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venerdì 30 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 aprile.
Il 30 aprile 1945 Adolf Hitler ed Eva Braun si suicidano per evitare la cattura da parte delle truppe sovietiche.
Nella seconda metà dell'aprile 1945 gli eserciti anglo-americani avanzano inesorabilmente nel territorio occidentale della Germania prendendo la fondamentale zona industriale e mineraria della Ruhr e svariate altre città e regioni. Il contrattacco disperato di Hitler nelle Ardenne è miseramente fallito. A est i russi procedono ancora più rapidamente verso la capitale del Reich. Gli Alleati hanno deciso di lasciare ai sovietici Berlino e questi si accingono a lanciare l'attacco finale: Stalin pretende dai suoi generali il trionfo decisivo per il primo maggio, festa dei lavoratori.
Hitler è rintanato nel suo bunker sotto la Cancelleria a Berlino. Gli anni di malattia e abuso di droghe para-anfetaminiche lo hanno reso un fantasma e solo gli intrugli del suo singolare dottore, Theodor Morell, (su tutti il 'Vitamultin forte', farmaco iniettato a Hitler regolarmente dal marzo 1944 i cui componenti sono ignoti, ma che probabilmente conteneva molte sostanze illegali) lo tengono lucido, seppure per pochi momenti. Il Führer ha perso ormai quasi ogni contatto con la realtà: vaneggia di prodigiosi contrattacchi alle porte di Berlino, con armate che esistono solo sulla carta; è irascibile e scontroso. Esce solo per salutare alcuni ragazzini armati di biciclette e Panzerfaust (missili anticarro), mandati allo sbaraglio per difendere le rovine del folle sogno nazista. Eva Braun, la sua giovane amante, è rimasta al suo fianco, così come Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda che ha con sé la moglie Magda e i sei figli (il cui nome comincia per tutti con la lettera H, in onore di Hitler). Nel caos generale altri loschi personaggi si aggirano per i corridoi del bunker; tra tutti spicca Martin Bormann, il successore di Hess alla guida del partito nazista, che dal 1943 ha fatto di tutto per plagiare Hitler e volgerlo contro gli altri gerarchi. Nelle stanze interrate della Cancelleria si scatenano tetri balli e un'orgia di alcol e sesso, con i soldati che affogano nel piacere il terrore per i russi, i cui colpi di artiglieria si fanno sempre più vicini.
In questo decadente quadro si svolsero le convulse vicende che caratterizzarono la fine della Germania nazista.
Bormann era un ottimo burattinaio, tuttavia fino agli ultimi giorni del Terzo Reich non riuscì ad aizzare Hitler contro i suoi due gerarchi più importanti, Hermann Göring e Heinrich Himmler. Poco prima della sconfitta finale però gli atti di questi ultimi gli fornirono l'occasione che da tempo aspettava. Göring provò a prendere la redini del Paese informando il Führer tramite una lettera, rivendicando il diritto di succedere a Hitler nella carica di capo della Germania in conformità alle disposizioni del dittatore nazista del 1941. Bormann fomentò Hitler contro l'obeso maresciallo del Reich, manipolando i suoi ordini fino a mettere Göring agli arresti per alto tradimento e poi a condannarlo a morte. L'opulento Reichsmarschall non fu giustiziato solo per motivi di tempo.
Pochi giorni dopo la lettera di Göring, al bunker della Cancelleria arrivò una notizia se possibile peggiore per Hitler: il suo collaboratore più fidato, Himmler, 'der treue Heinrich' ('il fedele Heinrich'), come era solito chiamarlo, l'ex allevatore di polli che lui aveva fatto capo delle SS e ministro degli Interni, aveva tradito: aveva trattato un'impossibile pace separata con gli inglesi e gli americani a insaputa del suo capo. Il Reichsführer delle SS aveva così scavalcato Hitler senza nemmeno chiedere, cosa che almeno Göring aveva fatto. Il Führer era un uomo distrutto. Esautorò Himmler da ogni carica (per la gioia di Bormann) e ordinò di metterlo agli arresti, ma il capo delle SS fuggì camuffato da sottufficiale della Wehrmacht. Così Hitler sfogò la sua rabbia contro Hermann Fegelein, ufficiale di collegamento di Himmler, che fu fucilato nonostante fosse il marito della sorella di Eva Braun. L'ex capo delle SS fu catturato dai britannici pochi giorni dopo la caduta del Terzo Reich, ma riuscì a suicidarsi ingerendo una capsula di cianuro che teneva tra i denti, nonostante i febbrili tentativi di rianimazione dei soldati che lo sorvegliavano.
Poco prima di suicidarsi, Hitler imbastì un triste teatrino: si sposò con Eva Braun, la donna che lo amava più della sua stessa vita e che sull'atto di matrimonio firmò Eva, fece la B, poi la cancellò e scrisse Hitler, "Eva Hitler nata Braun". Ella, che aveva vissuto nascosta e segregata, realizzò così il sogno della sua vita: essere a tutti gli effetti la donna del Führer. I testimoni furono Goebbels e Bormann. Gli ospiti, una dozzina in tutto tra segretarie e militari, brindarono al "futuro della coppia". Subito dopo la cerimonia il Führer dettò il suo testamento politico e quello personale.
Il testamento politico lo divise in due parti: nella prima tornò agli anni della sua gioventù a Vienna e al "putsch" della birreria di Monaco, lasciò un appello ai posteri intriso della solita retorica antisemita e delle sue tradizionali menzogne sulle cause della guerra, predisse il ritorno del nazionalsocialismo e infine si scagliò contro le forze armate che a suo dire lo avevano tradito. Nella seconda si occupò del problema della successione: nominò nuovo Führer della Germania il grand'ammiraglio Dönitz, comandante dei sottomarini dall'inizio della guerra e a capo della Kriegsmarine, la marina del Reich, dal 1943, quando prese il posto di Erich Raeder, perché pensava nel suo delirio che i vertici delle altre due armi (esercito e aviazione) e delle SS lo avessero defraudato della vittoria. Dispose poi che Goebbels fosse nominato cancelliere, Bormann ministro del Partito (carica nuova e alquanto vaga) e Seyss-Inquart, il viscido avvocato viennese, ministro degli Esteri; completò il futuro gabinetto con nomi di seconda fascia.
Hitler affidò le sue ultime volontà a Bormann e Goebbels e poi dettò il suo testamento personale, in cui spiegò di essersi sposato per ripagare la fedeltà della sua donna, che aveva deciso di condividere con lui la sorte del suicidio pur di non subire l'onta della disfatta. Lasciò le sue poche proprietà di valore al partito e incaricò Bormann di provvedere a consegnare ai suoi parenti ogni oggetto che potesse avere valore di ricordo personale o che fosse utile per assicurare loro un tenore di vita piccolo-borghese. Era il 29 aprile 1945. Poco dopo, quello stesso giorno, giunse a Hitler la notizia della misera sorte di Mussolini. Il Führer aveva già deciso di porre termine alla propria vita, ma probabilmente l'orrendo destino del vecchio dittatore alleato lo convinse ad accelerare i tempi.
Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, giunse l'ultima ora per l'uomo che aveva messo a ferro e fuoco il mondo. Hitler scelse di avvelenarsi, ma poiché non si fidava del cianuro datogli dal traditore Himmler, lo fece provare sul suo amato cane, Blondi, una femmina di pastore alsaziano. Dopo aver preso il veleno con Eva Braun, Hitler si sparò comunque anche un colpo alla tempia.
Goebbels e Bormann bruciarono il corpo del Führer e di Eva Braun secondo la volontà del loro capo. Il mancato ritrovamento del cadavere di Hitler costituisce ancora oggi un mistero al centro di molte speculazioni e teorie complottistiche, che vorrebbero il Führer fuggito in Sud America; in realtà l'apertura degli archivi del KGB nel 1993 ha rivelato che esso fu identificato dai russi, che scelsero di cremarlo spargendo i resti nell'Elba affinché non diventasse una reliquia per neonazisti e fanatici.
Subito dopo l'ultimo saluto a Hitler, Bormann partì per raggiungere Dönitz e il nuovo governo. Di lui non si ebbero più notizie certe, ma verosimilmente morì dilaniato da una granata lungo la strada (anche se alcuni pensano che sia riuscito a fuggire). A Norimberga fu condannato a morte in contumacia.
Goebbels invece scrisse un'appendice al testamento politico di Hitler, dicendo che per la prima volta nella sua vita non gli avrebbe ubbidito. Non sarebbe mai diventato cancelliere, non poteva vivere in una Germania priva del suo Führer. Il primo maggio lui e la moglie decisero di farla finita, quasi certamente facendosi sparare alla nuca da un attendente (anche se una teoria vuole che sia stato Goebbels a fare fuoco sulla moglie per poi rivolgere l'arma contro se stesso), non prima però di aver avvelenato i loro sei figli. I pochi soldati rimasti nei pressi della Cancelleria diedero fuoco ai loro corpi prima di fuggire, ma i russi li trovarono prima che essi fossero del tutto arsi dalle fiamme e poterono identificare il piccolo e storpio ministro della Propaganda del Terzo Reich.
Il governo Dönitz si insediò il primo maggio, chiedendo al popolo un ultimo sforzo di guerra. Ma il grand'ammiraglio non era un pazzo e si affrettò a concludere la resa incondizionata della Germania, firmata dal generale Jodl il 7 maggio 1945. Meno di una settimana prima, proprio nel comunicato in cui si informava il popolo tedesco della nomina del nuovo Führer, era andata in scena l'ultima recita della Germania nazista. La radio del Reich aveva annunciato: "Il nostro amato Führer, Adolf Hitler, è caduto combattendo fino all'ultimo contro il bolscevismo". Il Terzo Reich perì così com'era vissuto: nella menzogna.

giovedì 29 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 aprile.
Il 29 aprile 1961, al teatro dell'Opera di Reggio Emilia, debutta un promettente tenore: si chiama Luciano Pavarotti.
Nato il 12 ottobre 1935 a Modena, il celebre tenore emiliano ha manifestato fin da subito una precoce vocazione al canto, come testimoniato dai resoconti familiari. Non solo infatti il piccolo Luciano saliva sul tavolo della cucina per le sue esibizioni infantili ma, spinto dall'ammirazione per il padre, anch'egli tenore dilettante (dotato di bellissima voce e cantante nella "Corale Rossini" di Modena), passava intere giornate davanti al giradischi, saccheggiando il patrimonio discografico del genitore. In quella collezione si celavano tesori di tutti i tipi, con gran prevalenza per gli eroi del belcanto, che Pavarotti imparò subito a riconoscere e ad imitare.
I suoi studi però non sono stati esclusivamente musicali e anzi per lungo tempo questa era solo una passione coltivata in privato.
Adolescente, Pavarotti si iscrive alle magistrali con lo scopo di diventare insegnante di educazione fisica, cosa che si stava quasi per verificare, avendo egli insegnato per ben due anni alle classi elementari. Parallelamente, per fortuna, proseguiva gli studi di canto con il Maestro Arrigo Pola (di cui seguirà i principi e le regole per tutta la sua lunga carriera), e in seguito - quando tre anni più tardi Pola diventa tenore di professione e si trasferisce per lavoro in Giappone - con il Maestro Ettore Campogalliani, con il quale perfeziona il fraseggio e la concentrazione. Questi sono, e resteranno per sempre, secondo le parole del Maestro, i suoi unici e stimatissimi insegnanti.
Nel 1961 Pavarotti vince il concorso internazionale "Achille Peri" che segna il suo vero esordio sulla scena canora.
Finalmente, dopo tanto studio, arriva il tanto atteso debutto, avvenuto a ventisei anni (precisamente il 29 aprile del 1961), al Teatro Municipale di Reggio Emilia con un'Opera divenuta per lui emblematica, ossia la "Bohème" di Giacomo Puccini, più volte ripresa anche in tarda età, sempre nei panni di Rodolfo. Sul podio c'è anche Francesco Molinari Pradelli.
