Buongiorno, oggi è il 30 aprile.
Il 30 aprile 1994, durante la sessione di qualifiche valida per il Gran Premio di San Marino sul circuito di Imola, la Simtek del pilota austriaco Roland Ratzenberger uscì di pista ad altissima velocità causando la morte del 34enne. .
Una vita dedicata all’automobilismo e alle corse. Così si può definire l’esistenza di Roland Ratzenberger, austriaco di Salisburgo nato il 4 luglio del 1960. Prima di raggiungere il traguardo della Formula 1, categoria nella quale ebbe accesso alla non giovanissima età di 34 anni, l’austriaco si era creato la fama del pilota da ottimo potenziale negli anni ’80, quando si era fatto le ossa e la gavetta nelle serie minori, e nei primi anni ’90, periodo in cui aveva partecipato ben quattro volte alla prestigiosa 24 Ore di Le Mans.
Ma la grande occasione della vita arriva nel 1994. In quell’anno, dopo svariati tentativi in passato, prende parte per la prima volta al campionato di Formula 1 il team Simtek, fondato nel 1989 da Max Mosley e supportato da una solida sponsorizzazione proveniente dall’emittente televisiva MTV.
I vertici della neonata squadra decidono di puntare su David Brabham (figlio del tre volte campione del mondo Jack) e su di lui: Roland Ratzenberger.
Il sogno di una vita intera finalmente si realizza, ma il primo impatto con il grande circus è tutt’altro che positivo. In Brasile, al primo appuntamento della stagione, non riesce nemmeno a qualificarsi per la gara, rovinando il suo debutto. Nella successiva gara però, sul nuovissimo circuito di Ti Aida in Giappone (Gp del Pacifico), l’austriaco riesce a rifarsi alla grande, dando dimostrazione delle sue abilità concludendo con un prezioso ed inaspettato 11° posto finale.
Manca insomma l’acuto tanto atteso, ed Imola, terzo prova del calendario, sembra essere l’occasione perfetta per migliorare ulteriormente. Prima di farsi valere in gara però, bisogna affrontare le qualifiche il 30 aprile. Nel paddock non si respira un’aria serena, con i piloti visibilmente spaventati e polemici sulle condizioni di sicurezza del tracciato dopo aver visto l’incidente di Rubens Barrichello nel corso delle prove libere, con il brasiliano vittima di un brutto impatto con le barriere dal quale ne esce con un naso fratturato e una leggera amnesia, per non parlare di varie escoriazioni al volto.
Al via delle qualifiche i piloti scendono in pista, e tra i tanti parte per il proprio tentativo anche Ratzenberger. Alla curva Villeneuve, però, incombe la tragedia. A causa di un contatto maldestro con un cordolo, l’ala anteriore della monoposto si rompe proprio mentre il pilota affronta il rettilineo prima della curva. Perdendo dunque deportanza, ed impossibilitato a sterzare, la monoposto andò a schiantarsi violentemente contro le protezioni ad oltre 300 km/h. Si capisce che la situazione è gravissima una volta che le telecamere vanno ad inquadrare la vettura dopo lo schianto, con il capo del pilota che oscilla preoccupantemente appoggiandosi infine sul bordo dell’abitacolo subito dopo aver finito il testacoda.
La sessione viene immediatamente sospesa con l’esposizione delle bandiere rosse, ed i soccorsi sono tempestivi. Nonostante il rapido intervento dei sanitari, si avverte quanto sia disperata la situazione quando le immagini dall’elicottero riprendono i medici praticare un massaggio cardiaco al pilota.
Viste le gravi ferite alla base cranica, Ratzenberger viene trasportato a bordo di un elicottero all’Ospedale Maggiore di Bologna, dove morirà poco più tardi. In realtà l’austriaco, secondo i risultati dell’autopsia, morì praticamente sul colpo, ma il cuore venne riattivato dal defibrillatore durante le fasi di soccorso, per poi decedere ufficialmente al nosocomio bolognese, quando le qualifiche, che incredibilmente ripresero successivamente, erano già finite. Secondo la legge italiana infatti, dato che la morte del pilota sopraggiunse al di fuori dell’evento sportivo, fu possibile poi svolgere la gara del giorno. Tutto questo tra mille polemiche, visto come andò poi a finire con la morte in gara di Ayrton Senna, il quale il giorno prima, dopo le qualifiche, si fece accompagnare sul luogo dell’incidente dai commissari per valutare di persona come era potuto accadere l’incidente accorso a Roland.
Si venne poi a scoprire, dopo lo schianto di Senna, che il campione del mondo brasiliano aveva portato all’interno del suo abitacolo una bandiera austriaca, che avrebbe poi sventolato al termine della gara per omaggiare il collega scomparso.
Roland Ratzenberger oggi riposa al cimitero di Maxglan, a pochi passi dalla sua città natale di Salisburgo. C’è chi dice che la sua è stata una morte ricordata solo perché il giorno dopo se ne andò il grande Ayrton Senna, molto più titolato e famoso di lui.
Ma per chi ammira la Formula 1 un pensiero del genere non potrà mai essere pienamente condiviso. Chi ci ha rimesso la pelle seguendo un sogno va ricordato per sempre non solo per una questione di rispetto verso la persona, ma proprio perché se n’è andato facendo qualcosa che amava.
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martedì 30 aprile 2024
lunedì 29 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 aprile.
Il 29 aprile 1665 Gian Lorenzo Bernini parte per la Francia, con l'intenzione di lavorare alla ristrutturazione del Louvre, la residenza reale.
Dominatore del secolo in cui visse, con la sua personalità, il suo genio, le sue imprese artistiche, Gian Lorenzo Bernini è stato per Roma e per il Seicento quello che Michelangelo Buonarroti è stato per il secolo precedente.
Gian Lorenzo Bernini nasce a Napoli il 7 dicembre 1598 dove il padre Pietro, sculture, e la madre Angelica Galante si erano da poco trasferiti. Nel 1606 la famiglia fa ritorno a Roma: Pietro ottiene la protezione del cardinale Scipione Borghese. In questo contesto ci sarà occasione per il giovane Bernini di mostrare il suo precoce talento.
Gian Lorenzo si forma alla bottega del padre e con lui realizza i suoi primi lavori. Tra le sue opere principali di questo periodo vi sono il "Ratto di Proserpina" (1620-23), "Apollo e Dafne" (1624-25) e il "David": a differenza dei David di Michelangelo e Donatello, Bernini s'interessa al momento di massimo dinamismo, quando l'energia esplode e si fa manifesta nel tendersi dei muscoli, nella violenta torsione a spirale del busto e nella fierezza del volto.
Le opere del Bernini definiscono la sua personalità, forte degli insegnamenti del padre ma nello stesso tempo innovatore dello spirito di tutta una generazione.
E' ancora giovanissimo quando papa Urbano VIII Barberini, con il quale l'artista stabilirà un durevole e proficuo rapporto di lavoro, gli commissiona il "Baldacchino di S. Pietro" (1624-1633), un colosso bronzeo di quasi trenta metri. L'opera si erige sulla tomba di Pietro ed è sostenuto da quattro colonne che colmano lo spazio sotto la cupola della Basilica, che s'attorcigliano sul loro fusto come enormi rampicanti, e che sono raccordate in alto da una incastellatura di volute a "dorso di delfino". Quest'opera non può considerarsi un'architettura, né una scultura, né una pittura, ma centra perfettamente lo scopo.
Nel 1629 Papa Urbano VIII nomina Bernini architetto sovrintendente alla Fabbrica di S. Pietro. Le fontane sono un prodotto tipico del gusto barocco; Bernini inaugura una nuova tipologia, quella a vasca ribassata: sempre per il papa esegue la "Fontana del Tritone" in Piazza Barberini e la "Fontana della Barcaccia" in Piazza di Spagna, a Roma.
Tra il 1628 ed il 1647 realizza la "Tomba di Urbano VIII" nella Basilica di San Pietro. Sempre in questo periodo realizza due dei suoi busti-ritratto più famosi: quelli di Scipione Borghese e Costanza Buonarelli, visi senza segreti che si mostrano in tutte le loro sfumature caratteriali.
Nel 1644 muore papa Urbano VIII e si scatenarono le gelosie rivali tra Bernini e Borromini, con il quale ebbe ripetuti attacchi e polemiche in occasione dei lavori per la facciata di Palazzo Barberini, sin dal 1630.
In seguito Gian Lorenzo Bernini trova l'appoggio di Papa Innocenzo X per il quale esegue la decorazione del braccio lungo di S.Pietro e realizza la "Fontana dei Quattro Fiumi" (1644) a Piazza Navona a Roma. In seguito realizza la "Verità", i busti di Innocenzo X Pamphili e il busto di Francesco I D'Este.
Durante il pontificato di Alessandro VII Chigi, Bernini ottiene l'incarico di dare una configurazione confacente per significati e funzioni, alla piazza antistante la Basilica di San Pietro.
Nel 1656 Bernini progetta il colonnato di San Pietro, compiuto nel 1665 con le novantasei statue del coronamento. L'artista riprende lo spirito dell'architettura dell'impero, dandole vita con le colonne e aggiungendo dei particolari scultorei.
Sempre nel 1665 si reca in Francia per eseguire il busto di Luigi XIV. Pur destando ammirazione a Versailles, la fama di Bernini genera nell'ambiente accademico un clima di diffidenza che fa naufragare ogni sua aspettativa, compreso il grandioso progetto per il Louvre di Parigi.
Rientrato in Italia porta a compimento i lavori in San Pietro e si dedica, tra altre attività, al Monumento funebre di Alessandro VII.
Clemente IX Rospigli succede ad Alessandro VII nel 1667: questi affida al Bernini la sistemazione del ponte davanti a Castel Sant'Angelo. Bernini esegue due dei dieci angeli che devono decorare il ponte: vengono giudicati talmente belli che si decide di collocarli nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte per proteggerli dalle intemperie.
L'attività dell'artista si conclude sotto il pontificato di Innocenzo XI Odescalchi. L'ultima sua scultura è il "Salvatore" che si trova custodita nel Museo Chrysler di Norfolk in Virginia.
Dopo una lunghissima vita dedicata all'arte, dopo aver imposto il suo stile a tutta un'epoca, Gian Lorenzo Bernini muore a Roma il 28 novembre 1680, all'età di 82 anni.
A lui è intitolato il cratere Bernini presente sul pianeta Mercurio. La sua effigie è stata presente sulla banconota da 50.000 Lire italiane.
Il 29 aprile 1665 Gian Lorenzo Bernini parte per la Francia, con l'intenzione di lavorare alla ristrutturazione del Louvre, la residenza reale.
Dominatore del secolo in cui visse, con la sua personalità, il suo genio, le sue imprese artistiche, Gian Lorenzo Bernini è stato per Roma e per il Seicento quello che Michelangelo Buonarroti è stato per il secolo precedente.
Gian Lorenzo Bernini nasce a Napoli il 7 dicembre 1598 dove il padre Pietro, sculture, e la madre Angelica Galante si erano da poco trasferiti. Nel 1606 la famiglia fa ritorno a Roma: Pietro ottiene la protezione del cardinale Scipione Borghese. In questo contesto ci sarà occasione per il giovane Bernini di mostrare il suo precoce talento.
Gian Lorenzo si forma alla bottega del padre e con lui realizza i suoi primi lavori. Tra le sue opere principali di questo periodo vi sono il "Ratto di Proserpina" (1620-23), "Apollo e Dafne" (1624-25) e il "David": a differenza dei David di Michelangelo e Donatello, Bernini s'interessa al momento di massimo dinamismo, quando l'energia esplode e si fa manifesta nel tendersi dei muscoli, nella violenta torsione a spirale del busto e nella fierezza del volto.
Le opere del Bernini definiscono la sua personalità, forte degli insegnamenti del padre ma nello stesso tempo innovatore dello spirito di tutta una generazione.
E' ancora giovanissimo quando papa Urbano VIII Barberini, con il quale l'artista stabilirà un durevole e proficuo rapporto di lavoro, gli commissiona il "Baldacchino di S. Pietro" (1624-1633), un colosso bronzeo di quasi trenta metri. L'opera si erige sulla tomba di Pietro ed è sostenuto da quattro colonne che colmano lo spazio sotto la cupola della Basilica, che s'attorcigliano sul loro fusto come enormi rampicanti, e che sono raccordate in alto da una incastellatura di volute a "dorso di delfino". Quest'opera non può considerarsi un'architettura, né una scultura, né una pittura, ma centra perfettamente lo scopo.
Nel 1629 Papa Urbano VIII nomina Bernini architetto sovrintendente alla Fabbrica di S. Pietro. Le fontane sono un prodotto tipico del gusto barocco; Bernini inaugura una nuova tipologia, quella a vasca ribassata: sempre per il papa esegue la "Fontana del Tritone" in Piazza Barberini e la "Fontana della Barcaccia" in Piazza di Spagna, a Roma.
Tra il 1628 ed il 1647 realizza la "Tomba di Urbano VIII" nella Basilica di San Pietro. Sempre in questo periodo realizza due dei suoi busti-ritratto più famosi: quelli di Scipione Borghese e Costanza Buonarelli, visi senza segreti che si mostrano in tutte le loro sfumature caratteriali.
Nel 1644 muore papa Urbano VIII e si scatenarono le gelosie rivali tra Bernini e Borromini, con il quale ebbe ripetuti attacchi e polemiche in occasione dei lavori per la facciata di Palazzo Barberini, sin dal 1630.
In seguito Gian Lorenzo Bernini trova l'appoggio di Papa Innocenzo X per il quale esegue la decorazione del braccio lungo di S.Pietro e realizza la "Fontana dei Quattro Fiumi" (1644) a Piazza Navona a Roma. In seguito realizza la "Verità", i busti di Innocenzo X Pamphili e il busto di Francesco I D'Este.
Durante il pontificato di Alessandro VII Chigi, Bernini ottiene l'incarico di dare una configurazione confacente per significati e funzioni, alla piazza antistante la Basilica di San Pietro.
Nel 1656 Bernini progetta il colonnato di San Pietro, compiuto nel 1665 con le novantasei statue del coronamento. L'artista riprende lo spirito dell'architettura dell'impero, dandole vita con le colonne e aggiungendo dei particolari scultorei.
Sempre nel 1665 si reca in Francia per eseguire il busto di Luigi XIV. Pur destando ammirazione a Versailles, la fama di Bernini genera nell'ambiente accademico un clima di diffidenza che fa naufragare ogni sua aspettativa, compreso il grandioso progetto per il Louvre di Parigi.
Rientrato in Italia porta a compimento i lavori in San Pietro e si dedica, tra altre attività, al Monumento funebre di Alessandro VII.
Clemente IX Rospigli succede ad Alessandro VII nel 1667: questi affida al Bernini la sistemazione del ponte davanti a Castel Sant'Angelo. Bernini esegue due dei dieci angeli che devono decorare il ponte: vengono giudicati talmente belli che si decide di collocarli nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte per proteggerli dalle intemperie.
L'attività dell'artista si conclude sotto il pontificato di Innocenzo XI Odescalchi. L'ultima sua scultura è il "Salvatore" che si trova custodita nel Museo Chrysler di Norfolk in Virginia.
Dopo una lunghissima vita dedicata all'arte, dopo aver imposto il suo stile a tutta un'epoca, Gian Lorenzo Bernini muore a Roma il 28 novembre 1680, all'età di 82 anni.
A lui è intitolato il cratere Bernini presente sul pianeta Mercurio. La sua effigie è stata presente sulla banconota da 50.000 Lire italiane.
domenica 28 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 aprile.
Il 28 aprile 1794 si ebbe una insurrezione popolare in Sardegna contro il vicere Balbiano, passata alla storia con il nome dei "Vespri sardi".
La rivolta popolare passata alla storia col nome di “Vespri Sardi” costituisce una reminiscenza della Storia affiorata solo negli tempi, dopo decenni di oblio; eppure ne costituisce una delle pagine più affascinanti e singolari, d’un unicità suadente e romantica, come spesso se ne incontrano aggirandosi nel caleidoscopio della Storia locale.
Tutto iniziò nel 1793, quando la popolazione sarda, sottoposta al dominio piemontese, si oppose all’invasione delle forze francesi sbarcate a Carloforte, e riuscì ad arrestarne la pressione in direzione di Cagliari.
Una manifestazione di fedeltà di questo genere avrebbe meritato immediato riconoscimento: almeno, si sosteneva da più parti in Sardegna, la convocazione delle corti generali, la conferma del corpus legislativo, la concessione agli isolani d’una parte degli impieghi civili e militari, oltre ad una maggiore autonomia rispetto alle decisioni della classe dirigente occupante e ad un ministero distinto, a Torino, per gli affari dell’isola.
