla fine del 1959 si lega alla S. Pellegrino.
Al primo anno di professionismo, arrivando con 3'45" di vantaggio nella tappa Firenze-Modena del Giro d'Italia, conquista una vittoria che gli consente di smentire le previsioni generali che volevano Gino Bartali vincitore della corsa rosa. A Milano in rosa giunse infatti lui, Fausto Angelo Coppi.
Alcune delle altre cavalcate solitarie che fecero scorrere fiumi d'inchiostro furono: quella di 192 Km nella tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d'Italia del 1949 (vantaggio 11'52"), quella di 170 Km del Giro del Veneto (vantaggio 8') e quella di 147 Km della Milano-Sanremo del '46 (vantaggio 14').
Il Campionissimo del ciclismo, vinse 110 corse di cui 53 per distacco. Il suo arrivo solitario sui grandi traguardi era annunciato con una frase, coniata da Mario Ferretti in una famosa radiocronaca dell'epoca: "Un uomo solo al comando!" (a cui Ferretti aveva aggiunto: "[...], la sua maglia è biancoceleste, il suo nome Fausto Coppi!").
Il grande ciclista si aggiudicò due volte il Tour de France nel 1949 e nel 1952 e cinque volte il Giro d'Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953) ed entrò nella storia per essere uno dei pochi ciclisti al mondo ad aver vinto Giro e Tour nello stesso anno (tra cui ricordiamo anche Marco Pantani, 1998).
Al suo attivo vi furono tre volte la Milano-Sanremo (1946, 1948, 1949), cinque Giri di Lombardia (1946-1949, 1954), due Gran premi delle Nazioni (1946, 1947), una Parigi-Roubaix (1950) e una Freccia vallone (1950).
La sua fama di ciclista, caratterizzata dalla rivalità-alleanza con Gino Bartali, fu parzialmente oscurata dalle sue vicende private, in particolare dalla scandalosa relazione segreta con la "dama bianca", che nell'Italia degli anni 50 destò scalpore più delle sue vittorie in solitaria.
Era in agosto, a Lugano. Anno 1953. Faceva un caldo infernale, nonostante qualche strisciolina di brezza che arrivava dal Lago. Lui, come sempre, aveva corso da grande e quando, con passo deciso, si era inerpicato sulle scalette della tribuna, con quelle gambe lunghe e magre, era sembrato un uccellaccio intento a saltabeccare fuori zona. Gli occhi erano spalancati, i capelli spettinati, il profilo duro e la bocca chiusa da un vago sorriso, come se le labbra fossero serrata da un pacco di spilli. Fausto, il campionissimo, il Coppi di sempre, timido e un po' a disagio, si era fatto al centro della tribuna tra le autorità sportive. Qualcuno si era presentato davanti a lui con la maglia iridata in mano, quella di campione del mondo e l'aveva infilata sulla testa del vincitore che, con grande sforzo, alla fine, era riuscito ad infilarla.
Poi, da un angolo, era sbucata una signora con un vestito bianco, leggero e vaporoso e un gran mazzo di fiori in mano. Quella signora, presa dall'entusiasmo sportivo, aveva abbracciato il campione sporco e sudaticcio e aveva stampato un paio di baci sulla bocca di Fausto, porgendo i fiori. Il campionissimo, per la prima volta, non si era schernito come faceva sempre. Lei, per moltissimi minuti, era rimasta accanto a lui guardandolo con un sorriso dolcissimo. Tanto dolce che tutti avevano capito. I fotografi si erano precipitati e avevano fatto scattare i flash. Anche i giornalisti sportivi, nella confusione, si erano fatti intorno ai due. Tutti sapevano che Fausto era sposato da molti anni con Bruna Ciampolini, una donna silenziosa e schiva come il marito. E quella chi era? Lei aveva risposto, con un sorriso niente affatto timido: «Sono una vecchia amica di Fausto e una grande tifosa. Che volete farci. È un gran campione e come si fa a non ammirarlo?». Da quel momento e da quel giorno era nata la leggenda della «dama Bianca» ed erano stati i giornalisti francesi a battezzare così quella donna che aveva osato baciare in pubblico «le phenomene», «l'airone delle salite», il campione dei campioni, l'inafferrabile, quello che le suonava a Bartali.
Poco, troppo poco, invece, è stato raccontato sull'amore di Fausto e Giulia Occhini, sulla loro vita privata al di fuori dei miti e delle leggende. E anche sulle sofferenze che una Italia bacchettona, retriva, bigotta e poco disposta ad uscire, in qualche modo, dai canoni della vita e dell'amore fissati da una religiosità crudele, inflisse all'uomo Coppi e alla sua compagna. Fu quel giorno d'agosto, a Lugano che tutta l'Italia, per la prima volta, seppe. Seppe di un amore «proibito» per la morale comune del tempo e seppe di quei «due pubblici concubini» e peccatori «pericolosi».
Cerchiamo di capire un po' meglio l'amore di Fausto per la «dama Bianca», o meglio per Giulia Occhini e vedere come andarono le cose: l'arresto di lei, il processo, la condanna di tutti e due, la nascita del loro bambino in Argentina. Gli emigranti dell'amore, che ormai si sentivano perseguitati in Italia, erano, infatti, finiti laggiù.
Fausto, come abbiamo visto, si sposa con Bruna Ciampolini che, più tardi, darà alla luce la figlia Marina. Che donna è Bruna? Una cara e dolce moglie, silenziosa e modesta. Di quelle che si sposano perché c'è un rapporto fin da ragazzini. Di quelle donne, insomma, che piacciono tanto ad una famiglia di contadini che vuole mogli, semplici, concrete, senza grilli per la testa. Una donna che garantisca sempre, al futuro marito, un posto sicuro dove «appoggiarsi» nei momenti più duri e difficili della vita. Bruna è così e piace tanto alla famiglia di Fausto. Lui continua a correre con quel suo sguardo triste da «eterno povero».
Eppure vince, eccome. Incassa anche molti soldi. Un giorno fa amicizia con un suo tifoso, il dottor Enrico Locatelli che è sposato con Giulia Occhini, una bella ragazza che viene da una famiglia agiata. Hanno due figli, Maurizio e Loli, ma nonostante questo, ogni tanto seguono Coppi. Non si è mai saputo quando e come sia nato l'amore tra il campionissimo e Giulia. Insomma la storia sarà nata in segreto e in segreto continuata. Cose eterne come il mondo.
Ma c'è quel benedetto giorno a Lugano, quando tutti capiscono. La moglie di Coppi, la signora Bruna, dicono che aveva subito capito come stavano andando le cose perché, per un paio di volte, Giulia era andata, con il marito, in casa Coppi, così per «approfondire l'amicizia». Giulia era sempre elegante, sapeva muoversi senza timidezze ed era abituata a vedere gente, a leggere libri e giornali, a spostarsi da una città all'altra e a vivere in albergo. Tutto il contrario della signora Bruna. I giornalisti, dopo i baci di Lugano, ricordano di aver visto Coppi, durante una tappa del Tour, rallentare quando aveva visto lei a lato della strada e ricordano anche di una volta che Bruna Ciampolini, moglie di Fausto e il dottor Locatelli, marito di Giulia, si erano precipitati insieme sul Garda, durante una tappa del Giro.
Il caso Coppi-«Dama Bianca», esplode come una bomba nell'Italia delle scomuniche Vaticane ai comunisti o contro chi non si sposava in chiesa, della mancanza di divorzio, delle mamme fattrici ad ogni costo, della famiglia come unica possibilità, per un uomo e una donna di vivere il loro rapporto. I giornali parlano subito di «amore scandaloso» e «lei», la «cattiva» viene indicata come una «rovina famiglie» e l'esempio di «tutto quello che le donne non dovrebbero essere». Pare che persino il Papa in persona (Pio XII) sia intervenuto per invitare Coppi a pensare bene a quel che andava facendo. Non si trattava di minacce, ovviamente.
Rimane il fatto che il codice Rocco, il vecchio codice fascista, prevedeva i reati di abbandono del tetto coniugale e di adulterio ed è in questo senso che si muovono subito i magistrati. Coppi e Giulia Occhini, nel frattempo, erano andati a vivere insieme nella villa di Novi Ligure, acquistata da Fausto al momento della separazione dalla moglie Bruna, separazione che datava già da qualche tempo. Giulia Occhini, in quei mesi aveva 26 anni ed era una splendida signora sempre elegante, ben truccata, sicura. Quella di sempre, insomma. Chi è cambiato, invece, è Fausto. Ha lasciato i panni dell'eterno poveraccio. Non è più un rozzo ex contadino. Veste con proprietà, giacca doppio petto e cravatta, cappotti ben tagliati e fatti su misura. È diventato un «signore» e nei nuovi panni si sente bene. Sembra non aver paura di nulla. Si potrebbe dire, con l'aiuto di un po' di psicologia, che Fausto ha raggiunto il mondo e il modo di vita al quale, da eterno morto di fame, aspirava da tutta una vita. Giulia Occhini, dunque, lo aveva trasformato in profondità. Ma gli attacchi del perbenismo ufficiale e non ufficiale, non cessano un attimo e tutto diventa crudele, umiliante, cattivo. L'Italia si divide in due: chi è solidale con Fausto e chi lo condanna senza appello. A Coppi, il campionissimo, viene ritirato il passaporto. È soltanto la prima mossa. Una notte, nella villa di Novi Ligure, arrivano i carabinieri che procedono ad una serie di «costatazioni di legge». Cercano la prova dell'adulterio e la trovano. Come? Lo raccontano, senza vergogna o imbarazzo gli uomini dei verbali conservati negli atti del processo. Un brigadiere mette le mani nel letto della coppia e lo trova ancora caldo. Dunque, i due, non potevano certo più dire che stavano semplicemente bevendo insieme un caffè: erano a letto insieme e basta.
Che Italia incredibile, barbara e medievale. Lei finisce subito ammanettata. Nella notte, viene trasferita nel carcere di Alessandria. È donna e quindi, evidentemente, doveva pagare ancora più dell'uomo. Fausto è disperato e tenta di tutto per liberarla. Ma non è così semplice. Passano più di 96 ore prima che lei torni a casa. Nel marzo del 1955, il processo. Lei è accusata di aver abbandonato il marito e i figli. Lui, oltre che di adulterio deve rispondere anche di violazione degli obblighi di assistenza familiare. A Fausto, i giudici infliggono due mesi di carcere e tre a lei. Giulia Occhini viene, però, anche «confinata» ad Ancona in casa di una zia. I giudici le vietano, inoltre, di vedere i figli e tornare a Novi Ligure. Giulia, incinta di Fausto, decide allora insieme al suo uomo, di andare a partorire a Buenos Aires. In Italia, chissà cosa avrebbe potuto accadere al piccolo, figlio di «pubblici peccatori» e concubini. Fausto, durante il Giro, riceve a Venezia la prima foto del bambino al quale è stato messo il nome di Faustino. Il campionissimo piange. Poi, in cima allo Stelvio, lancia un urlo di saluto al bambino e si butta nella discesa come un pazzo. Forse è l'unico urlo che sia mai uscito dalla sua bocca in tutta la sua vita. Una coppia, comunque, che ha avuto certamente periodi felici. Lo raccontano tutti: Giulia e Fausto erano davvero fatti l'uno per l'altro. Ma anche l'angoscia e i dolori non hanno mai avuto fine per loro. Lui, in gara, è caduto mille volte e mille volte ha riportato fratture gravi. A lei è morta, giovane, la figlia Lolli. Poi la fine terribile e beffarda di Fausto. Il campionissimo parte per una esibizione nell'Alto Volta: in realtà una scusa per una grande partita di caccia, insieme a colleghi e amici. Ha appena 40 anni.
Torna e racconta a Giulia che quel viaggio è stato come una straordinaria e indimenticabile avventura. Due giorni dopo è a letto con una febbre terribile. «È un virus, un brutto virus», dicono i medici. Non si accorgono che si tratta di un terribile attacco di malaria. Il 2 gennaio 1960, alle 8.45 è la fine. Una agenzia di stampa diffonde una notizia agghiacciante, terribile. Eccola: «Essendo il campione un pubblico peccatore a causa delle sue vicende coniugali, ha potuto ricevere l'estrema unzione solo a patto di una solenne rinuncia della sua donna ai legami con lui in caso di guarigione». C'è una foto straordinaria scattata ai funerali e lungo la stradina in salita che da Castellania porta alla casa dei Coppi. Si vede una bellissima campagna maculata di neve e un corteo di migliaia di persone che salgono lassù, per rendere l'ultimo saluto al campionissimo. In un'altra foto scattata in casa ci sono tre grandi campioni di quelli che arrivavano al traguardo con la faccia coperta di fango. I loro nomi? Girardengo, Binda e Bartali. Già, Bartali. Alcuni anno fa disse: «Io, terziario francescano, bacchettone e bigotto, come avete sempre scritto su l'Unità, ho voluto molto bene a Coppi. Ora potete anche scriverlo. Sono stato proprio io ad accompagnarlo più di una volta in Vaticano per risolvere la sua situazione con la Occhini. L'ho fatto parlare anche con il Papa... Non è stato possibile far niente..». Giulia Occhini, invece, muore a 69 anni, nel 1993, dopo 510 giorni di coma. Era rimasta gravemente ferita in un incidente stradale davanti a «Villa Coppi», dove viveva con il figlio di quel suo grande e famosissimo amore.
Il 29 maggio 1940 Fausto Coppi, vincendo la tappa Firenze-Modena con quasi 4 minuti di vantaggio sul secondo, indossa per la prima volta in carriera la maglia rosa del Giro d'Italia.
Fausto Angelo Coppi nasce a Castellania, in provincia di Alessandria, il 15 settembre 1919 in una famiglia di modeste origini. Trascorre la vita a Novi Ligure, prima in viale Rimembranza, poi a Villa Carla sulla strada per Serravalle. Poco più che adolescente è costretto a trovarsi un lavoro come garzone di salumeria. Ragazzo a modo ed educato è subito apprezzato per la sua dedizione, il suo fare introverso e la sue naturale gentilezza.
Per hobby scorrazza qua e là su di una rudimentale bicicletta regalatagli dallo zio. Si distende dal lavoro con lunghe scampagnate, dove si inebria al contatto con l'aria aperta e la natura.
Nel luglio 1937 disputa la sua prima corsa. Il tracciato non è facile, anche se si svolge tutto in prevalenza da un paese di provincia all'altro. Purtroppo a metà gara è costretto a ritirarsi poiché una gomma si sgonfia inaspettatamente.
Gli inizi non sono quindi promettenti, malgrado il ritiro sia da attribuire al caso e alla sfortuna più che alle doti atletiche del giovane Fausto.
Mentre Coppi pensa al ciclismo sopra la sua testa scoppia la seconda guerra mondiale. Militare a Tortona, Caporale della terza squadra di un plotone in quadrato nella compagnia agli ordini di Fausto Bidone, viene fatto prigioniero degli inglesi in Africa, a Capo Bon.
Il 17 maggio 1943 viene internato a Megez el Bab e poi trasferito al campo di concentramento di Blida, nei pressi di Algeri.
Fortunatamente esce incolume da questa esperienza e, una volta tornato a casa, ha modo di riprendere i suoi allenamenti in bicicletta. Il 22 novembre 1945, a Sestri Ponente, si unisce in matrimonio con Bruna Ciampolini, che gli darà Marina, la prima dei suoi figli (Faustino, nascerà in seguito alla scandalosa relazione con la Dama Bianca).
Poco dopo, qualche osservatore, convintosi del suo talento, lo chiama alla Legnano, che diventa di fatto la prima squadra professionistica a cui prende parte. In seguito difenderà i colori delle seguenti squadre: Bianchi, Carpano, Tricofilina (alle ultime due abbinò il proprio nome). Alla fine del 1959 si lega alla S. Pellegrino.
Al primo anno di professionismo, arrivando con 3'45" di vantaggio nella tappa Firenze-Modena del Giro d'Italia, conquista una vittoria che gli consente di smentire le previsioni generali che volevano Gino Bartali vincitore della corsa rosa. A Milano in rosa giunse infatti lui, Fausto Angelo Coppi.
Alcune delle altre cavalcate solitarie che fecero scorrere fiumi d'inchiostro furono: quella di 192 Km nella tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d'Italia del 1949 (vantaggio 11'52"), quella di 170 Km del Giro del Veneto (vantaggio 8') e quella di 147 Km della Milano-Sanremo del '46 (vantaggio 14').
Il Campionissimo del ciclismo, vinse 110 corse di cui 53 per distacco. Il suo arrivo solitario sui grandi traguardi era annunciato con una frase, coniata da Mario Ferretti in una famosa radiocronaca dell'epoca: "Un uomo solo al comando!" (a cui Ferretti aveva aggiunto: "[...], la sua maglia è biancoceleste, il suo nome Fausto Coppi!").
Il grande ciclista si aggiudicò due volte il Tour de France nel 1949 e nel 1952 e cinque volte il Giro d'Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953) ed entrò nella storia per essere uno dei pochi ciclisti al mondo ad aver vinto Giro e Tour nello stesso anno (tra cui ricordiamo anche Marco Pantani, 1998).
Al suo attivo vi furono tre volte la Milano-Sanremo (1946, 1948, 1949), cinque Giri di Lombardia (1946-1949, 1954), due Gran premi delle Nazioni (1946, 1947), una Parigi-Roubaix (1950) e una Freccia vallone (1950).
La sua fama di ciclista, caratterizzata dalla rivalità-alleanza con Gino Bartali, fu parzialmente oscurata dalle sue vicende private, in particolare dalla scandalosa relazione segreta con la "dama bianca", che nell'Italia degli anni 50 destò scalpore più delle sue vittorie in solitaria.
Era in agosto, a Lugano. Anno 1953. Faceva un caldo infernale, nonostante qualche strisciolina di brezza che arrivava dal Lago. Lui, come sempre, aveva corso da grande e quando, con passo deciso, si era inerpicato sulle scalette della tribuna, con quelle gambe lunghe e magre, era sembrato un uccellaccio intento a saltabeccare fuori zona. Gli occhi erano spalancati, i capelli spettinati, il profilo duro e la bocca chiusa da un vago sorriso, come se le labbra fossero serrata da un pacco di spilli. Fausto, il campionissimo, il Coppi di sempre, timido e un po' a disagio, si era fatto al centro della tribuna tra le autorità sportive. Qualcuno si era presentato davanti a lui con la maglia iridata in mano, quella di campione del mondo e l'aveva infilata sulla testa del vincitore che, con grande sforzo, alla fine, era riuscito ad infilarla.
Poi, da un angolo, era sbucata una signora con un vestito bianco, leggero e vaporoso e un gran mazzo di fiori in mano. Quella signora, presa dall'entusiasmo sportivo, aveva abbracciato il campione sporco e sudaticcio e aveva stampato un paio di baci sulla bocca di Fausto, porgendo i fiori. Il campionissimo, per la prima volta, non si era schernito come faceva sempre. Lei, per moltissimi minuti, era rimasta accanto a lui guardandolo con un sorriso dolcissimo. Tanto dolce che tutti avevano capito. I fotografi si erano precipitati e avevano fatto scattare i flash. Anche i giornalisti sportivi, nella confusione, si erano fatti intorno ai due. Tutti sapevano che Fausto era sposato da molti anni con Bruna Ciampolini, una donna silenziosa e schiva come il marito. E quella chi era? Lei aveva risposto, con un sorriso niente affatto timido: «Sono una vecchia amica di Fausto e una grande tifosa. Che volete farci. È un gran campione e come si fa a non ammirarlo?». Da quel momento e da quel giorno era nata la leggenda della «dama Bianca» ed erano stati i giornalisti francesi a battezzare così quella donna che aveva osato baciare in pubblico «le phenomene», «l'airone delle salite», il campione dei campioni, l'inafferrabile, quello che le suonava a Bartali.
Poco, troppo poco, invece, è stato raccontato sull'amore di Fausto e Giulia Occhini, sulla loro vita privata al di fuori dei miti e delle leggende. E anche sulle sofferenze che una Italia bacchettona, retriva, bigotta e poco disposta ad uscire, in qualche modo, dai canoni della vita e dell'amore fissati da una religiosità crudele, inflisse all'uomo Coppi e alla sua compagna. Fu quel giorno d'agosto, a Lugano che tutta l'Italia, per la prima volta, seppe. Seppe di un amore «proibito» per la morale comune del tempo e seppe di quei «due pubblici concubini» e peccatori «pericolosi».
Cerchiamo di capire un po' meglio l'amore di Fausto per la «dama Bianca», o meglio per Giulia Occhini e vedere come andarono le cose: l'arresto di lei, il processo, la condanna di tutti e due, la nascita del loro bambino in Argentina. Gli emigranti dell'amore, che ormai si sentivano perseguitati in Italia, erano, infatti, finiti laggiù.