Il 1961 è un anno fondamentale nella vita del tenore, una sorta di spartiacque fra la giovinezza e la maturità. Oltre al debutto, è l'anno della patente e del matrimonio con Adua Veroni, dopo un fidanzamento durato ben otto anni.
Nel 1961-1962 il giovane tenore interpreta ancora La Bohème in diverse città d'Italia, ottiene pure qualche scrittura fuori confine e intanto si cimenta con il ruolo del Duca di Mantova in un'altra opera particolarmente adatta alle sue corde: "Rigoletto". Va in scena a Carpi e a Brescia ma è sotto la guida del maestro Tullio Serafin, al Teatro Massimo di Palermo, che ottiene un successo grandissimo e imprime una nuova, significativa svolta alla sua carriera. Da quel momento viene invitato da numerosi teatri: in Italia è già considerato una promessa, ma all'estero, nonostante qualche incursione prestigiosa, ancora non si è imposto.
È nel 1963 che, grazie a una fortunata coincidenza, raggiunge la notorietà internazionale. Sempre sulla via dell'opera La Bohème, al Covent Garden di Londra il destino di Luciano Pavarotti incrocia quello di Giuseppe Di Stefano, uno dei suoi grandi miti giovanili. Viene chiamato per fare alcune recite dell'opera prima dell'arrivo dell'acclamato tenore, ma poi Di Stefano si ammala e Pavarotti lo sostituisce. Lo rimpiazza in teatro e anche nel "Sunday Night at the Palladium", uno spettacolo televisivo seguito da 15 milioni di inglesi.
Ottiene un enorme successo e il suo nome comincia a prendere peso sulla scena mondiale. La Decca gli propone le prime incisioni, inaugurando così la favolosa produzione discografica pavarottiana. Il giovane direttore d'orchestra Richard Bonynge gli chiede di cantare a fianco di sua moglie, la straordinaria Joan Sutherland.
Nel 1965 Pavarotti sbarca per la prima volta negli Stati Uniti, a Miami, e insieme alla sopraffina, acclamata Sutherland è interprete di una applauditissima Lucia di Lammermoor diretta da Bonynge. Sempre con la Sutherland debutta con successo al Covent Garden di Londra nell'opera "La Sonnambula". E prosegue con una fortunatissima tournée australiana che lo vede protagonista di "Elisir d'Amore" e, sempre insieme alla Sutherland, di "La Traviata", "Lucia di Lammermoor" e ancora "La Sonnambula".
Ma ecco che si riaffaccia "La Bohème": il 1965 è pure l'anno del debutto alla Scala di Milano, dove il tenore viene espressamente richiesto da Herbert von Karajan per una recita dell'opera pucciniana. L'incontro lascia un segno forte, tanto che nel 1966 Pavarotti viene nuovamente diretto da Karajan nella "Messa da Requiem" in memoria di Arturo Toscanini.
Del 1965-1966 sono anche le incisive interpretazioni di opere come "I Capuleti e i Montecchi" con la direzione di Claudio Abbado e "Rigoletto" diretto da Gianandrea Gavazzeni.
Ma il best del 1966 è il debutto di Pavarotti al Covent Garden, insieme a Joan Sutherland, in un opera divenuta leggendaria per la "sequenza dei nove do di petto": "La Figlia del Reggimento". Per la prima volta un tenore emette a piena voce i nove do di "Pour mon âme, quel destin!", scritti da Donizetti per essere emessi in falsetto. Il pubblico esulta, il teatro è scosso da una sorta di esplosione che investe pure la casa reale inglese presente al gran completo.
Gli anni Sessanta sono fondamentali anche per la vita privata del tenore. È di quel periodo la nascita delle amatissime figlie: nel 1962 nasce Lorenza, seguita nel 1964 da Cristina e infine nel 1967 arriva Giuliana. Pavarotti ha un legame fortissimo con le figlie: le considera il bene più importante della sua vita.
Il prosieguo della carriera pavarottiana è tutto sulla falsariga di questi strepitosi successi, in una teoria di incisioni, interpretazioni e ovazioni sui palchi di tutto il mondo e con i più famosi maestri che al solo elencarli può cogliere un senso di vertigine. Tutto questo, ad ogni modo, è la solida base su cui si erge il mito, anche popolare, di Pavarotti, un mito che, non bisogna dimenticarlo, si è andato alimentando in primo luogo sulle tavole del palconscenico e grazie alle indimenticabili interpretazioni fornite nel repertorio "colto", tanto che più d'uno vede nel tenore modenese non solo uno dei più grandi tenori del secolo, ma anche la stella in grado di oscurare la fama di Caruso.
Pavarotti ha infatti un indiscutibile pregio, quello di avere una delle voci più squisitamente "tenorili" che si siano mai sentite, un vero miracolo della natura. Possiede insomma una voce molto estesa, piena, argentina, a cui si unisce una capacità di fraseggiare con particolare suggestione nel canto affettuoso e tenero, lo stesso che ben si addice al repertorio di Donizetti, Bellini e in talune opere di Verdi.
In seguito al successo planetario in campo operistico, il tenore ha esteso le sue esibizioni al di fuori dallo stretto ambito del teatro, organizzando recitals in piazze, parchi e quant'altro. Ha coinvolto migliaia di persone nei più disparati angoli della Terra. Un esito clamoroso di questo genere di manifestazioni si ha nel 1980, al Central Park di New York, per una rappresentazione del "Rigoletto" in forma di concerto, che vede la presenza di oltre 200.000 persone. A fianco di ciò, fonda il concorso "Pavarotti International Voice Competition", che dal 1981 si svolge ogni tre o quattro anni a Philadelphia per volontà del maestro.
La fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta vedono il maestro impegnato in grandi concerti e grandi recite internazionali. Nel 1990, insieme a José Carreras e Placido Domingo, Pavarotti dà vita a "I Tre Tenori", un'altra grande trovata che assicura esiti, in termini di ascolto e di vendite, altissimi.
Nel 1991 affascina più di 250 mila persone con un grande concerto a Hyde Park di Londra. Nonostante la pioggia battente, che cade pure sugli entusiasti Principi di Galles Carlo e Diana, lo spettacolo diviene un evento mediatico, trasmesso dal vivo in televisione in tutta Europa e negli Stati Uniti. Il successo dell'iniziativa londinese si ripete nel 1993 al Central Park di New York, dove approda una mastodontica folla di 500 mila spettatori. Il concerto, trasmesso dalla televisione, viene visto in America e in Europa da milioni di persone ed è senza dubbio una pietra miliare nella vita artistica del tenore.
Grazie a questi riscontri popolare sempre più estesi, Pavarotti ha poi intrapreso una più controversa carriera all'insegna della contaminazione dei generi, effettuata perlopiù nell'organizzazione di colossali concerti di grande richiamo, grazie soprattutto all'intervento, come "ospiti" di stelle del pop di prima grandezza. E' il "Pavarotti & Friends", dove l'eclettico Maestro invita artisti di fama mondiale del pop e del rock per raccogliere fondi a favore di organizzazioni umanitarie internazionali. La kermesse si ripete ogni anno e vede la presenza di numerosissimi superospiti italiani e stranieri.
Nel 1993 riprende "I Lombardi alla prima crociata", al Metropolitan di New York,un'opera che non interpreta dal 1969, e festeggia i primi venticinque anni di carriera al MET con un grande gala. A fine agosto, durante il concorso ippico Pavarotti International, incontra Nicoletta Mantovani, che diventa poi compagna nella vita e collaboratrice artistica. Il 1994 è ancora all'insegna del Metropolitan dove il tenore debutta con un'opera del tutto nuova per il suo repertorio: "Pagliacci".
Nel 1995 Pavarotti compie una lunga tournée sudamericana che lo porta in Cile, Perù, Uruguay e Messico. Mentre nel 1996 debutta con "Andrea Chénier" al Metropolitan di New York e canta in coppia con Mirella Freni alle celebrazioni torinesi per il centenario dell'opera "La Bohéme". Nel 1997 riprende "Turandot" al Metropolitan, nel 2000 canta all'Opera di Roma per il centenario di "Tosca" e nel 2001, sempre al Metropolitan, riporta in scena "Aida".
Luciano Pavarotti ha oltrepassato i quarant'anni di carriera, una carriera intensa e piena di successi, offuscata solo da qualche ombra passeggera (ad esempio la celebre "stecca" presa alla Scala, un teatro peraltro dal pubblico particolarmente difficile ed implacabile). Nulla sembrava d'altronde incrinare mai l'olimpica serenità del Maestro, forte di una piena soddisfazione interiore che gli ha fatto dichiarare: "Penso che una vita spesa per la musica sia una vita spesa in bellezza ed è a ciò che io ho consacrato la mia vita".
Nel luglio 2006 viene operato d'urgenza in un ospedale di New York per l'asportazione di un tumore maligno al pancreas. Poi si stabilisce nella sua villa nel modenese cercando di condurre una personale lotta contro il cancro. All'età di 71 anni si è spento il 6 settembre 2007.
Ai funerali, celebrati nel Duomo di Modena dall'allora Arcivescovo Metropolita Mons. Benito Cocchi, erano presenti 50.000 persone, membri di istituzioni nazionali e internazionali ed artisti, tra i quali Zubin Mehta, Bono, Zucchero, Gianni Morandi e Jovanotti. Poco prima dell'inizio della cerimonia religiosa il soprano Raina Kabaivanska (autrice negli anni di grandi duetti con il maestro) ha intonato l'Ave Maria di Verdi. Al momento della distribuzione della Comunione, Andrea Bocelli ha cantato l'Ave Verum Corpus di Mozart. Venne poi diffuso il canto del Panis Angelicus di César Franck, che Luciano Pavarotti con il padre Fernando intonarono la Notte di Natale del 1986 in un Duomo gremito di fedeli, durante la solenne celebrazione della Natività officiata dall'allora Arcivescovo Mons. Bartolomeo Santo Quadri.
Prima del rito di commiato, Romano Prodi, all'epoca Presidente del Consiglio, tenne l'orazione funebre. Il giorno precedente aveva reso omaggio al feretro e colloquiato con i familiari il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. All'uscita della salma, gli resero omaggio le Frecce Tricolori, dipingendo col Tricolore italiano il cielo di Modena.
Per sua espressa volontà, è stato sepolto nel piccolo cimitero di Montale Rangone, accanto ai genitori e al figlioletto Riccardo.
Il patrimonio lasciato da Pavarotti agli eredi è stato stimato in 30-40 milioni di euro. Il tenore redasse diversi testamenti, al vaglio per stabilire l'entità reale dell'eredità ed i beneficiari, ma anche causa di vertenze e polemiche: un testamento redatto a New York nell'estate 2006; uno olografo del 4 dicembre 2006; uno del 13 giugno 2007 depositato a Modena; uno data 29 luglio 2007 redatto a Pesaro.
Dopo la morte di Pavarotti scoppiarono continue polemiche e ipotesi sulla sua eredità; un'amica del tenore accusò la seconda moglie, Nicoletta Mantovani, di averlo raggirato a fini ereditari, di avergli impedito i contatti con i vecchi amici e con le figlie, di aver ricevuto una disperata confessione da Pavarotti stesso, che le avrebbe chiesto di parlare solo dopo i suoi funerali.
A queste affermazioni la Mantovani rispose con una querela ed una richiesta di risarcimento di 30 milioni di euro. Nell'aprile del 2008, evitandosi così una lunga battaglia legale, le parti in causa (la Mantovani e due amiche del tenore) raggiunsero un accordo per ritirare la denuncia, che non portò ad alcun risarcimento danni, ma solo ad alcune lettere chiarificatrici.
L'inchiesta contro ignoti della Procura di Pesaro per circonvenzione d'incapace fu archiviata nel dicembre 2008. Nicoletta Mantovani rispose pubblicamente solo una volta, il 27 ottobre 2007, nella trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio, nella quale confessò anche di essere, da tredici anni, malata di sclerosi multipla.
Nel luglio 2008, Nicoletta Mantovani e le tre figlie del tenore nate dal matrimonio con la prima moglie hanno raggiunto un accordo per la divisione di alcuni immobili interessati dalla questione dei testamenti.