Invece il governo piemontese la liquidò in fretta, snobbando le aspirazioni dei sardi e porgendogli le briciole: 24 doti da 60 scudi da distribuire tra le zitelle povere, 4 posti gratuiti per il Collegio dei Nobili di Cagliari, 2 posti nel Collegio dei Nobili di Torino, 1000 scudi l’anno per l’Ospedale civile di Cagliari, l’amnistia per tutti i crimini commessi prima della guerra.
Gli animi, precocemente censurato l’entusiasmo della vittoria, volsero allora le precedenti ebollizioni contro l’ingratitudine dei piemontesi e dei loro soddisfatti compatrioti di stanza in Sardegna, che avevano beneficiato d’ogni sorta di favoritismo. Il rancore popolare si concentrò in particolare intorno alla figura del Viceré Vincenzo Balbiano, reo d’aver consigliato al re Vittorio Amedeo III di rifiutare le richieste dei sardi, oltre ad aver tentato di corrompere i membri della delegazione sarda inviata per presentargliele.
La scintilla scoppiò a Cagliari nella notte tra il 28 ed il 29 aprile, quando un drappello di miliziani piemontesi, giunti a Stempace da Castello, tentò di arrestare l'avvocato Vincenzo Cabras, con l'accusa di sedizione contro lo stato, bloccando anche Bernardo Pintor, scambiato per il fratello Efisio: a loro si era rivolto nei mesi precedenti Girolamo Pitzolo, avvocato e patriota sardo, protagonista della difesa di Cagliari dell’anno precedente e poi membro della sopracitata delegazione a Torino, per incitare una rivolta contro gli occupanti.
Alla notizia del fatto si coagulò d’un colpo una forza popolare consistente, richiamata anche dalle campane che suonavano a distesa, che in breve cominciò a fluire verso Castello e quivi disarmò le guardie poste a difesa della porta di Sant’Agostino; poco dopo, altri rivoltosi assaltarono le porte della Torre dell'Elefante e della Torre del Leone, intenzionati ad arrestare il Viceré. Lo scovarono infine nel palazzo arcivescovile, dove si era rifugiato insieme alle massime autorità piemontesi.
Il 7 maggio, lo stesso Balbiano – insieme a 514 soldati e funzionari piemontesi – furono imbarcati sulle navi, e rispediti in Piemonte; nei giorni seguenti, le città di Alghero e Sassari seguirono l’esempio dell’odierno capoluogo.
Molti anni dopo, Antonio Gramsci avrebbe ancora citato lo slogan “a mare i continentali!”, seppur riferito alle esplosioni congiunturali di furore anti-istituzionale che continuavano a caratterizzare la storia d’un popolo con ambizioni di “Nazione etnica”; in quel confuso 1794, invece, le moderate aspirazioni delle varie componenti della popolazione sarda si ritrovarono per le mani la possibilità d’elaborare la forma istituzionale d’un nuovo stato sardo; e da questo sforzo, cui erano impreparate, quelle stesse aspirazioni risultarono ancora una volta frustrate, acuendo le difficoltà d’una “colonia” indesiderata, merce di scambio tra spagnoli e francesi prima, e “ostaggio” dei Savoia poi.
I nobili, in gran maggioranza, avversarono infatti la struttura repubblicana proposta da Giovanni Maria Angioj, e la stasi che ne conseguì si risolse solo negli anni seguenti: a poco a poco si ricompose quindi la frattura con la corte piemontese.
Presto sarebbe approdato un nuovo Viceré.
Con la legge regionale n. 44 del 14/9/1993, ad ogni modo, il 28 aprile – “Sa Die de sa Sardigna” – è stata dichiarata la giornata del popolo sardo; in occasione della ricorrenza, la Regione Autonoma della Sardegna organizza manifestazioni ed iniziative culturali, ed a tal fine la Giunta regionale approva annualmente, sentita la competente Commissione consiliare, uno specifico programma mirante a sviluppare la conoscenza della storia e dei valori dell'autonomia, in particolare tra le nuove generazioni.
Il 28 aprile 1794 si ebbe una insurrezione popolare in Sardegna contro il vicere Balbiano, passata alla storia con il nome dei "Vespri sardi".
La rivolta popolare passata alla storia col nome di “Vespri Sardi” costituisce una reminiscenza della Storia affiorata solo negli tempi, dopo decenni di oblio; eppure ne costituisce una delle pagine più affascinanti e singolari, d’un unicità suadente e romantica, come spesso se ne incontrano aggirandosi nel caleidoscopio della Storia locale.
Tutto iniziò nel 1793, quando la popolazione sarda, sottoposta al dominio piemontese, si oppose all’invasione delle forze francesi sbarcate a Carloforte, e riuscì ad arrestarne la pressione in direzione di Cagliari.
Una manifestazione di fedeltà di questo genere avrebbe meritato immediato riconoscimento: almeno, si sosteneva da più parti in Sardegna, la convocazione delle corti generali, la conferma del corpus legislativo, la concessione agli isolani d’una parte degli impieghi civili e militari, oltre ad una maggiore autonomia rispetto alle decisioni della classe dirigente occupante e ad un ministero distinto, a Torino, per gli affari dell’isola.
Invece il governo piemontese la liquidò in fretta, snobbando le aspirazioni dei sardi e porgendogli le briciole: 24 doti da 60 scudi da distribuire tra le zitelle povere, 4 posti gratuiti per il Collegio dei Nobili di Cagliari, 2 posti nel Collegio dei Nobili di Torino, 1000 scudi l’anno per l’Ospedale civile di Cagliari, l’amnistia per tutti i crimini commessi prima della guerra.
Gli animi, precocemente censurato l’entusiasmo della vittoria, volsero allora le precedenti ebollizioni contro l’ingratitudine dei piemontesi e dei loro soddisfatti compatrioti di stanza in Sardegna, che avevano beneficiato d’ogni sorta di favoritismo. Il rancore popolare si concentrò in particolare intorno alla figura del Viceré Vincenzo Balbiano, reo d’aver consigliato al re Vittorio Amedeo III di rifiutare le richieste dei sardi, oltre ad aver tentato di corrompere i membri della delegazione sarda inviata per presentargliele.
La scintilla scoppiò a Cagliari nella notte tra il 28 ed il 29 aprile, quando un drappello di miliziani piemontesi, giunti a Stempace da Castello, tentò di arrestare l'avvocato Vincenzo Cabras, con l'accusa di sedizione contro lo stato, bloccando anche Bernardo Pintor, scambiato per il fratello Efisio: a loro si era rivolto nei mesi precedenti Girolamo Pitzolo, avvocato e patriota sardo, protagonista della difesa di Cagliari dell’anno precedente e poi membro della sopracitata delegazione a Torino, per incitare una rivolta contro gli occupanti.
Alla notizia del fatto si coagulò d’un colpo una forza popolare consistente, richiamata anche dalle campane che suonavano a distesa, che in breve cominciò a fluire verso Castello e quivi disarmò le guardie poste a difesa della porta di Sant’Agostino; poco dopo, altri rivoltosi assaltarono le porte della Torre dell'Elefante e della Torre del Leone, intenzionati ad arrestare il Viceré. Lo scovarono infine nel palazzo arcivescovile, dove si era rifugiato insieme alle massime autorità piemontesi.
Il 7 maggio, lo stesso Balbiano – insieme a 514 soldati e funzionari piemontesi – furono imbarcati sulle navi, e rispediti in Piemonte; nei giorni seguenti, le città di Alghero e Sassari seguirono l’esempio dell’odierno capoluogo.
Molti anni dopo, Antonio Gramsci avrebbe ancora citato lo slogan “a mare i continentali!”, seppur riferito alle esplosioni congiunturali di furore anti-istituzionale che continuavano a caratterizzare la storia d’un popolo con ambizioni di “Nazione etnica”; in quel confuso 1794, invece, le moderate aspirazioni delle varie componenti della popolazione sarda si ritrovarono per le mani la possibilità d’elaborare la forma istituzionale d’un nuovo stato sardo; e da questo sforzo, cui erano impreparate, quelle stesse aspirazioni risultarono ancora una volta frustrate, acuendo le difficoltà d’una “colonia” indesiderata, merce di scambio tra spagnoli e francesi prima, e “ostaggio” dei Savoia poi.
I nobili, in gran maggioranza, avversarono infatti la struttura repubblicana proposta da Giovanni Maria Angioj, e la stasi che ne conseguì si risolse solo negli anni seguenti: a poco a poco si ricompose quindi la frattura con la corte piemontese.
Presto sarebbe approdato un nuovo Viceré.
Con la legge regionale n. 44 del 14/9/1993, ad ogni modo, il 28 aprile – “Sa Die de sa Sardigna” – è stata dichiarata la giornata del popolo sardo; in occasione della ricorrenza, la Regione Autonoma della Sardegna organizza manifestazioni ed iniziative culturali, ed a tal fine la Giunta regionale approva annualmente, sentita la competente Commissione consiliare, uno specifico programma mirante a sviluppare la conoscenza della storia e dei valori dell'autonomia, in particolare tra le nuove generazioni.
sabato 27 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 aprile.
Il 27 aprile 1667 John Milton vende i diritti del suo "Paradiso perduto" per 10 sterline.
Scrittore e poeta, John Milton nasce a Londra il giorno 9 dicembre dell'anno 1608. Educato e cresciuto in ambienti puritani, colti e umanisti, compie i suoi studi conseguendo la laurea al Christ's College di Cambridge. Il giovane Milton avverte però insoddisfazione verso il clero anglicano; mentre parallelamente il suo interesse per la poesia cresce, rinuncia a prendere gli ordini sacri.
Vive con il padre, notaio e compositore di musica, dal 1632 al 1638 nel Buckinghamshire e, libero da ogni preoccupazione, ha modo di concentrarsi nello studio dei classici oltre che della storia ecclesiastica e politica. Approfondisce in particolar modo i testi di Bembo, Dante, Francesco Petrarca e Torquato Tasso.
Negli anni successivi viaggia molto tra Svizzera, Francia e Italia; John Milton incontra anche Galileo Galilei, ma non riesce ad arrivare in Sicilia e in Grecia, a causa della minaccia della guerra civile che sta per scoppiare in Inghilterra. Torna quindi in patria stabilendosi a Londra; qui si dedica all'insegnamento e alla scrittura di trattati religiosi e politici.
Nel 1642 sposa la diciassettenne Mary Powell, figlia di un monarchico, la quale abbandona Milton dopo un solo mese. Dopo aver scritto e pubblicato un'apologia sul divorzio ("Dottrina e disciplina del divorzio", The Doctrine and Discipline of Divorce, 1643) si riconcilia con la moglie nel 1645.
La morte del padre, avvenuta nel 1646, porta un miglioramento delle sue condizioni finanziarie. Abbandona l'insegnamento ma è solo a partire dal 1658 che si dedicherà in modo completo all'attività di letterato.
La carriera di Milton lo porta a ricoprire anche cariche di Stato: quando l'Inghilterra viene attraversata dalla guerra civile, Milton con i suoi scritti appoggia la causa parlamentare e le posizioni di Cromwell. Grazie alla vittoria di quest'ultimo nella guerra civile, Milton trova successivamente appoggi alle sue convinzioni e alle sue idee. Nel 1649 viene nominato segretario degli Affari esteri. Pochi anni dopo (1652) è vittima di una malattia che lo porta alla cecità: per proseguire la sua attività di scrittore deve ricorrere all'aiuto di un segretario a cui dettare i propri pensieri.
Nel 1652 muore la moglie. Si risposerà altre due volte e dalle varie unioni nasceranno sette figli.
Dopo la restaurazione di Carlo II, Milton viene incarcerato perché simpatizzante di Oliver Cromwell. Con l'influenza dell'amico e studente Andrew Marvell (che successivamente diverrà anch'egli poeta) riesce a ritrovare la libertà.
Il capolavoro letterario di John Milton è il poema epico (un'epopea di impianto omerico) "Paradiso perduto" (Paradise Lost), pubblicato in una prima edizione di 10 volumi nel 1667 quando - ormai cieco e senza soldi - ne vendette i diritti per 10 sterline. La seconda edizione del 1674, conta 12 volumi. Milton aveva iniziato l'opera già negli anni della prima produzione saggistica. Con la sua pubblicazione "Paradise Lost" dà vita a quello che viene considerato un vero e proprio dramma cosmico.
Assieme a quest'opera pubblica anche "Sansone Agonista", una tragedia in cinque atti ispirata alle vicende bibliche di Sansone e Dalila.
Nel 1671 esce il "Paradiso riconquistato".
Non solo per il suo lavoro più noto, bensì per tutta la sua produzione saggistica e letteraria, Milton viene considerato uno dei letterati britannici più importanti, apprezzati ed influenti dell'epoca successiva a quella di Shakespeare.
Tra le altre opere di Milton, nel suo primo periodo letterario ricordiamo il "Lycidas", un'elegia pastorale in 193 versi, scritta nel 1637 in memoria di uno studente di Cambridge, in cui John Milton affronta il tema della morte prematura; vi sono poi "L'allegro" e "Il pensieroso", due poemetti terminati di scrivere nel 1631 ma pubblicati solo una quindicina di anni dopo.
Al secondo periodo letterario - che va dal 1640 al 1660 - risalgono i pamphlet che sin dalla loro prima pubblicazione rendono famoso il suo autore, che attacca l'istituzione episcopale e si pronuncia in maniera favorevole per un ritorno dello spirito della Riforma ("Of Reformation Touching Church Discipline in England", 1641).
"The Reason of Church Government Urged Against Prelaty" è un altro di questi libelli - scritto e pubblicato fra il 1641 ed il 1642 - contiene accenni autobiografici di rilievo storico.
"L'Areopagitica" (1644), è un appello carico di fervore con cui sostiene la libertà di stampa: questa costituisce la sua opera in prosa più conosciuta.
Milton scrive anche ventiquattro sonetti (in parte saranno pubblicati postumi) ed un breve testo didattico dal titolo "Trattato dell'educazione" (Tractate of Education).
In vecchiaia, negli ultimi trattati - prodotti intorno al 1660 - "Difesa del popolo anglicano" (Pro populo anglicano defensio) e "Trattato del potere civile nelle cause ecclesiastiche" (Treatise of Civil Power in Ecclesiastical Causes), Milton affronta temi più strettamente teologici, pronunciandosi a favore di un'interpretazione assolutamente soggettiva delle Sacre Scritture, suggerendo nel contempo una concreta riforma di governo.
Per anni Milton coltiva il desiderio di redigere uno studio completo sulla vita e la dottrina cristiana. Ormai completamente cieco sin dal 1652 si dedica a questo progetto con l'aiuto di diversi segretari, fino al giorno della sua morte, che avviene a Londra il giorno 8 novembre 1674.
Con la sua opera conclusiva, "De doctrina christiana", sostiene che insegnamenti e usanze della Chiesa Cattolica Romana e delle Chiese Protestanti non sono in armonia con le Sacre Scritture. In quest'opera fa riferimento alle Scritture riportando più di novemila citazioni, mantenendo un rispettoso utilizzo del nome di Dio, Geova, ed utilizzandolo liberamente nei suoi scritti.
Basandosi sulla Bibbia, Milton rigetta la dottrina calvinistica della predestinazione in favore del libero arbitrio; usa le Scritture per sostenere che l'anima umana è soggetta alla morte e che non è duplice o scindibile dal corpo, come comunemente si crede; l'unica speranza per i morti è pertanto quella di una futura risurrezione dal sonno della morte. Inoltre dimostra biblicamente che Cristo, figlio di Dio, è subordinato a Dio, Padre. Poiché le sue spiegazioni scritturali sono in completo disaccordo con l'insegnamento ufficiale della Chiesa, il manoscritto rimane sepolto in archivio per 150 anni prima di tornare alla luce. Solo nel 1823 il monarca reggente Giorgio IV ordina che l'opera sia tradotta dal latino e resa pubblica: due anni dopo viene pubblicato in lingua inglese, suscitando subito aspre polemiche negli ambienti teologici e letterari. La traduzione viene tacciata di essere un falso; il traduttore tuttavia, prevedendo queste reazioni, per confermare l'attribuzione della paternità dell'opera a Milton, aveva corredato l'edizione di note in calce che evidenziavano 500 analogie parallele tra il "De doctrina christiana" e il "Paradiso perduto"
Il 27 aprile 1667 John Milton vende i diritti del suo "Paradiso perduto" per 10 sterline.
Scrittore e poeta, John Milton nasce a Londra il giorno 9 dicembre dell'anno 1608. Educato e cresciuto in ambienti puritani, colti e umanisti, compie i suoi studi conseguendo la laurea al Christ's College di Cambridge. Il giovane Milton avverte però insoddisfazione verso il clero anglicano; mentre parallelamente il suo interesse per la poesia cresce, rinuncia a prendere gli ordini sacri.