Fausto, come abbiamo visto, si sposa con Bruna Ciampolini che, più tardi, darà alla luce la figlia Marina. Che donna è Bruna? Una cara e dolce moglie, silenziosa e modesta. Di quelle che si sposano perché c'è un rapporto fin da ragazzini. Di quelle donne, insomma, che piacciono tanto ad una famiglia di contadini che vuole mogli, semplici, concrete, senza grilli per la testa. Una donna che garantisca sempre, al futuro marito, un posto sicuro dove «appoggiarsi» nei momenti più duri e difficili della vita. Bruna è così e piace tanto alla famiglia di Fausto. Lui continua a correre con quel suo sguardo triste da «eterno povero».
Eppure vince, eccome. Incassa anche molti soldi. Un giorno fa amicizia con un suo tifoso, il dottor Enrico Locatelli che è sposato con Giulia Occhini, una bella ragazza che viene da una famiglia agiata. Hanno due figli, Maurizio e Loli, ma nonostante questo, ogni tanto seguono Coppi. Non si è mai saputo quando e come sia nato l'amore tra il campionissimo e Giulia. Insomma la storia sarà nata in segreto e in segreto continuata. Cose eterne come il mondo.
Ma c'è quel benedetto giorno a Lugano, quando tutti capiscono. La moglie di Coppi, la signora Bruna, dicono che aveva subito capito come stavano andando le cose perché, per un paio di volte, Giulia era andata, con il marito, in casa Coppi, così per «approfondire l'amicizia». Giulia era sempre elegante, sapeva muoversi senza timidezze ed era abituata a vedere gente, a leggere libri e giornali, a spostarsi da una città all'altra e a vivere in albergo. Tutto il contrario della signora Bruna. I giornalisti, dopo i baci di Lugano, ricordano di aver visto Coppi, durante una tappa del Tour, rallentare quando aveva visto lei a lato della strada e ricordano anche di una volta che Bruna Ciampolini, moglie di Fausto e il dottor Locatelli, marito di Giulia, si erano precipitati insieme sul Garda, durante una tappa del Giro.
Il caso Coppi-«Dama Bianca», esplode come una bomba nell'Italia delle scomuniche Vaticane ai comunisti o contro chi non si sposava in chiesa, della mancanza di divorzio, delle mamme fattrici ad ogni costo, della famiglia come unica possibilità, per un uomo e una donna di vivere il loro rapporto. I giornali parlano subito di «amore scandaloso» e «lei», la «cattiva» viene indicata come una «rovina famiglie» e l'esempio di «tutto quello che le donne non dovrebbero essere». Pare che persino il Papa in persona (Pio XII) sia intervenuto per invitare Coppi a pensare bene a quel che andava facendo. Non si trattava di minacce, ovviamente.
Rimane il fatto che il codice Rocco, il vecchio codice fascista, prevedeva i reati di abbandono del tetto coniugale e di adulterio ed è in questo senso che si muovono subito i magistrati. Coppi e Giulia Occhini, nel frattempo, erano andati a vivere insieme nella villa di Novi Ligure, acquistata da Fausto al momento della separazione dalla moglie Bruna, separazione che datava già da qualche tempo. Giulia Occhini, in quei mesi aveva 26 anni ed era una splendida signora sempre elegante, ben truccata, sicura. Quella di sempre, insomma. Chi è cambiato, invece, è Fausto. Ha lasciato i panni dell'eterno poveraccio. Non è più un rozzo ex contadino. Veste con proprietà, giacca doppio petto e cravatta, cappotti ben tagliati e fatti su misura. È diventato un «signore» e nei nuovi panni si sente bene. Sembra non aver paura di nulla. Si potrebbe dire, con l'aiuto di un po' di psicologia, che Fausto ha raggiunto il mondo e il modo di vita al quale, da eterno morto di fame, aspirava da tutta una vita. Giulia Occhini, dunque, lo aveva trasformato in profondità. Ma gli attacchi del perbenismo ufficiale e non ufficiale, non cessano un attimo e tutto diventa crudele, umiliante, cattivo. L'Italia si divide in due: chi è solidale con Fausto e chi lo condanna senza appello. A Coppi, il campionissimo, viene ritirato il passaporto. È soltanto la prima mossa. Una notte, nella villa di Novi Ligure, arrivano i carabinieri che procedono ad una serie di «costatazioni di legge». Cercano la prova dell'adulterio e la trovano. Come? Lo raccontano, senza vergogna o imbarazzo gli uomini dei verbali conservati negli atti del processo. Un brigadiere mette le mani nel letto della coppia e lo trova ancora caldo. Dunque, i due, non potevano certo più dire che stavano semplicemente bevendo insieme un caffè: erano a letto insieme e basta.
Che Italia incredibile, barbara e medievale. Lei finisce subito ammanettata. Nella notte, viene trasferita nel carcere di Alessandria. È donna e quindi, evidentemente, doveva pagare ancora più dell'uomo. Fausto è disperato e tenta di tutto per liberarla. Ma non è così semplice. Passano più di 96 ore prima che lei torni a casa. Nel marzo del 1955, il processo. Lei è accusata di aver abbandonato il marito e i figli. Lui, oltre che di adulterio deve rispondere anche di violazione degli obblighi di assistenza familiare. A Fausto, i giudici infliggono due mesi di carcere e tre a lei. Giulia Occhini viene, però, anche «confinata» ad Ancona in casa di una zia. I giudici le vietano, inoltre, di vedere i figli e tornare a Novi Ligure. Giulia, incinta di Fausto, decide allora insieme al suo uomo, di andare a partorire a Buenos Aires. In Italia, chissà cosa avrebbe potuto accadere al piccolo, figlio di «pubblici peccatori» e concubini. Fausto, durante il Giro, riceve a Venezia la prima foto del bambino al quale è stato messo il nome di Faustino. Il campionissimo piange. Poi, in cima allo Stelvio, lancia un urlo di saluto al bambino e si butta nella discesa come un pazzo. Forse è l'unico urlo che sia mai uscito dalla sua bocca in tutta la sua vita. Una coppia, comunque, che ha avuto certamente periodi felici. Lo raccontano tutti: Giulia e Fausto erano davvero fatti l'uno per l'altro. Ma anche l'angoscia e i dolori non hanno mai avuto fine per loro. Lui, in gara, è caduto mille volte e mille volte ha riportato fratture gravi. A lei è morta, giovane, la figlia Lolli. Poi la fine terribile e beffarda di Fausto. Il campionissimo parte per una esibizione nell'Alto Volta: in realtà una scusa per una grande partita di caccia, insieme a colleghi e amici. Ha appena 40 anni.
Torna e racconta a Giulia che quel viaggio è stato come una straordinaria e indimenticabile avventura. Due giorni dopo è a letto con una febbre terribile. «È un virus, un brutto virus», dicono i medici. Non si accorgono che si tratta di un terribile attacco di malaria. Il 2 gennaio 1960, alle 8.45 è la fine. Una agenzia di stampa diffonde una notizia agghiacciante, terribile. Eccola: «Essendo il campione un pubblico peccatore a causa delle sue vicende coniugali, ha potuto ricevere l'estrema unzione solo a patto di una solenne rinuncia della sua donna ai legami con lui in caso di guarigione». C'è una foto straordinaria scattata ai funerali e lungo la stradina in salita che da Castellania porta alla casa dei Coppi. Si vede una bellissima campagna maculata di neve e un corteo di migliaia di persone che salgono lassù, per rendere l'ultimo saluto al campionissimo. In un'altra foto scattata in casa ci sono tre grandi campioni di quelli che arrivavano al traguardo con la faccia coperta di fango. I loro nomi? Girardengo, Binda e Bartali. Già, Bartali. Alcuni anno fa disse: «Io, terziario francescano, bacchettone e bigotto, come avete sempre scritto su l'Unità, ho voluto molto bene a Coppi. Ora potete anche scriverlo. Sono stato proprio io ad accompagnarlo più di una volta in Vaticano per risolvere la sua situazione con la Occhini. L'ho fatto parlare anche con il Papa... Non è stato possibile far niente..». Giulia Occhini, invece, muore a 69 anni, nel 1993, dopo 510 giorni di coma. Era rimasta gravemente ferita in un incidente stradale davanti a «Villa Coppi», dove viveva con il figlio di quel suo grande e famosissimo amore.
domenica 28 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 maggio.
Il 28 maggio 1980 viene ammazzato Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera.
La carriera giornalistica di Walter Tobagi cominciò al ginnasio come redattore della Zanzara, il celebre giornale del liceo milanese Parini. Dopo il liceo, entrò all’Avanti! di Milano, ma pochi mesi dopo passò al quotidiano cattolico Avvenire. Furono anni di pratica alla scuola di “cronista sul campo” che lo portarono prima al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera. Il suo interesse prioritario era per i temi sociali, l’informazione, la politica e il movimento sindacale. Ma il suo impegno professionale maggiore Tobagi lo dedicò alle vicende del terrorismo. Al Corriere della Sera seguì tutte le vicende relative agli “anni di piombo”. Uno dei suoi ultimi articoli sui terroristi rossi è considerato tra i più significativi sin dal titolo: “Non sono samurai invincibili”.
Walter Tobagi – 33 anni, moglie e due figli, scrittore e docente universitario, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti – venne ucciso alle 11 di mattina sotto casa con cinque colpi di pistola da un gruppo di assassini della Brigata 28 Marzo poco dopo essere uscito di casa. A sparare furono Marco Barbone e Mario Marano.
Gli assassini furono catturati in fretta e ancora più in fretta uscirono di galera perché al tempo era così: se parlavi, a prescindere da cosa dicessi, ti davano una pacca sulle spalle e ti lasciavano andare. Erano ragazzi borghesi, figli di dirigenti e di giornalisti, stupidi, conformisti e quindi fatalmente brigatisti o qualcosa del genere, comunque comunisti e smaniosi di segnalarsi ai compagni armati. L’esatto contrario di Tobagi che, pur essendo poco più che trentenne, non aveva mai seguito le mode, neppure quelle ideologiche, e si dedicava al lavoro con slancio e passione. Era già un buon motivo, dato il clima, per farlo fuori.
Walter poi non era un giornalista qualunque, ma uno che ci sapeva fare. Colto, analitico e profondo, seppe approfittare dell’arrivo di Franco Di Bella alla direzione del Corriere, che lo aveva promosso alla «scrittura» riconoscendone l’abilità (anche politica e diplomatica), per emergere dall’anonimato cui gran parte dei corrieristi erano condannati causa l’appiattimento imposto all’epoca dal sindacalismo rosso. In pochi mesi, Tobagi imparò a volare e divenne una firma. Ma nell'ambiente era già qualcuno perché nelle assemblee redazionali, da semplice redattore, si era distinto sconfiggendo il branco della falce e martello. Era «padrone» della Associazione Lombarda e la sua opinione pesava.
Pacioso, cordiale, grassoccio e sorridente, aveva l’aspetto e i modi di un giovane parroco; e in effetti era cattolico benché vicino ai socialisti. Mai aggressivo, al termine di ogni discussione aveva sempre ragione. Nell’arte di convincere era un maestro senza essere un trascinatore. Insomma, aveva qualità di leader, personalità, conoscenza, pazienza. Tutto ciò che occorreva per rendersi detestabile agli avversari comunisti a lui non mancava.
Non è chiaro se l’idea di uccidere Walter sia nata negli scantinati del Corriere, come qualcuno ha sostenuto; certo è che gli esecutori materiali dell’omicidio sono stati ispirati, se non istigati, da chi identificava in Tobagi un nemico politico, un concorrente professionale e sindacale. Colleghi? E chi altri avrebbe avuto interesse a sopprimerlo coi metodi in voga negli anni di piombo: tre o quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo? Indubbiamente, l’inviato grazie al suo lavoro e alle attività collaterali non era un anonimo cronista; ma la sua fama era circoscritta alla cittadella giornalistica e ai recinti del partito armato che egli aveva raccontato con perizia e spirito critico. Il fatto poi che gli assassini gravitassero attorno al mondo dell’informazione, e fossero addirittura famigliari di addetti all’editoria, rafforza il sospetto che il la all’agguato sia partito dalla zona di via Solferino.
Un delitto, questo, come quasi tutti quelli dei comunisti combattenti, di una idiozia sconfinata. Si è tentato di saperne di più rispetto all’ufficialità, ma gli assassini una volta riconquistata la libertà, senza troppa fatica, si sono chiusi in sé guardandosi dal dire la verità. Forse se ne vergognano, giustamente, perché se è vero che non esiste ragione per ammazzare un uomo, uccidere un ragazzo quale Walter, generoso e pacifico, innocuo e onesto, richiede una tale meschinità e una tale incoscienza che solo dei figli di papà comunisti improvvisati potevano avere. E sono loro ad aver dato un’impronta conformistica a quegli anni di imbecillità collettiva che portarono scompiglio nella miserrima società italiana infatuata dall’utopia. Fa rabbia costatare che la morte di Walter non sia servita neppure a capire che il passato non è migliore del presente.
Marco Barbone (Milano, 1958), il leader del gruppo terrorista, che esplose probabilmente il colpo mortale, fu condannato nel 1983 a soli 8 anni e nove mesi, poiché divenuto immediatamente collaboratore di giustizia, ed ebbe subito la libertà provvisoria, dopo tre anni di carcere scontati (uscì dopo la sentenza). Negli anni successivi Barbone si è convertito al cattolicesimo e ha aderito a Comunione e Liberazione, è responsabile comunicazione della Compagnia delle Opere. Per un periodo ha collaborato con il settimanale Tempi del quotidiano Il Giornale.
Paolo Morandini, anche lui immediatamente "pentito", ebbe la medesima condanna di Barbone.
Mario Marano (Milano, 1953), che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti per la sua collaborazione, a 12 anni in appello (poi 10 con un condono). Fu condannato anche a undici anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti e a tre anni e mezzo nel processo a Prima Linea, per un totale di circa 24 anni. Scontò la pena ai domiciliari a partire dal 1986. Scarcerato ufficialmente negli anni novanta.
Manfredi De Stefano (Salerno, 23 maggio 1957), condannato a 28 anni e otto mesi; morì in carcere nel 1984, colpito da aneurisma.
Daniele Laus, l'autista del delitto, confessò ma poi ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado ebbe sedici anni. Dal dicembre 1985 fu rimesso in libertà provvisoria.
Francesco Giordano, che fece la copertura del gruppo di fuoco, non volle ammettere la partecipazione né collaborare, anche se condannò l'esperienza del terrorismo e la sua affiliazione al gruppo. Fu condannato a 30 anni e otto mesi, in appello divenuti 21. Fu l'unico che scontò l'intera pena: uscì di prigione nel 2004. Fu condannato anche a 13 anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti. Giordano sostenne di essere stato torturato da polizia e carabinieri nel 1980, dopo il suo arresto.
Il 28 maggio 1980 viene ammazzato Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera.
La carriera giornalistica di Walter Tobagi cominciò al ginnasio come redattore della Zanzara, il celebre giornale del liceo milanese Parini. Dopo il liceo, entrò all’Avanti! di Milano, ma pochi mesi dopo passò al quotidiano cattolico Avvenire. Furono anni di pratica alla scuola di “cronista sul campo” che lo portarono prima al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera. Il suo interesse prioritario era per i temi sociali, l’informazione, la politica e il movimento sindacale. Ma il suo impegno professionale maggiore Tobagi lo dedicò alle vicende del terrorismo. Al Corriere della Sera seguì tutte le vicende relative agli “anni di piombo”. Uno dei suoi ultimi articoli sui terroristi rossi è considerato tra i più significativi sin dal titolo: “Non sono samurai invincibili”.
Walter Tobagi – 33 anni, moglie e due figli, scrittore e docente universitario, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti – venne ucciso alle 11 di mattina sotto casa con cinque colpi di pistola da un gruppo di assassini della Brigata 28 Marzo poco dopo essere uscito di casa. A sparare furono Marco Barbone e Mario Marano.
Gli assassini furono catturati in fretta e ancora più in fretta uscirono di galera perché al tempo era così: se parlavi, a prescindere da cosa dicessi, ti davano una pacca sulle spalle e ti lasciavano andare. Erano ragazzi borghesi, figli di dirigenti e di giornalisti, stupidi, conformisti e quindi fatalmente brigatisti o qualcosa del genere, comunque comunisti e smaniosi di segnalarsi ai compagni armati. L’esatto contrario di Tobagi che, pur essendo poco più che trentenne, non aveva mai seguito le mode, neppure quelle ideologiche, e si dedicava al lavoro con slancio e passione. Era già un buon motivo, dato il clima, per farlo fuori.
Walter poi non era un giornalista qualunque, ma uno che ci sapeva fare. Colto, analitico e profondo, seppe approfittare dell’arrivo di Franco Di Bella alla direzione del Corriere, che lo aveva promosso alla «scrittura» riconoscendone l’abilità (anche politica e diplomatica), per emergere dall’anonimato cui gran parte dei corrieristi erano condannati causa l’appiattimento imposto all’epoca dal sindacalismo rosso. In pochi mesi, Tobagi imparò a volare e divenne una firma. Ma nell'ambiente era già qualcuno perché nelle assemblee redazionali, da semplice redattore, si era distinto sconfiggendo il branco della falce e martello. Era «padrone» della Associazione Lombarda e la sua opinione pesava.
Pacioso, cordiale, grassoccio e sorridente, aveva l’aspetto e i modi di un giovane parroco; e in effetti era cattolico benché vicino ai socialisti. Mai aggressivo, al termine di ogni discussione aveva sempre ragione. Nell’arte di convincere era un maestro senza essere un trascinatore. Insomma, aveva qualità di leader, personalità, conoscenza, pazienza. Tutto ciò che occorreva per rendersi detestabile agli avversari comunisti a lui non mancava.
Non è chiaro se l’idea di uccidere Walter sia nata negli scantinati del Corriere, come qualcuno ha sostenuto; certo è che gli esecutori materiali dell’omicidio sono stati ispirati, se non istigati, da chi identificava in Tobagi un nemico politico, un concorrente professionale e sindacale. Colleghi? E chi altri avrebbe avuto interesse a sopprimerlo coi metodi in voga negli anni di piombo: tre o quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo? Indubbiamente, l’inviato grazie al suo lavoro e alle attività collaterali non era un anonimo cronista; ma la sua fama era circoscritta alla cittadella giornalistica e ai recinti del partito armato che egli aveva raccontato con perizia e spirito critico. Il fatto poi che gli assassini gravitassero attorno al mondo dell’informazione, e fossero addirittura famigliari di addetti all’editoria, rafforza il sospetto che il la all’agguato sia partito dalla zona di via Solferino.
Un delitto, questo, come quasi tutti quelli dei comunisti combattenti, di una idiozia sconfinata. Si è tentato di saperne di più rispetto all’ufficialità, ma gli assassini una volta riconquistata la libertà, senza troppa fatica, si sono chiusi in sé guardandosi dal dire la verità. Forse se ne vergognano, giustamente, perché se è vero che non esiste ragione per ammazzare un uomo, uccidere un ragazzo quale Walter, generoso e pacifico, innocuo e onesto, richiede una tale meschinità e una tale incoscienza che solo dei figli di papà comunisti improvvisati potevano avere. E sono loro ad aver dato un’impronta conformistica a quegli anni di imbecillità collettiva che portarono scompiglio nella miserrima società italiana infatuata dall’utopia. Fa rabbia costatare che la morte di Walter non sia servita neppure a capire che il passato non è migliore del presente.
Marco Barbone (Milano, 1958), il leader del gruppo terrorista, che esplose probabilmente il colpo mortale, fu condannato nel 1983 a soli 8 anni e nove mesi, poiché divenuto immediatamente collaboratore di giustizia, ed ebbe subito la libertà provvisoria, dopo tre anni di carcere scontati (uscì dopo la sentenza). Negli anni successivi Barbone si è convertito al cattolicesimo e ha aderito a Comunione e Liberazione, è responsabile comunicazione della Compagnia delle Opere. Per un periodo ha collaborato con il settimanale Tempi del quotidiano Il Giornale.
Paolo Morandini, anche lui immediatamente "pentito", ebbe la medesima condanna di Barbone.
Mario Marano (Milano, 1953), che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti per la sua collaborazione, a 12 anni in appello (poi 10 con un condono). Fu condannato anche a undici anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti e a tre anni e mezzo nel processo a Prima Linea, per un totale di circa 24 anni. Scontò la pena ai domiciliari a partire dal 1986. Scarcerato ufficialmente negli anni novanta.