mercoledì 28 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 aprile.
Il 28 aprile 1945 Benito Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati nei pressi di Dongo, dopo che il tentativo di fuga verso la Germania era stato sventato.
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana, dopo aver rifiutato una proposta di resa offertagli dai rappresentanti del C.L.N. con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, la sera del 25 aprile Mussolini lascia Milano e parte in direzione del lago di Como, verso la frontiera con la Svizzera. I motivi di tale scelta, a quanto sembra, furono il tentativo di raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane alcuni gerarchi fascisti prospettavano di costituire un estremo baluardo di resistenza, oppure tentare di entrare nella neutrale Svizzera ed avviare da lì trattative con diplomatici americani. La notte raggiunge la prefettura di Como e si ferma lì fino all'indomani.
Il pomeriggio del 26 aprile riparte, scortato da alcuni gerarchi fascisti, dall'amante Claretta Petacci che l'aveva raggiunto nel frattempo e da un gruppo di nazisti che avevano ricevuto l'ordine da Hitler di scortare verso la Germania il Duce (o sorvegliarlo, onde evitare che tentasse la fuga in Svizzera?). Dopo essersi spostato nel piccolo paese di Grandola ed Uniti, esattamente nella frazione di Cardano, Mussolini alloggia per la notte presso l'Hotel Miramare (cosi indicato sulle cartine militari dell'epoca, identificato localmente come "Hotel Miravalle"). Questo Hotel era sito a pochi metri di distanza dal campo di Golf di Menaggio frequentato da persone vicine agli Angloamericani, in prossimita della stazione ferroviaria di Cardano, linea Menaggio-Porlezza (attualmente non più in uso). La Zona fortificata come ultimo fronte fin già dal 1915 (ancora individuabile dalle costruzioni presenti), è nei pressi della frontiera; era ben conosciuta anche per alcuni studi topografici fatti nel periodo fascista per il possibile sfruttamento minerario, ed inoltre per la vicinanza con il confine. Appare incredibile che Mussolini non abbia tentato di passare il confine in quelle zone, per evitare di essere fermato da qualche posto di blocco (i partigiani della zona era molto presenti sul lago di Como, poco verso quel confine che era zona franca di contrabbando di spalloni, i quali avevano facile accesso alla Svizzera). Ciò che forse lo fermò, è che non sapeva che le truppe Svizzere presenti sin a qualche giorno prima sul confine erano state spostate presso la frontiera di Chiasso, per impedire lo sbando dei militari tedeschi in ritirata.
La mattina del 27 aprile il Duce (non riuscendo o non volendo distaccarsi dai tedeschi), insieme ai gerarchi fascisti con famiglie al seguito, ritorna verso il lungolago a Menaggio e si aggrega ad una colonna di tedeschi in ritirata verso il nord per tentare di passare il confine verso i Grigioni, frontiera più disponibile e meno difesa dagli Svizzeri. Il convoglio prosegue fino a Musso. Lì viene fermato dai partigiani, che iniziarono a trattare coi tedeschi riguardo al permesso di poter proseguire e giungono al seguente accordo: i tedeschi possono proseguire per alcuni chilometri fino al prossimo posto di blocco partigiano, ma i fascisti saranno arrestati subito. Il Duce, su consiglio di un ufficiale tedesco, si traveste con un'uniforme nazista e sale su uno dei camion dei soldati tedeschi. Gli altri gerarchi fascisti vengono quasi tutti arrestati ed il giorno seguente fucilati sul lungolago. Gli autocarri tedeschi (con a bordo il Duce) proseguono, ma giunti al successivo posto di blocco viene fatto un controllo e Mussolini viene riconosciuto da un partigiano, (soprannominato Bill) e immediatamente arrestato. Viene portato via sotto scorta armata e viene piantonato da due giovani partigiani presso una famiglia di antifascisti (casa De Maria) a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, dove nel frattempo viene portata anche Claretta, che aveva espresso il desiderio di poter condividere la prigionia con lui.
Fin qui l'esigua traccia certa. In seguito si innestano invece diverse altre ricostruzioni che non solo sono fra loro in qualche punto contrastanti, ma che nemmeno furono sempre narrate, nel tempo, allo stesso modo.
Da qui prelevati, secondo la versione ufficiale, poi cambiata almeno quattro volte dallo stesso colonnello Valerio (nome di battaglia del partigiano Walter Audisio), poco dopo le ore 16 del 28 aprile Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati a Giulino di Mezzegra. Eseguite le condanne degli altri gerarchi a Dongo, il 29 aprile i cadaveri sono trasportati a Milano ed esposti in piazzale Loreto. La folla - memore della strage lì perpetrata dei nazifascisti il 10 agosto del 1944, quando 15 partigiani erano stati fucilati ed esposti al pubblico - subito si accanisce contro i corpi. Per evitare lo scempio, i cadaveri vengono issati a testa in giù e appesi alla pensilina di un distributore di benzina.
Permangono dubbi sui materiali esecutori della condanna a morte, sulle reali motivazioni, sui passaggi di consegne dal luogo della cattura sul camion tedesco fino a piazzale Loreto, sugli eventuali rapporti con inviati di potenze straniere; la quantità di dubbi è tale da inficiare conseguentemente l'attendibilità anche dei riferiti dettagli tecnici e pratici, ad esempio luoghi e persone.
Walter Audisio (conosciuto sia col nome di battaglia di colonnello Valerio che colonnello Giovanbattista Magnoli) era al tempo capo di un raggruppamento delle forze partigiane con funzioni di polizia. La sua figura emerse, direttamente con riferimento a questi fatti, negli anni '60, quando il quotidiano "L'Unità" (organo del PCI, per il quale Audisio fu poi deputato) diede notizia del suo coinvolgimento. Metà della notizia non era in verità nuovissima, essendo il nome del colonnello Valerio già circolato nell'immediato, ciò malgrado non se ne conosceva l'identità e l'Audisio non aveva mai dato modo di parlare di sé, solo essendo noto in qualche ambiente di militanza; tutti "sapevano" che Mussolini era stato fucilato dal colonnello Valerio, ma nessuno avrebbe detto che si trattasse di Audisio. Identificandosi con quel Valerio, Audisio sostenne, non senza qualche contraddizione fra le sue stesse versioni, di essere in pratica il responsabile e l'autore materiale della fucilazione di Mussolini.
Nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, affermò, ricevette dal generale Raffaele Cadorna l'ordine di uccidere Mussolini. Si trattava comunque di un ordine che contraddiceva le clausole dell'armistizio di Cassibile e gli accordi sottoscritti dal CLNAI, secondo i quali Mussolini doveva essere consegnato vivo agli Alleati. Secondo alcuni storici parte delle forze partigiane temevano che una volta consegnato agli alleati sarebbe stato rimesso al potere nell'arco di qualche anno, da qui la decisione di non rispettare gli accordi dell'armistizio e di procedere alla sua condanna a morte. Alle 7 del mattino successivo, un convoglio guidato dal colonnello Valerio partì alla volta di Como, ove si trattenne fino alle 12.15, per poi spostarsi a Dongo, dove arrivò alle 14.10. Qui Valerio e i suoi uomini avrebbero comunicato ai partigiani locali che avevano in custodia Mussolini ed i gerarchi dal pomeriggio avanti, e di voler fucilare i prigionieri.
Di fronte al rifiuto dei partigiani locali di rivelare dove si trovasse Mussolini, che essi volevano portare a Como, Audisio ricorse ad un espediente ed alle 15.15 poté partire con una Fiat 1100 nera verso Giulino di Mezzegra, distante 21 km, più a sud, dove - in frazione Bonzanigo l'ex dittatore era tenuto prigioniero presso una famiglia di Antifascisti (casa De Maria).
Da questo punto la narrazione diviene meno chiara. Audisio fornì ben quattro differenti versioni della sua presentazione a Mussolini. Ciò provocò in seguito polemiche e dubbi sul modo in cui effettivamente si svolsero i fatti.
Molti testimoni affermarono che, usciti di casa, Audisio, i partigiani e Mussolini si recarono alla macchina. Nessuno dei testimoni ha però saputo dire con esattezza quanti fossero i partigiani di scorta e come fossero vestiti i prigionieri. Mussolini e la Petacci, saliti dietro, furono fatti scendere in un angusto vialetto (via XXIV Maggio) davanti a Villa Belmonte, un'elegante residenza della zona situata in posizione assai riparata. Quello che lì accadde è ancora oggi poco chiaro, complici le diverse versioni di Valerio così come di Guido e Michele Moretti, gli altri 2 partigiani che si trovavano con lui in quel momento (l'autista dell'auto e l'altro passeggero sul sedile anteriore).
Sempre secondo Valerio, apprestandosi ad eseguire la fucilazione, gli si incepparono il mitra e la pistola. Per sparare a Mussolini usò perciò l'arma di Moretti, il quale però, dopo la morte di Audisio, affermò di essere stato lui a sparare perché le armi di Audisio non funzionavano. Inoltre Guido affermò d'aver sparato il colpo di grazia, che però venne rivendicato anche da un altro partigiano azzanese.
Alle 17 il colonnello Valerio ritornò a Dongo per fucilare gli altri gerarchi, dopo aver lasciato alle 16.20 Guido e Moretti di guardia ai corpi davanti a Villa Belmonte. Alle 17.48, a Dongo, tutti i 16 gerarchi erano morti.
Caricati i loro cadaveri su un camion, Valerio partì per Milano verso le 20, passando a recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci. Durante il viaggio di ritorno la colonna si imbatté in altri partigiani e in posti di blocco alleati che le diedero qualche problema. Tuttavia alle 3.40 di domenica 29 aprile giunse in Piazzale Loreto.
Ad oggi nessuno sa con esattezza chi diede l'ordine di portare i cadaveri in quel piazzale. Il CLN emise in giornata un messaggio di deplorazione firmato da tutte le sue componenti, inclusa la comunista. Nessuno, tuttavia, si assunse la responsabilità di aver ordinato il trasporto delle salme in quel luogo. Solo Valerio disse più tardi che l'ordine era partito dal comando generale, ma non venne creduto. Audisio decise di scaricare i cadaveri nel lato della piazza in cui il 10 agosto 1944, per rappresaglia, i tedeschi avevano fatto uccidere dai fascisti quindici partigiani. I corpi dei 15 uomini erano stati lì abbandonati in custodia a militi fascisti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Qualche ora dopo la piazza si riempì, complice un passaparola che aveva in un lampo attraversato tutta Milano. Iniziava così una vicenda che pochi anni fa è stata resa di pubblica notorietà nei suoi dettagli più scabrosi con la pubblicazione di alcuni reperti filmati girati dalle truppe americane di occupazione, che per decenni erano rimasti secretati; ne venivano confermati i resoconti già in precedenza anticipati da altri testimoni (ad esempio Indro Montanelli), ma che non erano stati creduti per la loro crudezza.
Nella piazza si udirono scariche di mitra, le prime file di folla venivano spinte verso i cadaveri calpestandoli, prendendoli a calci. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi e persone delle prime file sputavano sui corpi, a Mussolini fu messo in mano un gagliardetto fascista, fu sfilata la cintura e tolto lo stivale destro (presumibilmente i due oggetti furono presi per essere conservati come ricordo del duce) e qualcuno orinò sul cadavere della Petacci.
Al gruppo dei cadaveri venne aggiunto anche il corpo senza vita del gerarca Achille Starace, appena catturato nei dintorni, mentre ignaro di tutto era uscito di casa in tuta da ginnastica per la quotidiana corsa, e fucilato con una raffica di mitra alla schiena. Alle 11, dopo che una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte aveva lavato abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi e ortaggi, gli stessi pompieri ne appesero cinque per i piedi, alla pensilina del distributore di carburante ESSO allo sbocco di Viale Brianza, secondo alcuni per fare in modo che tutti potessero vedere i cadaveri, secondo altri quasi a voler preservare i più odiati dall'oltraggio della folla.