Vive con il padre, notaio e compositore di musica, dal 1632 al 1638 nel Buckinghamshire e, libero da ogni preoccupazione, ha modo di concentrarsi nello studio dei classici oltre che della storia ecclesiastica e politica. Approfondisce in particolar modo i testi di Bembo, Dante, Francesco Petrarca e Torquato Tasso.
Negli anni successivi viaggia molto tra Svizzera, Francia e Italia; John Milton incontra anche Galileo Galilei, ma non riesce ad arrivare in Sicilia e in Grecia, a causa della minaccia della guerra civile che sta per scoppiare in Inghilterra. Torna quindi in patria stabilendosi a Londra; qui si dedica all'insegnamento e alla scrittura di trattati religiosi e politici.
Nel 1642 sposa la diciassettenne Mary Powell, figlia di un monarchico, la quale abbandona Milton dopo un solo mese. Dopo aver scritto e pubblicato un'apologia sul divorzio ("Dottrina e disciplina del divorzio", The Doctrine and Discipline of Divorce, 1643) si riconcilia con la moglie nel 1645.
La morte del padre, avvenuta nel 1646, porta un miglioramento delle sue condizioni finanziarie. Abbandona l'insegnamento ma è solo a partire dal 1658 che si dedicherà in modo completo all'attività di letterato.
La carriera di Milton lo porta a ricoprire anche cariche di Stato: quando l'Inghilterra viene attraversata dalla guerra civile, Milton con i suoi scritti appoggia la causa parlamentare e le posizioni di Cromwell. Grazie alla vittoria di quest'ultimo nella guerra civile, Milton trova successivamente appoggi alle sue convinzioni e alle sue idee. Nel 1649 viene nominato segretario degli Affari esteri. Pochi anni dopo (1652) è vittima di una malattia che lo porta alla cecità: per proseguire la sua attività di scrittore deve ricorrere all'aiuto di un segretario a cui dettare i propri pensieri.
Nel 1652 muore la moglie. Si risposerà altre due volte e dalle varie unioni nasceranno sette figli.
Dopo la restaurazione di Carlo II, Milton viene incarcerato perché simpatizzante di Oliver Cromwell. Con l'influenza dell'amico e studente Andrew Marvell (che successivamente diverrà anch'egli poeta) riesce a ritrovare la libertà.
Il capolavoro letterario di John Milton è il poema epico (un'epopea di impianto omerico) "Paradiso perduto" (Paradise Lost), pubblicato in una prima edizione di 10 volumi nel 1667 quando - ormai cieco e senza soldi - ne vendette i diritti per 10 sterline. La seconda edizione del 1674, conta 12 volumi. Milton aveva iniziato l'opera già negli anni della prima produzione saggistica. Con la sua pubblicazione "Paradise Lost" dà vita a quello che viene considerato un vero e proprio dramma cosmico.
Assieme a quest'opera pubblica anche "Sansone Agonista", una tragedia in cinque atti ispirata alle vicende bibliche di Sansone e Dalila.
Nel 1671 esce il "Paradiso riconquistato".
Non solo per il suo lavoro più noto, bensì per tutta la sua produzione saggistica e letteraria, Milton viene considerato uno dei letterati britannici più importanti, apprezzati ed influenti dell'epoca successiva a quella di Shakespeare.
Tra le altre opere di Milton, nel suo primo periodo letterario ricordiamo il "Lycidas", un'elegia pastorale in 193 versi, scritta nel 1637 in memoria di uno studente di Cambridge, in cui John Milton affronta il tema della morte prematura; vi sono poi "L'allegro" e "Il pensieroso", due poemetti terminati di scrivere nel 1631 ma pubblicati solo una quindicina di anni dopo.
Al secondo periodo letterario - che va dal 1640 al 1660 - risalgono i pamphlet che sin dalla loro prima pubblicazione rendono famoso il suo autore, che attacca l'istituzione episcopale e si pronuncia in maniera favorevole per un ritorno dello spirito della Riforma ("Of Reformation Touching Church Discipline in England", 1641).
"The Reason of Church Government Urged Against Prelaty" è un altro di questi libelli - scritto e pubblicato fra il 1641 ed il 1642 - contiene accenni autobiografici di rilievo storico.
"L'Areopagitica" (1644), è un appello carico di fervore con cui sostiene la libertà di stampa: questa costituisce la sua opera in prosa più conosciuta.
Milton scrive anche ventiquattro sonetti (in parte saranno pubblicati postumi) ed un breve testo didattico dal titolo "Trattato dell'educazione" (Tractate of Education).
In vecchiaia, negli ultimi trattati - prodotti intorno al 1660 - "Difesa del popolo anglicano" (Pro populo anglicano defensio) e "Trattato del potere civile nelle cause ecclesiastiche" (Treatise of Civil Power in Ecclesiastical Causes), Milton affronta temi più strettamente teologici, pronunciandosi a favore di un'interpretazione assolutamente soggettiva delle Sacre Scritture, suggerendo nel contempo una concreta riforma di governo.
Per anni Milton coltiva il desiderio di redigere uno studio completo sulla vita e la dottrina cristiana. Ormai completamente cieco sin dal 1652 si dedica a questo progetto con l'aiuto di diversi segretari, fino al giorno della sua morte, che avviene a Londra il giorno 8 novembre 1674.
Con la sua opera conclusiva, "De doctrina christiana", sostiene che insegnamenti e usanze della Chiesa Cattolica Romana e delle Chiese Protestanti non sono in armonia con le Sacre Scritture. In quest'opera fa riferimento alle Scritture riportando più di novemila citazioni, mantenendo un rispettoso utilizzo del nome di Dio, Geova, ed utilizzandolo liberamente nei suoi scritti.
Basandosi sulla Bibbia, Milton rigetta la dottrina calvinistica della predestinazione in favore del libero arbitrio; usa le Scritture per sostenere che l'anima umana è soggetta alla morte e che non è duplice o scindibile dal corpo, come comunemente si crede; l'unica speranza per i morti è pertanto quella di una futura risurrezione dal sonno della morte. Inoltre dimostra biblicamente che Cristo, figlio di Dio, è subordinato a Dio, Padre. Poiché le sue spiegazioni scritturali sono in completo disaccordo con l'insegnamento ufficiale della Chiesa, il manoscritto rimane sepolto in archivio per 150 anni prima di tornare alla luce. Solo nel 1823 il monarca reggente Giorgio IV ordina che l'opera sia tradotta dal latino e resa pubblica: due anni dopo viene pubblicato in lingua inglese, suscitando subito aspre polemiche negli ambienti teologici e letterari. La traduzione viene tacciata di essere un falso; il traduttore tuttavia, prevedendo queste reazioni, per confermare l'attribuzione della paternità dell'opera a Milton, aveva corredato l'edizione di note in calce che evidenziavano 500 analogie parallele tra il "De doctrina christiana" e il "Paradiso perduto"
venerdì 26 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 aprile.
Il 26 aprile 1933 viene istituita la Gestapo.
Abbreviazione di GEheime STAatsPOlizei, Polizia segreta di Stato istituita il 26 aprile 1933 con un decreto di Göring, allora presidente del Reichstag e ministro degli interni di Prussia. Sorta inizialmente solo nella Prussia, la Gestapo iniziò subito un'epurazione capillare che si estese dall'interno della stessa polizia alla magistratura, agli uffici amministrativi statali sino alle industrie private tra gli impiegati e gli operai.
Oppositori politici ed ebrei, denunciati da quelle delazioni anonime che, incoraggiate dalla Gestapo, divennero un costume di vita, furono posti immediatamente sotto controllo, arrestati e imprigionati nei campi di concentramento.
L'attività della Gestapo fu diretta anche a eliminare la concorrenza delle SA di cui ogni comandante possedeva una prigione personale in cui rinchiudeva i "propri" prigionieri. Per Göring le SA rappresentavano un grande ostacolo al completo controllo della polizia tedesca, e come tali dovevano essere soppresse.
Ma a questo scopo occorreva contrapporre un organismo più efficiente, compito che nel 1934 fu affidato a Himmler, assistito da Heydrich. Quest'ultimo fu in pratica il vero organizzatore di quella macchina perfetta e brutale.
La "purga Röhm" [o "notte dei lunghi coltelli"] del luglio dello stesso anno ne fu un'agghiacciante prova. In quello stesso anno la Gestapo aveva intanto esteso la sua organizzazione su tutta la Germania; la mancanza di una legge che ne regolasse l'attività fece sì che essa operasse sino al 1936 nell'illegalità più assoluta: nessuna autorità prese provvedimenti contro di essa e i tribunali rifiutarono di prendere in considerazione i ricorsi contro i suoi ordini, in quanto nessuna norma li vietava.
Il 10 febbraio 1936 Göring emanò un decreto che permetteva alla Gestapo di esercitare compiti di polizia su tutto il territorio dello Stato e negava ufficialmente la possibilità di ricorrere contro i suoi atti ai tribunali amministrativi. Con successivo decreto del 17 giugno 1936 Himmler veniva nominato capo di tutte le polizie tedesche riunite in una sola organizzazione a sua volta ripartita in due grandi rami: l'ORPO (Ordnungspolizei) polizia d'ordine, e la SIPO (Sicherheitspolizei) polizia di sicurezza.
La prima, in uniforme - comprendente i servizi di polizia cittadina, amministrativa e fluviale, la gendarmeria, la guardia costiera e i pompieri - era diretta dall'ufficiale delle SS, Daluege. La seconda, in borghese, diretta da Heydrich - comprendente la Gestapo e la KRIPO (Kriminalpolizei) polizia criminale - era incaricata di "ricercare ed eliminare tutti i movimenti che, in veste di mandatari dei nemici politici del popolo tedesco, tentano di distruggere l'unità nazionale e di annientare la potenza dello Stato e del partito" e soprattutto doveva agire contro "gli individui che per degenerazione fisica o morale si sono estraniati dalla comunità popolare e che nel loro personale interesse violano le disposizioni vigenti a garanzia dell'interesse generale".
Anche il servizio di sicurezza del corpo delle SS nel Reich (SD, Sicherheitsdienst des Reichsführers SS), che era in sostanza la polizia delle SS, era aggregato alla SIPO e posto alle dipendenze di Heydrich, ma rimaneva indipendente e staccato dagli organi statali. Per svolgere i suoi compiti la Gestapo disponeva di mezzi pressoché illimitati; aveva anche il compito teorico di dirigere i campi di concentramento, che di fatto invece furono sempre diretti dalle SS. La sua sede era nella Prinz-Albrechtstrasse di Berlino, divenuta tristamente celebre; aveva ispettorati regionali e commissariati speciali alle frontiere, particolarmente attivi dal 1936 al 1939, incaricati di svolgere l'attività all'estero. Un ufficio della Gestapo entrò in funzione, già prima della guerra, presso il consolato tedesco di Parigi, dove diresse molti servizi d'informazione e gruppi di sabotaggio mascherati da agenzie turistiche e commerciali. Essendo riuscita a inserirsi in ogni ambiente della classe dirigente del Reich (amministrazione pubblica, forze armate, insegnamento, ecc.), la Gestapo divenne l'arma più terribile dell'oppressione nazista. Dopo l'invasione della Polonia fu creato, il 27 ottobre 1939, il RSHA (Reichssicherheitshauptamt, ufficio centrale per la sicurezza del Reich) nel quale furono riuniti i servizi inquirenti, investigativi e informativi sia politici che criminali, diviso in sette Ämter o reparti di cui il quarto era la Gestapo. Il RSHA dette alle SS la possibilità di controllare tutta la politica del Reich perché esso fu posto alle dipendenze del ministro degli interni e nello stesso tempo fu considerato come uno dei principali servizi SS. A capo del RSHA fu messo Heydrich, che venne anche nominato direttore dello stesso servizio per i territori occupati dove esplicò una feroce attività di repressione di vere e presunte organizzazioni di resistenza. Dopo l'uccisione di Heydrich da parte dei partigiani cèchi (1942) la direzione dello RSHA passò il 30 gennaio 1943 a Kaltenbrunner, capo delle SS in Austria. Egli perfezionò il sistema dei campi di concentramento e di sterminio ed estese su tutta l'Europa occupata il regime poliziesco del III Reich. Dal febbraio dell'anno successivo anche i poteri dell'Abwehr furono trasferiti alla Gestapo che raggiunse così il completo controllo delle forze armate.
Il 26 aprile 1933 viene istituita la Gestapo.
Abbreviazione di GEheime STAatsPOlizei, Polizia segreta di Stato istituita il 26 aprile 1933 con un decreto di Göring, allora presidente del Reichstag e ministro degli interni di Prussia. Sorta inizialmente solo nella Prussia, la Gestapo iniziò subito un'epurazione capillare che si estese dall'interno della stessa polizia alla magistratura, agli uffici amministrativi statali sino alle industrie private tra gli impiegati e gli operai.
Oppositori politici ed ebrei, denunciati da quelle delazioni anonime che, incoraggiate dalla Gestapo, divennero un costume di vita, furono posti immediatamente sotto controllo, arrestati e imprigionati nei campi di concentramento.
L'attività della Gestapo fu diretta anche a eliminare la concorrenza delle SA di cui ogni comandante possedeva una prigione personale in cui rinchiudeva i "propri" prigionieri. Per Göring le SA rappresentavano un grande ostacolo al completo controllo della polizia tedesca, e come tali dovevano essere soppresse.
Ma a questo scopo occorreva contrapporre un organismo più efficiente, compito che nel 1934 fu affidato a Himmler, assistito da Heydrich. Quest'ultimo fu in pratica il vero organizzatore di quella macchina perfetta e brutale.
La "purga Röhm" [o "notte dei lunghi coltelli"] del luglio dello stesso anno ne fu un'agghiacciante prova. In quello stesso anno la Gestapo aveva intanto esteso la sua organizzazione su tutta la Germania; la mancanza di una legge che ne regolasse l'attività fece sì che essa operasse sino al 1936 nell'illegalità più assoluta: nessuna autorità prese provvedimenti contro di essa e i tribunali rifiutarono di prendere in considerazione i ricorsi contro i suoi ordini, in quanto nessuna norma li vietava.
Il 10 febbraio 1936 Göring emanò un decreto che permetteva alla Gestapo di esercitare compiti di polizia su tutto il territorio dello Stato e negava ufficialmente la possibilità di ricorrere contro i suoi atti ai tribunali amministrativi. Con successivo decreto del 17 giugno 1936 Himmler veniva nominato capo di tutte le polizie tedesche riunite in una sola organizzazione a sua volta ripartita in due grandi rami: l'ORPO (Ordnungspolizei) polizia d'ordine, e la SIPO (Sicherheitspolizei) polizia di sicurezza.
La prima, in uniforme - comprendente i servizi di polizia cittadina, amministrativa e fluviale, la gendarmeria, la guardia costiera e i pompieri - era diretta dall'ufficiale delle SS, Daluege. La seconda, in borghese, diretta da Heydrich - comprendente la Gestapo e la KRIPO (Kriminalpolizei) polizia criminale - era incaricata di "ricercare ed eliminare tutti i movimenti che, in veste di mandatari dei nemici politici del popolo tedesco, tentano di distruggere l'unità nazionale e di annientare la potenza dello Stato e del partito" e soprattutto doveva agire contro "gli individui che per degenerazione fisica o morale si sono estraniati dalla comunità popolare e che nel loro personale interesse violano le disposizioni vigenti a garanzia dell'interesse generale".
Anche il servizio di sicurezza del corpo delle SS nel Reich (SD, Sicherheitsdienst des Reichsführers SS), che era in sostanza la polizia delle SS, era aggregato alla SIPO e posto alle dipendenze di Heydrich, ma rimaneva indipendente e staccato dagli organi statali. Per svolgere i suoi compiti la Gestapo disponeva di mezzi pressoché illimitati; aveva anche il compito teorico di dirigere i campi di concentramento, che di fatto invece furono sempre diretti dalle SS. La sua sede era nella Prinz-Albrechtstrasse di Berlino, divenuta tristamente celebre; aveva ispettorati regionali e commissariati speciali alle frontiere, particolarmente attivi dal 1936 al 1939, incaricati di svolgere l'attività all'estero. Un ufficio della Gestapo entrò in funzione, già prima della guerra, presso il consolato tedesco di Parigi, dove diresse molti servizi d'informazione e gruppi di sabotaggio mascherati da agenzie turistiche e commerciali. Essendo riuscita a inserirsi in ogni ambiente della classe dirigente del Reich (amministrazione pubblica, forze armate, insegnamento, ecc.), la Gestapo divenne l'arma più terribile dell'oppressione nazista. Dopo l'invasione della Polonia fu creato, il 27 ottobre 1939, il RSHA (Reichssicherheitshauptamt, ufficio centrale per la sicurezza del Reich) nel quale furono riuniti i servizi inquirenti, investigativi e informativi sia politici che criminali, diviso in sette Ämter o reparti di cui il quarto era la Gestapo. Il RSHA dette alle SS la possibilità di controllare tutta la politica del Reich perché esso fu posto alle dipendenze del ministro degli interni e nello stesso tempo fu considerato come uno dei principali servizi SS. A capo del RSHA fu messo Heydrich, che venne anche nominato direttore dello stesso servizio per i territori occupati dove esplicò una feroce attività di repressione di vere e presunte organizzazioni di resistenza. Dopo l'uccisione di Heydrich da parte dei partigiani cèchi (1942) la direzione dello RSHA passò il 30 gennaio 1943 a Kaltenbrunner, capo delle SS in Austria. Egli perfezionò il sistema dei campi di concentramento e di sterminio ed estese su tutta l'Europa occupata il regime poliziesco del III Reich. Dal febbraio dell'anno successivo anche i poteri dell'Abwehr furono trasferiti alla Gestapo che raggiunse così il completo controllo delle forze armate.
giovedì 25 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 aprile.