Manfredi De Stefano (Salerno, 23 maggio 1957), condannato a 28 anni e otto mesi; morì in carcere nel 1984, colpito da aneurisma.
Daniele Laus, l'autista del delitto, confessò ma poi ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado ebbe sedici anni. Dal dicembre 1985 fu rimesso in libertà provvisoria.
Francesco Giordano, che fece la copertura del gruppo di fuoco, non volle ammettere la partecipazione né collaborare, anche se condannò l'esperienza del terrorismo e la sua affiliazione al gruppo. Fu condannato a 30 anni e otto mesi, in appello divenuti 21. Fu l'unico che scontò l'intera pena: uscì di prigione nel 2004. Fu condannato anche a 13 anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti. Giordano sostenne di essere stato torturato da polizia e carabinieri nel 1980, dopo il suo arresto.
sabato 27 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 maggio.
Il 27 maggio 1940 al teatro Valle di Roma debutta il quartetto Egie, più noto come Quartetto Cetra.
Fra i protagonisti del secondo dopoguerra un posto particolare lo occupa il Quartetto Cetra. I Cetra avevano esordito intorno ad un biliardo del bar Camerucci di Roma, con l’intento di emulare i grandi del Canton Jazz. Il primo nome del gruppo era Quartetto Egie, sigla che si otteneva mettendo insieme le iniziali dei nomi dei quattro componenti del gruppo: Enrico Gentile (Palermo, 20-1-1921 – Milano 3-2-1990), Giovanni Giacobetti detto “Tata” (Roma 24/6/1922 – Roma 2/12/1988), Jacopo Jacomelli (Bordeaux 12-7-1921), ed Enrico De Angelis (Roma 23/11/1920 Milano 21/08/2018). La loro prima esibizione era stata al Teatro Valle di Roma il 27 maggio 1940 con Caccia al passante, uno spettacolo di sapore goliardico, scritto dal loro amico Agenore Incrocci, meglio conosciuto come Age (che in seguito sarà uno dei più quotati sceneggiatori italiani); l’8 ottobre 1941 il quartetto aveva esordito alla radio accompagnato dall’Orchestra Zeme con Il Visconte di Castelfombrone, riesumato dal copione dei Quattro moschettieri di Nizza e Morbelli, a cui segue La leggenda di Radames, rielaborazione del celebre brano Mister Paganini.
Il gruppo si ispira al quartetto americano Mills Brothers, in Italia infatti non esistevano complessi in campo maschile, uniche concorrenti erano le sorelle Lescano, che dai microfoni dell’Eiar facevano il verso alle americane Hundred Sisters. Nel 1941 Virgilio Savona (Palermo 1/1/1920 – Milano, 27/8/2009) sostituisce Jacomelli e il gruppo decide di cambiare nome per assumere quello definitivo di Cetra; Enrico Gentile, il solista parte per il militare e viene sostituito da Felice Chiusano (Fondi, Latina, 28/3/1922 – Milano 3/2/1990). Nel 1942 il quartetto interpreta due film: Arcobaleno con Odoardo Spadaro, e Pazzo d’amore con Renato Rascel. Nel 1943 il quartetto si esibisce in Ritmi e canzoni al Teatro Nuovo di Milano diretto da Remigio Paone.
Nel settembre 1943 il quartetto torna a Roma al Teatro Valle e si esibisce in uno spettacolo a benificio dei sinistrati dai bombardamenti aerei: Aria nuova. Poi vi è un altro avventuroso trasferimento a Milano dove incontrano Gorni Kramer e dove allestiscono altri spettacoli teatrali: Una notte al Madera e Via delle sette note. Il 6 maggio 1945 il quartetto partecipa al Teatro Lirico ad uno spettacolo di varietà con Walter Chiari, i fratelli De Rege, Luciano Tajoli, Gorni Kramer, Pippo Starnazza e Aldo Donà, e vengono quindi scritturati per una serie di spettacoli per i militari dove cantano brani come Candy, I sourrended dear e Mister five e Long ago and far away. Nel 1945 incidono Pietro vogie il ciabattino, il primo boogie woogie italiano.
Nel 1946 il quartetto si esibisce in una tournèe all’estero e in una serie di trasmissioni con la radio svizzera. Nell’estate 1947 esce La senora del leon, una samba parodista apprezzata anche da Evita Peron, sulla quale si ironizzava, allora in visita in Italia. Intanto ha abbandonato il gruppo Enrico De Angelis (poi divenuto imprenditore) che viene sostituito dalla moglie di Savona, Lucia Mannucci (Bologna, 18 maggio 1920 - Milano 7.3.2012), il debutto con la nuova e definitiva formazione avviene a Roma al Teatro delle Arti nell’ottobre 1947. Nel 1949 arriva il successo internazionale Nelle vecchia fattoria (un brano tradizionale irlandese rielaborato da Kramer, Savone e Giacobetti).
Negli anni ’50 il Quartetto Cetra spopola: Vecchia America (Luttazzi, 1951), Sole pizza e amore, In un palco della Scala (Garinei-Giovannini-Kramer, 1952), Donna (Kramer-Garinei-Giovannini, 1958) tutti tratti da fortunate riviste musicali come Gran baldoria, In un palco della Scala, Un bacio a mezzanotte, Gran baraonda (di Garinei e Giovannini, con Alberto Sordi e Wanda Osiris) e Un trapezio per Lisistrata, hanno goduto di una larghissima popolarità.
Nel 1951 sono in radio con L’allegro convegno dei quattro, garbata parodia comico-musicale dell’assai seguita trasmissione-dibattito Il convegno dei cinque. I Cetra nel 1952 tengono a battesimo la televisione sperimentale italiana con una serie di sketch di enorme successo, che anticipano il futuro racconto sceneggiato, un viaggio immaginario attraverso vari paesi del mondo fra cui l’America, la Russia e l’Italia. Ad ogni fermata dei fantasiosi trenini sui quali viaggiano i Cetra cantano una canzone caratteristica gustosamente sceneggiata e parodiata: ad esempio Nella vecchia fattoria in America, Occhi neri in Russia.
Nell’estate 1953 si esibiscono in Giringiro, programma di varietà ideato da Garinei e Giovannini che veniva improvvisato sera per sera nelle città sede del Giro d’Italia. Fra gli altri loro successi del periodo ricordiamo: Piripicchio e piripicchia, Arriva il direttore, Musetto, Ricordate Marcellino, Un po’ di cielo. Nel 1954, dopo una non troppo fortunata apparizione al Festival di Sanremo (ma il disco di Aveva un bavero ebbe buoni risultati) ci fu la partecipazione al film di Blasetti Tempi nostri e in estate una tournèe in America Latina.
Le canzoni di questo periodo sono: Un romano a Capocabana, Ricordate Marcellino? e le versioni parodistiche di pezzi sanremesi come Musetto e Aprite le finestre. In televisione esordiscono già nel 1954 primo anno dell'era televisiva con lo spettacolo In quattro si viaggia meglio, una sorta di viaggio canoro alla ricerca delle tradizioni delle principali città italiane.
Nella stagione 1956/57 i Cetra partecipano ad una nuova commedia musicale di Garinei e Giovannini: Carlo non farlo, con Carlo Dapporto, Lauretta Masiero, Luisetta Nava e Valeria Fabrizi, che più tardi avrebbe sposato Giacobetti. Le canzoni lanciate in questo spettacolo furono: Evviva la radio a galena, Passa la prima Milano-Sanremo e C’è un po’ di cielo. Nel 1957 dopo avere registrato la colonna sonora del film L’incontro della foresta, incidono il titolo di L’orologio matto, la versione italiana di Rock around the clock, piazzandosi tra i primi a fare del rock and roll in Italia. Dopo quattro puntate dello spettacolo musicale televisivo Cetra volante, nella stagione 1957/58 risollevano le sorti della rivista Bulli e pupe di Dino Verde con Mario Billi, ormai senza Mario Riva che aveva scelto la carriera del conduttore televisivo (Il musichiere).
Le nuove canzoni dei Cetra erano: Un disco dei Platters (memorabile una loro interpretazione del brano con Marcello Mastroianni), Pummarola boat, Dirotta a Brodway, e la parodia di un altro brano sanremese, Il pericolo numero uno. Tornati in Italia dopo un’altra tournèe estiva in America Latina nella stagione 1958/59 ebbero la funzione di coro in Un trapezio per Lisistrata, commedia musicale di Garinei e Giovannini liberamente ispirata ad un celebre lavoro del greco Aristofane alla quale partecipavano Delia Scala, Nino Manfredi, Paolo Panelli, Ave Ninchi e Mario Carotenuto. Particolarmente felice era la partitura di Kramer che comprendeva per il Quartetto: Raggio di sole, Prendiamola con filosofia, e, soprattutto, Donna.
All’inizio degli anni ’60 i Cetra cambiarono casa discografica per la quale incisero: Sei come un flipper, Triana, Concertino, Il testamento del toro, Bianco e nero, I ricordi della sera, e altre canzoni lanciate in una serie di spettacoli televisivi: la prima e la seconda serie di Buone vacanze, le quattro puntate di Serata di gala (registrate negli studi del Teatro della Fiera di Milano per la regia di Vito Molinari), Giardino d’inverno, la prima edizione di Buone vacanze, Studio Uno, Stasera Cetra, Biblioteca Cetra (biblioteca di Studio Uno, nella quale offrono parodie e canzoni legandole a classici della narrativa come: l’Odissea, I promessi sposi, I tre moschettieri, Il conte di Montecristo, Via col vento), Cetra 66, Il signore ha suonato?, Music club, E’ domenica ma senza impegno, Non cantare, spara! (un western musicale a puntate del 1968, per la regia di Daniele D'Anza) nel quale con un cast imponente, degno di un grande film, in tutto 350 persone impegnate, fra cui Giorgio Gaber nell’insolita versione di pistolero), La terapia del whisky, Donna, Sole pizza e amore. I Cetra sono stati attivi anche nel doppiaggio cinematografico (nel film a cartoni animati di Walt Disney Dumbo, Musica maestro, Il mago di Oz ecc.) e negli short pubblicitari (dove hanno dato la voce a molti personaggi, e reclamizzato prodotti per le ditte Tricofilina, Motta, Nestlè, Martini & Rossi, Ignis, Philco, Lombardi, cera Solex, il talco Felce Azzurra, la Liquigas, e la Mira Lanza, “ah Ava come lava…”, e un cortometraggio a colori per il lancio della Lambretta, per una lunga serie di Caroselli scritti da Marcello Marchesi, diretti dal regista Luciano Emmer).
I Cetra hanno anche inciso un repertorio di brani per bambini (Sei piccolo per i blue-jeans, Un cavallo senza cow-boy, Papà Walt Disney), canzoni popolari (Mamma mia dammi cento lire), parodie del Festival di Sanremo (Canzoncella italiana, Cha cha cha romano, Bianco e nero) e altri brani allegri (Che centrattacco, La vita è un paradiso di bugie, Ciabattino test, Ehi stop, Eva, Vavà Didì Pelè, Madison dance, Twist delle 21, Un disco dei Beatles, La mano sul fuoco, il rifacimento di Crapa pelada, Sole pizza e amore, La ballata del critico tv). Le loro canzoni sono entrate nel repertorio popolare italiano. Attivi anche negli anni ’70 e ’80, si danno dapprima al folck, portando al successo la famosissima Mamma mia dammi cento lire, Evviva lo scopone, Stasera si, Chissà come farà, Camminava voltando indietro, Pierino ha la febbre, Un pomeriggio con Natalino, Piume e pailettes, Era bello sognare. Fra gli anni ’70 e ’80 il Quartetto Cetra, dimenticato dalla Rai, trova un rilancio grazie alle televisioni private: vengono invitati da Enzo Tortora al centro di produzione di Antenna Tre Lombardia di Legnano, emittente pluriregionale che irradiava il suo segnale oltre che in Lombardia, anche in Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, dapprima sono ospiti fissi de IL BINGO di Renzo Villa, quindi producono il programma Cetrarca. La storia secondo i Cetra, rifacendosi alla mitica Biblioteca di Studio 1, il gruppo propone rivisitazioni storiche.
La Cetrarca durerà dal 1979 al 1983; all'interno de IL BINGO di Renzo Villa i Cetra presentano circa centoventi fantasie di canzoni suddivise in diversi filoni (Enciclopedia della canzone, Dizionario della canzone, Storia del Festival di Sanremo), quindi interpretano una lunga serie di parodie per la regia di Guido Stagnaro su testi di Dino Verde con vari contributi di Giacobetti e due interventi di Gino e Michele, realizzano così circa 90 parodie di opere liriche, romanzi classici, film famosi e avvenimenti storici di ogni luogo e tempo; di tanto in tanto, quando i personaggi sono numerosi, si ricorre alla partecipazione di ospiti come Gaspare e Zuzzurro, Massimo Boldi e Teo Teocoli, Valeria Fabrizi, Gianni Magni e Gerry Bruno. Terminato il periodo di lavoro ad Antenna Tre Lombardia, i Cetra partecipano ad una grande kermesse della Rai per festeggiare il trentesimo anniversario della televisione e a un'edizione natalizia speciale del Maurizio Costanzo Show, programma del quale il quartetto poi sarà spesso ospite. Nel 1984 partecipano ad una puntata della seconda edizione del programma di Antonello Falqui All Paradise, Blitz di Gianni Minà, a Cari amici vicini e lontani di Renzo Arbore, e sono ospiti fissi di 13 puntate della trasmissione radiofonica L'aria che tira. Il Quartetto Cetra è entrato ormai a pieno diritto nella storia dello spettacolo italiano (e non solo), è stato il primo gruppo vocale misto europeo della musica leggera. Nel novembre 1984 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini invita il Quartetto al Quirinale, anticipando loro la sua decisione di nominarli Cavalieri della Repubblica; il Presidente Francesco Cossiga quattro anni dopo li promuoverà commendatori.
I Cetra preparano uno degli album più significativi della loro discografia: Una lunga tastiera, dieci canzoni che ripercorrono la loro avventura professionale e personale. Otto di queste canzoni sono poi presentate in Cetra graffiti, con numerosi illustri ospiti nell'ambito della terza serie di All Paradise trasmessa all'inizio del 1985, per la nona puntata su precisa richiesta del regista Antonello Falqui i Cetra scrivono un nuovo brano, Terzine terzine, in stile slow-rock. Per la decima puntata in omaggio a Biblioteca di Studio Uno Falqui decide di realizzare finalmente la famosa parodia de I Promessi Sposi vietata dalla Rai nell'ormai lontano 1964. Felice Chiusano è Don Abbondio, Tata Giacobetti è Fra Cristoforo, Lucia Mannucci è Agnese, Virgilio Savona è Alessandro Manzoni, il cast comprende Albano e Romina Power (Renzo e Lucia), I Gatti di Vicolo Miracoli (i bravi), Gianni Agus (Don Rodrigo), Minnie Minoprio (la monaca di Monza), Gianni Minà (Azzeccagarbugli), Alvaro Vitali (il Griso), Arnoldo Foà (l'Innominato) e Nerina Montagnani (la simpatica vecchietta della pubblicità Lavazza) nel ruolo di Perpetua. Dopo essere stati ospiti di Pippo Baudo a Domenica In e di Mike Bongiorno ne I sogni nel cassetto, i Cetra iniziano a preparare una nuova trasmissione televisiva che andrà in onda fra il gennaio e il febbraio 1986, era bello sognare, una panoramica sulla storia professionale realizzata sfruttando i grandi archivi della Rai. Nel gennaio 1987 i Cetra sono ospiti di Maurizio Nichetti in Pista, nel febbraio sono mattatori del Controfestival organizzato da Maurizio Costanzo in un albergo di Sanremo, i Cetra cantano la parodia dei brani delle edizioni passate. Nel febbraio 1987 partecipano a una puntata del programma Canzonissime dedicato alla casa discografica Fonit Cetra. Il 22 ottobre 1987 viene presentato a Milano alla stampa un cofanetto di dischi contenente 36 brani del loro repertorio, I formidabili Cetra. Il 1987 è anche l'anno del quarantennale dell'attività del Quartetto. Il 1988 si apre con un tour nei casinò (Campione d'Italia, Saint Vincent e Sanremo), quindi partecipano a Monterosa '84, rievocazione televisiva dei tempi d'oro del Derby Club: è la loro ultima esibizione televisiva. L’ultimo concerto in pubblico del quartetto al completo si tenne a Bologna a Palazzo Poggi l'8 luglio 1988, il 2 dicembre 1988 morì Tata Giacobetti, pochi mesi dopo i tre superstiti incidono, in onore dell’amico scomparso, Voglia di swing, con il nuovo nome de I Cetra. Il 2 febbraio 1990 muore Felice Chiusano, è la fine dell’attività della formazione. Importantissimo è stato anche il lavoro di Virgilio Savona come ricercatore della musica popolare, sociale, politica e di protesta (sulle quali ha scritto numerosi testi e pubblicato innumerevoli raccolte discografiche), nella sua veste di dirigente della Vedetta ha contribuito al successo di Sexus et politica di Giorgio Gaber. Savona come solista ha scritto anche canzoni impegnate come Ballata per un emigrante (storia di un calabrese vessato in Germania) e Il fante Massimiliano (che narra le dolorose vicende di un obiettore di coscienza). Savona come dirigente discografico ha in catalogo artisti come Lelio Luttazzi, Giorgio Gaber, Woodie Goothrie, e l’ideazione della famosa collana I Dischi dello Zodiaco.
Alla fine del 2001 è stato messo in commercio un triplo cd ironicamente intitolato Frusciati con brio, nel quale sono state inserite rarissime registrazioni di 78 dei Cetra del tutto ripulite dai fastidiosi rumori dovuti all’usura del tempo, grazie alla moderna e sofisticata tecnologia elettronica. Nel 2005 le canzoni di Virgilio Savona sono state protagoniste al Premio Tenco, e sono raccolte nel cd SEGUENDO VIRGILIO, edito dallo stesso Club Tenco Alabianca, che contiene una chicca: un brano scritto da Savona con Tata Giacobetti nel 1954, TROPPI AFFARI CAVALIERE, interpretato dalla Piccola Orchestra Avion Travel.
Nel novembre 2006 è uscito il disco IL QUARTETTO CETRA, SASSOFONI E VECCHIE TROMBETTE, con incisioni storiche di RadioRai dei Cetra, grazie al quale lo storico quartetto torna nel nuovo millennio alla ribalta con il varietà radiofonico. E' un'occasione unica per ascoltare alcuni brani che non fanno parte della consueta antologia dei Cetra, e per capire la genesi della grande capacità interpretativa, poi sviluppata in tv negli anni '60 con BIBLIOTECA DI STUDIO UNO.
Il 27 maggio 1940 al teatro Valle di Roma debutta il quartetto Egie, più noto come Quartetto Cetra.
Fra i protagonisti del secondo dopoguerra un posto particolare lo occupa il Quartetto Cetra. I Cetra avevano esordito intorno ad un biliardo del bar Camerucci di Roma, con l’intento di emulare i grandi del Canton Jazz. Il primo nome del gruppo era Quartetto Egie, sigla che si otteneva mettendo insieme le iniziali dei nomi dei quattro componenti del gruppo: Enrico Gentile (Palermo, 20-1-1921 – Milano 3-2-1990), Giovanni Giacobetti detto “Tata” (Roma 24/6/1922 – Roma 2/12/1988), Jacopo Jacomelli (Bordeaux 12-7-1921), ed Enrico De Angelis (Roma 23/11/1920 Milano 21/08/2018). La loro prima esibizione era stata al Teatro Valle di Roma il 27 maggio 1940 con Caccia al passante, uno spettacolo di sapore goliardico, scritto dal loro amico Agenore Incrocci, meglio conosciuto come Age (che in seguito sarà uno dei più quotati sceneggiatori italiani); l’8 ottobre 1941 il quartetto aveva esordito alla radio accompagnato dall’Orchestra Zeme con Il Visconte di Castelfombrone, riesumato dal copione dei Quattro moschettieri di Nizza e Morbelli, a cui segue La leggenda di Radames, rielaborazione del celebre brano Mister Paganini.
Il gruppo si ispira al quartetto americano Mills Brothers, in Italia infatti non esistevano complessi in campo maschile, uniche concorrenti erano le sorelle Lescano, che dai microfoni dell’Eiar facevano il verso alle americane Hundred Sisters. Nel 1941 Virgilio Savona (Palermo 1/1/1920 – Milano, 27/8/2009) sostituisce Jacomelli e il gruppo decide di cambiare nome per assumere quello definitivo di Cetra; Enrico Gentile, il solista parte per il militare e viene sostituito da Felice Chiusano (Fondi, Latina, 28/3/1922 – Milano 3/2/1990). Nel 1942 il quartetto interpreta due film: Arcobaleno con Odoardo Spadaro, e Pazzo d’amore con Renato Rascel. Nel 1943 il quartetto si esibisce in Ritmi e canzoni al Teatro Nuovo di Milano diretto da Remigio Paone.