martedì 27 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 aprile.
Il 27 aprile 1981 la XEROX presenta la prima interfaccia grafica per computer che sfrutta un puntatore esterno alla tastiera, chiamato mouse. Era stato inventato 14 anni prima, ma non era mai stato sfruttato appieno proprio per la mancanza di una interfaccia adatta.
La storia strana e bizzarra del mouse inizia 54 anni fa quando Douglas Engelbart, ricercatore del Istituto tecnologico del Massachusetts (MIT), si presenta per la prima volta al centro dell'IBM per presentare la sua nuova invenzione, il Topo Meccanico. Incredibilmente l'IBM rifiuta l'offerta non credendo al successo e all'utilità di un oggetto che avesse un nome del genere. E' la XeroX a investire sul progetto di Engelbart e nasce il primo mouse meccanico ("Bug" il primo mouse Bug di legno); inizia la delicata missione di ridurre la distanza tra uomo e macchina.
Totalmente rivestito in legno, dotato di due levette per il movimento in orizzontale e in verticale,  il primo mouse anticipa l'interazione elettronica con lo spazio bidimensionale già prima della nascita del personal computer. Meno di dieci anni dopo Bill English riprende il meccanismo di Engelbart e da vita al primo mouse interamente in plastica e dotato di una sfera per registrare i movimenti in tutte le direzioni.
Bisogna aspettare gli anni 80 per ufficializzare l'ingresso di questo misterioso oggetto nelle case di tutti gli utenti. E' Steve Jobs, padron di casa Apple e inventore del primo computer da scrivania Macintosh, a introdurre e integrare il mouse nei personal computer di tutti gli utenti. Inizia la prima vera diffusione su larga scala del mouse che nel frattempo riceve sempre più consensi e diventa centrale nel rapporto uomo-elaboratore. Si sviluppano diversi modelli, il mouse cambia le sue caratteristiche tecniche e soprattutto cambia pelle.
Scompare nel frattempo la sfera sottostante, sostituita da un led luminoso a infrarossi che garantisce maggiore precisione e velocità nel suo utilizzo. Mouse senza fili, coloratissimi, personalizzati e personalizzabili, di dimensioni sempre più piccole e dalle forme più strane invadono il mercato: il topo elettronico da strumento si trasforma in puro gadget. Anche l'industria dell'intrattenimento scopre l'utilità del mouse e l'Atari lancia Football, una sfera a misura di mano per interagire meglio con i giochi della fiorente consolle.
Oggi la sua utilità lascia spazio all'evoluzione tecnologica che nel frattempo ha dato vita a nuovi strumenti di interazione tattile e vocale. Il computer diventa più intelligente e il topo più famoso e carino al mondo sarà destinato a scomparire ma negli anni il suo contributo è stato fondamentale, il mouse ha dato vita ad un rapporto nuovo tra uomini e computer. Non ci rimane che dire missione compiuta e augurare tanti auguri a questo utilissimo oggetto!

lunedì 26 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 aprile.
Il 26 aprile 1478 a Firenze, venne ordita e messa in pratica la cosiddetta "congiura dei Pazzi".
Francesco de Pazzi, famiglia di banchieri fiorentina che per più di una volta era andata contro le decisioni dei Medici, tentò di convincere i suoi parenti a detronizzare Lorenzo de Medici e suo fratello Giuliano, per impossessarsi del potere della città tramite un rovesciamento del governo. I cospiratori di questo complotto compresero che il loro successo dipendeva dall'uccisione di entrambi i fratelli Medici. Fu ingaggiato per compiere l'attentato Gian Battista da Montesecco, capitano mercenario al servizio dei Riario, e una volta compiuto il fatto, Jacopo de Pazzi avrebbe incitato la città ad insorgere in nome della libertà, mentre le truppe di Imola organizzate dal Papato e un reparto di Città di Castello, guidati da Lorenzo Giustini sarebbe stato pronto per invadere il territorio fiorentino.
Il sicario Gian Battista da Montesecco era riluttante a compiere quell'uccisione senza l'approvazione del Papa Sisto IV. Furono così convocati i Pazzi e il sicario in Vaticano dal Papa. In un primo momento Sisto IV si pronunciò contrario all'uccisione di Medici anche se espresse tale opinione su Lorenzo: << Io desidero che il governo venga tolto dalle mani di Lorenzo, è un uomo violento e cattivo che non ha alcun riguardo per noi. Se egli venisse espulso, potremmo fare ciò che vogliamo della Repubblica>> poi con le rassicurazione del Salviati approvò che Lorenzo fosse spodestato con ogni mezzo possibile.
Il problema seguente fu l'occasione per liberarsi dei due fratelli: In un primo momento fu proposto d'invitare Lorenzo a Roma, un viaggio dal quale non avrebbe fatto ritorno e Giuliano in tempi posteriori, tuttavia Lorenzo rifiutò l'invito. I cospiratori si diressero così a Firenze. Girolamo Pazzi sfruttò la persona di suo nipote Raffaele Riario, che in seguito ad una lettera scritta al Magnifico fu invitato a visitare Villa Medici di Fiesole. L'attentato non ebbe luogo in quanto Giuliano non potè accompagnare Lorenzo a ricevere l'ospite, così tutto fu posticipato alla settimana seguente, quando Raffaele Riario espresse il desiderio di osservare la collezione di Lorenzo.
Lorenzo acconsentì al desiderio del giovane cardinale, dandogli incontro all'ora di pranzo della domenica successiva dopo che la famiglia Medicea si fosse recata alla Messa nella Cattedrale. Si era deciso che gli assassini agissero durante il pasto ma sorse un problema: Giuliano non si sarebbe recato a pranzo con il fratello ed il Cardinale, così fu progettato di compiere il delitto durante la sacra cerimonia nel momento dell'elevazione dell'Ostia. Il Montesecco si rifiutò di compiere un omicidio in un luogo sacro, così al suo posto furono ingaggiati due preti che si assunsero la responsabilità di uccidere Lorenzo; mentre per l'assassinio di Giuliano furono incaricati Francesco Pazzi e Bernardo Bandini Baroncelli.
Il 26 aprile era il giorno prestabilito, così quando Giuliano si recò verso la Cattedrale Francesco Pazzi lo abbracciò con gesto amichevole assicurandosi che così il secondogenito di Piero il Gottoso non indossasse la maglia metallica. Quando giunse il momento il Baroncelli trapassò con un pugnale il fianco di Giuliano facendolo barcollare di fronte a Francesco Pazzi che inflisse al suo corpo ben diciannove colpi di spada. Invece vicino al coro, Lorenzo sguainando prontamente la spada riuscì a ribattere i colpi dei suoi assalitori, e scappando verso l'altare si imbattè con gli assassini di suo fratello, così corse colpito di striscio al collo verso la sacrestia. I suoi amici chiusero le porte bronzee ed uno di essi gli succhiò la lieve ferità che aveva sul collo per timore che il pugnale che l'aveva colpito fosse stato immerso nel veleno.
Nella Cattedrale la confusione era sovrana, Giuliano era disteso a terra morente sul selciato, Lorenzo era nella sacrestia, i fedeli scapparono informando i loro concittadini che entrambi i fratelli Medici avevano perso la vita in un attentato. Il Cardinale Raffaello si era nascosto in un'altra Sacrestia della Cattedrale; l'arcivescovo Salviati insieme ad un gruppo di suoi sostenitori si era recato verso Palazzo Pubblico con tutta l'intenzione di attuare un vero e proprio colpo di stato, ma questi sorprese il Gonfaloniere di Giustizia, Cesare Petrucci a pranzo con i membri della Signoria. Il Gonfaloniere avendo valutato la situazione decise di suonare le campane in modo che il popolo potesse difendere il governo e che gli assalitori non scappassero.
La città era terrorizzata al solo pensiero che entrambi i fratelli Medici avessero perso la vita, ma poche ore dopo il Magnifico si affacciò al balcone della sua dimora. Così il popolo in parte rassicurato si diede alla caccia degli attentatori: Francesco de Pazzi e l'Arcivescovo Salviati furono impiccati alle finestre del Palazzo Pubblico. Giorni dopo Jacopo de Pazzi, i due preti e Renato de Pazzi subirono la stessa sorte. Al Montesecco, dopo che fu accertata la sua parte nella cospirazione fu data una morte da soldato, morendo di spada. In tutto a Firenze furono uccise ottanta persone, il popolo aveva dimostrato in quell'occasione un grande affetto e fiducia nella Signoria dei Medici. I principali cospiratori della congiura furono ritratti impiccati in un affresco sui muri della prigione, vicino Palazzo Pubblico da Sandro Botticelli come esempio di infedeltà.
L'affresco fu distrutto dopo che i Medici vennero espulsi da Firenze nel 1494. Da allora il 26 aprile divenne un giorno di lutto per la scomparsa del fratello del Magnifico. In seguito si seppe che Giuliano aveva avuto un figlio illegittimo che Lorenzo prese con sè fornendogli un ottima educazione e facendogli svolgere la carriera ecclesiastica, avviando i suoi passi sul cammino che l'avrebbe portato all'ascesa al Papato come Clemente VII, il primo pontefice della Famiglia Medicea. In ultima analisi il tentativo dei Pazzi di abbattere il potere dei Medici non aveva fatto altro che accrescere l'autorità del Magnifico.


domenica 25 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 aprile.
Il 25 aprile 1719 Daniel Defoe pubblica in Inghilterra il suo Robinson Crusoe.
Scampato da poco al naufragio e scagliato dai flutti sull' isola sconosciuta e solitaria, Robinson Crusoe, appena sistematosi in un provvisorio riparo, organizza un sistema per misurare il tempo e stende - nell' angoscia della sua situazione e nell' incertezza della sua sorte - un vero e proprio bilancio (anzi Bilancio, con la maiuscola) «dello stato dei suoi affari», dei beni e dei mali della sua condizione, naufragato ma sopravvissuto, tagliato fuori dal mondo ma in un'isola non troppo inospitale né pericolosa, solo ma fornito di molte cose utili portate dal mare sulla spiaggia. Steso in vere e proprie tabelle, questo rendiconto del dare e dell'avere libera la mente di Robinson dall'ansia per la sua situazione, impedisce alla sua ragione di precipitare nel panico; non riguarda una sfera dell'attività, bensì la vita intera e viene recepito con un piacere fisico, quasi sensuale, come i ruvidi abiti sulla pelle, il calore del fuoco, gli odori della foresta. L'epopea borghese alla conquista del mondo sconosciuto, di cui il romanzo di Defoe è la prima e più grande espressione poetica, vive l'economia come forza vitale, il fluire del denaro come l'impetuoso scorrere del sangue; anche la contabilità è avventura, come i traffici e i naufragi che essa registra.
Sull' isola deserta di Robinson il denaro non c'è e non serve; non esiste il valore di scambio: «solo aveva Valore ciò di cui potevo fare Uso». Ma la partita doppia abbraccia tutto, la costruzione della casa nel bosco, l'esplorazione dei dintorni, la caccia, la paura, la preghiera e la fede nella Provvidenza, come diceva Marx; il tempo, in quella lotta solitaria per la sopravvivenza, è più che mai denaro. Le bufere della natura travolgono l'esistenza e l'ordine prestabilito, ma ogni azione umana è Progetto, disegnato razionalmente e vissuto con passione; nessuna opera - dice Robinson nella selva - «può essere intrapresa prima di averne calcolato i Costi». Se per Rousseau Robinson, come Venerdì, è il prototipo dell'uomo naturalmente buono che, lontano dai vizi della società, inventa da solo la civiltà, e se per Kant egli è l'individuo moderno nostalgico di innocenti paradisi naturali ma consapevole di costruire un progresso e una civiltà che se li lasciano indietro e li rendono impossibili, Marx ha visto nell'eroe di Defoe «l'imprenditore di se stesso» che si muove come se la benevola «mano invisibile» dell' economia liberista reggesse pure la natura ovvero come se i processi economici fossero naturali, finendo invece per provare che tutto, anche la vita dell'individuo solo in un'isola remota, è società. Un grande libro non si esaurisce mai nelle interpretazioni ideologiche, le quali non lo impoveriscono bensì lo arricchiscono, dimostrando la sua inesauribile ricchezza che a ogni epoca, come a ogni lettore, svela nuovi aspetti e nuovi significati, rispondendo alle diverse domande delle generazioni che si susseguono. Marx che legge e discute il Robinson Crusoe è come Platone che legge e discute Omero, andando magari al di là di lui ma solo grazie a lui e ritrovandoselo ogni volta inaspettatamente davanti.