Alle sette di sera del 25 aprile 1969, a uffici ormai chiusi, un'esplosione scuote le vie attorno alla Fiera Campionaria di Milano: un ordigno, fatto brillare nello stand della Fiat, provoca una ventina di feriti ma per fortuna nessun morto.
Le indagini, affidate al giovane vice dirigente dell'Ufficio politico Luigi Calabresi, si dirigono verso il mondo anarchico anche se l'episodio in sé non sembra destare più di tanto allarme. Le paure del Paese in quel periodo sono rivolte verso l'Alto Adige, dove terroristi sudtirolesi martellano il territorio con attentati a tralicci e caserme dei carabinieri. Invece sarà l'inizio di una delle stagioni più buie per l'Italia, gli «anni di piombo», punteggiati da agguati e attentati con centinaia di morti e migliaia di feriti. Con Milano spesso epicentro del dramma a partire dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre dello stesso anno.
Non era la prima volta del resto che la Fiera entrava nel mirino degli attentatori, e sempre nel mese di aprile. Alle 9.45 di giovedì 12 infatti un bomba «accolse» re Vittorio Emanuele III che, appena arrivato in stazione, si stava recando a inaugurare la Campionaria del 1928. Il bilancio fu terribile, sedici persone morte sul colpo, altre quattro nei giorni successivi. Benito Mussolini da Roma telegrafò alle autorità di polizia: «Trovate subito i responsabili». Nei giorni successivi verranno arrestati centinaia di sospetti senza mai arrivare a individuare i colpevoli: anche quella prima strage, non avrà mai colpevoli.
Un salto di 40 anni ci porta ora alla fine degli anni Sessanta, con il Paese scosso da un ondata di contestazioni operaie e studentesche. Fabbriche e università vengono occupate a ritmo quasi quotidiano, scioperi e manifestazioni si susseguono e spesso terminano in duri scontri con le forze dell'ordine. Proprio all'inizio del 1969 si registrano i primi morti. Il 27 febbraio la visita del presidente degli Usa Richard Nixon scatena violenti incidenti che portarono alla morte di uno studente di 24 anni. Il 9 aprile altri disordini a Battipaglia durante uno sciopero, la polizia apre il fuoco uccidendo due persone e ferendone 200.
Pochi giorni ancora e il 25 aprile un gran botto scuote lo stand Fiat all'interno della Fiera, provocando 19 feriti. Luigi Calabresi, non ancora trentenne, venne incaricato di scovare i colpevoli. Lui indirizza subito le sue attenzioni verso i circoli anarchici, nonostante la data del 25 aprile lasci pensare ad altre ipotesi, e viene subito accusato di svolgere indagini a senso unico. Arrivato da poco in città, era stato infatti aggregato all'Ufficio politico, come allora si chiamava la Digos, incaricato in particolare di seguire gli ambienti estremisti di sinistra.
L'indagine di Calabresi porta all'arresto di quindici persone della sinistra extraparlamentare, rimaste in carcere per sette mesi prima di venire scarcerate per mancanza di indizi. I veri colpevoli saranno individuati, e condannati, qualche anno dopo: i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura che poi entreranno nelle indagini per la strage di piazza Fontana.
Ma siamo ancora ben lontano dal precipitare degli eventi dei mesi successivi. Tra l'8 e il 9 agosto otto bombe scoppiano su altrettanti treni, altre due vengono trovate inesplose. Anche in questo caso solo feriti ma nessun morto e per questo sembra che gli attentatori puntino non alla strage ma a spaventare il Paese. Ben diversa invece è la situazione in Alto Adige, dove gli attentati dinamitardi hanno già causato una ventina di morti. Ma con l'arrivo dell'autunno caldo la situazione precipita bruscamente. Il 27 ottobre a Pisa durante violenti scontri tra manifestanti di sinistra muore Cesare Pardini, studente di Legge di 22 anni. Il 19 ottobre i manifestanti dell'Unione Comunisti Italiani e dal Movimento Studentesco colpiscono a morte l'agente Antonio Annaruma, anche lui 22enne.
Infine arriviamo al 12 dicembre. A Roma scoppiano bombe alla Banca nazionale del lavoro, all'Altare della Patria e in piazza Venezia, provocando 18 feriti. Un ordigno viene trovato a Milano all'interno della Banca commerciale di piazza della Scala e fatta brillare dagli artificieri. Ma soprattutto alle 16.37 c'è quel tremendo boato che scuote piazza Fontana e uccide 17 persone. È l'inizio di una stagione buia che si concluderà solo agli inizi degli anni Ottanta dopo aver provocato quasi 400 morti e oltre duemila feriti. Il bilancio di una guerra, quella che l'Italia aveva dichiarato a se stessa.
Alle sette di sera del 25 aprile 1969, a uffici ormai chiusi, un'esplosione scuote le vie attorno alla Fiera Campionaria di Milano: un ordigno, fatto brillare nello stand della Fiat, provoca una ventina di feriti ma per fortuna nessun morto.
Le indagini, affidate al giovane vice dirigente dell'Ufficio politico Luigi Calabresi, si dirigono verso il mondo anarchico anche se l'episodio in sé non sembra destare più di tanto allarme. Le paure del Paese in quel periodo sono rivolte verso l'Alto Adige, dove terroristi sudtirolesi martellano il territorio con attentati a tralicci e caserme dei carabinieri. Invece sarà l'inizio di una delle stagioni più buie per l'Italia, gli «anni di piombo», punteggiati da agguati e attentati con centinaia di morti e migliaia di feriti. Con Milano spesso epicentro del dramma a partire dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre dello stesso anno.
Non era la prima volta del resto che la Fiera entrava nel mirino degli attentatori, e sempre nel mese di aprile. Alle 9.45 di giovedì 12 infatti un bomba «accolse» re Vittorio Emanuele III che, appena arrivato in stazione, si stava recando a inaugurare la Campionaria del 1928. Il bilancio fu terribile, sedici persone morte sul colpo, altre quattro nei giorni successivi. Benito Mussolini da Roma telegrafò alle autorità di polizia: «Trovate subito i responsabili». Nei giorni successivi verranno arrestati centinaia di sospetti senza mai arrivare a individuare i colpevoli: anche quella prima strage, non avrà mai colpevoli.
Un salto di 40 anni ci porta ora alla fine degli anni Sessanta, con il Paese scosso da un ondata di contestazioni operaie e studentesche. Fabbriche e università vengono occupate a ritmo quasi quotidiano, scioperi e manifestazioni si susseguono e spesso terminano in duri scontri con le forze dell'ordine. Proprio all'inizio del 1969 si registrano i primi morti. Il 27 febbraio la visita del presidente degli Usa Richard Nixon scatena violenti incidenti che portarono alla morte di uno studente di 24 anni. Il 9 aprile altri disordini a Battipaglia durante uno sciopero, la polizia apre il fuoco uccidendo due persone e ferendone 200.
Pochi giorni ancora e il 25 aprile un gran botto scuote lo stand Fiat all'interno della Fiera, provocando 19 feriti. Luigi Calabresi, non ancora trentenne, venne incaricato di scovare i colpevoli. Lui indirizza subito le sue attenzioni verso i circoli anarchici, nonostante la data del 25 aprile lasci pensare ad altre ipotesi, e viene subito accusato di svolgere indagini a senso unico. Arrivato da poco in città, era stato infatti aggregato all'Ufficio politico, come allora si chiamava la Digos, incaricato in particolare di seguire gli ambienti estremisti di sinistra.
L'indagine di Calabresi porta all'arresto di quindici persone della sinistra extraparlamentare, rimaste in carcere per sette mesi prima di venire scarcerate per mancanza di indizi. I veri colpevoli saranno individuati, e condannati, qualche anno dopo: i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura che poi entreranno nelle indagini per la strage di piazza Fontana.
Ma siamo ancora ben lontano dal precipitare degli eventi dei mesi successivi. Tra l'8 e il 9 agosto otto bombe scoppiano su altrettanti treni, altre due vengono trovate inesplose. Anche in questo caso solo feriti ma nessun morto e per questo sembra che gli attentatori puntino non alla strage ma a spaventare il Paese. Ben diversa invece è la situazione in Alto Adige, dove gli attentati dinamitardi hanno già causato una ventina di morti. Ma con l'arrivo dell'autunno caldo la situazione precipita bruscamente. Il 27 ottobre a Pisa durante violenti scontri tra manifestanti di sinistra muore Cesare Pardini, studente di Legge di 22 anni. Il 19 ottobre i manifestanti dell'Unione Comunisti Italiani e dal Movimento Studentesco colpiscono a morte l'agente Antonio Annaruma, anche lui 22enne.
Infine arriviamo al 12 dicembre. A Roma scoppiano bombe alla Banca nazionale del lavoro, all'Altare della Patria e in piazza Venezia, provocando 18 feriti. Un ordigno viene trovato a Milano all'interno della Banca commerciale di piazza della Scala e fatta brillare dagli artificieri. Ma soprattutto alle 16.37 c'è quel tremendo boato che scuote piazza Fontana e uccide 17 persone. È l'inizio di una stagione buia che si concluderà solo agli inizi degli anni Ottanta dopo aver provocato quasi 400 morti e oltre duemila feriti. Il bilancio di una guerra, quella che l'Italia aveva dichiarato a se stessa.
mercoledì 24 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 aprile.
Il 24 aprile 1479 a.C. sale al trono il faraone Thutmosis III, ma la reggenza sarà a lungo detenuta dalla regina Hatshepsut.
Per oltre vent’anni, sull’Egitto regnerà una donna: Hatshepsut. Non è la prima donna faraone; era già accaduto una prima volta durante l’Antico Regno e una seconda durante il Medio Regno. Ma le due precedenti donne faraone avevano regnato in periodi di crisi, che erano seguiti a epoche splendide. Hatshepsut, invece, è a capo di un Egitto ricco e potente.
Intelligente, abile, dotata di capacità amministrative probabilmente eccezionali e di uno spiccato senso politico, Hatshepsut era una delle due figlie di un grande monarca, Thutmosi I (1506- 1494). Fu lui a formare la figlia all’esercizio del potere. Hatshepsut gli testimoniò del resto un profondo affetto, tenendolo sempre come modello. Thutmosi I, che mantenne fermamente la Nubia sotto il giogo egizio, condusse un’importante spedizione militare in Asia.
Accompagnato da un ufficiale famoso per la lunghissima carriera, Ahmes figlio di Abana, il re si avventurò nel territorio del Naharina, a est dell’Eufrate, dove erano insediati gli abitanti del Mitanni. Dopo averli sconfitti, egli commemorò questa grande impresa facendo erigere una stele di confine sulle sponde dell’Eufrate.
Thutmosi III, il grande conquistatore, la ritroverà intatta una cinquantina d’anni dopo, quando arriverà in quel luogo con il suo esercito. Sulla via del ritorno, il re si rilassa e organizza una caccia all’elefante in Siria. A corte, conferisce l’ultima decorazione militare ad Ahmes figlio di Abana, che aveva ricevuto per ben sette volte l’oro dei valorosi: la prima volta che era stato decorato, gli hyksos occupavano ancora l’Egitto! L’anziano soldato, ammirato da tutti, non ripartirà più per la guerra, deciso a godersi il meritato riposo.
A Thutmosi I si deve anche l’apertura di un grande cantiere a Karnak. Il maestro d’arte Meni diresse i lavori in questa località, dove avrebbero gareggiato in genialità tutti i migliori architetti del Nuovo Regno. Hatshepsut ereditò il carattere energico del padre. Sposò il figlio che questi ebbe da una concubina, Thutmosi II, il cui regno fu piuttosto breve (1493-1490). Durante il suo primo anno di governo, scoppia una rivolta in Nubia. Il faraone si infuria quando gli viene comunicato che alcuni predoni hanno rubato del bestiame e che certe tribù hanno osato attaccare diverse fortezze. La sua collera è terribile. Egli risale il Nilo con l’esercito e stermina i ribelli. Solo uno di loro viene risparmiato: il figlio di un capo che, portato prigioniero a Tebe, acclama i soldati vincitori. Ma non appena il Sud si calma, scoppiano disordini in Siro-Palestina: Thutmosi II interviene prontamente. Il giovane re, la cui carriera sembrava promettere bene, muore prematuramente. La sua morte mette l’Egitto in una situazione difficile. Thutmosi II lascia due figlie e un figlio, il futuro Thutmosi III. Ma questi è ancora un bambino, non in grado di assolvere al gravoso compito cui è destinato. Prende quindi la reggenza Hatshepsut: «figlia del re, sorella del re, sposa di dio, grande sposa reale», ella governerà il paese secondo la volontà del nipote, come afferma lei stessa. Ma questo esercizio del potere in modo larvato non si confà alla mentalità egizia.
Hatshepsut si decide quindi a essere re. E si sottolinea la parola «re» e non «regina», in quanto Hatshepsut assumerà caratteristiche maschili che faranno di lei un faraone come gli altri. La mutazione avviene per tappe. All’inizio, pur essendo rappresentata con attributi femminili, ella si afferma come faraone. Poi adotta il costume maschile, il protocollo dei re, sopprime la desinenza femminile nei suoi nomi e nei suoi titoli e porta la barba posticcia e la doppia corona. Due anni dopo la morte di Thutmosis II, Hatshepsut agisce già in qualità di capo dello Stato. Essa si preoccupa di legittimare il proprio potere, spiegando che suo padre, l’amato Thutmosi I, l’ha scelta come regina. I testi affermano che Hatshepsut, figlia del dio Amon, che si faceva garante della sua presa di potere, diresse gli affari dello Stato secondo i propri piani. Il paese si inchinò davanti a lei. Ella era il cavo che alava il Basso Egitto, il palo al quale si ormeggiava l’Alto Egitto, il timone del Delta. Tali immagini, prese dal gergo marinaresco, ricordano l’espressione «la nave dello Stato», di cui Hatshepsut orientò effettivamente la rotta. Grazie ai suoi eccellenti ordini, le Due Terre vissero in pace.
Hatshepsut era una donna molto attraente. Uno dei suoi ritratti più belli è costituito da una sfinge dalla testa umana esposta al Metropolitan Museum of Art di New York. I tratti del viso sono delicati e volitivi al tempo stesso. La mummia di Hatshepsut, che ne ha conservato i lunghi capelli, è una delle più commoventi. Nonostante la maschera della morte, si intuisce una forte personalità, un’energia potente unita al fascino di una femminilità radiosa. Grazie all’opera dei suoi predecessori, Hatshepsut vive un’epoca di pace. Ne approfitta quindi per dedicarsi alla gestione economica del paese e soprattutto a un’intensa attività architettonica. Seduta sul trono, nel suo palazzo, la regina faraone pensa al suo creatore Amon. Il suo cuore le comanda di erigere due obelischi in onore del dio; e la sua mente si mette subito in moto, immaginando già lo stupore degli uomini quando vedranno quei monumenti. Hatshepsut è cosciente della propria impresa, che renderà eterno il suo nome. La regina fece effettivamente erigere quattro obelischi a Karnak, dove intraprese diverse costruzioni, fra cui una sala per la barca sacra interamente circondata da cappelle. Se della sua attività nel Nord del paese si sa ancora poco, è invece certo che costruì a Buhen, in Nubia, un tempio dedicato a Horo, un edificio caratterizzato dalle colonne scanalate, simili a quelle di stile dorico e la cui pianta verrà adottata per i templi greci un millennio dopo. Ma il capolavoro della regina, il tempio che permette di «leggere» il suo regno attraverso i rilievi, è Deir el Bahari, costruito nella regione tebana in una località consacrata alla dea Hathor.