Nel settembre 1943 il quartetto torna a Roma al Teatro Valle e si esibisce in uno spettacolo a benificio dei sinistrati dai bombardamenti aerei: Aria nuova. Poi vi è un altro avventuroso trasferimento a Milano dove incontrano Gorni Kramer e dove allestiscono altri spettacoli teatrali: Una notte al Madera e Via delle sette note. Il 6 maggio 1945 il quartetto partecipa al Teatro Lirico ad uno spettacolo di varietà con Walter Chiari, i fratelli De Rege, Luciano Tajoli, Gorni Kramer, Pippo Starnazza e Aldo Donà, e vengono quindi scritturati per una serie di spettacoli per i militari dove cantano brani come Candy, I sourrended dear e Mister five e Long ago and far away. Nel 1945 incidono Pietro vogie il ciabattino, il primo boogie woogie italiano.
Nel 1946 il quartetto si esibisce in una tournèe all’estero e in una serie di trasmissioni con la radio svizzera. Nell’estate 1947 esce La senora del leon, una samba parodista apprezzata anche da Evita Peron, sulla quale si ironizzava, allora in visita in Italia. Intanto ha abbandonato il gruppo Enrico De Angelis (poi divenuto imprenditore) che viene sostituito dalla moglie di Savona, Lucia Mannucci (Bologna, 18 maggio 1920 - Milano 7.3.2012), il debutto con la nuova e definitiva formazione avviene a Roma al Teatro delle Arti nell’ottobre 1947. Nel 1949 arriva il successo internazionale Nelle vecchia fattoria (un brano tradizionale irlandese rielaborato da Kramer, Savone e Giacobetti).
Negli anni ’50 il Quartetto Cetra spopola: Vecchia America (Luttazzi, 1951), Sole pizza e amore, In un palco della Scala (Garinei-Giovannini-Kramer, 1952), Donna (Kramer-Garinei-Giovannini, 1958) tutti tratti da fortunate riviste musicali come Gran baldoria, In un palco della Scala, Un bacio a mezzanotte, Gran baraonda (di Garinei e Giovannini, con Alberto Sordi e Wanda Osiris) e Un trapezio per Lisistrata, hanno goduto di una larghissima popolarità.
Nel 1951 sono in radio con L’allegro convegno dei quattro, garbata parodia comico-musicale dell’assai seguita trasmissione-dibattito Il convegno dei cinque. I Cetra nel 1952 tengono a battesimo la televisione sperimentale italiana con una serie di sketch di enorme successo, che anticipano il futuro racconto sceneggiato, un viaggio immaginario attraverso vari paesi del mondo fra cui l’America, la Russia e l’Italia. Ad ogni fermata dei fantasiosi trenini sui quali viaggiano i Cetra cantano una canzone caratteristica gustosamente sceneggiata e parodiata: ad esempio Nella vecchia fattoria in America, Occhi neri in Russia.
Nell’estate 1953 si esibiscono in Giringiro, programma di varietà ideato da Garinei e Giovannini che veniva improvvisato sera per sera nelle città sede del Giro d’Italia. Fra gli altri loro successi del periodo ricordiamo: Piripicchio e piripicchia, Arriva il direttore, Musetto, Ricordate Marcellino, Un po’ di cielo. Nel 1954, dopo una non troppo fortunata apparizione al Festival di Sanremo (ma il disco di Aveva un bavero ebbe buoni risultati) ci fu la partecipazione al film di Blasetti Tempi nostri e in estate una tournèe in America Latina.
Le canzoni di questo periodo sono: Un romano a Capocabana, Ricordate Marcellino? e le versioni parodistiche di pezzi sanremesi come Musetto e Aprite le finestre. In televisione esordiscono già nel 1954 primo anno dell'era televisiva con lo spettacolo In quattro si viaggia meglio, una sorta di viaggio canoro alla ricerca delle tradizioni delle principali città italiane.
Nella stagione 1956/57 i Cetra partecipano ad una nuova commedia musicale di Garinei e Giovannini: Carlo non farlo, con Carlo Dapporto, Lauretta Masiero, Luisetta Nava e Valeria Fabrizi, che più tardi avrebbe sposato Giacobetti. Le canzoni lanciate in questo spettacolo furono: Evviva la radio a galena, Passa la prima Milano-Sanremo e C’è un po’ di cielo. Nel 1957 dopo avere registrato la colonna sonora del film L’incontro della foresta, incidono il titolo di L’orologio matto, la versione italiana di Rock around the clock, piazzandosi tra i primi a fare del rock and roll in Italia. Dopo quattro puntate dello spettacolo musicale televisivo Cetra volante, nella stagione 1957/58 risollevano le sorti della rivista Bulli e pupe di Dino Verde con Mario Billi, ormai senza Mario Riva che aveva scelto la carriera del conduttore televisivo (Il musichiere).
Le nuove canzoni dei Cetra erano: Un disco dei Platters (memorabile una loro interpretazione del brano con Marcello Mastroianni), Pummarola boat, Dirotta a Brodway, e la parodia di un altro brano sanremese, Il pericolo numero uno. Tornati in Italia dopo un’altra tournèe estiva in America Latina nella stagione 1958/59 ebbero la funzione di coro in Un trapezio per Lisistrata, commedia musicale di Garinei e Giovannini liberamente ispirata ad un celebre lavoro del greco Aristofane alla quale partecipavano Delia Scala, Nino Manfredi, Paolo Panelli, Ave Ninchi e Mario Carotenuto. Particolarmente felice era la partitura di Kramer che comprendeva per il Quartetto: Raggio di sole, Prendiamola con filosofia, e, soprattutto, Donna.
All’inizio degli anni ’60 i Cetra cambiarono casa discografica per la quale incisero: Sei come un flipper, Triana, Concertino, Il testamento del toro, Bianco e nero, I ricordi della sera, e altre canzoni lanciate in una serie di spettacoli televisivi: la prima e la seconda serie di Buone vacanze, le quattro puntate di Serata di gala (registrate negli studi del Teatro della Fiera di Milano per la regia di Vito Molinari), Giardino d’inverno, la prima edizione di Buone vacanze, Studio Uno, Stasera Cetra, Biblioteca Cetra (biblioteca di Studio Uno, nella quale offrono parodie e canzoni legandole a classici della narrativa come: l’Odissea, I promessi sposi, I tre moschettieri, Il conte di Montecristo, Via col vento), Cetra 66, Il signore ha suonato?, Music club, E’ domenica ma senza impegno, Non cantare, spara! (un western musicale a puntate del 1968, per la regia di Daniele D'Anza) nel quale con un cast imponente, degno di un grande film, in tutto 350 persone impegnate, fra cui Giorgio Gaber nell’insolita versione di pistolero), La terapia del whisky, Donna, Sole pizza e amore. I Cetra sono stati attivi anche nel doppiaggio cinematografico (nel film a cartoni animati di Walt Disney Dumbo, Musica maestro, Il mago di Oz ecc.) e negli short pubblicitari (dove hanno dato la voce a molti personaggi, e reclamizzato prodotti per le ditte Tricofilina, Motta, Nestlè, Martini & Rossi, Ignis, Philco, Lombardi, cera Solex, il talco Felce Azzurra, la Liquigas, e la Mira Lanza, “ah Ava come lava…”, e un cortometraggio a colori per il lancio della Lambretta, per una lunga serie di Caroselli scritti da Marcello Marchesi, diretti dal regista Luciano Emmer).
I Cetra hanno anche inciso un repertorio di brani per bambini (Sei piccolo per i blue-jeans, Un cavallo senza cow-boy, Papà Walt Disney), canzoni popolari (Mamma mia dammi cento lire), parodie del Festival di Sanremo (Canzoncella italiana, Cha cha cha romano, Bianco e nero) e altri brani allegri (Che centrattacco, La vita è un paradiso di bugie, Ciabattino test, Ehi stop, Eva, Vavà Didì Pelè, Madison dance, Twist delle 21, Un disco dei Beatles, La mano sul fuoco, il rifacimento di Crapa pelada, Sole pizza e amore, La ballata del critico tv). Le loro canzoni sono entrate nel repertorio popolare italiano. Attivi anche negli anni ’70 e ’80, si danno dapprima al folck, portando al successo la famosissima Mamma mia dammi cento lire, Evviva lo scopone, Stasera si, Chissà come farà, Camminava voltando indietro, Pierino ha la febbre, Un pomeriggio con Natalino, Piume e pailettes, Era bello sognare. Fra gli anni ’70 e ’80 il Quartetto Cetra, dimenticato dalla Rai, trova un rilancio grazie alle televisioni private: vengono invitati da Enzo Tortora al centro di produzione di Antenna Tre Lombardia di Legnano, emittente pluriregionale che irradiava il suo segnale oltre che in Lombardia, anche in Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, dapprima sono ospiti fissi de IL BINGO di Renzo Villa, quindi producono il programma Cetrarca. La storia secondo i Cetra, rifacendosi alla mitica Biblioteca di Studio 1, il gruppo propone rivisitazioni storiche.
La Cetrarca durerà dal 1979 al 1983; all'interno de IL BINGO di Renzo Villa i Cetra presentano circa centoventi fantasie di canzoni suddivise in diversi filoni (Enciclopedia della canzone, Dizionario della canzone, Storia del Festival di Sanremo), quindi interpretano una lunga serie di parodie per la regia di Guido Stagnaro su testi di Dino Verde con vari contributi di Giacobetti e due interventi di Gino e Michele, realizzano così circa 90 parodie di opere liriche, romanzi classici, film famosi e avvenimenti storici di ogni luogo e tempo; di tanto in tanto, quando i personaggi sono numerosi, si ricorre alla partecipazione di ospiti come Gaspare e Zuzzurro, Massimo Boldi e Teo Teocoli, Valeria Fabrizi, Gianni Magni e Gerry Bruno. Terminato il periodo di lavoro ad Antenna Tre Lombardia, i Cetra partecipano ad una grande kermesse della Rai per festeggiare il trentesimo anniversario della televisione e a un'edizione natalizia speciale del Maurizio Costanzo Show, programma del quale il quartetto poi sarà spesso ospite. Nel 1984 partecipano ad una puntata della seconda edizione del programma di Antonello Falqui All Paradise, Blitz di Gianni Minà, a Cari amici vicini e lontani di Renzo Arbore, e sono ospiti fissi di 13 puntate della trasmissione radiofonica L'aria che tira. Il Quartetto Cetra è entrato ormai a pieno diritto nella storia dello spettacolo italiano (e non solo), è stato il primo gruppo vocale misto europeo della musica leggera. Nel novembre 1984 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini invita il Quartetto al Quirinale, anticipando loro la sua decisione di nominarli Cavalieri della Repubblica; il Presidente Francesco Cossiga quattro anni dopo li promuoverà commendatori.
I Cetra preparano uno degli album più significativi della loro discografia: Una lunga tastiera, dieci canzoni che ripercorrono la loro avventura professionale e personale. Otto di queste canzoni sono poi presentate in Cetra graffiti, con numerosi illustri ospiti nell'ambito della terza serie di All Paradise trasmessa all'inizio del 1985, per la nona puntata su precisa richiesta del regista Antonello Falqui i Cetra scrivono un nuovo brano, Terzine terzine, in stile slow-rock. Per la decima puntata in omaggio a Biblioteca di Studio Uno Falqui decide di realizzare finalmente la famosa parodia de I Promessi Sposi vietata dalla Rai nell'ormai lontano 1964. Felice Chiusano è Don Abbondio, Tata Giacobetti è Fra Cristoforo, Lucia Mannucci è Agnese, Virgilio Savona è Alessandro Manzoni, il cast comprende Albano e Romina Power (Renzo e Lucia), I Gatti di Vicolo Miracoli (i bravi), Gianni Agus (Don Rodrigo), Minnie Minoprio (la monaca di Monza), Gianni Minà (Azzeccagarbugli), Alvaro Vitali (il Griso), Arnoldo Foà (l'Innominato) e Nerina Montagnani (la simpatica vecchietta della pubblicità Lavazza) nel ruolo di Perpetua. Dopo essere stati ospiti di Pippo Baudo a Domenica In e di Mike Bongiorno ne I sogni nel cassetto, i Cetra iniziano a preparare una nuova trasmissione televisiva che andrà in onda fra il gennaio e il febbraio 1986, era bello sognare, una panoramica sulla storia professionale realizzata sfruttando i grandi archivi della Rai. Nel gennaio 1987 i Cetra sono ospiti di Maurizio Nichetti in Pista, nel febbraio sono mattatori del Controfestival organizzato da Maurizio Costanzo in un albergo di Sanremo, i Cetra cantano la parodia dei brani delle edizioni passate. Nel febbraio 1987 partecipano a una puntata del programma Canzonissime dedicato alla casa discografica Fonit Cetra. Il 22 ottobre 1987 viene presentato a Milano alla stampa un cofanetto di dischi contenente 36 brani del loro repertorio, I formidabili Cetra. Il 1987 è anche l'anno del quarantennale dell'attività del Quartetto. Il 1988 si apre con un tour nei casinò (Campione d'Italia, Saint Vincent e Sanremo), quindi partecipano a Monterosa '84, rievocazione televisiva dei tempi d'oro del Derby Club: è la loro ultima esibizione televisiva. L’ultimo concerto in pubblico del quartetto al completo si tenne a Bologna a Palazzo Poggi l'8 luglio 1988, il 2 dicembre 1988 morì Tata Giacobetti, pochi mesi dopo i tre superstiti incidono, in onore dell’amico scomparso, Voglia di swing, con il nuovo nome de I Cetra. Il 2 febbraio 1990 muore Felice Chiusano, è la fine dell’attività della formazione. Importantissimo è stato anche il lavoro di Virgilio Savona come ricercatore della musica popolare, sociale, politica e di protesta (sulle quali ha scritto numerosi testi e pubblicato innumerevoli raccolte discografiche), nella sua veste di dirigente della Vedetta ha contribuito al successo di Sexus et politica di Giorgio Gaber. Savona come solista ha scritto anche canzoni impegnate come Ballata per un emigrante (storia di un calabrese vessato in Germania) e Il fante Massimiliano (che narra le dolorose vicende di un obiettore di coscienza). Savona come dirigente discografico ha in catalogo artisti come Lelio Luttazzi, Giorgio Gaber, Woodie Goothrie, e l’ideazione della famosa collana I Dischi dello Zodiaco.
Alla fine del 2001 è stato messo in commercio un triplo cd ironicamente intitolato Frusciati con brio, nel quale sono state inserite rarissime registrazioni di 78 dei Cetra del tutto ripulite dai fastidiosi rumori dovuti all’usura del tempo, grazie alla moderna e sofisticata tecnologia elettronica. Nel 2005 le canzoni di Virgilio Savona sono state protagoniste al Premio Tenco, e sono raccolte nel cd SEGUENDO VIRGILIO, edito dallo stesso Club Tenco Alabianca, che contiene una chicca: un brano scritto da Savona con Tata Giacobetti nel 1954, TROPPI AFFARI CAVALIERE, interpretato dalla Piccola Orchestra Avion Travel.
Nel novembre 2006 è uscito il disco IL QUARTETTO CETRA, SASSOFONI E VECCHIE TROMBETTE, con incisioni storiche di RadioRai dei Cetra, grazie al quale lo storico quartetto torna nel nuovo millennio alla ribalta con il varietà radiofonico. E' un'occasione unica per ascoltare alcuni brani che non fanno parte della consueta antologia dei Cetra, e per capire la genesi della grande capacità interpretativa, poi sviluppata in tv negli anni '60 con BIBLIOTECA DI STUDIO UNO.
venerdì 26 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 maggio.
Il 26 maggio 1940 ha luogo la battaglia di Dunkerkque.
Il 10 maggio 1940, nel mese delle rose e degli amori, si scatena a occidente la macchina da guerra tedesca. Hitler, dopo la "finta guerra" dell'inverno, fa sul serio. Il 14 capitola l'Olanda, il 17 cade Bruxelles. Le divisioni corazzate della Wehrmacht puntano verso il cuore della Francia, quella "douce France" che si credeva invulnerabile dietro la Maginot. Bella e ricca è la campagna francese e, dove crescono le ciliegie, domani ci sarà battaglia. «I tedeschi avanzano - annota Leo Longanesi con distaccata ironia nel suo diario - ma la Francia ha sempre André Gide».
L'esercito francese si sfalda, smentendo il maresciallo Badoglio che il 9 maggio aveva confermato la sua reputazione di "stratega" giurando che «un attacco alla Maginot sarebbe stato un sicuro insuccesso». I tedeschi avanzano a 50 chilometri al giorno. La Francia - milioni di profughi, uomini esausti, bambini spauriti, masserizie stipate nei carri bestiame, povere cose abbandonate - attraversa l'ora più amara della sua storia: non ritornerà più quella di un tempo. A Palazzo Venezia Mussolini si agita, vuole la sua parte di bottino. L'avanzata a rullo compressore dei panzer tedeschi dà l'illusione che il cavallo vincente sia quello nazista, che la potenza inglese sia un mito tramontato e che la guerra sia un gioco a basso tasso di rischio in cui la furbizia italiana possa cogliere senza fatica un frutto maturo. Un'illusione traditrice che, entrando in guerra il 10 giugno, Mussolini pagherà cara.
L'invasione tedesca è un coltello nel burro, il dio delle armi non è francese. L'Armée, considerato il più forte esercito d'Europa, si scioglie come neve al sole e il corpo di spedizione inglese, che si batte bene ma senza speranza, sogna un apparentemente impossibile reimbarco. Il 23 maggio i panzer tedeschi sono pronti a sferrare l'attacco contro la sacca di Dunkerque, dove convergono gli inglesi in ritirata e reparti francesi ormai battuti. Improvviso, arriva l'ordine di von Rundstedt, comandante del gruppo di armate: un giorno di riposo alle divisioni corazzate. Hitler, in visita al comando di Charleville, approva, anzi rincara: «Bisogna risparmiare i carri armati». Estendendo l'ordine di von Rundstedt, le disposizioni del Fuehrer non lasciano dubbi: «Dunkerque deve essere affidata all'aviazione». I generali, increduli, premono. Guderian, il «genio dei panzer» che ha sfondato a Sedan e che è a 16 chilometri da Dunkerque, vuole attaccare subito. Il comandante in capo della Wehrmacht, von Brauchitsch, si scontra con Hitler: vuole la massima pressione sulla sacca e la cattura del corpo di spedizione inglese, al cui soccorso Londra sta muovendo le prime navi.
Mentre i tedeschi litigano, gli inglesi danno il via all' "Operazione Dynamo". Guderian, che assiste impotente ai primi reimbarchi sulla costa, scalda i motori dei panzer. Brauchitsch acconsente all'attacco, Halder, il capo di stato maggiore, è con lui ma Hitler interviene ancora, bluffando: «Non voglio decidere io - dice - Mi rimetto al giudizio di Rundstedt». E, per nulla perplesso di fronte all'assurdità che il comandante di un fronte debba fungere da arbitro fra il suo comandante in capo e il Fuehrer, Rundstedt non esita e dà ragione a Hitler. «Le divisioni sono stremate e vanno riequipaggiate per continuare l'offensiva verso Parigi, per Dunkerque basta la fanteria».
Ma non sarà così. I fanti non basteranno e la Luftwaffe di Goering, che ha premuto su Hitler per avere l'onore di annientare gli inglesi dal cielo, deluderà. Sarà Rundstedt, anni dopo, a dire: «A Dunkerque abbiamo commesso un grosso errore, è stata una delle svolte del conflitto». Gli inglesi, ammassati sulla spiaggia, si imbarcano giorno dopo giorno: più di 17mila il 28 maggio, più di 47mila il 29, quasi 54mila il 30, 68mila il 31. La mobilitazione dei mezzi navali inglesi e francesi è generosa: al largo le navi da guerra e a fare la spola con la spiaggia pescherecci, yacht, rimorchiatori, chiatte, barche da diporto, quasi 700 unità in tutto, esposte alle bombe della Luftwaffe. Gli Stuka picchiano senza pietà e i cadaveri danzano sull'acqua, ma Hurricane e Spitfire della Raf, entrati in battaglia coperti dai radar, hanno la meglio sui bombardieri tedeschi, che perderanno tre aerei per ogni aereo inglese caduto. Il cielo tradisce i tedeschi, come il mare, vecchio amico dell'Inghilterra.