Robinson Crusoe è il libro d'avventura per eccellenza, uno di quei grandissimi libri di cui ogni riga è insostituibile, ma la cui grandezza è tale da poter essere colta perfino attraverso riduzioni e rifacimenti riassuntivi, come quelli che, nell'infanzia o nell'adolescenza, hanno fatto conoscere a quasi tutti noi per la prima volta quella storia immortale, il cui senso essenziale balenava pure in quei sempliciotti adattamenti. Come l'Odissea, il Don Chisciotte o Guerra e pace, pure Robinson lo si legge e rilegge nella vita tante volte, scoprendovi strati sempre nuovi, ha scritto Alberto Cavallari, cui si deve non solo una mirabile traduzione del romanzo (Feltrinelli, 1993), ma anche un ampio saggio introduttivo - L'isola della modernità - di altissima qualità, che dice sostanzialmente tutto sul libro, le sue interpretazioni e le sue trasformazioni nel tempo e che non si può fare a meno di parafrasare. A differenza di altri generi narrativi, come il romanzo psicologico, in quello d'avventura può accadere e accade di tutto, le svolte più impensabili, mutamenti di orizzonti e di identità, cavalcate e disarcionamenti. Sotto questo profilo, anche il romanzo avventuroso più ingenuo è quello più vicino alla realtà, perché pure la realtà più prosaicamente uniforme è suscettibile, in qualsiasi momento, dei rovesci più imprevedibili. Quella grande libera avventura di Robinson, che allarga il cuore e lo apre a paesaggi sconfinati e a peripezie azzardate e tenaci, è anche una delle più grandi parabole della nascita della modernità, di cui Defoe è «un Padre Fondatore» (Cavallari). Robinson prosegue e capovolge il romanzo d'avventura e di viaggio dei secoli precedenti; la sua penna conquista l'ignoto e l'immaginario alla realtà e alla conoscenza, anche puntigliosamente pratica e utilitaristica, dilatando per altro il viaggio a nuova allegoria morale dell'individuo moderno. Robinson è il nuovo homo oeconomicus, un protestante capitalista asceticamente dedito al lavoro; Defoe, che ha pure narrato in altri capolavori - poeticamente forse ancora più grandi - le spregiudicate gesta erotiche di Moll Flanders e Lady Roxana, fa di Robinson un personaggio senza vita sessuale, «Adamo senza Eva» (Cavallari): nella penultima pagina, matrimonio, paternità e vedovanza dell'eroe sono riassunti in due righe e mezza, su un totale di 300 pagine. Col buon selvaggio Venerdì Robinson vive in fraterna e democratica amicizia, ma egli è pure sovrano e signore dell'isola, avanguardia della colonizzazione bianca, incarnazione bifronte dell'ambiguità del progresso, che porta civiltà e dominio, libertà e nuove schiavitù, in una tragica spirale che segna il peccato originale della modernità.
In molte storie precedenti di mare e di naufragio, l'isola cui approdavano tanti fuggiaschi, ammutinati e ribelli, era un asilo, un luogo di purezza e libertà in cui sfuggire ai mali della storia e della società; per Robinson - come per tanti suoi imitatori - essa è invece dapprima patita come esilio dalla civiltà e poi goduta quasi come colonia. Profondamente religioso, Robinson è l'alfiere di una religione illuminista del progresso e della tecnica che poco a poco assorbe ogni trascendenza in una spietata e livellante secolarizzazione; come Ulisse dissolve con la sua razionalità l'incanto - e l'orrore - del mito, delle sirene e dei ciclopi, Robinson stritola la poesia della vita nella ferrea esecuzione del Progetto, nella finalità sociale cui vengono sottomesse tutte le diversità dell'esistenza e il romanzo è la poeticissima e sobria rappresentazione di questo trionfo della prosa borghese. Defoe è insieme neutrale cronista, fantasioso cantore e inevitabile smascheratore del nuovo homo oeconomicus destinato a dominare il mondo e del capitalismo, la forza più rivoluzionaria, sovversiva e sradicante della storia, con la sua vitalità creatrice, distruttiva e autodistruttiva come il fato. Non a caso egli è uno dei creatori se non il creatore - dopo Don Chisciotte - del romanzo moderno, il genere letterario che assume nella sua stessa forma la vitalità, la volgarità, la prosaicità, il compromesso, la contraddizione della modernità borghese. Defoe coglie questo mondo nei suoi grandi romanzi e pure lo incarna spregiudicatamente nel suo lavoro di grandissimo giornalista che, consapevole di quanto condizionata dal potere economico sia la libertà di stampa, riesce a dire la verità imbrogliando i suoi datori di lavoro, passando dai liberali ai conservatori per esprimere idee liberali, spesso stipendiato dagli uni quando lavora per gli altri, ricorda Cavallari. Come diceva Trevelyan, egli è il primo che vede morire il vecchio mondo con occhi moderni; il primo ad avvertire che l'Europa e l'Occidente non riuscivano più a capire, a esorcizzare, a integrare l'Altro che andavano scoprendo e conquistando né a sbarazzarsi del suo fantasma.
Come si conviene al capolavoro di un autore spesso squattrinato ma consapevole del nuovo ruolo del denaro e del mercato, Robinson Crusoe fu il primo bestseller della letteratura mondiale: nella bibliografia di Ullrich, edita nel 1898, si parla di 196 edizioni, molte delle quali uscite in pochissimi anni dopo la prima, e di 110 traduzioni (anche in gaelico, in bengali, in turco). Il romanzo ha avuto inoltre subito innumerevoli imitazioni e rifacimenti, specialmente in Germania; le cosiddette Robinsonaden, il cui numero oscilla intorno alle 200-250, anche se è difficile stabilire una cifra precisa, perché spesso si sovrappongono e si plagiano a vicenda. C'è un Robinson olandese (1721), e negli anni seguenti un francese, un tedesco, un sassone, un nordico, un vestfalo, uno svedese, un americano, un inglese, uno slesiano, uno spagnolo, un basso-sassone, una Madamigella Robinson; ci sono anche un Robinson medico, un libraio e uno «filosofeggiante», c'è quello pedagogico di Campe (1779); altri romanzi non recano il nome nel titolo, ma ricalcano il naufragio sull'isola deserta, la costruzione della casa e dunque del mondo, l'incontro col selvaggio. Sono romanzi influenzati da Defoe, ma anche da altri testi come La storia dei Sevarambi del francese Denis Vairasse o La Terre Australe di Gabriel Foigny, pervasi da quell'inquietudine e da quella crisi della coscienza europea - magistralmente analizzata nel vecchio omonimo libro di Paul Hazard - che, svincolandosi dal classicismo assolutistico e dogmatico del Seicento e scoprendo nuovi mondi, metteva in discussione se stessa e sognava terre sconosciute e vergini quale teatro di utopie politico-morali, sede di favolosi regni di pace, di uguaglianza, di libertà religiosa, di comunità di beni e comunione sessuale. L'utopia è l'orizzonte di queste avventure di mare e di naufragio, il sogno di un felice Stato di natura, ma Robinson, l'uomo nuovo di questo sognato mondo nuovo, è in realtà la svolta della Storia che avanza a distruggere i presunti paradisi, anche se spesso quest'avanzata assume l'illusoria forma di una fuga, come accade nella più bella - l'unica veramente bella - robinsonata, L'Isola Felsenburg ovvero Meravigliosi destini di alcuni naviganti del tedesco Johann Gottfried Schnabel (1731), in cui diverse persone dalle travagliate vicende approdano all'isola per fondarvi un'utopica comunità patriarcale. Come accadrà, con ben altre inquietudini e profondità, nel mito dei Mari del Sud di Melville, Stevenson o Gauguin, l'isola è spesso paradiso erotico, libero e insieme innocente. Nel Joris Pines (1726), rifacimento di un testo più antico, la comune sessuale è anche comunità incestuosa e nel Robinson tedesco la madre del protagonista si accoppia pure a uno scimmione, dandogli dei figli. Licenziosità e moralismo edificante convivono spesso in questi romanzi, molti dei quali non sono meno dozzinali e melensi dell Isola dei famosi, l'odierna robinsonata televisiva; il passato è ricco di bellezza e di stupidità come il presente.
Il mito di Robinson ha continuato a vivere in rielaborazioni pedagogiche, rifacimenti d'appendice, racconti per ragazzi come lo stucchevole Robinson svizzero del parroco Wyss, e testi di prima qualità, da Venerdì o il Limbo del Pacifico (1967) di Michel Tournier, in cui il selvaggio converte il borghese a una magica esistenza primitiva, alla Parete dell'austriaca Marlen Haushofer (1963), vicenda di una donna unica sopravvissuta a una misteriosa fine del mondo, sino a L'uomo nell'olocene (1979), forse il capolavoro di Max Frisch, anch' esso pervaso dal senso di irreparabile, ironica e tragica fine dell'individuo nell'alluvione della natura e della storia. La robinsonata totale, secondo Adorno, l'ha scritta Kafka, nei cui testi l'uomo è solo e naufrago in una realtà inesplicabile. Non c'è fine al naufragio, ma neanche inizio. Così come Selkirk, il marinaio naufragato le cui vicende hanno ispirato Defoe, aveva trovato sull'isola un altro arrivato prima di lui, Will il Mosquito, quasi ogni Robinson trova sulla sua isola un predecessore oppure tracce della sua permanenza: quello sassone trova un vecchio spagnolo, quello tedesco addirittura il cadavere di suo padre, altri trovano scritti di naufraghi morti da tempo, in cui si parla di altri naufraghi ancora più antichi e così via, in quel «pozzo del passato» che affascinava Thomas Mann e di cui non si tocca mai il fondo. L'origine è più incerta, inattingibile e infondata della fine; forse non esiste e il naufragio - il male, il dolore, l'insensatezza e la resistenza a tutto questo - si ripetono da sempre. Non per nulla Camus sceglie una frase di Defoe quale epigrafe per La peste.

sabato 24 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 24 aprile.
Secondo la tradizione, il 24 aprile 1184 a.C. Troia viene violata dai greci mediante il cavallo di Ulisse.
La guerra di Troia è stata una guerra combattuta tra gli achei e la potente città di Troia per il controllo dell'Ellesponto.
Secondo la tradizione mitologica greca, il conflitto ebbe inizio a causa del rapimento di Elena, la regina di Sparta, ritenuta la donna più bella del mondo, da parte di Paride, principe troiano. Il marito di Elena, Menelao, grazie all'aiuto del fratello Agamennone radunò un incredibile esercito, formato dai maggiori comandanti dei regni greci e dai loro sudditi, muovendo così guerra contro Troia. Il conflitto durò all'incirca dieci anni, con gravi perdite da ambo i lati. Fra le vittime più celebri l'invincibile Achille, principe di Ftia, ed Ettore, figlio del re Priamo e campione della resistenza troiana. La città venne infine conquistata e distrutta; ma l'Iliade finisce in verità con la cerimonia funebre per Ettore figlio di Priamo e con la cremazione del corpo e la raccolta delle ossa in un'urna d'oro.
Gli eventi del conflitto sono narrati principalmente nell'Iliade di Omero (benché questi narri solo avvenimenti accaduti nel decimo anno di guerra), unica opera a noi pervenuta, essendo gli altri testi letterari, denominati testi del "Ciclo Troiano", ormai perduti e conosciuti solo tramite posteriori testimonianze. Ulteriori fonti di conoscenza possono considerarsi anche le tragedie antiche di Eschilo, Sofocle ed Euripide che trassero ispirazione proprio dai testi oggi perduti. La distruzione di Troia è invece narrata nel secondo libro dell' Eneide di Virgilio.