Quando si visita per la prima volta l’Egitto, una delle emozioni più forti è offerta proprio dalla visione di questo tempio, dall’architettura aerea e al tempo stesso radicata nell’eternità, la cui forza celeste è sottolineata dalla verticale della parete rocciosa alla quale è addossato. Il nome di questo edificio era «meraviglia delle meraviglie». «La sua contemplazione» affermavano infatti gli egizi «supera qualsiasi altra cosa al mondo.» Nel Medio Regno qui sorgeva già un tempio, ma la regina, che affidò la direzione dei lavori al suo architetto Senmut, concepì un progetto molto originale. Deir el Bahari presenta infatti una soluzione architettonica che è unica in tutta l’arte egizia: una strada che sale dolcemente verso il tempio, costituito da terrazze sovrapposte. Hatshepsut ebbe l’immensa felicità di vedere terminato il suo tempio funerario. Thutmosi III, una volta salito al trono, fece sparire alcuni dei cartigli della regina faraone senza però distruggere l’edificio che ne onorava la memoria. Ramses II, come fece ovunque in Egitto, lasciò il segno della propria presenza anche qui, facendovi incidere il proprio nome insieme a testi che vantano le sue imprese. Sembra che il tempio sia stato più o meno abbandonato alla fine della XX dinastia, in un’epoca in cui l’Egitto si stava indebolendo. L’ara sacra serviva da cimitero per i sacerdoti e le sacerdotesse di Amon, e vennero messe al sicuro lì anche alcune mummie reali. Con il tempo la sabbia e la polvere ricoprirono gran parte del monumento; poi, in età tolemaica, le autorità religiose si occuparono di nuovo di Deir el Bahari. Il culto di Hatshepsut non vi era più celebrato da molto tempo, ma si allestirono alcune cappelle in cui i pellegrini veneravano due saggi divinizzati Imhotep, l’architetto di Gioser, e Amenhotep figlio di Hapu, l’architetto di Amenofi III. Monaci e anacoreti scelsero Deir el Bahari, «il convento del Nord», come luogo di meditazione. Nel V secolo d.C., sulle rovine del tempio egizio venne costruito un monastero, che era stato definitivamente abbandonato intorno al II secolo. Nell’VIII secolo, il luogo venne completamente disertato, per poi essere riportato alla luce grazie agli scavi del XIX secolo. Oggi abbiamo la fortuna di apprezzare la «meraviglia delle meraviglie» in uno stato non molto diverso da quello originario. Ma le opere di sbancamento e di restauro richiederanno ancora almeno una cinquantina d’anni di lavoro.
Sarebbe necessario un libro intero per parlare del tempio, descriverne l’architettura, percorrerne le sale, tradurne i testi, esporne le scene nei minimi particolari. Questo mondo di pietra, in cui è riservato un posto d’onore alla dea della gioia e dell’amore, Hathor, è un inno immortale alla bellezza. La regina vi onorò suo padre, Thutmosi I, il grande dio Amon-Ra, ma anche il dio solare Ra-Harakhte e la divinità dei morti Anubi. Nei locali delle fondamenta, agli angoli dell’edificio e sotto la soglia, sono stati scoperti alcuni simboli religiosi come, per esempio, degli scarabei, diversi utensili quali magli e forbici, strumenti vari per il rito dell’apertura della bocca e alcune giare con l’iscrizione: «La figlia di Ra, Hatshepsut, ha fatto costruire questo monumento per suo padre Amon, quando è stata tesa la corda per il tempio di Amon, la meraviglia delle meraviglie». Per accedere al tempio si doveva percorrere un viale di sfingi raffiguranti Hatshepsut, che così accoglieva di persona i pellegrini. Di fronte all’edificio si trovava un magnifico giardino, con viali di sicomori e filari di tamarindi, palme, alberi da frutto e arbusti da incenso. C’erano anche una vigna e vasche di papiro, dove si svolgevano riti di caccia e di navigazione. Due persee segnavano l’ingresso del tempio. Nel cortile inferiore, il portico consacrato alle scene di caccia mostra il faraone nell’aspetto di fiera con la testa umana mentre schiaccia i nemici in numero di nove, cioè la totalità dei paesi stranieri. Durante la celebrazione del rito dei quattro vitelli, il signore dell’Egitto viene assimilato al bovaro che dona la vita. Il faraone Hatshepsut procede quindi alla raccolta dei papiri in onore della dea Hathor, e caccia gli uccelli acquatici con una rete e i giavellotti. Il portico degli obelischi evoca il taglio, il trasporto e l’erezione dei giganteschi monoliti di granito rosa destinati al tempio di Karnak; per questi lavori viene utilizzata una chiatta di legno di sicomoro, lunga oltre sessanta metri. Quando il convoglio arriva a Tebe, il cielo è in festa. Amon promette a sua figlia Hatshepsut un regno felice. Sacerdoti, nobili, funzionari e soldati formano un corteo. Si celebrano sacrifici, in particolare lo smembramento dei buoi, quindi si procede alla dedica degli obelischi ad Amon. Hatshepsut compie diversi riti durante la donazione del terreno dove essi verranno eretti, in particolare sull’ara sacra, adottando la stessa posizione in cui si era fatto ritrarre Gioser.
Lasciamo il cortile inferiore e prendiamo la rampa di accesso alla terrazza intermedia. A nord, si trova la cappella del dio dalla testa di sciacallo, Anubi, che conduce la regina verso il fondo del santuario: Hatshepsut è così sicura di non perdersi nel regno dei morti. A sud, sorge la cappella di Hathor, dama dell’Occidente che accoglieva i defunti nella necropoli: a lei si offrivano fiori, frutti ed ex voto quali perle e scarabei. Il santuario è preceduto da una sala ipostila le cui colonne sono coronate da capitelli raffiguranti una testa di donna dalle orecchie di vacca. Hathor, ritenuta la madre della regina faraone, viene rappresentata ora sotto forma di vacca che lecca le dita di Hatshepsut seduta sotto un baldacchino, ora come una donna splendida. La dea accoglie la figlia che ha costruito una casa per lei e imbandito gli altari di cibi. La sala più sacra, stretta e profonda, è scavata nella parete rocciosa. La vacca sacra vi allatta Hatshepsut, infondendo così nella regina l’elisir dell’immortalità. Il dipinto sullo fondo presenta una triade, composta da Amon, che offre il segno della vita ad Hatshesput, la quale viene in tal modo divinizzata, e da Hathor, che si tiene ferma la corona, mentre un disco alato plana al di sopra della scena.
Su questa terrazza intermedia, il portico della nascita venne concepito per spiegare l’origine divina di Hatshepsut e legittimarne il potere. Con l’aiuto dei sacerdoti tebani, ella creò il mito teogonico, secondo il quale suo padre sarebbe il dio Amon in persona. Amon, onorato dagli Amenemhet della XII dinastia, il cui nome significa “Amon è manifesto”, è il dio di Tebe, la città in cui nacque il movimento di liberazione dell’Egitto che avrebbe condotto alla cacciata degli hyksos. Pertanto, glorificando Amon, si ringraziava Tebe. L’origine del dio è oscura. Il suo nome significa “colui che è nascosto”. Piuttosto presto, egli assumerà caratteristiche solari, avvicinandosi così a Ra, sino a diventare onnipotente nel Nuovo Regno sotto forma di Amon-Ra, il re degli dei. Le scene del portico della nascita ci fanno assistere a un consiglio degli dei presieduto da Amon-Ra, che ha deciso di unirsi alla regina Ahmes-Nefertari, la più bella delle donne. Con il consenso del collegio divino, Amon assume le sembianze del faraone ed entra nella stanza della sua sposa, che trova addormentata. Ma la regina si sveglia al dolce profumo emanato dal corpo del marito: gli sorride e l’amore pervade i loro esseri che si uniscono. Resa gravida dal dio, la regina ha la gioia di dare alla luce una bambina che sarà investita del potere supremo. Gli dei intervengono per favorire la nascita: Khnum modella la neonata e il suo ka sul tornio da vasaio, affinché abbia vita, forza, salute, cibo in abbondanza, uno spirito equo, l’amore, ogni gioia e una lunga esistenza. La dea rana Heket anima le figurine forgiate da Khnum. Thot annuncia la futura nascita alla felice madre, che viene condotta nella camera del parto. Hatshepsut nasce in presenza di Amon e di nove divinità. Viene quindi presentata al suo divino padre, che saluta la carne della sua carne e la culla. Seguono quindi le scene dell’allattamento e della presentazione di Hatshepsut alla dea Seshat, che ne traccia i cartigli. «Sua Maestà cresceva meglio di qualunque altro essere» dice un testo. «Il suo aspetto era quello di una dea, il suo fulgore era divino. Sua Maestà divenne una bella fanciulla, fiorente come la primavera.»
Hatshepsut, dopo essere stata presentata agli dei del Nord e del Sud, viaggia per tutto l’Egitto. Si fa riconoscere come faraone dalle divinità locali e dai loro sacerdoti, compiendo una sorta di pellegrinaggio politico-religioso. Ed ecco giunto il momento di procedere all’incoronazione nella capitale. Hatshepsut viene condotta al cospetto di suo padre, Thutmosi I, seduto sul trono. Egli presenta la figlia, il cui nome significa «la prima fra i nobili», come suo successore. Sarà lei, ormai, a dare gli ordini. E tutti dovranno ascoltare la sua parola, unendosi sotto il suo comando. Gli dei la proteggono con la magia. I grandi dignitari d’Egitto ascoltano il discorso del re e ne gioiscono. Sono convinti che Hatshepsut saprà ascoltare la voce degli egizi come aveva fatto suo padre. Nella scena finale, la regina riceve le corone dell’Alto e del Basso Egitto. Facciamo notare che alcuni cartigli di Hatshepsut sono stati danneggiati e che la rappresentazione del rito di incoronazione è molto rovinata. Si è voluto vedere in ciò un atto di vendetta di Thutmosi III; ma, se si accetta questa interpretazione, come si spiega il fatto che egli non abbia toccato altri cartigli e non abbia distrutto l’insieme delle rappresentazioni?
L’avventura di Hatshepsut sarebbe stata impossibile senza l’appoggio dei sacerdoti di Amon che, paradossalmente, avevano designato come re Thutmosi III. Ella trovò un fedele alleato nella persona del gran sacerdote Hapuseneb, la cui influenza politica era considerevole. Fu lui a favorire la creazione del mito della nascita divina e a giustificare teologicarnente la legittimità di Hatshepsut. Nominato capo dei sacerdoti del Sud e del Nord, Hapuseneb dirigeva tutti i culti e, attraverso l’oracolo, di cui aveva il totale controllo, faceva conoscere la volontà di Amon. Hatshepsutt gli affiderà anche la carica di visir, ponendolo in tal modo a capo dello Stato. Sempre sulla stessa terrazza intermedia del tempio di Deir el Bahari, il portico di Punt narra gli episodi di una spedizione commerciale che venne considerata da Hatshepsut come uno dei grandi momenti del suo pacifico regno durante il quale la politica interventistica dei faraoni della XVIII dinastia conobbe un momento di tregua. Eppure la regina dà un’immagine di sé piuttosto sorprendente: sovrana della luce, è stata lei a mettere fine al caos del Secondo periodo intermedio. Ella si vanta di avere restaurato i monumenti danneggiati al tempo in cui gli asiatici occupavano Avari e i predoni taglieggiavano le province del Nord, agendo nell’ignoranza del dio Ra. Ancora una volta, Hatshepsut insiste sulla sua legittimità. Il caos è cessato perché lei è faraone. La sua politica estera fu certamente troppo debole. In Asia le popolazioni non erano meno turbolente di prima e il non interventismo egizio servì solo a incoraggiare i progetti di rivolta. Quando Thutmosi III prenderà il potere, troverà una situazione piuttosto esplosiva, di cui in parte è responsabile Hatshepsut.
La regina si era dedicata innanzi tutto a intrattenere rapporti commerciali con l’estero. E il viaggio a Punt segna l’apogeo ditale politica. Il paese di Punt, la cui localizzazione esatta è ancora oggetto di controversie (molto probabilmente, doveva trovarsi nei pressi della costa somala, vicino all’Eritrea), fu visitato dagli egizi fin dall’Antico Regno. I due paesi sembra abbiano goduto di una buona intesa. Fu Amon di Tebe a ispirare ad Hatshepsut, la sua protetta, l’idea di una spedizione straordinaria nel paese dell’incenso, di cui i sacerdoti facevano largo uso durante i riti. La flotta egizia è composta da cinque grandi navi, con trenta rematori ciascuna. Quando giungono alla meravigliosa terra di Punt, resa ulteriormente bella dalla leggenda, esse gettano l’ancora in acque ricche di pesci. Un’imbarcazione carica di vettovaglie si dispone a raggiungere la riva. I marinai del faraone scaricano numerosi doni, mentre il capo della spedizione, protetto da una scorta militare, saluta il re e la regina di Punt. Quest’ultima è deforme: soffre di una forte elefantiasi. Vengono distribuite perle, collane e armi. I notabili di Punt si inchinano e rendono omaggio ad Amon-Ra. Gli egizi ammirano l’incantevole flora tropicale. Gli indigeni vivono in mezzo alle palme, in capanne rotonde alle quali si accede tramite scale e indossano gli stessi vestiti che si usavano al tempo di Cheope: in questa regione, infatti, la moda non è cambiata e si portano ancora i capelli intrecciati e le barbe tagliate a punta. Gli affari si concludono in perfetta armonia. Viene piantata una tenda per l’inviato del re e i dignitari egizi. Si intavolano discussioni. Gli egizi torneranno a casa con legno d’ebano, oro, incenso, zanne d’elefante, scimmie, pelli di leopardo e di altre bestie feroci. Essi trattano con particolare riguardo gli alberi dell’incenso, avvolgendone le radici in stuoie. Del carico si occupano esclusivamente i marinai egizi, i quali non permettono che gli abitanti di Punt salgano a bordo. La fine delle trattative commerciali viene festeggiata con un allegro banchetto in cui abbondano pane, carne, frutta, vino e birra. I testi ufficiali non parlano di baratto, ma di un tributo versato da Punt ad Hatshepsut. La spedizione, del resto, non è a scopo esclusivamente profano: vuole essere anche un omaggio ad Hathor, sovrana di Punt. La regina fa infatti erigere sulle sue coste una statua che la raffigura insieme al dio Amon. Durante il viaggio di ritorno, alcune scimmie giocherellone si arrampicano lungo le funi. Esse venivano lasciate in libertà perché erano destinate a diventare gli animali domestici dei nobili. L’arrivo a Tebe è trionfale e ricorda l’accoglienza riservata ai marinai del re Sahura, durante l’Antico Regno. In piedi sulle navi, alle quali sono stati abbassati gli alberi, imbrogliate le vele e sollevati i remi, i marinai acclamano il faraone con le braccia alzate. Facciamo notare che le imbarcazioni erano protette con simboli magici: a prua e a poppa erano infatti rappresentati la «chiave della vita», il segno ankh e l’«occhio di Horo». La regina presiede alla cerimonia d’accoglienza nei giardini del tempio di Deir el Bahari, dove vengono piantati gli alberi dell’incenso. Si misura l’incenso fresco, si pesano l’oro e gli altri metalli. Hatshepsut in persona si fa garante dell’esattezza delle pesate. Durante la bella festa della valle, Amon visitava i templi della necropoli tebana. Arrivando a Deir el Bahari, il dio si rallegra che l’incenso offertogli sia fresco e puro: per questo motivo ha ordinato che si facesse una spedizione a Punt. Il suo cuore prova in ciò un immenso piacere e cielo e terra vengono inondati di incenso.
Dirigiamoci adesso verso la terrazza superiore. Il portico esterno è gravemente danneggiato; lì si trovavano colossi mummiformi con il volto della regina. Un portale di granito rosa immette nel cortile. Questa parte segreta del tempio era consacrata al culto di Amon, di Ra e di Hatshepsut divinizzata. Il santuario principale è situato sullo stesso asse del tempio. L’immagine di Hatshepsut in alcuni casi è stata sostituita con quella di Thutmosi III, ma non dappertutto. In questo luogo due famiglie associano la loro fama alle grazie divine: da una parte Hatshepsut e i suoi genitori, dall’altra Thutmosi III e suo padre.
Purtroppo, anche la cappella funeraria di Hatshepsut è assai rovinata. Vi erano rappresentate la navigazione della barca solare durante le ore del giorno e durante quelle della notte e alcune scene di offerta di animali, stoffe e fiori. Hatshepsut disponeva anche di quanto era necessario alla sua sopravvivenza. In fondo alla cappella, la stele di culto era l’elemento sacro per eccellenza, che permetteva allo spirito della regina di vivere in eterno. In un’altra cappella della terrazza superiore, dedicata al culto di Thutmosi I, ci aspetta una straordinaria sorpresa. Su una delle pareti un uomo si è fatto rappresentare in ginocchio, in atto d’adorazione. Viene precisto il suo nome: Senmut. Senmut è il geniale architetto che ha progettato il tempio di Deir el Bahari. Lui, che non era di stirpe regale ha avuto l’audacia — o il permesso — di tramandare in tal modo il ricordo di sé. Senmut è rappresentato anche in un altro punto dell’edificio, mentre prega Hathor. Di origini modeste, egli fece una carriera rapida, ricoprendo almeno una ventina di funzioni diverse. Incaricato della gestione di una parte del grande tempio di Karnak, secondo profeta di Amon, fu anche precettore della principessa ereditaria e capo del consiglio privato di Hatshepsut. Alcune statue lo mostrano mentre tiene avvolta nel suo mantello la figlia della regina.