«Gli inglesi se la squagliano sotto il nostro naso», scrive sul suo diario Halder. «Ce li troveremo contro appena riarmati», dice scoraggiato un altro generale tedesco, costretto a fare da spettatore. Dunkerque brucia, il perimetro si è ristretto ma la nube di fumo che grava sulla città costituisce il miglior schermo antiaereo. Il primo giugno il 5° corpo inglese, abbandonato tutto il materiale, si è imbarcato e il 2° sta per partire. La fanteria tedesca avanza e il 3 è a due chilometri dalla città. Gli ultimi battelli, il 4, mollano gli ormeggi. L' "Operazione Dynamo" si è conclusa con un successo insperato: 340mila uomini, di cui 115mila francesi, sono usciti dalla sacca e formeranno l'ossatura della difesa della Gran Bretagna. Trentaquattromila non ce l'hanno fatta e sono rimasti a terra, in un doloroso abbandono. Il 4 i tedeschi entrano in una città demolita: intatta, fra le rovine, spicca orgogliosa la grande torre. Il 5 la Wehrmacht attacca a fondo sulla Somme, destinazione Parigi. Dunkerque, nel bene e nel male, appartiene già al passato.
Perché Dunkerque? Perché il caporale stratega ha fermato i panzer, commettendo il primo dei suoi gravi errori? La ragione è semplice: Hitler non è interessato a Dunkerque, la considera una diversione, è ossessionato dal desiderio di dare il colpo di grazia alla Francia e di prendere Parigi. L'impazienza, l'incapacità di valutare le risorse navali inglesi e la sopravvalutazione della Luftwaffe lo inducono a sbagliare. Si parlerà anche di ipotesi politica: pensando di trattare con Londra una pace di compromesso, Hitler avrebbe risparmiato agli inglesi l'umiliazione della cattura del loro esercito. Ipotesi suggestiva e plausibile ma non supportata da testimonianze sicure.
Il 14 giugno i tedeschi entrano a Parigi. Risuona accorata la voce del maresciallo Pétain, pallido come una maschera di gesso: «Con il cuore spezzato vi dico di deporre le armi». Il 25 la Francia, annientata, capitola. L'Europa è un comodo sofà su cui Hitler si stende senza togliersi gli stivali. Ma nel trionfo del "signore della guerra", espresso con una gioia vendicativa e sprezzante, resterà la macchia di Dunkerque.
Il 26 maggio 1940 ha luogo la battaglia di Dunkerkque.
Il 10 maggio 1940, nel mese delle rose e degli amori, si scatena a occidente la macchina da guerra tedesca. Hitler, dopo la "finta guerra" dell'inverno, fa sul serio. Il 14 capitola l'Olanda, il 17 cade Bruxelles. Le divisioni corazzate della Wehrmacht puntano verso il cuore della Francia, quella "douce France" che si credeva invulnerabile dietro la Maginot. Bella e ricca è la campagna francese e, dove crescono le ciliegie, domani ci sarà battaglia. «I tedeschi avanzano - annota Leo Longanesi con distaccata ironia nel suo diario - ma la Francia ha sempre André Gide».
L'esercito francese si sfalda, smentendo il maresciallo Badoglio che il 9 maggio aveva confermato la sua reputazione di "stratega" giurando che «un attacco alla Maginot sarebbe stato un sicuro insuccesso». I tedeschi avanzano a 50 chilometri al giorno. La Francia - milioni di profughi, uomini esausti, bambini spauriti, masserizie stipate nei carri bestiame, povere cose abbandonate - attraversa l'ora più amara della sua storia: non ritornerà più quella di un tempo. A Palazzo Venezia Mussolini si agita, vuole la sua parte di bottino. L'avanzata a rullo compressore dei panzer tedeschi dà l'illusione che il cavallo vincente sia quello nazista, che la potenza inglese sia un mito tramontato e che la guerra sia un gioco a basso tasso di rischio in cui la furbizia italiana possa cogliere senza fatica un frutto maturo. Un'illusione traditrice che, entrando in guerra il 10 giugno, Mussolini pagherà cara.
L'invasione tedesca è un coltello nel burro, il dio delle armi non è francese. L'Armée, considerato il più forte esercito d'Europa, si scioglie come neve al sole e il corpo di spedizione inglese, che si batte bene ma senza speranza, sogna un apparentemente impossibile reimbarco. Il 23 maggio i panzer tedeschi sono pronti a sferrare l'attacco contro la sacca di Dunkerque, dove convergono gli inglesi in ritirata e reparti francesi ormai battuti. Improvviso, arriva l'ordine di von Rundstedt, comandante del gruppo di armate: un giorno di riposo alle divisioni corazzate. Hitler, in visita al comando di Charleville, approva, anzi rincara: «Bisogna risparmiare i carri armati». Estendendo l'ordine di von Rundstedt, le disposizioni del Fuehrer non lasciano dubbi: «Dunkerque deve essere affidata all'aviazione». I generali, increduli, premono. Guderian, il «genio dei panzer» che ha sfondato a Sedan e che è a 16 chilometri da Dunkerque, vuole attaccare subito. Il comandante in capo della Wehrmacht, von Brauchitsch, si scontra con Hitler: vuole la massima pressione sulla sacca e la cattura del corpo di spedizione inglese, al cui soccorso Londra sta muovendo le prime navi.
Mentre i tedeschi litigano, gli inglesi danno il via all' "Operazione Dynamo". Guderian, che assiste impotente ai primi reimbarchi sulla costa, scalda i motori dei panzer. Brauchitsch acconsente all'attacco, Halder, il capo di stato maggiore, è con lui ma Hitler interviene ancora, bluffando: «Non voglio decidere io - dice - Mi rimetto al giudizio di Rundstedt». E, per nulla perplesso di fronte all'assurdità che il comandante di un fronte debba fungere da arbitro fra il suo comandante in capo e il Fuehrer, Rundstedt non esita e dà ragione a Hitler. «Le divisioni sono stremate e vanno riequipaggiate per continuare l'offensiva verso Parigi, per Dunkerque basta la fanteria».
Ma non sarà così. I fanti non basteranno e la Luftwaffe di Goering, che ha premuto su Hitler per avere l'onore di annientare gli inglesi dal cielo, deluderà. Sarà Rundstedt, anni dopo, a dire: «A Dunkerque abbiamo commesso un grosso errore, è stata una delle svolte del conflitto». Gli inglesi, ammassati sulla spiaggia, si imbarcano giorno dopo giorno: più di 17mila il 28 maggio, più di 47mila il 29, quasi 54mila il 30, 68mila il 31. La mobilitazione dei mezzi navali inglesi e francesi è generosa: al largo le navi da guerra e a fare la spola con la spiaggia pescherecci, yacht, rimorchiatori, chiatte, barche da diporto, quasi 700 unità in tutto, esposte alle bombe della Luftwaffe. Gli Stuka picchiano senza pietà e i cadaveri danzano sull'acqua, ma Hurricane e Spitfire della Raf, entrati in battaglia coperti dai radar, hanno la meglio sui bombardieri tedeschi, che perderanno tre aerei per ogni aereo inglese caduto. Il cielo tradisce i tedeschi, come il mare, vecchio amico dell'Inghilterra.
«Gli inglesi se la squagliano sotto il nostro naso», scrive sul suo diario Halder. «Ce li troveremo contro appena riarmati», dice scoraggiato un altro generale tedesco, costretto a fare da spettatore. Dunkerque brucia, il perimetro si è ristretto ma la nube di fumo che grava sulla città costituisce il miglior schermo antiaereo. Il primo giugno il 5° corpo inglese, abbandonato tutto il materiale, si è imbarcato e il 2° sta per partire. La fanteria tedesca avanza e il 3 è a due chilometri dalla città. Gli ultimi battelli, il 4, mollano gli ormeggi. L' "Operazione Dynamo" si è conclusa con un successo insperato: 340mila uomini, di cui 115mila francesi, sono usciti dalla sacca e formeranno l'ossatura della difesa della Gran Bretagna. Trentaquattromila non ce l'hanno fatta e sono rimasti a terra, in un doloroso abbandono. Il 4 i tedeschi entrano in una città demolita: intatta, fra le rovine, spicca orgogliosa la grande torre. Il 5 la Wehrmacht attacca a fondo sulla Somme, destinazione Parigi. Dunkerque, nel bene e nel male, appartiene già al passato.
Perché Dunkerque? Perché il caporale stratega ha fermato i panzer, commettendo il primo dei suoi gravi errori? La ragione è semplice: Hitler non è interessato a Dunkerque, la considera una diversione, è ossessionato dal desiderio di dare il colpo di grazia alla Francia e di prendere Parigi. L'impazienza, l'incapacità di valutare le risorse navali inglesi e la sopravvalutazione della Luftwaffe lo inducono a sbagliare. Si parlerà anche di ipotesi politica: pensando di trattare con Londra una pace di compromesso, Hitler avrebbe risparmiato agli inglesi l'umiliazione della cattura del loro esercito. Ipotesi suggestiva e plausibile ma non supportata da testimonianze sicure.
Il 14 giugno i tedeschi entrano a Parigi. Risuona accorata la voce del maresciallo Pétain, pallido come una maschera di gesso: «Con il cuore spezzato vi dico di deporre le armi». Il 25 la Francia, annientata, capitola. L'Europa è un comodo sofà su cui Hitler si stende senza togliersi gli stivali. Ma nel trionfo del "signore della guerra", espresso con una gioia vendicativa e sprezzante, resterà la macchia di Dunkerque.
giovedì 25 maggio 2023
#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 maggio.
Il 25 maggio 567 a.C. Servio Tullio, re di Roma, celebra la sua vittoria sugli Etruschi.
Tra il terzo ed il primo millennio a.C. la penisola italiana fu abitata da due generi di popolazioni: gli Italici (come i Liguri, Sardi, Piceni, Elimi, Sicani), che erano di origine italiana, e gli Indo-Europei (come i Veneti, Osco-Umbri, Latini, Sabini, Sanniti, Mesatti, Iapigi, Lucani, Bruzi, Siculi), arrivati in Italia dall'Europa centrale attraverso il nord della penisola ed il Mare Egeo. Ancora ignota è l'origine degli Etruschi, una delle civiltà maggiori dell'Italia centrale a quel tempo. Inoltre, dal VIII secolo a.C. a sud furono fondate colonie di altre popolazioni del Mediterraneo, come quelle fenicie fondate da Cartagine in Sicilia e Sardegna e quelle greche che formarono la Magna Grecia.
Nel primo millennio a.C., nelle coste occidentali dell'Italia centrale, il Tevere separava le genti Italiche dagli Etruschi. Roma fu fondata sulle colline della riva orientale del Tevere, che rappresentava un posto sicuro e salubre per vivere, essendo al riparo dai rischi della malaria che rappresentava il pericolo delle pianure del Lazio. I sette colli sui quali Roma fu fondata erano il Palatino al centro e, da nordovest a sud, il Capitolino, il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio e l'Aventino.
La tradizione vuole che Roma venne fondata da Romolo il 21 Aprile 753 a.C.. Romolo, dal cui nome deriva quello di Roma, fu il primo dei Sette Re di Roma, l'ultimo dei quali, Tarquinio il Superbo, venne deposto nel 509 a.C. quando venne instaurata la Repubblica Romana. I 244 anni della monarchia non sono in accordo con il numero dei re dato che un tempo medio di 35 anni per regno era sicuramente eccessivo per la vita media del tempo.
E' opinione diffusa che la storia della fondazione di Roma fu scritta nel III secolo a.C. come leggenda sotto l'influenza della cultura greca delle colonie del sud della penisola.
Secondo la leggenda, quando Amulio usurpò il trono del fratello Numitore, re di Alba Longa, forzò la sorella di Numitore, Rea Silvia, a diventare una vergine vestale, in modo che non avesse figli. Comunque, Marte si innamora della vestale e lei divenne madre di due gemelli, Romolo e Remo. Amulio quindi fece arrestare Rea Silvia e mise i gemelli in una cesta che venne abbandonata sul Tevere. La cesta si arenò sulla riva del fiume dove una lupa li allattò fino a che il pastore Faustolo e sua moglie Acca Larenzia li trovò e li portò al sicuro.
Quando crebbero, i gemelli conobbero la loro origine, uccisero Amulio e ripristinarono al trono Numitore. Poi decisero di fondare una nuova città dove vennero salvati dal Tevere. Romolo scelse il Palatino come sede della nuova città, mentre Remo l'Aventino. Non potendosi affidare al diritto della primogenitura essendo gemelli, scelsero di affidarsi ad un presagio per scegliere una delle due sedi, ma questo (l'avvistamento di uno stormo di avvoltoi, visto per primo da Romolo ma con un numero maggiore di uccelli da Remo) causò una lite tra i due, durante la quale Romolo uccise Remo.
Dopo Romolo, secondo lo storico Livio, i Re di Roma furono inizialmente tre Romano-Sabini (Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio), seguiti da tre re Etruschi (Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo).
Romolo 753 a.C.-716 a.C.
Numa Pompilio 715 a.C.-674 a.C.
Tullo Ostilio 673 a.C.-642 a.C.
Anco Marzio 642 a.C.-617 a.C.
Lucio Tarquinio Prisco 616 a.C.-579 a.C.
Servio Tullio 578 a.C.-535 a.C.
Lucio Tarquinio il Superbo 535 a.C.-509 a.C.
Si deve a Romolo la creazione del Senato, formato dalle persone più influenti e con il ruolo di consiglieri. La struttura definitiva del Senato fu quella nei quali 100 Senatori, scelti dal re, erano rappresentanti delle tre antiche tribù dei Ramnes (Latini), Tities (Sabini) e Luceres (Etruschi).
Alla morte del re, il senato aveva il compito di eleggere il successore. Nel periodo di interregno, un senatore veniva eletto come reggente per una durata di cinque giorni in attesa della nuova elezione. Trovato un candidato, questo veniva discusso nei comizi curiati, le assemblee delle curie, cioè le 10 parti nelle quali venivano suddivise le tribù principali. Nel caso di accettazione da parte dei comizi curiati, il nuovo re doveva innanzitutto ottenere l'approvazione divina tramite il controllo degli auspicia da parte dell'augure. Dopodiché il procedimento di investitura prevedeva il conferimento del potere con un atto detto lex curiata de imperio.
Come detto, il primo re di Roma fu Romolo, dopo la morte di suo fratello Remo. La sua città venne popolata da persone che fuggivano dalle terre vicine; per avere delle mogli, i romani rapirono le donne delle tribù sabine confinanti (Ratto delle Sabine). Dopo un lungo regno, Romolo sparì in una tempesta e venne successivamente onorato come il dio Quirino.
L'origine delle regole e riti religiosi a Roma si fa risalire al successore di Romolo: Numa Pompilio. A lui si deve l'istituzione della figura del Pontefice, cui spettava il compito di vigilare sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro. Sempre Numa Pompilio creò l'ordine dei Flamini, preti sacri dedicati al culto della Triade Capitolina costituita da Giove, Giunone e Minerva. Scelse le prime vergini Vestali per la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città. Introdusse il culto di Termine, dio dei confini, e costruì il tempio di Giano. Riorganizzò il calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi (355 giorni), con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio dal latino februltus, che significa "un rimedio agli errori" dato che nel calendario romano febbraio era il periodo dei rituali di purificazione; questi furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre, mentre l'anno iniziava con il mese di marzo.
Tullo Ostilio è il terzo re di Roma. Considerando Romolo e Numa rappresentanti dei Ramnes e dei Tities, Tullo fu il rappresentante dei Luceres. Le sue guerre vittoriose contro Alba Longa, Fidene e Veio rappresentano le prime conquiste di Roma al di fuori delle mura delle città. Sotto il suo regno avvenne il combattimento tra Orazi e Curiazi come rappresentanti di Roma e Alba Longa. Si dice che morì colpito da un fulmine come punizione del suo orgoglio.
Le prime tracce di insediamenti nell'area risalgono alla cultura dell'uomo di Neanderthal.
Nella zona di Roma sono stati effettuati diversi ritrovamenti, il più antico dei quali si riferisce al sito della Valchetta, con resti risalenti a 65.000 anni fa. Nella zona di Casal de' Pazzi, uno scavo ha restituito ossa di animali risalenti a circa 20.000 anni fa; mentre in via di Torre Spaccata, lo scavo per la costruzione di un istituto tecnico ha portato alla luce resti di un insediamento umano risalente a circa 6.000 anni fa.
Le tracce successive risalgono all'età del ferro e sono riferibili all'arrivo di genti di stirpe indoeuropea (Latini), nel quadro di un generale fenomeno di migrazione che sembra essersi svolto verso la penisola italiana in due ondate successive (prima il gruppo latino-falisco e quindi il gruppo umbro-sabello).
Le genti del gruppo latino-falisco si spostarono dall'Europa centrale oppure dalla penisola balcanica in seguito all'arrivo delle popolazioni illiriche, e in epoca protostorica si insediarono nella parte occidentale tirrenica dell'Italia centro-meridionale.
I Falisci occupavano la valle del Tevere, tra i monti Cimini e i Sabatini, mentre i Latini si erano stanziati nel Latius vetus ("Lazio antico"), che andava dalla riva destra del corso finale del Tevere ai Colli Albani.
Il loro territorio confinava con quello di diverse altre popolazioni, la più importante delle quali era sicuramente quella degli Etruschi, a nord del Tevere.
I Volsci, di origine osca, occupavano la parte meridionale del Lazio e i monti Lepini; gli Aurunci, la costa tirrenica a cavallo dell'attuale confine tra Lazio e Campania; a nord, sull'Appennino, si trovavano i Sabini; a est gli Equi. Nella valle del Trero, gli Ernici controllavano la via commerciale per la Campania e tra Ardea ed Anzio erano stanziati i Rutuli.
I primi insediamenti nella zona della futura città di Roma sorsero sul colle Palatino intorno al X secolo a.C. (ma le prime tracce archeologiche risalgono almeno al XIV secolo), mentre successivamente vennero occupati anche i colli Esquilino e Quirinale.
La città si venne formando attraverso un fenomeno di sinecismo durato vari secoli, che vide, in analogia a quanto accadeva in tutta l'Italia centrale, la progressiva riunione in un vero e proprio centro urbano degli insediamenti dispersi sui vari colli. Ed è quello che verosimilmente può essere accaduto sul Palatino, che inizialmente era composto da vari nuclei abitativi indipendenti: il Romolo della leggenda può essere stato il realizzatore della prima unificazione di questi nuclei in un’entità unica.
La data tradizionale alla metà dell'VIII secolo a.C., corrisponde al momento in cui i dati archeologici disponibili indicano la creazione di una grande necropoli comune sull'Esquilino, che sostituisce i precedenti luoghi di sepoltura nelle zone libere tra i villaggi, ormai considerate parte integrante dello spazio urbano, come ad esempio l’area del colle Velia, l’altura intermedia tra il Germalo ed il Palatino vero e proprio.
La data ufficiale fu fissata da Marco Terenzio Varrone, secondo il quale la città era stata fondata da Romolo e Remo il 21 aprile del 753 a.C.. Altre fonti riportano tuttavia date diverse: Quinto Ennio, poeta latino del III-II secolo a.C., nei suoi Annales colloca la fondazione nell'875, lo storico greco Timeo di Tauromenio (IV-III sec. a.C.) nel'814 (contemporaneamente, quindi, alla fondazione di Cartagine), Fabio Pittore (III a.C.) all'anno 748 e Lucio Cincio Alimento nel 729.
I primi Re di Roma appaiono soprattutto come figure mitiche. Ad ogni sovrano viene generalmente attribuito un particolare contributo nella nascita e nello sviluppo delle istituzioni romane e nella crescita socio-politica dell'urbe. Contemporaneamente, venivano fondati i primi edifici di culto e si insediavano sui colli periferici gli abitanti delle vicine città che venivano man mano conquistate e distrutte.
In particolare nel VI secolo, periodo di grande prosperità per la città sotto l'influenza etrusca e il dominio degli ultimi tre re, si realizzano le prime importanti opere pubbliche: il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, il santuario arcaico dell'area di Sant'Omobono, e la costruzione della Cloaca Massima, che permise la bonifica dell'area del Foro Romano e la sua prima pavimentazione, rendendolo il centro politico, religioso e amministrativo della città.
A Servio Tullio si deve la prima suddivisione della città in quattro regioni e la costruzione della prima cinta muraria (Mura serviane).