È ancora oggetto di studi e controversie la questione sulla veridicità storica degli avvenimenti della guerra di Troia. Alcuni studiosi pensano che vi sia un fondo di verità dietro gli scritti di Omero, altri pensano che l'antico poeta abbia voluto raggruppare diversi avvenimenti accaduti durante guerre e assedi, nel periodo miceneo, in un unico conflitto, quello fra greci e troiani appunto. Quelli che ritengono che la guerra di Troia sia stato un fatto realmente accaduto collocano cronologicamente i fatti verso la fine dell'età del Bronzo, intorno al 1300-1200 a.C., in parte accettando la datazione di Eratostene.
Gli eventi della guerra di Troia sono descritti in innumerevoli testi della letteratura greca e latina, dipinti o scolpiti in numerose opere d'arte. Nessuno scritto narra per intero i fatti del conflitto. Si assembla quindi la storia seguendo diverse fonti, spesso contraddittorie fra di loro.
Nel 1870 Heinrich Schliemann, seguendo alla lettera le descrizione dell'Iliade, fece degli scavi su una collinetta sulla quale sorgeva il villaggio Turco di Hissarlick: trovò effettivamente una antica città; anzi trovò molti strati, ciascuno dei quali corrispondeva a una città. Non ebbe nessun dubbio nell'identificare in una di essa la Troia omerica e, in una serie di oggetti ritrovati, il "tesoro di Priamo (che asportò senza troppo formalizzare). Schliemann non era un archeologo ma un ricco mercante con la passione dell'archeologia e soprattutto con il sogno, covato fin da giovane, di ritrovare la Troia cantata da Omero. Scavò in fretta e senza metodo, per cui molti elementi preziosi per identificare i reperti, andarono irrimediabilmente perduti.
Altri archeologi continuarono poi, con maggiore competenza, le ricerche e ritennero di identificare la Troia omerica in un altro strato. Le ultime ricerche sono state eseguite, in questi anni, da una spedizione guidata dal prof. Manfred Korfmann dell'università di Tubinga.
Ciò che si è accertato è che il luogo è stato abitato dalla preistoria (dal 3200 a.C.) fino ai nostri giorni. Si contano nove strati: periodicamente la città veniva distrutta, ma risorgeva dopo qualche tempo usando come fondamenta le rovine della precedente: si tratta di un procedimento molto comune che ritroviamo un po' dappertutto. Evidentemente il sito era considerato particolarmente idoneo, trovandosi in un luogo elevato dominante l'importantissimo stretto dei Dardanelli (Ellesponto per i Greci).
Ma è corretto identificare uno di questi strati, non importa ora quale, con la Troia omerica?
L'unico elemento che mette in relazione gli scavi di Hissarlick con Troia, è soltanto il fatto che i primi si trovano proprio nel luogo indicato dall' Iliade. Per il resto le ricerche ci indicano soltanto un luogo abitato ininterrottamente da più di 3000 anni, ma nulla ci dice che uno di queste città si chiamasse Troia ( o Ilio), o che fosse stata distrutta da una spedizione di Greci. L'identificazione, quindi, con Troia, non trova alcun riscontro obbiettivo, nessun elemento sia pur genericamente probante.
Nessuna iscrizione, nessun documento di nessuno dei popoli del Medio Oriente accenna, nemmeno vagamente, ai fatti narrati da Omero: nessun elemento storico quindi convalida le antiche leggende.
Si noti poi, che nei poemi omerici vi è una contraddizione di fondo: Troia viene considerata città straniera, nemica, contro la quale i Greci sono tutti alleati come di fronte a uno straniero. Tuttavia i Troiani sono descritti in tutto simili ai Greci: hanno in comune lingua, costumi, religione; né l'autore greco mostra di parteggiare per i Greci, che è cosa davvero singolare.
Non vi è quindi nessuna indicazione della effettiva consistenza di un tal nemico: se i fatti narrati da Omero fossero il ricordo, sia pure profondamente trasformato di un fatto effettivamente avvenuto, sarebbe rimasto in primo piano nell'immaginario collettivo la "alterità" di questa città nemica e non ve n'è invece nessuna traccia.
La identificazione di Troia, in fondo, ci è impossibile perché di essa le leggende non dicono nulla che ce la possa fare identificare.
Di Omero abbiamo solo notizie vaghe, leggendarie che ce lo presentano come un poeta cieco e ramingo: ma è esistito effettivamente una persona che ha scritto l'Iliade e l'Odissea, comunque egli si chiamasse? Noi sappiamo che la redazione dell'Iliade e dell'Odissea che ci è pervenuta, fu messa per iscritto nel VI secolo a.C., molto tempo dopo, quindi, la loro effettiva compilazione.
Pure in questo caso, nessun elemento ci conferma la esistenza di un vero e proprio autore singolo: è molto probabile che in effetti i canti fossero opera collettiva, di un gran numero di poeti vissuti in tempi e luoghi diversi e che tali canti fossero poi ridotti a unità nel momento in cui furono messi per iscritto.
Comunque, appare inverosimile che l'Iliade e l'Odissea siano opera dello stesso autore: infatti esse hanno ben distinti per ispirazione, struttura e temi.
L'arete (il modello di eccellenza) che ispira l'Iliade è la gloria, il desiderio smodato di compiere una grande impresa che possa lasciare il ricordo ai posteri.
Nell'Odissea invece, il motivo dominante è il desiderio di tornare alla famiglia, agli affetti familiari, al focolare. Gli eroi dell'Iliade abbandonano la casa, la famiglia per la gloria; Ulisse invece vuole tornare alla famiglia, non gli interessa la gloria.
L'Iliade è un insieme di battaglie intramezzate dal lutto per i caduti e dalla preparazione di altre battaglie. Nell'Odissea non vi sono vere e proprie battaglie ma è il racconto di viaggi, di avventure, di astuzie.
Alla fine, il sanguinoso scontro con i Proci, è una vendetta (o giustizia) personale, non una battaglia fra eserciti schierati.
L'Iliade appare chiaramente come un insieme di episodi diversi, messi poi insieme da una trama generale (l'ira di Achille): prevalgono personaggi diversi nei vari episodi. L'Odissea invece, ha una trama ben organica e un solo protagonista, Ulisse, intorno a cui tutto ruota: L'Iliade dà più l'idea di un insieme di canti collegati, l'Odissea pare invece opera di una sola persona.
Il mondo culturale appare alquanto diverso nei due poemi, più primitivo e antico il primo, più civile e più recente il secondo. Si pensi per esempio alle divinità: nell'Iliade entrano direttamente in lotta, a volte anche fra di loro; nell'Odissea, la concezione si fa meno antropomorfa: intervengono sempre nelle vicende umane, ma con un maggiore distacco; non arrivano a colpirsi fra di loro materialmente. Anche il mondo sociale appare diverso: nell'Iliade conta solo il re; nell'Odissea vi è una maggiore comprensione per l'uomo comune, i Proci stessi appaiono come un freno o un tentativo di freno all'autorità dei re: passiamo cioè a un ambiente più democratico.
I Greci, in Omero, sono designati col nome di Achei. Chi erano? Nessun dubbio questa volta che essi siano veramente esistiti. Attualmente, generalmente vengono indicati con il termine di Micenei, dal nome della loro città più celebre, Micene appunto.
Si tratta di una prima ondata di invasori venuti dal nord, che occuparono la Grecia e distrussero la civiltà cretese, già comunque messa in crisi forse da un grande terremoto. Essi non formarono un organismo politico unitario, ma si ressero in piccole città indipendenti, retti da re guerrieri, gli eroi omerici, appunto.
Dopo il 1000 a.C. questa civiltà decadde (si parla di medio evo ellenico) per l'arrivo di nuove ondate di invasori della stessa lingua e cultura, che costituirono poi la Grecia classica.
Gli Achei si ridussero, poi, solo in una piccola e montuosa parte del Peloponneso ed ebbero un posto insignificante nello svolgersi della civiltà greca.
I poemi omerici narrano, quindi, questo mondo che appena si distingueva come lingua e cultura dai Greci dell'età classica. In che misura poi i poemi omerici effettivamente rispecchiano questa civiltà, non è facile dire. Un caso esemplare è quello dei carri da guerra: nei poemi omerici essi sono presentati, ma non ne viene compreso l'uso: i carri infatti , con due uomini a bordo, un auriga e un combattente, venivano lanciati in formazione serrata , un po' come i carri armati moderni. Nell'Iliade (nell'Odissea non sono mai presenti) invece, essi hanno la singolare funzione di portare il combattente, l'eroe, sul campo di battaglia; questi poi scende e combatte a piedi, una specie di fanteria motorizzata, diremmo noi. In un solo caso invece (nello scontro fra Achille e Asteropeo), gli eroi combattono restando sul carro, senza peraltro comprendere l'uso in formazione.
E' da ritenersi che fosse rimasta nella memoria collettiva dei cantori una eco di una civiltà ormai tramontata, ma essa era commista a molte fraintendimenti e sovrapposizioni, per cui è difficile stabilire quanto nei poemi omerici faccia riferimento alla reale civiltà Micenea.
In generale diremmo che la civiltà Micenea fu molto più industriosa e pacifica di quanto appaia nell'Iliade e che il carattere puramente guerriero è tratto invece, proprio dalle nuove ondate di Greci che avevano distrutto quella civiltà.


venerdì 23 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 aprile.
Il 23 aprile 1946 la Piaggio brevetta uno scooter, chiamandolo "Vespa".
 La “Vespa” nacque per mano della Piaggio, dopo che la stessa casa, fondata nel 1884 a Genova col suo primo cantiere a Sestri Ponente, aveva iniziato con la produzione di materiale di arredamento navale. Successivamente, nel 1901, con  un nuovo stabilimento costruito a finale ligure iniziò la produzione di materiale ferroviario, alla quale, alcuni anni dopo, con l’affermarsi dell’aviazione si affiancò quella di materiale aeronautico. L'azienda genovese, costruì un secondo stabilimento a Pisa, dove si producevano esclusivamente aeroplani per uso militare, largamente impiegati dall’esercito italiano nel primo conflitto mondiale.
Nel 1924, la Piaggio rilevò gli impianti di una piccola officina automobilistica per ospitarvi la produzione di motori d’aereo da 300 a 1500 CV, di eliche a passo variabile e successivamente di aerei completi di progettazione autonoma.
Nel secondo conflitto mondiale la casa genovese contribuì al grande sforzo bellico italiano, fornendo all’aviazione gli aereoplani e divenendo, allo stesso tempo, obbiettivo primario di bombardamenti e razzie da parte degli alleati.
Al fine di salvare ciò che rimaneva in seguito ai bombardamenti alleati, gli impianti furono trasferiti a Biella.
A tal punto emergeva l’esigenza di riconversione postbellica dell’azienda.
Fu proprio a Biella, negli uffici studi della Piaggio, che nacque il progetto Vespa, allorquando, Enrico Piaggio, titolare dell’azienda, insieme all’ingegner Carbonero, progettista dei motori aeronautici, cominciò ad esaminare le proposte di attività dalle quali far ripartire la riconversione industriale.
Fu proprio la proposta  dell’ingegner Corradino D’Ascanio quella accolta: piccolo veicolo a due ruote semplice, economico e di nuova concezione.
Non và dimenticato che D’Ascanio era l'ingegnere aeronautico precursore degli studi che avrebbero poi portato all'ideazione dell'elicottero.
La scelta progettuale dell’ingegnere D’Ascanio ricadde su di un veicolo a due ruote originalissimo e semplicissimo: la Vespa avrebbe assommato in sé tutte le caratteristiche che un veicolo a due ruote avrebbe dovuto possedere secondo un automobilista, potendosi considerare un’auto a due ruote; difatti, la differenza tra lo scooter (inteso come monopattino a due ruote motorizzato) e la motocicletta risiede proprio nel telaio e nella dimensione delle ruote. Il telaio dello scooter ha una conformazione a piattaforma sulla quale si trova il guidatore, in piedi o seduto, mentre nelle motociclette il guidatore si trova sempre a cavalcioni sul telaio.