Il nome di Senmut scompare dalle iscrizioni dopo il sedicesimo anno del regno di Hatshepsut. Alcuni studiosi, ritenendo che l’architetto fosse l’amante della regina, ipotizzano che sia poi caduto in disgrazia. Ma la verità è forse un’altra: è probabile che il costruttore di Deir el Bahari fosse morto. Non lontano dal tempio, vicino a una cava, era stata infatti preparata una tomba per Senmut. La sepoltura era situata sotto l’angolo nordorientale della terrazza inferiore del tempio: Senmut desiderava riposare sotto il suo capolavoro e rimanere accanto alla sua sovrana per l’eternità. Ma egli non venne sepolto lì, per ragioni che ci rimangono ignote.
Come finì l’avventura di Hatshepsut, donna eccezionale, la più grande regina d’Egitto? Non lo sappiamo con certezza. Si è spesso scritto che il giovane Thutmosi III, salito al trono dopo la morte della zia, la odiasse e che per questo abbia fatto distruggere il suo nome sui monumenti, per cancellarne il ricordo dalla storia. Tali affermazioni vanno però attenuate. Thutmosi III non diede infatti ordine di radere al suolo il tempio di Deir el Bahari, che era il simbolo più puro del regno di Hatshepsut. Il suo pseudo-odio, inoltre sembra essersi scatenato molto tardi, una quindicina di anni dopo la morte della regina. Se è vero che tali distruzioni e le mutilazioni con valore simbolico di certe statue mirano a ricollegare il regno di Thutmosi III a quello di Thutmosi II, la distruzione del nome o dell’immagine di Hatshepsut è lungi dall’essere sistematica. Thutmosi III, infatti, tiene più a legittimare il proprio potere che a cancellare il ricordo del regno di Hatshepsut.
E certo che Hatshepsut e Thutmosi III possedevano entrambi una personalità molto forte. La storia, nel loro caso, si è perfettamente organizzata per lasciarli esprimere entrambi. Quando Hatshepsut morì, il nuovo faraone non era più un bambino. Spinto dal desiderio di dimostrare il proprio valore e la propria competenza, egli sarebbe diventato il più grande genio militare dell’antico Egitto. La tomba di Hatshepsut è stata ritrovata. Profonda oltre cento metri sotto terra, priva di testi e di decorazioni, è stata la prima tomba a essere scavata nella Valle delle Regine. Essa conteneva i sarcofagi di Hatshepsut e di suo padre Thutmosi I. Ma Hatshepsut, una volta diventata faraone, si era fatta scavare un’altra tomba nella Valle dei Re. Di tale sepoltura si occupò Hapuseneb, gran sacerdote di Amon. L’asse principale di questa «dimora eterna» era orientato in direzione del tempio di Deir el Bahari, collegando così idealmente i monumenti più importanti della regina faraone. Al padre di Hatshepsut si deve un’iniziativa fondamentale: la scelta della Valle dei Re come sede delle dimore eterne dei faraoni. Questa valle, uno uadi selvaggio e desertico a ovest di Tebe, è dominata da una cima, una sorta di grande piramide naturale: e infatti alcuni studiosi si chiedono se non sia stata intagliata apposta dalla mano dell’uomo affinché assomigliasse alle piramidi degli antichi re e servisse da protezione ai faraoni sepolti sotto di lei. L’accesso alla Valle dei Re, disseminata di fortini, non era consentito ai profani. Le tombe venivano scavate da artigiani iniziati e l’ingresso nelle tombe era vietato. Nei periodi di disordini sociali, questo luogo magico catturerà l’attenzione di ladri e predoni, intenzionati a impossessarsi dell’oro dei monarchi. I costruttori delle tombe reali vivevano a Deir el Medina, in un luogo chiamato «il posto della verità», «il posto dell’armonia». Questi uomini, che non furono mai molto numerosi (da trenta a cinquanta circa), dipendevano direttamente dal re in persona e dal visir. La loro presenza è chiaramente attestata per la XIX e la XX dinastia, ma la comunità che formavano fu certamente operativa fin dalla XVIII dinastia. Questa confraternita costituiva un collegio iniziatico la cui regola di vita presenta affinità con quella di altre comunità di costruttori. Regno felice, anni di pace e di serenità, bellezza di una civiltà incarnata dal tempio di Deir el Bahari: il bilancio dell’opera compiuta da Hatshepsut è più che positivo. Ma già, in lontananza, rimbomba l’eco delle armi. L’ora di Thutmosi III è arrivata.
Il 24 aprile 1479 a.C. sale al trono il faraone Thutmosis III, ma la reggenza sarà a lungo detenuta dalla regina Hatshepsut.
Per oltre vent’anni, sull’Egitto regnerà una donna: Hatshepsut. Non è la prima donna faraone; era già accaduto una prima volta durante l’Antico Regno e una seconda durante il Medio Regno. Ma le due precedenti donne faraone avevano regnato in periodi di crisi, che erano seguiti a epoche splendide. Hatshepsut, invece, è a capo di un Egitto ricco e potente.
Intelligente, abile, dotata di capacità amministrative probabilmente eccezionali e di uno spiccato senso politico, Hatshepsut era una delle due figlie di un grande monarca, Thutmosi I (1506- 1494). Fu lui a formare la figlia all’esercizio del potere. Hatshepsut gli testimoniò del resto un profondo affetto, tenendolo sempre come modello. Thutmosi I, che mantenne fermamente la Nubia sotto il giogo egizio, condusse un’importante spedizione militare in Asia.
Accompagnato da un ufficiale famoso per la lunghissima carriera, Ahmes figlio di Abana, il re si avventurò nel territorio del Naharina, a est dell’Eufrate, dove erano insediati gli abitanti del Mitanni. Dopo averli sconfitti, egli commemorò questa grande impresa facendo erigere una stele di confine sulle sponde dell’Eufrate.
Thutmosi III, il grande conquistatore, la ritroverà intatta una cinquantina d’anni dopo, quando arriverà in quel luogo con il suo esercito. Sulla via del ritorno, il re si rilassa e organizza una caccia all’elefante in Siria. A corte, conferisce l’ultima decorazione militare ad Ahmes figlio di Abana, che aveva ricevuto per ben sette volte l’oro dei valorosi: la prima volta che era stato decorato, gli hyksos occupavano ancora l’Egitto! L’anziano soldato, ammirato da tutti, non ripartirà più per la guerra, deciso a godersi il meritato riposo.
A Thutmosi I si deve anche l’apertura di un grande cantiere a Karnak. Il maestro d’arte Meni diresse i lavori in questa località, dove avrebbero gareggiato in genialità tutti i migliori architetti del Nuovo Regno. Hatshepsut ereditò il carattere energico del padre. Sposò il figlio che questi ebbe da una concubina, Thutmosi II, il cui regno fu piuttosto breve (1493-1490). Durante il suo primo anno di governo, scoppia una rivolta in Nubia. Il faraone si infuria quando gli viene comunicato che alcuni predoni hanno rubato del bestiame e che certe tribù hanno osato attaccare diverse fortezze. La sua collera è terribile. Egli risale il Nilo con l’esercito e stermina i ribelli. Solo uno di loro viene risparmiato: il figlio di un capo che, portato prigioniero a Tebe, acclama i soldati vincitori. Ma non appena il Sud si calma, scoppiano disordini in Siro-Palestina: Thutmosi II interviene prontamente. Il giovane re, la cui carriera sembrava promettere bene, muore prematuramente. La sua morte mette l’Egitto in una situazione difficile. Thutmosi II lascia due figlie e un figlio, il futuro Thutmosi III. Ma questi è ancora un bambino, non in grado di assolvere al gravoso compito cui è destinato. Prende quindi la reggenza Hatshepsut: «figlia del re, sorella del re, sposa di dio, grande sposa reale», ella governerà il paese secondo la volontà del nipote, come afferma lei stessa. Ma questo esercizio del potere in modo larvato non si confà alla mentalità egizia.
Hatshepsut si decide quindi a essere re. E si sottolinea la parola «re» e non «regina», in quanto Hatshepsut assumerà caratteristiche maschili che faranno di lei un faraone come gli altri. La mutazione avviene per tappe. All’inizio, pur essendo rappresentata con attributi femminili, ella si afferma come faraone. Poi adotta il costume maschile, il protocollo dei re, sopprime la desinenza femminile nei suoi nomi e nei suoi titoli e porta la barba posticcia e la doppia corona. Due anni dopo la morte di Thutmosis II, Hatshepsut agisce già in qualità di capo dello Stato. Essa si preoccupa di legittimare il proprio potere, spiegando che suo padre, l’amato Thutmosi I, l’ha scelta come regina. I testi affermano che Hatshepsut, figlia del dio Amon, che si faceva garante della sua presa di potere, diresse gli affari dello Stato secondo i propri piani. Il paese si inchinò davanti a lei. Ella era il cavo che alava il Basso Egitto, il palo al quale si ormeggiava l’Alto Egitto, il timone del Delta. Tali immagini, prese dal gergo marinaresco, ricordano l’espressione «la nave dello Stato», di cui Hatshepsut orientò effettivamente la rotta. Grazie ai suoi eccellenti ordini, le Due Terre vissero in pace.
Hatshepsut era una donna molto attraente. Uno dei suoi ritratti più belli è costituito da una sfinge dalla testa umana esposta al Metropolitan Museum of Art di New York. I tratti del viso sono delicati e volitivi al tempo stesso. La mummia di Hatshepsut, che ne ha conservato i lunghi capelli, è una delle più commoventi. Nonostante la maschera della morte, si intuisce una forte personalità, un’energia potente unita al fascino di una femminilità radiosa. Grazie all’opera dei suoi predecessori, Hatshepsut vive un’epoca di pace. Ne approfitta quindi per dedicarsi alla gestione economica del paese e soprattutto a un’intensa attività architettonica. Seduta sul trono, nel suo palazzo, la regina faraone pensa al suo creatore Amon. Il suo cuore le comanda di erigere due obelischi in onore del dio; e la sua mente si mette subito in moto, immaginando già lo stupore degli uomini quando vedranno quei monumenti. Hatshepsut è cosciente della propria impresa, che renderà eterno il suo nome. La regina fece effettivamente erigere quattro obelischi a Karnak, dove intraprese diverse costruzioni, fra cui una sala per la barca sacra interamente circondata da cappelle. Se della sua attività nel Nord del paese si sa ancora poco, è invece certo che costruì a Buhen, in Nubia, un tempio dedicato a Horo, un edificio caratterizzato dalle colonne scanalate, simili a quelle di stile dorico e la cui pianta verrà adottata per i templi greci un millennio dopo. Ma il capolavoro della regina, il tempio che permette di «leggere» il suo regno attraverso i rilievi, è Deir el Bahari, costruito nella regione tebana in una località consacrata alla dea Hathor.
Quando si visita per la prima volta l’Egitto, una delle emozioni più forti è offerta proprio dalla visione di questo tempio, dall’architettura aerea e al tempo stesso radicata nell’eternità, la cui forza celeste è sottolineata dalla verticale della parete rocciosa alla quale è addossato. Il nome di questo edificio era «meraviglia delle meraviglie». «La sua contemplazione» affermavano infatti gli egizi «supera qualsiasi altra cosa al mondo.» Nel Medio Regno qui sorgeva già un tempio, ma la regina, che affidò la direzione dei lavori al suo architetto Senmut, concepì un progetto molto originale. Deir el Bahari presenta infatti una soluzione architettonica che è unica in tutta l’arte egizia: una strada che sale dolcemente verso il tempio, costituito da terrazze sovrapposte. Hatshepsut ebbe l’immensa felicità di vedere terminato il suo tempio funerario. Thutmosi III, una volta salito al trono, fece sparire alcuni dei cartigli della regina faraone senza però distruggere l’edificio che ne onorava la memoria. Ramses II, come fece ovunque in Egitto, lasciò il segno della propria presenza anche qui, facendovi incidere il proprio nome insieme a testi che vantano le sue imprese. Sembra che il tempio sia stato più o meno abbandonato alla fine della XX dinastia, in un’epoca in cui l’Egitto si stava indebolendo. L’ara sacra serviva da cimitero per i sacerdoti e le sacerdotesse di Amon, e vennero messe al sicuro lì anche alcune mummie reali. Con il tempo la sabbia e la polvere ricoprirono gran parte del monumento; poi, in età tolemaica, le autorità religiose si occuparono di nuovo di Deir el Bahari. Il culto di Hatshepsut non vi era più celebrato da molto tempo, ma si allestirono alcune cappelle in cui i pellegrini veneravano due saggi divinizzati Imhotep, l’architetto di Gioser, e Amenhotep figlio di Hapu, l’architetto di Amenofi III. Monaci e anacoreti scelsero Deir el Bahari, «il convento del Nord», come luogo di meditazione. Nel V secolo d.C., sulle rovine del tempio egizio venne costruito un monastero, che era stato definitivamente abbandonato intorno al II secolo. Nell’VIII secolo, il luogo venne completamente disertato, per poi essere riportato alla luce grazie agli scavi del XIX secolo. Oggi abbiamo la fortuna di apprezzare la «meraviglia delle meraviglie» in uno stato non molto diverso da quello originario. Ma le opere di sbancamento e di restauro richiederanno ancora almeno una cinquantina d’anni di lavoro.
Sarebbe necessario un libro intero per parlare del tempio, descriverne l’architettura, percorrerne le sale, tradurne i testi, esporne le scene nei minimi particolari. Questo mondo di pietra, in cui è riservato un posto d’onore alla dea della gioia e dell’amore, Hathor, è un inno immortale alla bellezza. La regina vi onorò suo padre, Thutmosi I, il grande dio Amon-Ra, ma anche il dio solare Ra-Harakhte e la divinità dei morti Anubi. Nei locali delle fondamenta, agli angoli dell’edificio e sotto la soglia, sono stati scoperti alcuni simboli religiosi come, per esempio, degli scarabei, diversi utensili quali magli e forbici, strumenti vari per il rito dell’apertura della bocca e alcune giare con l’iscrizione: «La figlia di Ra, Hatshepsut, ha fatto costruire questo monumento per suo padre Amon, quando è stata tesa la corda per il tempio di Amon, la meraviglia delle meraviglie». Per accedere al tempio si doveva percorrere un viale di sfingi raffiguranti Hatshepsut, che così accoglieva di persona i pellegrini. Di fronte all’edificio si trovava un magnifico giardino, con viali di sicomori e filari di tamarindi, palme, alberi da frutto e arbusti da incenso. C’erano anche una vigna e vasche di papiro, dove si svolgevano riti di caccia e di navigazione. Due persee segnavano l’ingresso del tempio. Nel cortile inferiore, il portico consacrato alle scene di caccia mostra il faraone nell’aspetto di fiera con la testa umana mentre schiaccia i nemici in numero di nove, cioè la totalità dei paesi stranieri. Durante la celebrazione del rito dei quattro vitelli, il signore dell’Egitto viene assimilato al bovaro che dona la vita. Il faraone Hatshepsut procede quindi alla raccolta dei papiri in onore della dea Hathor, e caccia gli uccelli acquatici con una rete e i giavellotti. Il portico degli obelischi evoca il taglio, il trasporto e l’erezione dei giganteschi monoliti di granito rosa destinati al tempio di Karnak; per questi lavori viene utilizzata una chiatta di legno di sicomoro, lunga oltre sessanta metri. Quando il convoglio arriva a Tebe, il cielo è in festa. Amon promette a sua figlia Hatshepsut un regno felice. Sacerdoti, nobili, funzionari e soldati formano un corteo. Si celebrano sacrifici, in particolare lo smembramento dei buoi, quindi si procede alla dedica degli obelischi ad Amon. Hatshepsut compie diversi riti durante la donazione del terreno dove essi verranno eretti, in particolare sull’ara sacra, adottando la stessa posizione in cui si era fatto ritrarre Gioser.
Lasciamo il cortile inferiore e prendiamo la rampa di accesso alla terrazza intermedia. A nord, si trova la cappella del dio dalla testa di sciacallo, Anubi, che conduce la regina verso il fondo del santuario: Hatshepsut è così sicura di non perdersi nel regno dei morti. A sud, sorge la cappella di Hathor, dama dell’Occidente che accoglieva i defunti nella necropoli: a lei si offrivano fiori, frutti ed ex voto quali perle e scarabei. Il santuario è preceduto da una sala ipostila le cui colonne sono coronate da capitelli raffiguranti una testa di donna dalle orecchie di vacca. Hathor, ritenuta la madre della regina faraone, viene rappresentata ora sotto forma di vacca che lecca le dita di Hatshepsut seduta sotto un baldacchino, ora come una donna splendida. La dea accoglie la figlia che ha costruito una casa per lei e imbandito gli altari di cibi. La sala più sacra, stretta e profonda, è scavata nella parete rocciosa. La vacca sacra vi allatta Hatshepsut, infondendo così nella regina l’elisir dell’immortalità. Il dipinto sullo fondo presenta una triade, composta da Amon, che offre il segno della vita ad Hatshesput, la quale viene in tal modo divinizzata, e da Hathor, che si tiene ferma la corona, mentre un disco alato plana al di sopra della scena.