L'influenza etrusca lasciò a Roma testimonianze durevoli, riconoscibili sia nelle forme architettoniche dei templi, sia nell'introduzione del culto della Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) ripresa dagli dei etruschi Uni, Menrva e Tinia. Attraverso l'egemonia etrusca giunsero inoltre nella città i primi elementi di cultura greca.
Il 25 maggio 567 a.C. Servio Tullio, re di Roma, celebra la sua vittoria sugli Etruschi.
Tra il terzo ed il primo millennio a.C. la penisola italiana fu abitata da due generi di popolazioni: gli Italici (come i Liguri, Sardi, Piceni, Elimi, Sicani), che erano di origine italiana, e gli Indo-Europei (come i Veneti, Osco-Umbri, Latini, Sabini, Sanniti, Mesatti, Iapigi, Lucani, Bruzi, Siculi), arrivati in Italia dall'Europa centrale attraverso il nord della penisola ed il Mare Egeo. Ancora ignota è l'origine degli Etruschi, una delle civiltà maggiori dell'Italia centrale a quel tempo. Inoltre, dal VIII secolo a.C. a sud furono fondate colonie di altre popolazioni del Mediterraneo, come quelle fenicie fondate da Cartagine in Sicilia e Sardegna e quelle greche che formarono la Magna Grecia.
Nel primo millennio a.C., nelle coste occidentali dell'Italia centrale, il Tevere separava le genti Italiche dagli Etruschi. Roma fu fondata sulle colline della riva orientale del Tevere, che rappresentava un posto sicuro e salubre per vivere, essendo al riparo dai rischi della malaria che rappresentava il pericolo delle pianure del Lazio. I sette colli sui quali Roma fu fondata erano il Palatino al centro e, da nordovest a sud, il Capitolino, il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio e l'Aventino.
La tradizione vuole che Roma venne fondata da Romolo il 21 Aprile 753 a.C.. Romolo, dal cui nome deriva quello di Roma, fu il primo dei Sette Re di Roma, l'ultimo dei quali, Tarquinio il Superbo, venne deposto nel 509 a.C. quando venne instaurata la Repubblica Romana. I 244 anni della monarchia non sono in accordo con il numero dei re dato che un tempo medio di 35 anni per regno era sicuramente eccessivo per la vita media del tempo.
E' opinione diffusa che la storia della fondazione di Roma fu scritta nel III secolo a.C. come leggenda sotto l'influenza della cultura greca delle colonie del sud della penisola.
Secondo la leggenda, quando Amulio usurpò il trono del fratello Numitore, re di Alba Longa, forzò la sorella di Numitore, Rea Silvia, a diventare una vergine vestale, in modo che non avesse figli. Comunque, Marte si innamora della vestale e lei divenne madre di due gemelli, Romolo e Remo. Amulio quindi fece arrestare Rea Silvia e mise i gemelli in una cesta che venne abbandonata sul Tevere. La cesta si arenò sulla riva del fiume dove una lupa li allattò fino a che il pastore Faustolo e sua moglie Acca Larenzia li trovò e li portò al sicuro.
Quando crebbero, i gemelli conobbero la loro origine, uccisero Amulio e ripristinarono al trono Numitore. Poi decisero di fondare una nuova città dove vennero salvati dal Tevere. Romolo scelse il Palatino come sede della nuova città, mentre Remo l'Aventino. Non potendosi affidare al diritto della primogenitura essendo gemelli, scelsero di affidarsi ad un presagio per scegliere una delle due sedi, ma questo (l'avvistamento di uno stormo di avvoltoi, visto per primo da Romolo ma con un numero maggiore di uccelli da Remo) causò una lite tra i due, durante la quale Romolo uccise Remo.
Dopo Romolo, secondo lo storico Livio, i Re di Roma furono inizialmente tre Romano-Sabini (Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio), seguiti da tre re Etruschi (Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo).
Romolo 753 a.C.-716 a.C.
Numa Pompilio 715 a.C.-674 a.C.
Tullo Ostilio 673 a.C.-642 a.C.
Anco Marzio 642 a.C.-617 a.C.
Lucio Tarquinio Prisco 616 a.C.-579 a.C.
Servio Tullio 578 a.C.-535 a.C.
Lucio Tarquinio il Superbo 535 a.C.-509 a.C.
Si deve a Romolo la creazione del Senato, formato dalle persone più influenti e con il ruolo di consiglieri. La struttura definitiva del Senato fu quella nei quali 100 Senatori, scelti dal re, erano rappresentanti delle tre antiche tribù dei Ramnes (Latini), Tities (Sabini) e Luceres (Etruschi).
Alla morte del re, il senato aveva il compito di eleggere il successore. Nel periodo di interregno, un senatore veniva eletto come reggente per una durata di cinque giorni in attesa della nuova elezione. Trovato un candidato, questo veniva discusso nei comizi curiati, le assemblee delle curie, cioè le 10 parti nelle quali venivano suddivise le tribù principali. Nel caso di accettazione da parte dei comizi curiati, il nuovo re doveva innanzitutto ottenere l'approvazione divina tramite il controllo degli auspicia da parte dell'augure. Dopodiché il procedimento di investitura prevedeva il conferimento del potere con un atto detto lex curiata de imperio.
Come detto, il primo re di Roma fu Romolo, dopo la morte di suo fratello Remo. La sua città venne popolata da persone che fuggivano dalle terre vicine; per avere delle mogli, i romani rapirono le donne delle tribù sabine confinanti (Ratto delle Sabine). Dopo un lungo regno, Romolo sparì in una tempesta e venne successivamente onorato come il dio Quirino.
L'origine delle regole e riti religiosi a Roma si fa risalire al successore di Romolo: Numa Pompilio. A lui si deve l'istituzione della figura del Pontefice, cui spettava il compito di vigilare sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro. Sempre Numa Pompilio creò l'ordine dei Flamini, preti sacri dedicati al culto della Triade Capitolina costituita da Giove, Giunone e Minerva. Scelse le prime vergini Vestali per la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città. Introdusse il culto di Termine, dio dei confini, e costruì il tempio di Giano. Riorganizzò il calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi (355 giorni), con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio dal latino februltus, che significa "un rimedio agli errori" dato che nel calendario romano febbraio era il periodo dei rituali di purificazione; questi furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre, mentre l'anno iniziava con il mese di marzo.
Tullo Ostilio è il terzo re di Roma. Considerando Romolo e Numa rappresentanti dei Ramnes e dei Tities, Tullo fu il rappresentante dei Luceres. Le sue guerre vittoriose contro Alba Longa, Fidene e Veio rappresentano le prime conquiste di Roma al di fuori delle mura delle città. Sotto il suo regno avvenne il combattimento tra Orazi e Curiazi come rappresentanti di Roma e Alba Longa. Si dice che morì colpito da un fulmine come punizione del suo orgoglio.
Le prime tracce di insediamenti nell'area risalgono alla cultura dell'uomo di Neanderthal.
Nella zona di Roma sono stati effettuati diversi ritrovamenti, il più antico dei quali si riferisce al sito della Valchetta, con resti risalenti a 65.000 anni fa. Nella zona di Casal de' Pazzi, uno scavo ha restituito ossa di animali risalenti a circa 20.000 anni fa; mentre in via di Torre Spaccata, lo scavo per la costruzione di un istituto tecnico ha portato alla luce resti di un insediamento umano risalente a circa 6.000 anni fa.
Le tracce successive risalgono all'età del ferro e sono riferibili all'arrivo di genti di stirpe indoeuropea (Latini), nel quadro di un generale fenomeno di migrazione che sembra essersi svolto verso la penisola italiana in due ondate successive (prima il gruppo latino-falisco e quindi il gruppo umbro-sabello).
Le genti del gruppo latino-falisco si spostarono dall'Europa centrale oppure dalla penisola balcanica in seguito all'arrivo delle popolazioni illiriche, e in epoca protostorica si insediarono nella parte occidentale tirrenica dell'Italia centro-meridionale.
I Falisci occupavano la valle del Tevere, tra i monti Cimini e i Sabatini, mentre i Latini si erano stanziati nel Latius vetus ("Lazio antico"), che andava dalla riva destra del corso finale del Tevere ai Colli Albani.
Il loro territorio confinava con quello di diverse altre popolazioni, la più importante delle quali era sicuramente quella degli Etruschi, a nord del Tevere.
I Volsci, di origine osca, occupavano la parte meridionale del Lazio e i monti Lepini; gli Aurunci, la costa tirrenica a cavallo dell'attuale confine tra Lazio e Campania; a nord, sull'Appennino, si trovavano i Sabini; a est gli Equi. Nella valle del Trero, gli Ernici controllavano la via commerciale per la Campania e tra Ardea ed Anzio erano stanziati i Rutuli.
I primi insediamenti nella zona della futura città di Roma sorsero sul colle Palatino intorno al X secolo a.C. (ma le prime tracce archeologiche risalgono almeno al XIV secolo), mentre successivamente vennero occupati anche i colli Esquilino e Quirinale.
La città si venne formando attraverso un fenomeno di sinecismo durato vari secoli, che vide, in analogia a quanto accadeva in tutta l'Italia centrale, la progressiva riunione in un vero e proprio centro urbano degli insediamenti dispersi sui vari colli. Ed è quello che verosimilmente può essere accaduto sul Palatino, che inizialmente era composto da vari nuclei abitativi indipendenti: il Romolo della leggenda può essere stato il realizzatore della prima unificazione di questi nuclei in un’entità unica.
La data tradizionale alla metà dell'VIII secolo a.C., corrisponde al momento in cui i dati archeologici disponibili indicano la creazione di una grande necropoli comune sull'Esquilino, che sostituisce i precedenti luoghi di sepoltura nelle zone libere tra i villaggi, ormai considerate parte integrante dello spazio urbano, come ad esempio l’area del colle Velia, l’altura intermedia tra il Germalo ed il Palatino vero e proprio.
La data ufficiale fu fissata da Marco Terenzio Varrone, secondo il quale la città era stata fondata da Romolo e Remo il 21 aprile del 753 a.C.. Altre fonti riportano tuttavia date diverse: Quinto Ennio, poeta latino del III-II secolo a.C., nei suoi Annales colloca la fondazione nell'875, lo storico greco Timeo di Tauromenio (IV-III sec. a.C.) nel'814 (contemporaneamente, quindi, alla fondazione di Cartagine), Fabio Pittore (III a.C.) all'anno 748 e Lucio Cincio Alimento nel 729.
I primi Re di Roma appaiono soprattutto come figure mitiche. Ad ogni sovrano viene generalmente attribuito un particolare contributo nella nascita e nello sviluppo delle istituzioni romane e nella crescita socio-politica dell'urbe. Contemporaneamente, venivano fondati i primi edifici di culto e si insediavano sui colli periferici gli abitanti delle vicine città che venivano man mano conquistate e distrutte.
In particolare nel VI secolo, periodo di grande prosperità per la città sotto l'influenza etrusca e il dominio degli ultimi tre re, si realizzano le prime importanti opere pubbliche: il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, il santuario arcaico dell'area di Sant'Omobono, e la costruzione della Cloaca Massima, che permise la bonifica dell'area del Foro Romano e la sua prima pavimentazione, rendendolo il centro politico, religioso e amministrativo della città.
A Servio Tullio si deve la prima suddivisione della città in quattro regioni e la costruzione della prima cinta muraria (Mura serviane).
L'influenza etrusca lasciò a Roma testimonianze durevoli, riconoscibili sia nelle forme architettoniche dei templi, sia nell'introduzione del culto della Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) ripresa dagli dei etruschi Uni, Menrva e Tinia. Attraverso l'egemonia etrusca giunsero inoltre nella città i primi elementi di cultura greca.
mercoledì 24 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 maggio.
Il 24 maggio 1686 nasce a Danzica Gabriel Fahrenheit.
Sviluppa nel tempo una particolare abilità nell'arte di soffiare il vetro, dote che impiegherà per costruire apparecchiature scientifiche.
Costruttore di strumenti scientifici oltre che commerciante, dopo aver viaggiato in Inghilterra, Germania e Francia si stabilisce e passa la maggior parte della sua vita in Olanda, dove approfondisce lo studio della fisica.
Le sue pubblicazioni scientifiche sono per lo più modeste fino a quando la sua fama e la sua notorietà si diffondono nei vari paesi europei per aver inventato nel 1720 un personale sistema per la fabbricazione di termometri. Grazie alle sue scoperte viene eletto membro della Royal Society di Londra nel 1724.
Gli anni seguenti serviranno allo studio e al miglioramento delle sue invenzioni; passa dall'utilizzo dell'alcool nei termometri ad un elemento più preciso (e oggi noto): il mercurio.
Fahrenheit ideò anche un particolare tipo di areometro.
Il suo nome è legato all'omonima scala termometrica ampiamente utilizzata nei paesi anglosassoni fino agli anni '70, ed oggi ancora ufficialmente usata negli Stati Uniti.
Alla pressione di 1 atmosfera, la temperatura di congelamento dell'acqua corrisponde al valore di temperatura di 32° F (Fahrenheit), mentre al suo punto di ebollizione si attribuisce il valore di 212° F.
Nella scala centigrada, o Celsius, introdotta dall'astronomo svedese Anders Celsius e impiegata nella maggior parte dei paesi, il punto di fusione dell'acqua corrisponde a 0° C, quello di ebollizione a 100° C.
Le due scale si differenziano quindi sia per i valori assegnati al punto di congelamento e di ebollizione dell'acqua, sia per il numero di gradi in cui tale intervallo di riferimento si suddivide: nella scala Fahrenheit l'intervallo 32-212° F corrisponde a un'escursione termica di 180 gradi, mentre nella scala Celsius l'intervallo 0-100° C, corrisponde a 100 gradi.
La formula di conversione per una temperatura che si esprime nella rappresentazione Celsius è:
F = (9/5 C) + 32.
Daniel Gabriel Fahrenheit muore di febbre gialla all'età di 50 anni a L'Aia, il 16 settembre 1736.
Il 24 maggio 1686 nasce a Danzica Gabriel Fahrenheit.
Sviluppa nel tempo una particolare abilità nell'arte di soffiare il vetro, dote che impiegherà per costruire apparecchiature scientifiche.
Costruttore di strumenti scientifici oltre che commerciante, dopo aver viaggiato in Inghilterra, Germania e Francia si stabilisce e passa la maggior parte della sua vita in Olanda, dove approfondisce lo studio della fisica.
Le sue pubblicazioni scientifiche sono per lo più modeste fino a quando la sua fama e la sua notorietà si diffondono nei vari paesi europei per aver inventato nel 1720 un personale sistema per la fabbricazione di termometri. Grazie alle sue scoperte viene eletto membro della Royal Society di Londra nel 1724.
Gli anni seguenti serviranno allo studio e al miglioramento delle sue invenzioni; passa dall'utilizzo dell'alcool nei termometri ad un elemento più preciso (e oggi noto): il mercurio.
Fahrenheit ideò anche un particolare tipo di areometro.
Il suo nome è legato all'omonima scala termometrica ampiamente utilizzata nei paesi anglosassoni fino agli anni '70, ed oggi ancora ufficialmente usata negli Stati Uniti.
Alla pressione di 1 atmosfera, la temperatura di congelamento dell'acqua corrisponde al valore di temperatura di 32° F (Fahrenheit), mentre al suo punto di ebollizione si attribuisce il valore di 212° F.
Nella scala centigrada, o Celsius, introdotta dall'astronomo svedese Anders Celsius e impiegata nella maggior parte dei paesi, il punto di fusione dell'acqua corrisponde a 0° C, quello di ebollizione a 100° C.
Le due scale si differenziano quindi sia per i valori assegnati al punto di congelamento e di ebollizione dell'acqua, sia per il numero di gradi in cui tale intervallo di riferimento si suddivide: nella scala Fahrenheit l'intervallo 32-212° F corrisponde a un'escursione termica di 180 gradi, mentre nella scala Celsius l'intervallo 0-100° C, corrisponde a 100 gradi.
La formula di conversione per una temperatura che si esprime nella rappresentazione Celsius è:
F = (9/5 C) + 32.
Daniel Gabriel Fahrenheit muore di febbre gialla all'età di 50 anni a L'Aia, il 16 settembre 1736.
martedì 23 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 maggio.
Il 23 maggio del 1992, alle ore 17.58, i sismografi della stazione dell'Istituto Nazionale di Geofisica di Monte Cammarata registrano un sussulto della terra. Non è il terremoto; è l'esplosione di un quintale di tritolo che scava un cratere profondo quasi quattro metri e solleva in aria un intero tratto dell'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza di Capaci, uccidendo Giovanni Falcone, 54 anni, direttore degli Affari Penali al Ministero della Giustizia. Con lui, perdono la vita la moglie Francesca Morvillo, magistrato, e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Per uccidere il suo primo, pericoloso e più agguerrito nemico, l'organizzazione mafiosa mette in moto un'organizzazione logistica che coinvolge ben cinque "mandamenti" mafiosi (Corleone, San Lorenzo, San Giuseppe Jato, Porta Nuova, Noce) e che richiede il supporto di numerosi uomini e mezzi.
Gli spostamenti del magistrato vengono seguiti a Roma e a Palermo. I killer sanno anche che Falcone doveva tornare a Palermo con un aereo speciale noleggiato dai "servizi" il giorno prima, senza la moglie; ma il ritorno a Palermo era stato rinviato all'indomani.
Due giorni prima della strage, una comunicazione fra due telefonini viene casualmente intercettata a Catania; i due interlocutori annunciano per venerdì 22 maggio alle ore 15.15 un attentato "al secondo ponte dell'autostrada". L'interpretazione della conversazione viene limitata alla possibilità di un attentato nella sola zona di Catania, dove vengono effettuati controlli: ma non vengono avvertite altre Questure.
Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistema alla guida della vettura bianca e, accanto a lui, prende posto la moglie Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza occupa il sedile posteriore. Nella Croma marrone c’è alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e, sul retro, Rocco Di Cillo. Nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. La Croma marrone è in testa al gruppo, segue la Croma bianca, guidata da Falcone e, in coda, la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisano i sicari che hanno già sistemato l’esplosivo per la strage, della partenza delle automobili.
I particolari sull’arrivo del giudice dovevano essere coperti dal più rigido riserbo; indicativo del clima di sospetto che si viveva nel Paese è il fatto che nell’aereo di Stato che lo riportava a Palermo avevano avuto un passaggio diversi "grandi elettori" (deputati, senatori e delegati regionali) siciliani, reduci dagli scrutini di Montecitorio per l’elezione del Capo dello Stato, prolungatisi invano fino al sabato mattina. Uno di essi sarebbe stato addirittura inquisito per associazione a delinquere di stampo mafioso tre anni dopo; ma nessuna verità definitiva fu acquisita in sede processuale sull’identità della fonte che aveva comunicato ai mafiosi informazioni circa la partenza di Falcone da Roma e l’arrivo a Palermo per l’ora stabilita.
Le auto lasciano l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina si affianca agli spostamenti delle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; sono gli ultimi secondi prima della strage.
Otto minuti dopo, alle ore 17.58, presso il chilometro 5 della A29, una carica di cinque quintali di tritolo, posizionata in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina. Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in ritardo, sicché l’esplosione investe in pieno solo La Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, sin su un piano di alberi; i tre agenti di scorta muoiono sul colpo.
La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Falcone, che riporta ferite solo in apparenza non gravi, muore dopo il trasporto in ospedale a causa di emorragie interne. Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, e si salvano miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio.
La detonazione provoca un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. In un clima irreale, e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere.
Circa venti minuti dopo, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell’Arma dei Carabinieri, presso l’ospedale Civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch’essi trasportati in ospedale mentre la Polizia Scientifica esegue i primi rilievi e i Vigili del Fuoco espletano il triste compito di estrarre i corpi irriconoscibili di Schifani, Montinaro e Di Cillo.
Intanto i media iniziano a diffondere la notizia di un attentato a Palermo e il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L’Italia intera, sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva. Alle 19.05, ad un’ora e sette minuti dall’attentato, dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione Giovanni Falcone muore a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. La moglie - Francesca Morvillo - morirà anch’essa poche ore dopo.
Volantini recanti una citazione del giudice Falcone: "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini".
Due giorni dopo, mentre a Roma viene eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo si svolgono i funerali delle vittime, ai quali partecipa l’intera città, assieme a colleghi, familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono duramente contestati dalla cittadinanza. Le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della vedova Schifani susciteranno particolare emozione nell’opinione pubblica.