Nel 1944 venne presentato “Paperino”, prototipo di quella che sarebbe divenuta da lì a poco la “mitica” Vespa: la struttura era costituita da una scocca in lamiera stampata, i cui elementi erano saldati artigianalmente; il blocco motore – trasmissione fungeva anche da forcellone oscillante ed era coperto da un cofano in alluminio asportabile; entrambe le ruote, da 8 pollici, avevano il cerchio in lamiera stampata ed erano applicate a sbalzo, fissate al mozzo con quattro viti; il serbatoio del carburante, sistemato all’interno della scocca, era protetto dagli urti, mentre sul lato sinistro, in posizione simmetrica rispetto al cofano motore era posto un bagagliaio di discreta capacità. Una novità importante era quella rappresentata dalla possibilità di portarsi appresso una ruota di scorta, fissata ad apposito supporto.
Nel 46, dopo che in data 23 aprile la Piaggio e C. S.p.A. "deposita presso l'Ufficio centrale dei brevetti per invenzioni, modelli e marche del Ministero dell’Industria e del commercio di Firenze, il brevetto per motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica", la vespa viene dapprima presentata al prestigioso Circolo del Golf di Roma, alla presenza del generale americano Stone in rappresentanza del governo militare alleato, e poi presentata al grande pubblico alla Fiera di Milano dell'aprile 1946, dove suscita grande stupore con il modello ’98 che è il più significativo di tutta la produzione Vespa, dato che si tratta del primo ad essere commercializzato.
Il modello 98 rappresenta una versione che, fin dall'inizio, mette in luce quelle caratteristiche peculiari che si manterranno pressochè immutate per tutti i primi cinquant'anni della storia della Vespa: scocca portante, motore laterale, trasmissione finale diretta e ruote intercambiabili. Prima di allora era stata vista esclusivamente da una ristretta cerchia di persone al Golf Club di Roma, soltanto un mese prima. La Piaggio presenta il nuovo scooter come "motoleggera utilitaria" per rassicurare la clientela sulla protettività della scocca in lamiera.
Negli anni la Vespa, con i molteplici famosi modelli, come la 90 ss, la 125 Primavera, la 50 R, la 50 Special, ecc., si è imposta  sia in Italia che nei paesi Europei, dove la concorrenza spietata come quella inglese, tedesca e francese aveva fortemente creduto nella diffusione dello scooter.
La produzione negli anni si è avuta anche da parte di industrie licenziatarie (come la A.C.M.A. in Francia o altre in Asia).
La soluzione iniziale della struttura portante in metallo riguarda infatti anche i modelli di ultima generazione come la Vespa ET2 con motore da 50 cc. a due tempi e la ET4 con motore da 125 cc. Una introduzione del motore a quattro tempi riguardò la prima Vespa dotata di trasmissione automatica, mentre rimane in produzione (seppur rinnovato) il leggendario modello PX nelle classiche tre cilindrate 125, 150 e 200.


giovedì 22 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 aprile. Il 22 aprile 1509 Enrico VIII succede al padre Enrico VII e sale sul trono di Inghilterra e Scozia. Enrico VIII Tudor nasce a Greenwich (Inghilterra) il 28 giugno 1491. I suoi genitori sono Enrico VII Tudor, re d'Inghilterra e la regina Elisabetta di York. In tenera età ottiene numerosi titoli e benefici: all'età di tre anni diventa Conestabile del Castello di Dover, Lord Guardiano dei Cinque Porti e l'anno seguente ottiene il titolo di duca di York. Enrico accumula, negli anni successivi altri titoli importanti, come quello di Conte Maresciallo e di Lord Luogotenente. Nel 1501 partecipa alla cerimonia di nozze del fratello Arturo, erede al trono d'Inghilterra, con Caterina d'Aragona. Poco tempo dopo però Arturo muore a causa di un'infezione ed Enrico, che ha solo undici anni, diventa l'erede al trono d'Inghilterra. Alla morte del figlio Arturo, il padre decide di far sposare Enrico con Caterina d'Aragona, rimasta vedova. Prima di far unire in matrimonio i due, il re Enrico VII vuole chiedere al papa Giulio II una dispensa in modo tale da dimostrare fino all'ultimo che il precedente matrimonio tra Caterina e il figlio defunto non è stato consumato. L'obiettivo del re è quindi quello di dimostrare che il matrimonio tra la vedova ed Enrico sarebbe stato legittimo. Giulio II consegna la bolla, consentendo così la celebrazione del matrimonio reale. Nel 1509 muore il padre e diventa re d'Inghilterra con il nome di Enrico VIII Tudor. Sempre nello stesso anno sposa Caterina d'Aragona, così come è stato stabilito negli anni precedenti in seguito a un accordo tra la Corona d'Inghilterra e la Corona di Spagna. Nei primi anni di regno governa, essendo affiancato dal vescovo di Winchester, Richard Fox, da William Warham e negli anni successivi dal cardinale Thomas Wolsey. L'influenza di quest'ultimo sul sovrano inglese è molto evidente, soprattutto nel momento in cui l'Inghilterra decide di entrare a far parte della Lega Santa promossa dal papa Giulio II per cercare di frenare la campagna espansionistica del re di Francia Luigi XII. Alla Lega partecipano anche Massimiliano I, l'imperatore del Sacro Romano Impero, e Ferdinando II, il re di Spagna. Dopo i tentati assedi delle città di Thérouanne e di Tournay, nel 1514 l'Inghilterra decide di porre fine alle ostilità e di condurre le trattative di pace con il re francese. Dopo la morte di Luigi XII di Francia, diventa re di Francia Francesco I, che dichiara guerra all'Imperatore d'Austria Carlo V, diventato per il regno francese una forte minaccia. Nel 1520 il sovrano francese, temendo la potenza dell'esercito imperiale, incontra il sovrano inglese; il suo obiettivo è quello di stringere un'alleanza strategica con l'Inghilterra. Questo piano però fallisce nel momento in cui Enrico VIII stringe un'intesa strategica con Carlo V. In occasione del conflitto tra Francesco I e l'Imperatore d'Austria appoggia quest'ultimo, cercando di sostenerlo con l'ausilio della marina regia inglese. Le sue preoccupazioni inoltre crescono, poiché la moglie non riesce a dargli un erede maschio per la successione al trono; infatti, Caterina dà alla luce due figli maschi e una bambina, Maria. I due figli maschi però muoiono subito dopo la nascita. Considerate le circostanze, nel 1527 valuta l'idea di chiedere al papa Clemente VII l'annullamento della dispensa papale emessa decenni prima sotto il pontificato di Giulio II. La decisione da prendere non è molto semplice, poiché da un lato Caterina non è riuscita a dargli un erede maschio, per cui Enrico VIII ritiene necessario annullare il suo matrimonio e dall'altro deve tener conto del fatto che la moglie è la zia dell'Imperatore d'Austria. La trattativa per l'annullamento della bolla papale è condotta dal cardinale inglese Thomas Wolsey e dall'arcivescovo di Salisbury Lorenzo Campeggio. In una situazione così delicata Clemente VII non riesce a trovare una soluzione. Thomas Wolsey cerca di convincere il papa a dichiarare nulla la bolla papale, ma senza ottenere alcun risultato a causa delle pressioni fatte dall'imperatore Carlo V, il quale è imparentato con Caterina. La situazione rimane quindi in una posizione di stallo e nel 1530 Wolsey cade in disgrazia, poiché non gode della fiducia del re. In questa circostanza il re interpella Thomas Cranmer, un professore universitario della Jesus College di Cambridge, che gli consiglia di chiedere il parere delle altre Università inglesi. Queste ultime sostengono che il matrimonio tra il re inglese e Caterina d'Aragona è da considerare impuro, poiché lei è stata la moglie del fratello e perché non genera figli maschi. Avendo ottenuto il sostegno delle Università inglesi, il sovrano decide di prendere in mano la situazione e l'anno dopo elabora "L'Atto di Supremazia" in cui viene resa nota la sua volontà, ovvero quella di diventare il Capo Supremo della Chiesa britannica. Nello stesso anno il Parlamento inglese vota a favore dell'entrata in vigore dell'Atto di supremazia e nel 1532 il re, essendo a capo della Chiesa inglese, decide di far pagare i tributi alla Corona inglese ottenendo così che questi non fossero dati alla Chiesa romana. In quello stesso anno Thomas Cranmer viene eletto arcivescovo di Canterbury e Tommaso Moro, che nel frattempo ha preso il posto di Wolsey, si rifiuta di annullare il precedente matrimonio reale, che avrebbe consentito a Enrico VIII di sposare la sua nuova compagna. Moro è costretto a lasciare l'Inghilterra e a partire per Roma. L'anno successivo il re sposa Anna Bolena e, grazie a un atto emanato mesi prima dichiarante l'autonomia della Chiesa inglese nelle decisioni nazionali, Cranmer garantisce lo scioglimento del precedente matrimonio e riconosce ufficialmente il matrimonio tra il sovrano e Anna Bolena. Nel luglio 1534 papa Clemente VII scomunica il sovrano inglese, la sua nuova moglie e l'arcivescovo di Canterbury, interdicendo anche l'Inghiterra. Il papa muore nello stesso anno e gli succede papa Paolo III. Sotto il suo pontificato i rapporti con l'Inghilterra peggiorano sempre di più. Nello stesso anno il Parlamento inglese si pronuncia a favore dell'"Atto di successione" con cui viene spostata la discendenza dinastica dalla precedente moglie del re ad Anna Bolena. Il distacco tra la Chiesa romana e la Chiesa inglese è sempre più forte e due anni dopo il lord gran ciambellano, Thomas Cromwell, grazie all'appoggio del re riesce a far approvare una legge che espropria alla Chiesa cattolica di Roma i monasteri minori posseduti in Gran Bretagna. Anche la nuova sovrana inglese non riesce a dare figli maschi al re, che inizia a frequentare la nobile inglese Jane Seymour. Anna, che nel frattempo frequenta un musico di corte, è condannata a morte con l'accusa di stregoneria e cospirazione ai danni del sovrano nello stesso anno. Il giorno dopo la decapitazione di Anna, sposa Jane Seymour che gli da l'agognato erede maschio, Edoardo, che però muore all'età di sedici anni. Su consiglio di Cromwell, nel 1540, sposa la principessa tedesca Anna di Clèves. Dopo un breve e burrascoso matrimonio lascia la donna, per sposare nello stesso anno Caterina Howard. Presto quest'ultima viene condannata a morte per adulterio e nel 1543 il sovrano si unisce in matrimonio con Caterina Parr. Negli ultimi anni del suo regno unisce il Galles alla Corona inglese e conquista l'Irlanda. Con un atto parlamentare, il re diventa anche il Capo Supremo della Chiesa irlandese. Inoltre centralizza il sistema governativo e quello parlamentare, concedendo numerosi privilegi alle due Camere e aumentando i poteri del Parlamento. Grazie all'intermediazione della sua ultima moglie, nel 1544 Enrico VIII ha modo di riconciliarsi con le figlie Elizabeth e Mary, che con una legge sono nuovamente inserite nella linea dinastica per la successione. Enrico VIII Tudor muore il 28 gennaio 1547 a Londra a causa di una ferita molto grave riportata dopo un incidente.

mercoledì 21 aprile 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 aprile.
Secondo la tradizione, il 21 aprile 753 a.C. è la data nella quale fu fondata Roma.
La nascita di Roma si confonde tra storia, mito e leggenda.
Circa mille anni a.C. alcune navi, che da tempo veleggiavano sui mari in cerca di un approdo, giunsero in vista di una terra sconosciuta. Quegli uomini erano i soli riusciti a fuggire dal terribile incendio con cui, dopo una lunga guerra, era stata distrutta la loro città. Apparivano tristi e stanchi, per anni avevano dovuto vagare sui mari alla vana ricerca di un po' di riposo e di un po' di pace...
Ed ecco ora davanti a loro stendersi una terra dall'aspetto sereno e accogliente. Giunsero in un luogo dove c'era un maestoso fiume che irrompeva in mare mescolando le sue tumultuose acque gialle con le onde azzurre. Così quando il capo diede l'ordine, fu con vero entusiasmo che essi si accinsero a sbarcare.
Gli uomini che finalmente poterono toccare terra erano i Troiani, ed erano sbarcati nel Lazio, sulle rive del fiume Tevere guidati dal valorosissimo guerriero Enea. Egli, mentre Troia crollava sotto il furioso assalto dei Greci, era riuscito a trarre in salvo il proprio padre, Anchise, e il proprio figlioletto. Ma il padre era morto durante il lungo viaggio; gli restava solo il figlioletto Ascanio, detto anche Iulo (Julo).
La vita e le imprese di Enea sono mirabilmente narrate nel poema Eneide, scritto da Virgilio.
La riva sinistra del fiume Tevere, nei primi anni del I millennio a.C., era una pianura acquitrinosa e malarica che portava al mar Tirreno; all'interno della pianura si innalzavano dei colli con pendici molto scoscese. Qui si erano stabiliti inizialmente gli Italici (di origine indoeuropea) che poi si erano differenziati fra loro formando vari gruppi, tra i quali quello dei Latini. Questi, amalgamandosi gradualmente con le genti indigene, avevano costruito i loro villaggi sulle alture poste fra la riva sinistra del Tevere e i Colli Albani, sia per sfuggire dalla malaria delle paludi, sia per difendersi meglio dalle razzie delle tribù vicine dei Sabini, Equi, Volsci ed Ernici.
Gli usi, i costumi e i valori dei Latini erano molto simili alle popolazioni nordiche da cui discendevano: forza bruta, guerra di rapina, duelli mortali per il comando, culto della virilità, patriarcato assoluto. Adoravano alcune divinità naturali, alle quali innalzavano altari e sacrificavano animali, ma soprattutto veneravano Zeus, la massima divinitaà degli Arii, dei primi Achei e dei Dori, che chiamavano Juppiter. Il re degli Dei era padrone dei cieli, signoreggiava i fenomeni atmosferici come la pioggia e il fulmine, vigilava sulle vicende umane e manifestava la sua ira per mezzo del tuono. Zeus, però, non si occupava di politica o di guerre, preferendo lasciare queste incombenze ad altre divinità minori, i cosiddetti Dei militari.
Alle feste e ai riti sacri partecipavano gli abitanti di più villaggi, che nel tempo si riunirono dando vita a leghe religiose. Fra queste leghe particolare importanza assunse quella posta sotto la direzione di Albalonga, un villaggio situato presso l'attuale Castelgandolfo. Albalonga divenne infatti il centro di una federazione, istituita inizialmente a scopi religiosi, a cui si aggiunsero in seguito anche scopi difensivi, per cui ebbe presto in seno ai Latini un notevole peso militare e politico.
Nel frattempo sul colle Palatino, dove si sarebbe poi sviluppata la città di Roma, c'era solo un agglomerato di misere capanne di legno e fango, con tetti di paglia.
Ma torniamo ad Enea ed ai Troiani. Come si è appena detto, quando questi sbarcarono nel Lazio, questo era popolato da varie popolazioni: gli Etruschi, i Volsci, i Sabini, gli Equi, i Rutuli e gli Ausoni, la cui più importante popolazione, stanziata in un gruppo di città organizzate nel territorio pianeggiante lungo le rive del Tevere, era quella dei Latini. I Troiani vennero subito in contatto con questo popolo e con il loro re, il saggio Latino. Egli li accolse con benevolenza, diede loro ospitalità e, qualche tempo dopo offrì in sposa ad Enea la propria figlia Lavinia già promessa a Turno, re dei Rutuli che scatenò una guerra per vendicare l'offesa ricevuta. Fu una guerra feroce, che si concluse con un lungo duello fra Enea e Turno, finchè quest'ultimo rimase ucciso. Seguì un lungo periodo di pace, durante il quale Enea fondò una città, Lavinium (presso l'attuale Pratica di Mare), in onore della sposa.
Ascanio, il figlio di Enea, diventato grande, fondò a sua volta la citta' di Albalonga (collocata tra l'attuale Albano e Castelgandolfo), sulla quale regnarono lui e poi i suoi discendenti per molto tempo.
Come si è accennato in precedenza, Albalonga (il cui nome deriva da Alba=Bianca Longa=Lunga) diventerà ben presto il centro di una federazione nata prima per scopi religiosi e poi per scopi difensivi, acquistando in seno ai Latini un notevole peso militare e politico.
Molti anni dopo la morte di Ascanio, divenne re di Albalonga il buon Numitore. Egli, però, aveva un fratello invidioso e cattivo di nome Amulio, che avrebbe voluto regnare anch'egli. Per raggiungere il suo scopo, questi fece imprigionare Numitore, gli uccise tutti i figli tranne Rea Silvia rinchiudendola nel Tempio di Vesta e costringendola a farsi sacerdotessa (vestale) e a fare quindi voto di castità.
Amulio poteva, ormai, considerarsi sicuro e tranquillo e sarebbe stato il solo re; fino a quando, però, il dio Marte s'invaghisce di Rea Silvia e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo. Amulio, adirato, fece uccidere Rea Silvia a bastonate e, per non avere legittimi concorrenti al trono, ordinò che i due gemelli venissero immediatamente uccisi, ma il servo incaricato di eseguire l'assassinio non ne trovò il coraggio e li abbandonò in una cesta di vimini alla corrente del fiume Tevere, con la speranza che qualcuno li salvasse.
La cesta nella quale i gemelli sono stati adagiati si arena sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio, dove i due vengono trovati e allevati da una lupa. Li trova poi il pastore Faustolo che insieme alla moglie Acca Larenzia li cresce come suoi figli.
Una volta divenuti adulti e conosciuta la propria origine Romolo e Remo fanno ritorno ad Alba Longa, uccidono Amulio, e rimettono sul trono il nonno Numitore. Romolo e Remo ottengono quindi il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove sono cresciuti.
Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole battezzare Remora e fondarla sull'Aventino.
E' lo stesso Tito Livio (storico romano nato a Patavium nel 59 a.C. e ivi morto nel 17, autore di una monumentale storia di Roma, gli Ab Urbe Condita libri CXLII, dalla sua fondazione fino al regno di Augusto) che riferisce le due piu' accreditate versioni dei fatti:
    "Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l'Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l'uno e l'altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra."
    "E' più nota invece la versione secondo la quale decisero di osservare il volo degli uccelli: avrebbe dato il nome alla città chi ne avesse visti in maggior numero. La fortuna favorì Romolo, il quale prese un aratro e, sul Colle Palatino, tracciò un solco per segnare la cinta della città, che da lui fu detta Roma. Era il giorno 21 Aprile, 753 anni prima che nascesse Gesù Cristo.
    La nascita della nuova città segnò, purtroppo, la fine della vita di Remo. Era stato stabilito che nessuno, per nessuna ragione, poteva passare al di là del solco senza il permesso del capo. Ma Remo, invidioso, oppure per burla, lo oltrepassò con un salto e, ridendo, esclamò: - Guarda com'e' facile! - Romolo, pieno d'ira, si scagliò contro Remo e, impugnata la spada, lo uccise, esclamando: Così, d'ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura e chiunque avesse offeso il nome di Roma. Romolo, rimasto solo, governò la città in modo saggio, poi un giorno, durante un temporale, egli scomparve, rapito in cielo dal dio Marte."
La città è quindi stata fondata sul colle Palatino, e Romolo divenne il primo Re di Roma.
Le versioni storiche vogliono invece leggere la nascita di Roma in altro modo. Secondo quest'ultima la leggenda di Romolo e Remo sulla fondazione di Roma fu ideata quando Roma era già potente e sentiva l'esigenza di un fondatore semidivino che riscattasse le sue umili origini. Per questo dunque fu attribuita un'origine divina ai padri della città: Enea era figlio di Venere e suo figlio Ascanio, detto anche Iulo, diede il nome alla gente Iulia, alla quale appartennero Cesare e Augusto.
In effetti non ci fu un vero atto di fondazione, perchè Roma si sviluppò sul Palatino come aggregato di capanne di pastori-agricoltori, con boschi, orti, recinti per il bestiame, campi coltivati in comune. Il primo nucleo urbano si formò probabilmente fin dal II millennio nel luogo dove in seguito sarebbe sorto il Foro Boario, cioè l'area destinata al commercio del bestiame.
Questo primo nucleo con il tempo si ingrandì grazie alla sua posizione strategica: dominava l'ansa del Tevere nel punto in cui l'Isola Tiberina rendeva agevole il guado del fiume alle correnti commerciali tra il nord e il sud dell'Italia, collegando Etruschi e Campani. Sempre in quella zona transumavano le greggi delle pianure tirreniche verso i pascoli estivi dell'interno e vi passava la pista del sale (la futura via Salaria) che dalle spiagge di Ostia veniva portato alle popolazioni appenniniche. Presto, quindi, vi fiorì un ricco mercato di prodotti agricoli, di bestiame e di sale che attirò sempre più le popolazioni dell'Italia centrale.
Durante l'VIII e il VII secolo a.C. il villaggio del Palatino si fuse, anche per difendersi soprattutto dagli Etruschi che spadroneggiavano al di là del Tevere, con i villaggi vicini; l'Esquilino, il Celio, il Viminale, il Quirinale, il Capitolino, mentre l'Aventino dovrà attendere il IV secolo per essere incluso entro la cerchia delle mura. Tutti questi villaggi si riunirono in una lega religiosa il cui ricordo rimase nella festa del settimonzio, un rito celebrato ancora in età storica con sacrifici alle divinità sulle alture dei colli meridionali (da saeptimontes = monti chiusi da staccionate o da argini di terriccio).
Successivamente questi villaggi si riunirono anche militarmente, soprattutto dopo che sul Quirinale si erano insediati i Sabini scesi dall'entroterra appenninico per garantirsi il guado del Tevere e la possibilità di accesso alle saline.
Attraverso questo processo di amalgama si formò Roma, che diventò pian piano una vera e propria città, munita di un valido sistema difensivo, sotto il comando di un re, affiancato dagli esponenti delle più importanti famiglie. La fisionomia della città allora si trasformò: vennero tracciate strade, costruite case e quartieri, innalzati templi ed edifici pubblici, ampliate le mura.
Si sviluppò, sempre in questo periodo, l'artigianato, si incrementarono i commerci, furono accolti gli stimoli della più progredita civilta' etrusca.
Per quanto concerne la data della fondazione di Roma anche su questa regna il mistero.
Secondo il letterato romano Marco Terenzio Varrone (Rieti, 116 a.C. – 27 a.C.), sulla base di calcoli effettuati dal suo amico astrologo Lucio Taruzio (anche conosciuto come Lucio Tarunzio Firmano, nato a Fermo nel I secolo a.C.), Romolo avrebbe fondato Roma il 21 aprile 753 a.C. (Natale di Roma).
Da questa data deriva la cronologia romana definita con la locuzione latina Ab Urbe Condita, ossia dalla fondazione della città. Sembra che Bonifacio IV, vissuto intorno al 600 d.C., fosse il primo a riconoscere un collegamento tra questo tipo di datazione e l'Anno Domini, cioè A.D. 1 = AUC 754.
La correttezza del calcolo di Lucio Taruzio tuttavia non è mai stata provata in modo scientifico. Ed è sempre a Taruzio che si deve una presunzione di data di nascita di Romolo, che, secondo i suoi calcoli, doveva essere nato il 23 settembre dell'anno successivo alla seconda olimpiade, nel 771 a.C. in coincidenza con una eclissi di sole; datazione che fu ritenuta comica dal suo contemporaneo Marco Tullio Cicerone (Arpinum, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.).

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