Così muore Giovanni Falcone, mentre ancora a Palermo e in tutto il Paese riecheggiano le polemiche ingenerose e vili, che lo hanno accompagnato a Roma, accusandolo di essersi "arreso", di aver preferito "flirtare" con la politica del Palazzo, piuttosto che continuare nell'impegno antimafia. Muore così il depositario di mille segreti, l'uomo che aveva compreso l'importanza di un salto di qualità nella lotta alla mafia, la necessità di riorganizzare il sistema di lavoro, coordinandolo a livello centrale, da Roma. Muore così il protagonista di una stagione giudiziaria, l'uomo che era riuscito a far parlare Buscetta e Contorno, ch'era riuscito per la prima volta a far luce sull'organizzazione e sulle dinamiche di funzionamento dell'universo mafioso, arrivando a istruire il primo, grande processo di mafia, conclusosi con l'individuazione di precise responsabilità e con pesanti condanne per centinaia di uomini d'onore, che avevano retto anche al vaglio della Cassazione.
Nell'aprile 2006 la Corte d'assise d'appello di Catania condannò dodici persone in quanto ritenute mandanti della strage di Capaci e di quella di Via D'Amelio: Giuseppe e Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto Spera, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Stefano Ganci, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate mentre Giuseppe Lucchese venne assolto; nel 2008 la prima sezione penale della Cassazione confermò la sentenza.
Nel maggio 2014 ebbe inizio il secondo troncone del processo per la strage di Capaci, denominato "Capaci bis", che aveva come imputati Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello; a novembre il giudice dell'udienza preliminare di Caltanissetta condannò con il rito abbreviato Giuseppe Barranca e Cristofaro Cannella all'ergastolo mentre Cosimo D'Amato e il collaboratore Gaspare Spatuzza vennero condannati rispettivamente a trent'anni e a dodici anni di carcere.
Il 23 maggio del 1992, alle ore 17.58, i sismografi della stazione dell'Istituto Nazionale di Geofisica di Monte Cammarata registrano un sussulto della terra. Non è il terremoto; è l'esplosione di un quintale di tritolo che scava un cratere profondo quasi quattro metri e solleva in aria un intero tratto dell'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza di Capaci, uccidendo Giovanni Falcone, 54 anni, direttore degli Affari Penali al Ministero della Giustizia. Con lui, perdono la vita la moglie Francesca Morvillo, magistrato, e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Per uccidere il suo primo, pericoloso e più agguerrito nemico, l'organizzazione mafiosa mette in moto un'organizzazione logistica che coinvolge ben cinque "mandamenti" mafiosi (Corleone, San Lorenzo, San Giuseppe Jato, Porta Nuova, Noce) e che richiede il supporto di numerosi uomini e mezzi.
Gli spostamenti del magistrato vengono seguiti a Roma e a Palermo. I killer sanno anche che Falcone doveva tornare a Palermo con un aereo speciale noleggiato dai "servizi" il giorno prima, senza la moglie; ma il ritorno a Palermo era stato rinviato all'indomani.
Due giorni prima della strage, una comunicazione fra due telefonini viene casualmente intercettata a Catania; i due interlocutori annunciano per venerdì 22 maggio alle ore 15.15 un attentato "al secondo ponte dell'autostrada". L'interpretazione della conversazione viene limitata alla possibilità di un attentato nella sola zona di Catania, dove vengono effettuati controlli: ma non vengono avvertite altre Questure.
Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistema alla guida della vettura bianca e, accanto a lui, prende posto la moglie Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza occupa il sedile posteriore. Nella Croma marrone c’è alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e, sul retro, Rocco Di Cillo. Nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. La Croma marrone è in testa al gruppo, segue la Croma bianca, guidata da Falcone e, in coda, la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisano i sicari che hanno già sistemato l’esplosivo per la strage, della partenza delle automobili.
I particolari sull’arrivo del giudice dovevano essere coperti dal più rigido riserbo; indicativo del clima di sospetto che si viveva nel Paese è il fatto che nell’aereo di Stato che lo riportava a Palermo avevano avuto un passaggio diversi "grandi elettori" (deputati, senatori e delegati regionali) siciliani, reduci dagli scrutini di Montecitorio per l’elezione del Capo dello Stato, prolungatisi invano fino al sabato mattina. Uno di essi sarebbe stato addirittura inquisito per associazione a delinquere di stampo mafioso tre anni dopo; ma nessuna verità definitiva fu acquisita in sede processuale sull’identità della fonte che aveva comunicato ai mafiosi informazioni circa la partenza di Falcone da Roma e l’arrivo a Palermo per l’ora stabilita.
Le auto lasciano l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina si affianca agli spostamenti delle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; sono gli ultimi secondi prima della strage.
Otto minuti dopo, alle ore 17.58, presso il chilometro 5 della A29, una carica di cinque quintali di tritolo, posizionata in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina. Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in ritardo, sicché l’esplosione investe in pieno solo La Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, sin su un piano di alberi; i tre agenti di scorta muoiono sul colpo.
La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Falcone, che riporta ferite solo in apparenza non gravi, muore dopo il trasporto in ospedale a causa di emorragie interne. Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, e si salvano miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio.
La detonazione provoca un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. In un clima irreale, e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere.
Circa venti minuti dopo, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell’Arma dei Carabinieri, presso l’ospedale Civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch’essi trasportati in ospedale mentre la Polizia Scientifica esegue i primi rilievi e i Vigili del Fuoco espletano il triste compito di estrarre i corpi irriconoscibili di Schifani, Montinaro e Di Cillo.
Intanto i media iniziano a diffondere la notizia di un attentato a Palermo e il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L’Italia intera, sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva. Alle 19.05, ad un’ora e sette minuti dall’attentato, dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione Giovanni Falcone muore a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. La moglie - Francesca Morvillo - morirà anch’essa poche ore dopo.
Volantini recanti una citazione del giudice Falcone: "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini".
Due giorni dopo, mentre a Roma viene eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo si svolgono i funerali delle vittime, ai quali partecipa l’intera città, assieme a colleghi, familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono duramente contestati dalla cittadinanza. Le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della vedova Schifani susciteranno particolare emozione nell’opinione pubblica.
Così muore Giovanni Falcone, mentre ancora a Palermo e in tutto il Paese riecheggiano le polemiche ingenerose e vili, che lo hanno accompagnato a Roma, accusandolo di essersi "arreso", di aver preferito "flirtare" con la politica del Palazzo, piuttosto che continuare nell'impegno antimafia. Muore così il depositario di mille segreti, l'uomo che aveva compreso l'importanza di un salto di qualità nella lotta alla mafia, la necessità di riorganizzare il sistema di lavoro, coordinandolo a livello centrale, da Roma. Muore così il protagonista di una stagione giudiziaria, l'uomo che era riuscito a far parlare Buscetta e Contorno, ch'era riuscito per la prima volta a far luce sull'organizzazione e sulle dinamiche di funzionamento dell'universo mafioso, arrivando a istruire il primo, grande processo di mafia, conclusosi con l'individuazione di precise responsabilità e con pesanti condanne per centinaia di uomini d'onore, che avevano retto anche al vaglio della Cassazione.
Nell'aprile 2006 la Corte d'assise d'appello di Catania condannò dodici persone in quanto ritenute mandanti della strage di Capaci e di quella di Via D'Amelio: Giuseppe e Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto Spera, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Stefano Ganci, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri, Benedetto Santapaola, Mariano Agate mentre Giuseppe Lucchese venne assolto; nel 2008 la prima sezione penale della Cassazione confermò la sentenza.
Nel maggio 2014 ebbe inizio il secondo troncone del processo per la strage di Capaci, denominato "Capaci bis", che aveva come imputati Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello; a novembre il giudice dell'udienza preliminare di Caltanissetta condannò con il rito abbreviato Giuseppe Barranca e Cristofaro Cannella all'ergastolo mentre Cosimo D'Amato e il collaboratore Gaspare Spatuzza vennero condannati rispettivamente a trent'anni e a dodici anni di carcere.
lunedì 22 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 maggio.
Il 22 maggio 1922 Francis Scott Fitzgerald pubblica "Il curioso caso di Benjamin Button".
Un caso alquanto bizzarro, quello di Benjamin Button, un individuo fuori dal comune che viene dato alla luce nel 1860 a Baltimora. Il protagonista del romanzo straniero “Il curioso caso di Benjamin Button” ha qualcosa di strano, di inspiegabile, che lascia meravigliati e disgustati gli abitanti del luogo: Benjamin nasce con le sembianze di un anziano.
Nel libro “Il curioso caso di Benjamin Button” lo scrittore Fitzgerald ci mostra come non è semplice per la famiglia accettare di avere un figlio appena nato, che abbia i tratti di un vecchietto, a cui serve un bastone per camminare, con la barba e le rughe. Ma la cosa strana, – “curiosa”, come dice il titolo del libro – è che più passa il tempo più Benjamin ringiovanisce, vivendo una vita in senso esattamente opposto a quella dei comuni mortali.
Non è per nulla facile attraversare la storia all’indietro, diventare un uomo sempre più giovane, affascinante, bello, mentre per tutti gli altri il tempo lascia il suo segno che sfiorisce e li conduce alla morte. Non è per nulla semplice essere accettato da una società che lo guarda con occhio critico e incredulo, mentre Benjamin Button ama una donna, che diventa sua moglie, ma che per quanto desideri stare con lui, non può accogliere indifferente il suo segreto e ne patisce il peso e la sofferenza.
E ancora, Benjamin Button è costretto a diventare una sorta di figlio di suo figlio, e a dover accettare le cure da parte di colui che, in una vita normale, avrebbe dovuto curare lui. Suo figlio, nel corso degli anni, gli farà da balia, fino a cullarlo per farlo addormentare. Non esiste la normalità nella vita del protagonista de “Il curioso caso di Benjamin Button” e lui, emarginato dalla realtà, si crea il suo mondo, riuscendo lo stesso ad essere felice.
“Il curioso caso di Benjamin Button” è una fiaba divertente ma che fa riflettere sulla difficoltà dell’uomo di comprendere e accettare qualcosa di diverso e apparentemente inspiegabile. Un romanzo moderno, nonostante sia stato scritto nel 1922 e che lascia una sua affascinante traccia.
Francis Scott Key Fitzgerald, attraverso la sua metafora, nel libro “Il curioso caso di Benjamin Button”, cerca di mostrare come il momento di piena saggezza ed esperienza, sembri essere quello dell’infanzia. Di contro, la senilità rappresenta il regresso, il decadimento e l’incomprensione. Nel mezzo, tra i due momenti, c’è la vita migliore, quella del confronto, del godimento e della profondità dei sentimenti.
Francis Scott Fitzgerald (1896-1940) è stato uno scrittore e sceneggiatore statunitense, autore di romanzi e racconti. È considerato uno fra i maggiori autori dell'Età del jazz e, per la sua opera complessiva, del XX secolo. Faceva parte della corrente letteraria della cosiddetta Generazione perduta, un gruppo di scrittori americani nati negli anni 1890 che si stabilì in Francia dopo la prima guerra mondiale. Scrisse quattro romanzi, più un quinto lasciato incompiuto, e decine di racconti brevi sui temi della giovinezza, della disperazione, e del disagio generazionale. I quattro romanzi dell'autore sono "Di qua dal Paradiso", "Belli e dannati", "Il grande Gatsby" e "Tenera è la notte".
Benjamin Button è stato portato alla ribalta grazie all'adattamento cinematografico realizzato da David Fincher nel 2008, con protagonisti Brad Pitt e Cate Blanchett. In realtà la parola "adattamento" non è la più corretta in quanto il film non coincide affatto con il libro.
Benjamin Button nasce con l'aspetto di un anziano settantenne e vive la sua vita controcorrente in quanto, invece di invecchiare come le persone, ringiovanisce. Nel film possiamo seguire Benjamin durante le sue avventure, vivere con lui la sua vecchiaia-infanzia, il suo ringiovanimento fino alla sua infanzia-vecchiaia. Nel libro, che è un racconto lungo e non un romanzo, Fitzgerald ci dà un assaggio della vita di Benjamin, facendocela scorrere davanti agli occhi in maniera accelerata.
L'idea è originalissima, ma forse è stata un'occasione sprecata. Benjamin è completamente fuori posto in ogni contesto sociale, partendo proprio dalla famiglia. La sua nascita provoca grande imbarazzo e il padre non sa come comportarsi. Suo figlio è un uomo anziano, più vecchio di lui, che ha interessi e gusti di un uomo della sua età. E' grottesca la visione di un settantenne vestito come un bambino e il padre non può che rassegnarsi. La vita di Benjamin scorre all'indietro, mentre tutti gli altri vanno avanti e così anche suo figlio si vergogna di lui, che continua a diventare sempre più giovane.
Fitzgerald ha deciso di dedicarsi ad altre storie probabilmente, lasciandoci leggere solo una bozza della vita di Benjamin Button. Peccato, sarebbe stato molto interessante leggere e approfondire i personaggi e le vicende che essi vivono.
Il film non rispecchia la storia, ma almeno a Benjamin viene data una seconda vita. Molto belle le interpretazioni di Pitt e Blanchett.
Il 22 maggio 1922 Francis Scott Fitzgerald pubblica "Il curioso caso di Benjamin Button".
Un caso alquanto bizzarro, quello di Benjamin Button, un individuo fuori dal comune che viene dato alla luce nel 1860 a Baltimora. Il protagonista del romanzo straniero “Il curioso caso di Benjamin Button” ha qualcosa di strano, di inspiegabile, che lascia meravigliati e disgustati gli abitanti del luogo: Benjamin nasce con le sembianze di un anziano.
Nel libro “Il curioso caso di Benjamin Button” lo scrittore Fitzgerald ci mostra come non è semplice per la famiglia accettare di avere un figlio appena nato, che abbia i tratti di un vecchietto, a cui serve un bastone per camminare, con la barba e le rughe. Ma la cosa strana, – “curiosa”, come dice il titolo del libro – è che più passa il tempo più Benjamin ringiovanisce, vivendo una vita in senso esattamente opposto a quella dei comuni mortali.
Non è per nulla facile attraversare la storia all’indietro, diventare un uomo sempre più giovane, affascinante, bello, mentre per tutti gli altri il tempo lascia il suo segno che sfiorisce e li conduce alla morte. Non è per nulla semplice essere accettato da una società che lo guarda con occhio critico e incredulo, mentre Benjamin Button ama una donna, che diventa sua moglie, ma che per quanto desideri stare con lui, non può accogliere indifferente il suo segreto e ne patisce il peso e la sofferenza.
E ancora, Benjamin Button è costretto a diventare una sorta di figlio di suo figlio, e a dover accettare le cure da parte di colui che, in una vita normale, avrebbe dovuto curare lui. Suo figlio, nel corso degli anni, gli farà da balia, fino a cullarlo per farlo addormentare. Non esiste la normalità nella vita del protagonista de “Il curioso caso di Benjamin Button” e lui, emarginato dalla realtà, si crea il suo mondo, riuscendo lo stesso ad essere felice.
“Il curioso caso di Benjamin Button” è una fiaba divertente ma che fa riflettere sulla difficoltà dell’uomo di comprendere e accettare qualcosa di diverso e apparentemente inspiegabile. Un romanzo moderno, nonostante sia stato scritto nel 1922 e che lascia una sua affascinante traccia.
Francis Scott Key Fitzgerald, attraverso la sua metafora, nel libro “Il curioso caso di Benjamin Button”, cerca di mostrare come il momento di piena saggezza ed esperienza, sembri essere quello dell’infanzia. Di contro, la senilità rappresenta il regresso, il decadimento e l’incomprensione. Nel mezzo, tra i due momenti, c’è la vita migliore, quella del confronto, del godimento e della profondità dei sentimenti.
Francis Scott Fitzgerald (1896-1940) è stato uno scrittore e sceneggiatore statunitense, autore di romanzi e racconti. È considerato uno fra i maggiori autori dell'Età del jazz e, per la sua opera complessiva, del XX secolo. Faceva parte della corrente letteraria della cosiddetta Generazione perduta, un gruppo di scrittori americani nati negli anni 1890 che si stabilì in Francia dopo la prima guerra mondiale. Scrisse quattro romanzi, più un quinto lasciato incompiuto, e decine di racconti brevi sui temi della giovinezza, della disperazione, e del disagio generazionale. I quattro romanzi dell'autore sono "Di qua dal Paradiso", "Belli e dannati", "Il grande Gatsby" e "Tenera è la notte".
Benjamin Button è stato portato alla ribalta grazie all'adattamento cinematografico realizzato da David Fincher nel 2008, con protagonisti Brad Pitt e Cate Blanchett. In realtà la parola "adattamento" non è la più corretta in quanto il film non coincide affatto con il libro.
Benjamin Button nasce con l'aspetto di un anziano settantenne e vive la sua vita controcorrente in quanto, invece di invecchiare come le persone, ringiovanisce. Nel film possiamo seguire Benjamin durante le sue avventure, vivere con lui la sua vecchiaia-infanzia, il suo ringiovanimento fino alla sua infanzia-vecchiaia. Nel libro, che è un racconto lungo e non un romanzo, Fitzgerald ci dà un assaggio della vita di Benjamin, facendocela scorrere davanti agli occhi in maniera accelerata.
L'idea è originalissima, ma forse è stata un'occasione sprecata. Benjamin è completamente fuori posto in ogni contesto sociale, partendo proprio dalla famiglia. La sua nascita provoca grande imbarazzo e il padre non sa come comportarsi. Suo figlio è un uomo anziano, più vecchio di lui, che ha interessi e gusti di un uomo della sua età. E' grottesca la visione di un settantenne vestito come un bambino e il padre non può che rassegnarsi. La vita di Benjamin scorre all'indietro, mentre tutti gli altri vanno avanti e così anche suo figlio si vergogna di lui, che continua a diventare sempre più giovane.
Fitzgerald ha deciso di dedicarsi ad altre storie probabilmente, lasciandoci leggere solo una bozza della vita di Benjamin Button. Peccato, sarebbe stato molto interessante leggere e approfondire i personaggi e le vicende che essi vivono.
Il film non rispecchia la storia, ma almeno a Benjamin viene data una seconda vita. Molto belle le interpretazioni di Pitt e Blanchett.
domenica 21 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 maggio.
Il 21 maggio 1502 Joao Da Nova, esploratore portoghese, scopre l'isola di Sant'Elena.
L'isola di Sant'Elena è situata nel bel mezzo dell'Oceano Atlantico ed è uno dei territori più isolati del mondo. E' il più popoloso dei territori del Regno Unito nell'Atlantico meridionale.
La storia di Sant'Elena è affascinante e tocca molti aspetti della storia del mondo. Scoperta dai portoghesi nel 1502, è diventata prima olandese poi un possedimento britannico (inizialmente sotto la Compagnia delle Indie Orientali poi la Corona).
E' stato un porto di importanza strategica durante l'impero britannico, fino all'apertura del Canale di Suez e l'avvento delle navi a vapore.
Per la sua postazione remota l'isola è stata utilizzata come luogo di esilio per i prigionieri chiave, tra cui circa 6.000 Boeri, i principi del Bahrein, e, naturalmente, Napoleone, morto a Sant'Elena. L'isola ha anche svolto un ruolo importante durante l'abolizione della schiavitù e offre un notevole patrimonio di fortificazioni, resti, edifici storici, e ciò che è stato descritto come "il porto per eccellenza" - Jamestown.
S.Elena ha una piccola popolazione, prevalentemente discendenti di persone provenienti dall'Europa (soprattutto dipendenti pubblici ed ex-soldati in servizio nel locale reggimento), cinesi (lavoratori itineranti da circa 1810) e schiavi (per lo più dal Madagascar e in Asia, solo alcuni provenienti dall'Africa dal 1840 in poi).
I nativi, noti anche come "santi", sono noti per la loro cordialità, per la loro natura ospitale. La vita sociale locale vi darà un'idea di come sia vivace, divertente e accogliente.
Il Museo di Sant'Elena è un luogo ideale per iniziare la visita dell'isola. Si trova in un magazzino dell'inizio del 19 ° secolo ai piedi della scala di Jacob a Jamestown. Ha una varietà di mostre sulla storia dell'isola e la storia naturale.
Il territorio anche se piccolo, offre una pluralità di attrazioni come la Scala di Jacob che unisce Half Hollow Tree a Jamestown. Composta da 699 gradini, la "Scala" è stato costruita nel 1829 come tramite per trasportare i prodotti agricoli dalla campagna alla città. E' una salita prodigiosa, e pochi turisti sono capaci di farla in una volta sola. Oltre alla sua lunghezza, i gradini sono piuttosto alti, ed è decisamente sconsigliata a chi soffre di vertigini. Suggestiva la sua illuminazione notturna.
Il Castello invece fu costruito dagli inglesi nel 1659 poco dopo che ebbero preso l'isola. Usato come sede del governo, non è visitabile ma è possibile vedere le camere del Consiglio.
Molto vicino si trova il Palazzo di Giustizia, in un incantevole edificio in sé e vale la pena dare un'occhiata. Ospita sia i magistrati ed i tribunali di ultimo grado.
I giardini del castello ospitano una grande varietà di piante tropicali e specie endemiche dell'isola. E' anche un buon posto per vedere sciami di uccelli canori in giro tra gli enormi ficus, che sono stati introdotti nell'isola nel corso degli anni.
Le fortificazioni sono state costruite attraverso la bocca della valle di Giacomo dove si incontra il mare, solo dopo che Napoleone fu portato sull'isola nel 19°secolo.
Bellissima è l'Heart-Shaped Waterfall. Dal nome di questa cascata si potrebbe pensare che la stessa acqua cada sotto forma di un cuore, ma in realtà è così chiamata a causa della roccia a forma di cuore su cui cade. Si può vedere dalla strada a nord di Jamestown.
A Sant'Elena si trova anche la chiesa di San Giacomo, appena dentro le fortificazioni di Jamestown e di fronte al Castello ed è la più antica chiesa anglicana nel sud del mondo, risalente al 1774.
Da vedere è la Longwood House, la casa in cui Napoleone ha trascorso la maggior parte del suo tempo a Sant'Elena e anche dove morì. Dispone di diverse ali e contiene il tipo di arredamento che aveva quando viveva lì, anche se la maggior parte degli oggetti originali sono stati portati altrove. E' diventata un museo e viene gestita dal governo francese. Si trova in un terreno pieno di fiori, ed i giardini sono ben mantenuti.
Plantation House (la casa del governatore dell'isola) si presenta come un palazzo georgiano strappato dall'Inghilterra e lasciato cadere nei mari del sud. I giardini sono incantevoli, e in essi vivono numerose tartarughe delle Seychelles tra cui Jonathan, il più antico vertebrato conosciuto sulla terra!
I picchi centrali includono Diana Peak (il punto più alto dell'isola), il Monte Atteone, e Point Cuckold, e ospitano la più grande concentrazione di specie endemiche. Le Cime fanno parte della foresta pluviale umida al centro dell'isola, e sono un must-see per gli appassionati di flora e fauna.
Clifford Arboretum è un piccolo, molto sottosviluppato arboreto ed è la patria di alcune specie della fauna autoctona dell'isola. Vi si effettuano escursioni guidate.
Interessante è la cattedrale di Saint Paul, sede del vescovo anglicano di Sant'Elena e costruita nel 1856.
Insomma, un'isola piccola ma con molte cose da vedere.
Il 21 maggio 1502 Joao Da Nova, esploratore portoghese, scopre l'isola di Sant'Elena.
L'isola di Sant'Elena è situata nel bel mezzo dell'Oceano Atlantico ed è uno dei territori più isolati del mondo. E' il più popoloso dei territori del Regno Unito nell'Atlantico meridionale.
La storia di Sant'Elena è affascinante e tocca molti aspetti della storia del mondo. Scoperta dai portoghesi nel 1502, è diventata prima olandese poi un possedimento britannico (inizialmente sotto la Compagnia delle Indie Orientali poi la Corona).
E' stato un porto di importanza strategica durante l'impero britannico, fino all'apertura del Canale di Suez e l'avvento delle navi a vapore.
Per la sua postazione remota l'isola è stata utilizzata come luogo di esilio per i prigionieri chiave, tra cui circa 6.000 Boeri, i principi del Bahrein, e, naturalmente, Napoleone, morto a Sant'Elena. L'isola ha anche svolto un ruolo importante durante l'abolizione della schiavitù e offre un notevole patrimonio di fortificazioni, resti, edifici storici, e ciò che è stato descritto come "il porto per eccellenza" - Jamestown.
S.Elena ha una piccola popolazione, prevalentemente discendenti di persone provenienti dall'Europa (soprattutto dipendenti pubblici ed ex-soldati in servizio nel locale reggimento), cinesi (lavoratori itineranti da circa 1810) e schiavi (per lo più dal Madagascar e in Asia, solo alcuni provenienti dall'Africa dal 1840 in poi).
I nativi, noti anche come "santi", sono noti per la loro cordialità, per la loro natura ospitale. La vita sociale locale vi darà un'idea di come sia vivace, divertente e accogliente.
Il Museo di Sant'Elena è un luogo ideale per iniziare la visita dell'isola. Si trova in un magazzino dell'inizio del 19 ° secolo ai piedi della scala di Jacob a Jamestown. Ha una varietà di mostre sulla storia dell'isola e la storia naturale.
Il territorio anche se piccolo, offre una pluralità di attrazioni come la Scala di Jacob che unisce Half Hollow Tree a Jamestown. Composta da 699 gradini, la "Scala" è stato costruita nel 1829 come tramite per trasportare i prodotti agricoli dalla campagna alla città. E' una salita prodigiosa, e pochi turisti sono capaci di farla in una volta sola. Oltre alla sua lunghezza, i gradini sono piuttosto alti, ed è decisamente sconsigliata a chi soffre di vertigini. Suggestiva la sua illuminazione notturna.
Il Castello invece fu costruito dagli inglesi nel 1659 poco dopo che ebbero preso l'isola. Usato come sede del governo, non è visitabile ma è possibile vedere le camere del Consiglio.
Molto vicino si trova il Palazzo di Giustizia, in un incantevole edificio in sé e vale la pena dare un'occhiata. Ospita sia i magistrati ed i tribunali di ultimo grado.
I giardini del castello ospitano una grande varietà di piante tropicali e specie endemiche dell'isola. E' anche un buon posto per vedere sciami di uccelli canori in giro tra gli enormi ficus, che sono stati introdotti nell'isola nel corso degli anni.
Le fortificazioni sono state costruite attraverso la bocca della valle di Giacomo dove si incontra il mare, solo dopo che Napoleone fu portato sull'isola nel 19°secolo.
Bellissima è l'Heart-Shaped Waterfall. Dal nome di questa cascata si potrebbe pensare che la stessa acqua cada sotto forma di un cuore, ma in realtà è così chiamata a causa della roccia a forma di cuore su cui cade. Si può vedere dalla strada a nord di Jamestown.
A Sant'Elena si trova anche la chiesa di San Giacomo, appena dentro le fortificazioni di Jamestown e di fronte al Castello ed è la più antica chiesa anglicana nel sud del mondo, risalente al 1774.
Da vedere è la Longwood House, la casa in cui Napoleone ha trascorso la maggior parte del suo tempo a Sant'Elena e anche dove morì. Dispone di diverse ali e contiene il tipo di arredamento che aveva quando viveva lì, anche se la maggior parte degli oggetti originali sono stati portati altrove. E' diventata un museo e viene gestita dal governo francese. Si trova in un terreno pieno di fiori, ed i giardini sono ben mantenuti.
Plantation House (la casa del governatore dell'isola) si presenta come un palazzo georgiano strappato dall'Inghilterra e lasciato cadere nei mari del sud. I giardini sono incantevoli, e in essi vivono numerose tartarughe delle Seychelles tra cui Jonathan, il più antico vertebrato conosciuto sulla terra!
I picchi centrali includono Diana Peak (il punto più alto dell'isola), il Monte Atteone, e Point Cuckold, e ospitano la più grande concentrazione di specie endemiche. Le Cime fanno parte della foresta pluviale umida al centro dell'isola, e sono un must-see per gli appassionati di flora e fauna.
Clifford Arboretum è un piccolo, molto sottosviluppato arboreto ed è la patria di alcune specie della fauna autoctona dell'isola. Vi si effettuano escursioni guidate.
Interessante è la cattedrale di Saint Paul, sede del vescovo anglicano di Sant'Elena e costruita nel 1856.
Insomma, un'isola piccola ma con molte cose da vedere.
sabato 20 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 maggio.
Il 20 maggio 2006 viene completata in Cina la "diga delle tre gole", la più grande opera idraulica del pianeta.
L’infrastruttura si trova nella provincia di Hubei, è stata costruita sul fiume Azzurro e ha un’altezza di 185 metri per una lunghezza complessiva che supera i 2,3 chilometri. Il bacino, cioè l’area in cui viene raccolta l’acqua, è lungo più di 600 chilometri e ha una estensione di circa 10mila chilometri quadrati, con una capienza massima di 39 miliardi di metri cubi d’acqua. In seguito al riempimento del bacino, negli ultimi anni si sono verificate diverse frane di fango nei pressi del grande lago artificiale, che hanno messo in pericolo le popolazioni della zona.
Stando al ministro delle Risorse territoriali, la quantità di frane e smottamenti è aumentata del 70 per cento dal 2010 a oggi. Durante la costruzione della diga già 1,4 milioni di persone erano state trasferite in altre zone della provincia, perché le acque avrebbero invaso i paesi in cui abitavano con il riempimento del bacino. Altre 100mila persone dovranno essere probabilmente trasferite nel corso dei prossimi tre – cinque anni per ridurre il rischio che possano essere vittime di frane e smottamenti.
Liu Yuan, un funzionario del governo cinese, ha spiegato a un programma della Radio nazionale cinese che sono stati identificate 5386 possibili aree a rischio intorno al bacino, che dovranno essere monitorate per valutare gli interventi da compiere e i possibili trasferimenti delle popolazioni interessate. Il lavoro di controllo e verifica è già iniziato in 335 zone intorno al lago artificiale. Le nuove informazioni si affiancano ai rapporti degli scorsi anni sulle condizioni in termini geologici dell’area delle Tre Gole. Tra il 2008 e il 2009 sono state identificate quasi duecento “emergenze geologiche” nella zona, in molti casi riconducibili alla costruzione della diga che ha notevolmente modificato l’ecosistema della zona.
Negli ultimi anni il governo cinese ha discusso in numerose occasioni gli effetti collaterali del progetto per la grande diga. Nel 2015 è stata implementato il più grande ascensore per navi del mondo, che consente di superare il dislivello tra il fiume Azzurro e il lago artificiale senza dover circumnavigare la diga, con un notevole risparmio di tempo. L’infrastruttura consente di produrre notevoli quantità di energia elettrica e riduce il rischio di inondazioni regolando l’andamento del fiume Azzurro, ma ha avuto un grande impatto sull’ambiente, sull’economia e sulla vita di tutti i giorni delle popolazioni locali. Molte delle persone trasferite in altre zone hanno faticato a rifarsi una vita, a trovare lavoro e a riallacciare rapporti con amici e conoscenti.
Il 20 maggio 2006 viene completata in Cina la "diga delle tre gole", la più grande opera idraulica del pianeta.
L’infrastruttura si trova nella provincia di Hubei, è stata costruita sul fiume Azzurro e ha un’altezza di 185 metri per una lunghezza complessiva che supera i 2,3 chilometri. Il bacino, cioè l’area in cui viene raccolta l’acqua, è lungo più di 600 chilometri e ha una estensione di circa 10mila chilometri quadrati, con una capienza massima di 39 miliardi di metri cubi d’acqua. In seguito al riempimento del bacino, negli ultimi anni si sono verificate diverse frane di fango nei pressi del grande lago artificiale, che hanno messo in pericolo le popolazioni della zona.
Stando al ministro delle Risorse territoriali, la quantità di frane e smottamenti è aumentata del 70 per cento dal 2010 a oggi. Durante la costruzione della diga già 1,4 milioni di persone erano state trasferite in altre zone della provincia, perché le acque avrebbero invaso i paesi in cui abitavano con il riempimento del bacino. Altre 100mila persone dovranno essere probabilmente trasferite nel corso dei prossimi tre – cinque anni per ridurre il rischio che possano essere vittime di frane e smottamenti.
Liu Yuan, un funzionario del governo cinese, ha spiegato a un programma della Radio nazionale cinese che sono stati identificate 5386 possibili aree a rischio intorno al bacino, che dovranno essere monitorate per valutare gli interventi da compiere e i possibili trasferimenti delle popolazioni interessate. Il lavoro di controllo e verifica è già iniziato in 335 zone intorno al lago artificiale. Le nuove informazioni si affiancano ai rapporti degli scorsi anni sulle condizioni in termini geologici dell’area delle Tre Gole. Tra il 2008 e il 2009 sono state identificate quasi duecento “emergenze geologiche” nella zona, in molti casi riconducibili alla costruzione della diga che ha notevolmente modificato l’ecosistema della zona.
Negli ultimi anni il governo cinese ha discusso in numerose occasioni gli effetti collaterali del progetto per la grande diga. Nel 2015 è stata implementato il più grande ascensore per navi del mondo, che consente di superare il dislivello tra il fiume Azzurro e il lago artificiale senza dover circumnavigare la diga, con un notevole risparmio di tempo. L’infrastruttura consente di produrre notevoli quantità di energia elettrica e riduce il rischio di inondazioni regolando l’andamento del fiume Azzurro, ma ha avuto un grande impatto sull’ambiente, sull’economia e sulla vita di tutti i giorni delle popolazioni locali. Molte delle persone trasferite in altre zone hanno faticato a rifarsi una vita, a trovare lavoro e a riallacciare rapporti con amici e conoscenti.
venerdì 19 maggio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 maggio.
Il 19 maggio 1802 Napoleone Bonaparte istituisce la "Legione d'Onore".
La Legion d’onore è un ordine cavalleresco istituito da Napoleone Bonaparte il 19 maggio del 1802. All’epoca Napoleone era Primo Console della Francia e decise di creare questo ordine allo scopo di eliminare dalle istituzioni, che erano troppo influenzate dai valori della rivoluzione, tutto ciò che riteneva fosse non direttamente controllabile dal suo potere assoluto. Infatti le istituzioni post-rivoluzionarie non erano più gestite dai nobili ma erano organizzate secondo criteri democratici. Pertanto, senza restituire alla nobiltà gli stessi poteri che aveva durante il periodo monarchico, Napoleone creò qualcosa che dal punto di vista gerarchico e del controllo istituzionale potesse assomigliare alle funzioni che i nobili esercitavano sul Paese.
La Legion d’onore è la più importante onorificenza concessa a militari e civili dalla Repubblica di Francia.
Il progetto fu elaborato da Bonaparte con l’aiuto del fratello Giuseppe e prevedeva la seguente struttura:
Quindici corti all’interno delle quali erano ripartiti gli ufficiali della legione.
Ogni corte poteva avere un massimo di sette grandi ufficiali, affiancati da venti comandanti, trenta ufficiali, e trecentocinquanta legionari.
Ogni appartenente alla Legione riceveva uno stipendio proporzionato al suo grado e al suo ruolo.
Non erano previste decorazioni. La medaglia con collare venne istituita in seguito.
Ruoli e ricompense dovevano essere approvati dal Gran Consiglio presieduto da Napoleone.
Lo scopo della legione era quello di ricompensare i militari più valorosi e fedeli a Napoleone. Erano previsti emolumenti anche per i civili ma il progetto riguardava soprattutto i militari.
La Legion d’onore fu approvata dal Gran Consiglio di Stato con una maggioranza risicata.
Tale approvazione comportò diverse modifiche, perché quando Napoleone la presentò al Consiglio, molti membri la considerarono troppo assolutista.
In seguito l’organizzazione del decreto rimase in un limbo da cui fu tolta l’11 luglio del 1804, quando venne approvata non più come sistema gerarchico funzionale allo Stato ma come decorazione da attribuire sia in tempo di guerra che in tempo di pace.
Tre settimane prima Napoleone era stato proclamato dal Gran Consiglio Imperatore di tutti i francesi.
La medaglia era formata da una stella con cinque raggi a doppia punta ed era dotata di un nastro rosso. Le parole riportate erano da un lato: “Napoléon, empereur des Français” e dall’altro “Honneur et patrie”. Vi era anche disegnata l’aquila imperiale. Quasi tutti i militari facevano parte dell’Ordine ed erano stati decorati con la medaglia.
Dopo la caduta di Napoleone l’Ordine fu conservato ma venne modificata la medaglia, soprattutto nei suoi aspetti estetici.
Attualmente viene conferita a militari e civili ma è stata modificata l’effige politica che onorava Napoleone, adesso si legge: “République francaise, 1870”, mentre la frase “onore alla patria” è rimasta.
Gli insigniti della onorificenza attualmente si dividono in cavaliere, ufficiale, commendatore, grand’ufficiale e gran croce. Colui che riceve l’onorificenza la conserva per tutta la vita. Tuttavia il riconoscimento può essergli revocato dal Capo dello Stato che decide se togliergli la Legione oppure solo alcune sue prerogative. Oggi la Legion d’onore può essere conferita anche a persone che non siano cittadini francesi.
A capo dell’Ordine vi è il Presidente della Repubblica francese che conferisce l’onorificenza della Legion d’onore. L’Ordine però è amministrato dal Gran Consiglio di Stato e da un consiglio interno che si occupa delle sue attività le quali riguardano le relazioni con le persone insignite della medaglia e la gestione di alcuni istituti educativi in cui studiano le figlie dei legionari.
Il 19 maggio 1802 Napoleone Bonaparte istituisce la "Legione d'Onore".
La Legion d’onore è un ordine cavalleresco istituito da Napoleone Bonaparte il 19 maggio del 1802. All’epoca Napoleone era Primo Console della Francia e decise di creare questo ordine allo scopo di eliminare dalle istituzioni, che erano troppo influenzate dai valori della rivoluzione, tutto ciò che riteneva fosse non direttamente controllabile dal suo potere assoluto. Infatti le istituzioni post-rivoluzionarie non erano più gestite dai nobili ma erano organizzate secondo criteri democratici. Pertanto, senza restituire alla nobiltà gli stessi poteri che aveva durante il periodo monarchico, Napoleone creò qualcosa che dal punto di vista gerarchico e del controllo istituzionale potesse assomigliare alle funzioni che i nobili esercitavano sul Paese.
La Legion d’onore è la più importante onorificenza concessa a militari e civili dalla Repubblica di Francia.
Il progetto fu elaborato da Bonaparte con l’aiuto del fratello Giuseppe e prevedeva la seguente struttura:
Quindici corti all’interno delle quali erano ripartiti gli ufficiali della legione.
Ogni corte poteva avere un massimo di sette grandi ufficiali, affiancati da venti comandanti, trenta ufficiali, e trecentocinquanta legionari.
Ogni appartenente alla Legione riceveva uno stipendio proporzionato al suo grado e al suo ruolo.
Non erano previste decorazioni. La medaglia con collare venne istituita in seguito.
Ruoli e ricompense dovevano essere approvati dal Gran Consiglio presieduto da Napoleone.
Lo scopo della legione era quello di ricompensare i militari più valorosi e fedeli a Napoleone. Erano previsti emolumenti anche per i civili ma il progetto riguardava soprattutto i militari.
La Legion d’onore fu approvata dal Gran Consiglio di Stato con una maggioranza risicata.
Tale approvazione comportò diverse modifiche, perché quando Napoleone la presentò al Consiglio, molti membri la considerarono troppo assolutista.
In seguito l’organizzazione del decreto rimase in un limbo da cui fu tolta l’11 luglio del 1804, quando venne approvata non più come sistema gerarchico funzionale allo Stato ma come decorazione da attribuire sia in tempo di guerra che in tempo di pace.
Tre settimane prima Napoleone era stato proclamato dal Gran Consiglio Imperatore di tutti i francesi.
La medaglia era formata da una stella con cinque raggi a doppia punta ed era dotata di un nastro rosso. Le parole riportate erano da un lato: “Napoléon, empereur des Français” e dall’altro “Honneur et patrie”. Vi era anche disegnata l’aquila imperiale. Quasi tutti i militari facevano parte dell’Ordine ed erano stati decorati con la medaglia.
Dopo la caduta di Napoleone l’Ordine fu conservato ma venne modificata la medaglia, soprattutto nei suoi aspetti estetici.
Attualmente viene conferita a militari e civili ma è stata modificata l’effige politica che onorava Napoleone, adesso si legge: “République francaise, 1870”, mentre la frase “onore alla patria” è rimasta.
Gli insigniti della onorificenza attualmente si dividono in cavaliere, ufficiale, commendatore, grand’ufficiale e gran croce. Colui che riceve l’onorificenza la conserva per tutta la vita. Tuttavia il riconoscimento può essergli revocato dal Capo dello Stato che decide se togliergli la Legione oppure solo alcune sue prerogative. Oggi la Legion d’onore può essere conferita anche a persone che non siano cittadini francesi.
A capo dell’Ordine vi è il Presidente della Repubblica francese che conferisce l’onorificenza della Legion d’onore. L’Ordine però è amministrato dal Gran Consiglio di Stato e da un consiglio interno che si occupa delle sue attività le quali riguardano le relazioni con le persone insignite della medaglia e la gestione di alcuni istituti educativi in cui studiano le figlie dei legionari.
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maggio
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