Su questa terrazza intermedia, il portico della nascita venne concepito per spiegare l’origine divina di Hatshepsut e legittimarne il potere. Con l’aiuto dei sacerdoti tebani, ella creò il mito teogonico, secondo il quale suo padre sarebbe il dio Amon in persona. Amon, onorato dagli Amenemhet della XII dinastia, il cui nome significa “Amon è manifesto”, è il dio di Tebe, la città in cui nacque il movimento di liberazione dell’Egitto che avrebbe condotto alla cacciata degli hyksos. Pertanto, glorificando Amon, si ringraziava Tebe. L’origine del dio è oscura. Il suo nome significa “colui che è nascosto”. Piuttosto presto, egli assumerà caratteristiche solari, avvicinandosi così a Ra, sino a diventare onnipotente nel Nuovo Regno sotto forma di Amon-Ra, il re degli dei. Le scene del portico della nascita ci fanno assistere a un consiglio degli dei presieduto da Amon-Ra, che ha deciso di unirsi alla regina Ahmes-Nefertari, la più bella delle donne. Con il consenso del collegio divino, Amon assume le sembianze del faraone ed entra nella stanza della sua sposa, che trova addormentata. Ma la regina si sveglia al dolce profumo emanato dal corpo del marito: gli sorride e l’amore pervade i loro esseri che si uniscono. Resa gravida dal dio, la regina ha la gioia di dare alla luce una bambina che sarà investita del potere supremo. Gli dei intervengono per favorire la nascita: Khnum modella la neonata e il suo ka sul tornio da vasaio, affinché abbia vita, forza, salute, cibo in abbondanza, uno spirito equo, l’amore, ogni gioia e una lunga esistenza. La dea rana Heket anima le figurine forgiate da Khnum. Thot annuncia la futura nascita alla felice madre, che viene condotta nella camera del parto. Hatshepsut nasce in presenza di Amon e di nove divinità. Viene quindi presentata al suo divino padre, che saluta la carne della sua carne e la culla. Seguono quindi le scene dell’allattamento e della presentazione di Hatshepsut alla dea Seshat, che ne traccia i cartigli. «Sua Maestà cresceva meglio di qualunque altro essere» dice un testo. «Il suo aspetto era quello di una dea, il suo fulgore era divino. Sua Maestà divenne una bella fanciulla, fiorente come la primavera.»
Hatshepsut, dopo essere stata presentata agli dei del Nord e del Sud, viaggia per tutto l’Egitto. Si fa riconoscere come faraone dalle divinità locali e dai loro sacerdoti, compiendo una sorta di pellegrinaggio politico-religioso. Ed ecco giunto il momento di procedere all’incoronazione nella capitale. Hatshepsut viene condotta al cospetto di suo padre, Thutmosi I, seduto sul trono. Egli presenta la figlia, il cui nome significa «la prima fra i nobili», come suo successore. Sarà lei, ormai, a dare gli ordini. E tutti dovranno ascoltare la sua parola, unendosi sotto il suo comando. Gli dei la proteggono con la magia. I grandi dignitari d’Egitto ascoltano il discorso del re e ne gioiscono. Sono convinti che Hatshepsut saprà ascoltare la voce degli egizi come aveva fatto suo padre. Nella scena finale, la regina riceve le corone dell’Alto e del Basso Egitto. Facciamo notare che alcuni cartigli di Hatshepsut sono stati danneggiati e che la rappresentazione del rito di incoronazione è molto rovinata. Si è voluto vedere in ciò un atto di vendetta di Thutmosi III; ma, se si accetta questa interpretazione, come si spiega il fatto che egli non abbia toccato altri cartigli e non abbia distrutto l’insieme delle rappresentazioni?
L’avventura di Hatshepsut sarebbe stata impossibile senza l’appoggio dei sacerdoti di Amon che, paradossalmente, avevano designato come re Thutmosi III. Ella trovò un fedele alleato nella persona del gran sacerdote Hapuseneb, la cui influenza politica era considerevole. Fu lui a favorire la creazione del mito della nascita divina e a giustificare teologicarnente la legittimità di Hatshepsut. Nominato capo dei sacerdoti del Sud e del Nord, Hapuseneb dirigeva tutti i culti e, attraverso l’oracolo, di cui aveva il totale controllo, faceva conoscere la volontà di Amon. Hatshepsutt gli affiderà anche la carica di visir, ponendolo in tal modo a capo dello Stato. Sempre sulla stessa terrazza intermedia del tempio di Deir el Bahari, il portico di Punt narra gli episodi di una spedizione commerciale che venne considerata da Hatshepsut come uno dei grandi momenti del suo pacifico regno durante il quale la politica interventistica dei faraoni della XVIII dinastia conobbe un momento di tregua. Eppure la regina dà un’immagine di sé piuttosto sorprendente: sovrana della luce, è stata lei a mettere fine al caos del Secondo periodo intermedio. Ella si vanta di avere restaurato i monumenti danneggiati al tempo in cui gli asiatici occupavano Avari e i predoni taglieggiavano le province del Nord, agendo nell’ignoranza del dio Ra. Ancora una volta, Hatshepsut insiste sulla sua legittimità. Il caos è cessato perché lei è faraone. La sua politica estera fu certamente troppo debole. In Asia le popolazioni non erano meno turbolente di prima e il non interventismo egizio servì solo a incoraggiare i progetti di rivolta. Quando Thutmosi III prenderà il potere, troverà una situazione piuttosto esplosiva, di cui in parte è responsabile Hatshepsut.
La regina si era dedicata innanzi tutto a intrattenere rapporti commerciali con l’estero. E il viaggio a Punt segna l’apogeo ditale politica. Il paese di Punt, la cui localizzazione esatta è ancora oggetto di controversie (molto probabilmente, doveva trovarsi nei pressi della costa somala, vicino all’Eritrea), fu visitato dagli egizi fin dall’Antico Regno. I due paesi sembra abbiano goduto di una buona intesa. Fu Amon di Tebe a ispirare ad Hatshepsut, la sua protetta, l’idea di una spedizione straordinaria nel paese dell’incenso, di cui i sacerdoti facevano largo uso durante i riti. La flotta egizia è composta da cinque grandi navi, con trenta rematori ciascuna. Quando giungono alla meravigliosa terra di Punt, resa ulteriormente bella dalla leggenda, esse gettano l’ancora in acque ricche di pesci. Un’imbarcazione carica di vettovaglie si dispone a raggiungere la riva. I marinai del faraone scaricano numerosi doni, mentre il capo della spedizione, protetto da una scorta militare, saluta il re e la regina di Punt. Quest’ultima è deforme: soffre di una forte elefantiasi. Vengono distribuite perle, collane e armi. I notabili di Punt si inchinano e rendono omaggio ad Amon-Ra. Gli egizi ammirano l’incantevole flora tropicale. Gli indigeni vivono in mezzo alle palme, in capanne rotonde alle quali si accede tramite scale e indossano gli stessi vestiti che si usavano al tempo di Cheope: in questa regione, infatti, la moda non è cambiata e si portano ancora i capelli intrecciati e le barbe tagliate a punta. Gli affari si concludono in perfetta armonia. Viene piantata una tenda per l’inviato del re e i dignitari egizi. Si intavolano discussioni. Gli egizi torneranno a casa con legno d’ebano, oro, incenso, zanne d’elefante, scimmie, pelli di leopardo e di altre bestie feroci. Essi trattano con particolare riguardo gli alberi dell’incenso, avvolgendone le radici in stuoie. Del carico si occupano esclusivamente i marinai egizi, i quali non permettono che gli abitanti di Punt salgano a bordo. La fine delle trattative commerciali viene festeggiata con un allegro banchetto in cui abbondano pane, carne, frutta, vino e birra. I testi ufficiali non parlano di baratto, ma di un tributo versato da Punt ad Hatshepsut. La spedizione, del resto, non è a scopo esclusivamente profano: vuole essere anche un omaggio ad Hathor, sovrana di Punt. La regina fa infatti erigere sulle sue coste una statua che la raffigura insieme al dio Amon. Durante il viaggio di ritorno, alcune scimmie giocherellone si arrampicano lungo le funi. Esse venivano lasciate in libertà perché erano destinate a diventare gli animali domestici dei nobili. L’arrivo a Tebe è trionfale e ricorda l’accoglienza riservata ai marinai del re Sahura, durante l’Antico Regno. In piedi sulle navi, alle quali sono stati abbassati gli alberi, imbrogliate le vele e sollevati i remi, i marinai acclamano il faraone con le braccia alzate. Facciamo notare che le imbarcazioni erano protette con simboli magici: a prua e a poppa erano infatti rappresentati la «chiave della vita», il segno ankh e l’«occhio di Horo». La regina presiede alla cerimonia d’accoglienza nei giardini del tempio di Deir el Bahari, dove vengono piantati gli alberi dell’incenso. Si misura l’incenso fresco, si pesano l’oro e gli altri metalli. Hatshepsut in persona si fa garante dell’esattezza delle pesate. Durante la bella festa della valle, Amon visitava i templi della necropoli tebana. Arrivando a Deir el Bahari, il dio si rallegra che l’incenso offertogli sia fresco e puro: per questo motivo ha ordinato che si facesse una spedizione a Punt. Il suo cuore prova in ciò un immenso piacere e cielo e terra vengono inondati di incenso.
Dirigiamoci adesso verso la terrazza superiore. Il portico esterno è gravemente danneggiato; lì si trovavano colossi mummiformi con il volto della regina. Un portale di granito rosa immette nel cortile. Questa parte segreta del tempio era consacrata al culto di Amon, di Ra e di Hatshepsut divinizzata. Il santuario principale è situato sullo stesso asse del tempio. L’immagine di Hatshepsut in alcuni casi è stata sostituita con quella di Thutmosi III, ma non dappertutto. In questo luogo due famiglie associano la loro fama alle grazie divine: da una parte Hatshepsut e i suoi genitori, dall’altra Thutmosi III e suo padre.
Purtroppo, anche la cappella funeraria di Hatshepsut è assai rovinata. Vi erano rappresentate la navigazione della barca solare durante le ore del giorno e durante quelle della notte e alcune scene di offerta di animali, stoffe e fiori. Hatshepsut disponeva anche di quanto era necessario alla sua sopravvivenza. In fondo alla cappella, la stele di culto era l’elemento sacro per eccellenza, che permetteva allo spirito della regina di vivere in eterno. In un’altra cappella della terrazza superiore, dedicata al culto di Thutmosi I, ci aspetta una straordinaria sorpresa. Su una delle pareti un uomo si è fatto rappresentare in ginocchio, in atto d’adorazione. Viene precisto il suo nome: Senmut. Senmut è il geniale architetto che ha progettato il tempio di Deir el Bahari. Lui, che non era di stirpe regale ha avuto l’audacia — o il permesso — di tramandare in tal modo il ricordo di sé. Senmut è rappresentato anche in un altro punto dell’edificio, mentre prega Hathor. Di origini modeste, egli fece una carriera rapida, ricoprendo almeno una ventina di funzioni diverse. Incaricato della gestione di una parte del grande tempio di Karnak, secondo profeta di Amon, fu anche precettore della principessa ereditaria e capo del consiglio privato di Hatshepsut. Alcune statue lo mostrano mentre tiene avvolta nel suo mantello la figlia della regina.
Il nome di Senmut scompare dalle iscrizioni dopo il sedicesimo anno del regno di Hatshepsut. Alcuni studiosi, ritenendo che l’architetto fosse l’amante della regina, ipotizzano che sia poi caduto in disgrazia. Ma la verità è forse un’altra: è probabile che il costruttore di Deir el Bahari fosse morto. Non lontano dal tempio, vicino a una cava, era stata infatti preparata una tomba per Senmut. La sepoltura era situata sotto l’angolo nordorientale della terrazza inferiore del tempio: Senmut desiderava riposare sotto il suo capolavoro e rimanere accanto alla sua sovrana per l’eternità. Ma egli non venne sepolto lì, per ragioni che ci rimangono ignote.
Come finì l’avventura di Hatshepsut, donna eccezionale, la più grande regina d’Egitto? Non lo sappiamo con certezza. Si è spesso scritto che il giovane Thutmosi III, salito al trono dopo la morte della zia, la odiasse e che per questo abbia fatto distruggere il suo nome sui monumenti, per cancellarne il ricordo dalla storia. Tali affermazioni vanno però attenuate. Thutmosi III non diede infatti ordine di radere al suolo il tempio di Deir el Bahari, che era il simbolo più puro del regno di Hatshepsut. Il suo pseudo-odio, inoltre sembra essersi scatenato molto tardi, una quindicina di anni dopo la morte della regina. Se è vero che tali distruzioni e le mutilazioni con valore simbolico di certe statue mirano a ricollegare il regno di Thutmosi III a quello di Thutmosi II, la distruzione del nome o dell’immagine di Hatshepsut è lungi dall’essere sistematica. Thutmosi III, infatti, tiene più a legittimare il proprio potere che a cancellare il ricordo del regno di Hatshepsut.
E certo che Hatshepsut e Thutmosi III possedevano entrambi una personalità molto forte. La storia, nel loro caso, si è perfettamente organizzata per lasciarli esprimere entrambi. Quando Hatshepsut morì, il nuovo faraone non era più un bambino. Spinto dal desiderio di dimostrare il proprio valore e la propria competenza, egli sarebbe diventato il più grande genio militare dell’antico Egitto. La tomba di Hatshepsut è stata ritrovata. Profonda oltre cento metri sotto terra, priva di testi e di decorazioni, è stata la prima tomba a essere scavata nella Valle delle Regine. Essa conteneva i sarcofagi di Hatshepsut e di suo padre Thutmosi I. Ma Hatshepsut, una volta diventata faraone, si era fatta scavare un’altra tomba nella Valle dei Re. Di tale sepoltura si occupò Hapuseneb, gran sacerdote di Amon. L’asse principale di questa «dimora eterna» era orientato in direzione del tempio di Deir el Bahari, collegando così idealmente i monumenti più importanti della regina faraone. Al padre di Hatshepsut si deve un’iniziativa fondamentale: la scelta della Valle dei Re come sede delle dimore eterne dei faraoni. Questa valle, uno uadi selvaggio e desertico a ovest di Tebe, è dominata da una cima, una sorta di grande piramide naturale: e infatti alcuni studiosi si chiedono se non sia stata intagliata apposta dalla mano dell’uomo affinché assomigliasse alle piramidi degli antichi re e servisse da protezione ai faraoni sepolti sotto di lei. L’accesso alla Valle dei Re, disseminata di fortini, non era consentito ai profani. Le tombe venivano scavate da artigiani iniziati e l’ingresso nelle tombe era vietato. Nei periodi di disordini sociali, questo luogo magico catturerà l’attenzione di ladri e predoni, intenzionati a impossessarsi dell’oro dei monarchi. I costruttori delle tombe reali vivevano a Deir el Medina, in un luogo chiamato «il posto della verità», «il posto dell’armonia». Questi uomini, che non furono mai molto numerosi (da trenta a cinquanta circa), dipendevano direttamente dal re in persona e dal visir. La loro presenza è chiaramente attestata per la XIX e la XX dinastia, ma la comunità che formavano fu certamente operativa fin dalla XVIII dinastia. Questa confraternita costituiva un collegio iniziatico la cui regola di vita presenta affinità con quella di altre comunità di costruttori. Regno felice, anni di pace e di serenità, bellezza di una civiltà incarnata dal tempio di Deir el Bahari: il bilancio dell’opera compiuta da Hatshepsut è più che positivo. Ma già, in lontananza, rimbomba l’eco delle armi. L’ora di Thutmosi III è arrivata.
martedì 23 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 aprile.
Tra il 23 e il 24 aprile 1915 ha inizio il genocidio armeno.
Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C.
Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi.
Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi.
Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente.
Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno.
Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor.
Il decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero.
I paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno sono 22, tra cui l’Italia, mentre in altri è riconosciuto solo da singoli enti o amministrazioni. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Barack Obama si era espresso in favore del riconoscimento prima di diventare presidente degli Stati Uniti, ma quando è stato eletto, pur promuovendo la pacificazione tra Turchia e Armenia, ha evitato di usare il termine.
Tra il 23 e il 24 aprile 1915 ha inizio il genocidio armeno.
Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C.
Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi.
Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi.
Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente.
Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno.
Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor.
Il decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero.
I paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno sono 22, tra cui l’Italia, mentre in altri è riconosciuto solo da singoli enti o amministrazioni. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Barack Obama si era espresso in favore del riconoscimento prima di diventare presidente degli Stati Uniti, ma quando è stato eletto, pur promuovendo la pacificazione tra Turchia e Armenia, ha evitato di usare il termine.
lunedì 22 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 aprile.
Il 22 aprile 1724 nasce il filosofo Immanuel Kant.
In ogni manuale di filosofia la ricostruzione della biografia di Kant è sempre, sostanzialmente, destinata a coincidere con le date di pubblicazione delle sue opere. Ma c'è davvero solo questo nella sua biografia? Kant nasce il 22 aprile 1724 a Konigsberg, capoluogo della Prussia orientale e fiorente centro portuale e nella stessa città muore il 27 febbraio 1804 (alcune fonti fanno risalire la scomparsa all'11 febbraio 1804).
Immanuel Kant è il quarto di dieci fratelli, di cui sei morti in giovane età. La condizione economica della famiglia legata al lavoro del padre Johann Georg Kant, sellaio, e ad una piccola rendita portata in dote dalla madre, Anna Regina Reuter, permette solo al figlio più promettente, Immanuel, di continuare gli studi fino all'Università. Probabilmente per questo i rapporti tra Immanuel e i suoi fratelli si faranno sempre più sporadici nell'età adulta. Pare inoltre che Kant non gradisse le continue richieste di denaro da parte delle sorelle, invidiose della differente condizione economica raggiunta dal fratello filosofo.
Nell'educazione ricevuta dal giovane Kant sicuramente uno dei dati fondamentali sono le convinzioni religiose della famiglia, in particolare della madre, seguace del movimento pietista. Ne è una conseguenza l'iscrizione al "Collegium Fridericianum", frequentato dal 1732 al 1740 e diretto in quel periodo da uno degli esponenti più autorevoli del pietismo, Franz Albert Schulz.
Nel 1740 Kant, giovanissimo, prosegue gli studi iscrivendosi all'Università di Konigsberg, dove frequenta soprattutto i corsi di filosofia, matematica e fisica, sotto la guida di Martin Knutzen. Il rapporto con Knutzen è molto importante non solo perché questi mette a disposizione del giovane studioso la sua biblioteca, ma anche perché è proprio lui ad introdurlo allo studio dei due pensatori allora più influenti nel mondo accademico: Isaac Newton e il filosofo Christian Wolff. Probabilmente fu proprio durante la fase degli studi universitari che iniziò a maturare l'opposizione di Kant a qualunque tipo di dogmatismo.
Lasciando ai manuali il compito di addentrarsi nel pensiero del filosofo e nelle interpretazioni che ne sono state date (numerose quanti gli interpreti), per comprendere la biografia di Kant va però messa in evidenza la grandiosità dell'opera filosofica per la quale spese la sua vita: l'indagine delle reali possibilità conoscitive della ragione.
L'obbiettivo di Kant è porre le basi per arrivare ad una reale conoscenza di ciò che sta al di là del mondo sensibile, in altre parole di ciò che viene definito come "metafisica": "della quale" scriverà Kant "io ho il destino di essere innamorato". Nella metafisica il filosofo suppone di trovare il "bene vero e durevole del genere umano", il quale non deve e non può "essere indifferente alla natura umana". ["Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica" 1765].
L'immane compito filosofico che Kant si prefigge lo porta alla scelta di una vita ritirata, fatta di abitudini e di libri. Famoso è l'aneddoto della passeggiata di Kant: talmente regolare che si dice che gli abitanti di Konigsberg la usassero per controllare la precisione dei loro orologi. Solo un grande evento riesce a distrarre il filosofo dalla sua passeggiata: l'appassionante lettura dell'"Emile" di Jean Jacques Rousseau.
Dopo gli studi Kant si mantiene inizialmente facendo il precettore. Solo nel 1755 ottiene il primo incarico accademico, la libera docenza, che continuerà ad esercitare per i successivi 15 anni. Tra le materie insegnate, oltre la filosofia, si segnalano la matematica, la fisica e la geografia.
Nel 1770 Kant ottiene la cattedra di professore ordinario di logica e di metafisica all'università di Konigsberg. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, Kant ottiene questa cattedra solo al terzo tentativo, dopo che i precedenti si erano conclusi con l'offerta, seccamente rifiutata, di una cattedra di ripiego per l'insegnamento dell'arte poetica.
Kant mantiene il suo incarico fino alla morte, respingendo offerte anche molto più allettanti, come nel 1778 quando non accetta l'invito dell'università di Halle.
Per ottenere la cattedra Kant scrive la dissertazione "De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis" che conclude quella che nella vita e nelle opere del filosofo viene chiamata la fase precritica. In questo studio emerge il problema del rapporto tra le due forme della conoscenza sensibile, spazio e tempo, e la realtà. Kant prende il problema molto sul serio e riflette sulla questione per dieci anni, quando esce, tra le sue opere più famose, la "Critica della ragion pura" (1781).
Con quest'opera per non citare gli altri numerosi scritti a partire dal 1781, Kant compie in filosofia quella che lui stesso definisce come "rivoluzione copernicana".
Un primo mito da sfatare è sicuramente quello di Kant come uomo schivo e solitario. Sono noti infatti almeno due fidanzamenti del filosofo, che purtroppo non furono coronati dal matrimonio. Pare che Kant fosse sempre un po' indeciso sul momento adatto in cui formulare la fatidica proposta e quindi scalzato dal sopraggiungere di altri pretendenti più facoltosi.
Probabilmente da qui hanno origine alcune delle sarcastiche considerazioni del filosofo sulle donne. Se da una parte il filosofo poteva consolarsi delle delusioni, sostenendo che gli uomini "non sposati conservano un aspetto più giovanile di quelli sposati", dall'altra scriveva che "le donne colte usano i libri alla stregua dell'orologio che portano per mostrare che ne hanno uno, sebbene o sia fermo o non vada con il sole" ("Antropologia dal punto di vista pragmatico" 1798).
Oltre ai fidanzamenti sono documentate molte amicizie e molti estimatori di Kant non solo dal punto di vista filosofico. Pare, ad esempio, che il filosofo amasse pranzare in compagnia. E se nessuno dei suoi amici poteva pranzare con lui, non aveva remore ad invitare e offrire il pranzo a perfetti sconosciuti.
L'importante era che le amicizie non distogliessero eccessivamente il filosofo dai suoi studi. Tutte le frequentazioni che potevano scombinare il suo ritmo di studio venivano sistematicamente interrotte. Pare che, successivamente ad un gita in campagna che si era protratta troppo a lungo la sera, il filosofo avesse annotato nei suoi appunti "non lasciarsi mai coinvolgere da nessuno in nessuna gita".
Anche per quanto riguarda il rapporto con la religione, Kant non amava avere nessun vincolo alla sua libertà di pensiero. È nota la sua risposta alla censura subita nel 1794 dalla seconda edizione dell'opera "Religione entro i limiti della semplice ragione". Kant, dovendo accettare la censura di buon grado, non mancò però di chiosare: "se tutto ciò che viene detto deve essere vero, non è dato con questo anche il dovere di proclamarlo apertamente".
Ma la libertà di pensiero nei confronti della religione aveva anche un risvolto più quotidiano. Kant si chiese infatti nella seconda edizione della "Critica del giudizio" se "chi ha raccomandato, negli esercizi religiosi domestici, anche il canto di inni, abbia riflettuto che una devozione così rumorosa (e già per questo farisaica), comportasse un gran disturbo pubblico, imponendo anche al vicinato o di prender parte al canto o di rinunciare ad ogni occupazione intellettuale".
Immanuel Kant muore nella città natale di Konigsberg il 12 febbraio 1804. Sulla sua tomba sono incise le sue parole più famose, tratte dalla "Critica della ragion pratica": "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me".
Il 22 aprile 1724 nasce il filosofo Immanuel Kant.
In ogni manuale di filosofia la ricostruzione della biografia di Kant è sempre, sostanzialmente, destinata a coincidere con le date di pubblicazione delle sue opere. Ma c'è davvero solo questo nella sua biografia? Kant nasce il 22 aprile 1724 a Konigsberg, capoluogo della Prussia orientale e fiorente centro portuale e nella stessa città muore il 27 febbraio 1804 (alcune fonti fanno risalire la scomparsa all'11 febbraio 1804).
Immanuel Kant è il quarto di dieci fratelli, di cui sei morti in giovane età. La condizione economica della famiglia legata al lavoro del padre Johann Georg Kant, sellaio, e ad una piccola rendita portata in dote dalla madre, Anna Regina Reuter, permette solo al figlio più promettente, Immanuel, di continuare gli studi fino all'Università. Probabilmente per questo i rapporti tra Immanuel e i suoi fratelli si faranno sempre più sporadici nell'età adulta. Pare inoltre che Kant non gradisse le continue richieste di denaro da parte delle sorelle, invidiose della differente condizione economica raggiunta dal fratello filosofo.
Nell'educazione ricevuta dal giovane Kant sicuramente uno dei dati fondamentali sono le convinzioni religiose della famiglia, in particolare della madre, seguace del movimento pietista. Ne è una conseguenza l'iscrizione al "Collegium Fridericianum", frequentato dal 1732 al 1740 e diretto in quel periodo da uno degli esponenti più autorevoli del pietismo, Franz Albert Schulz.
Nel 1740 Kant, giovanissimo, prosegue gli studi iscrivendosi all'Università di Konigsberg, dove frequenta soprattutto i corsi di filosofia, matematica e fisica, sotto la guida di Martin Knutzen. Il rapporto con Knutzen è molto importante non solo perché questi mette a disposizione del giovane studioso la sua biblioteca, ma anche perché è proprio lui ad introdurlo allo studio dei due pensatori allora più influenti nel mondo accademico: Isaac Newton e il filosofo Christian Wolff. Probabilmente fu proprio durante la fase degli studi universitari che iniziò a maturare l'opposizione di Kant a qualunque tipo di dogmatismo.
Lasciando ai manuali il compito di addentrarsi nel pensiero del filosofo e nelle interpretazioni che ne sono state date (numerose quanti gli interpreti), per comprendere la biografia di Kant va però messa in evidenza la grandiosità dell'opera filosofica per la quale spese la sua vita: l'indagine delle reali possibilità conoscitive della ragione.
L'obbiettivo di Kant è porre le basi per arrivare ad una reale conoscenza di ciò che sta al di là del mondo sensibile, in altre parole di ciò che viene definito come "metafisica": "della quale" scriverà Kant "io ho il destino di essere innamorato". Nella metafisica il filosofo suppone di trovare il "bene vero e durevole del genere umano", il quale non deve e non può "essere indifferente alla natura umana". ["Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica" 1765].
L'immane compito filosofico che Kant si prefigge lo porta alla scelta di una vita ritirata, fatta di abitudini e di libri. Famoso è l'aneddoto della passeggiata di Kant: talmente regolare che si dice che gli abitanti di Konigsberg la usassero per controllare la precisione dei loro orologi. Solo un grande evento riesce a distrarre il filosofo dalla sua passeggiata: l'appassionante lettura dell'"Emile" di Jean Jacques Rousseau.
Dopo gli studi Kant si mantiene inizialmente facendo il precettore. Solo nel 1755 ottiene il primo incarico accademico, la libera docenza, che continuerà ad esercitare per i successivi 15 anni. Tra le materie insegnate, oltre la filosofia, si segnalano la matematica, la fisica e la geografia.
Nel 1770 Kant ottiene la cattedra di professore ordinario di logica e di metafisica all'università di Konigsberg. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, Kant ottiene questa cattedra solo al terzo tentativo, dopo che i precedenti si erano conclusi con l'offerta, seccamente rifiutata, di una cattedra di ripiego per l'insegnamento dell'arte poetica.
Kant mantiene il suo incarico fino alla morte, respingendo offerte anche molto più allettanti, come nel 1778 quando non accetta l'invito dell'università di Halle.
Per ottenere la cattedra Kant scrive la dissertazione "De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis" che conclude quella che nella vita e nelle opere del filosofo viene chiamata la fase precritica. In questo studio emerge il problema del rapporto tra le due forme della conoscenza sensibile, spazio e tempo, e la realtà. Kant prende il problema molto sul serio e riflette sulla questione per dieci anni, quando esce, tra le sue opere più famose, la "Critica della ragion pura" (1781).
Con quest'opera per non citare gli altri numerosi scritti a partire dal 1781, Kant compie in filosofia quella che lui stesso definisce come "rivoluzione copernicana".
Un primo mito da sfatare è sicuramente quello di Kant come uomo schivo e solitario. Sono noti infatti almeno due fidanzamenti del filosofo, che purtroppo non furono coronati dal matrimonio. Pare che Kant fosse sempre un po' indeciso sul momento adatto in cui formulare la fatidica proposta e quindi scalzato dal sopraggiungere di altri pretendenti più facoltosi.
Probabilmente da qui hanno origine alcune delle sarcastiche considerazioni del filosofo sulle donne. Se da una parte il filosofo poteva consolarsi delle delusioni, sostenendo che gli uomini "non sposati conservano un aspetto più giovanile di quelli sposati", dall'altra scriveva che "le donne colte usano i libri alla stregua dell'orologio che portano per mostrare che ne hanno uno, sebbene o sia fermo o non vada con il sole" ("Antropologia dal punto di vista pragmatico" 1798).
Oltre ai fidanzamenti sono documentate molte amicizie e molti estimatori di Kant non solo dal punto di vista filosofico. Pare, ad esempio, che il filosofo amasse pranzare in compagnia. E se nessuno dei suoi amici poteva pranzare con lui, non aveva remore ad invitare e offrire il pranzo a perfetti sconosciuti.
L'importante era che le amicizie non distogliessero eccessivamente il filosofo dai suoi studi. Tutte le frequentazioni che potevano scombinare il suo ritmo di studio venivano sistematicamente interrotte. Pare che, successivamente ad un gita in campagna che si era protratta troppo a lungo la sera, il filosofo avesse annotato nei suoi appunti "non lasciarsi mai coinvolgere da nessuno in nessuna gita".
Anche per quanto riguarda il rapporto con la religione, Kant non amava avere nessun vincolo alla sua libertà di pensiero. È nota la sua risposta alla censura subita nel 1794 dalla seconda edizione dell'opera "Religione entro i limiti della semplice ragione". Kant, dovendo accettare la censura di buon grado, non mancò però di chiosare: "se tutto ciò che viene detto deve essere vero, non è dato con questo anche il dovere di proclamarlo apertamente".
Ma la libertà di pensiero nei confronti della religione aveva anche un risvolto più quotidiano. Kant si chiese infatti nella seconda edizione della "Critica del giudizio" se "chi ha raccomandato, negli esercizi religiosi domestici, anche il canto di inni, abbia riflettuto che una devozione così rumorosa (e già per questo farisaica), comportasse un gran disturbo pubblico, imponendo anche al vicinato o di prender parte al canto o di rinunciare ad ogni occupazione intellettuale".
Immanuel Kant muore nella città natale di Konigsberg il 12 febbraio 1804. Sulla sua tomba sono incise le sue parole più famose, tratte dalla "Critica della ragion pratica": "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me".
domenica 21 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 aprile.
Il 21 aprile 1521 Hernan Cortes sbarca a Veracruz.
Hernán Cortés Monroy Pizarro Altamirano, passato alla storia unicamente con il nome e cognome di Hernán Cortés, nasce a Medellín, in Estremadura (Spagna), allora territorio della corona spagnola, nel 1485.
Condottiero spagnolo, è noto sui libri di storia per aver ridotto all'obbedienza le popolazioni indigene viventi durante il periodo della conquista del nuovo mondo, abbattendo con i suoi uomini il leggendario Impero Azteco, sottomettendolo al Regno di Spagna. Tra i suoi soprannomi, c'è quello tuttora famoso di "El Conquistador".
Sulle origini di quest'uomo d'arme non ci sono note certe. Alcuni lo vogliono nobile, altri proveniente da umili origini. Di sicuro, l'ambito nel quale cresce è impregnato di cattolicesimo istituzionale, per così dire, mentre deve aver abbracciato sin da subito la vita militare: sua unica, grande vocazione.
L'epopea di Cortés comincia intorno al 1504, al servizio del governatore Diego Velasquez Cuellar, il quale lo vuole prima a Santo Domingo e poi a Cuba, due territori all'epoca sotto la corona spagnola. Il futuro condottiero non è un tipo facile e, per ragioni tuttora inspiegate, finisce agli arresti quasi subito, per volere proprio del governatore. Questi però, fiutando il suo talento militare, a seguito delle due spedizioni messicane fallite dai capitani Cordoba e Grijalva, decide di inviare proprio Cortés in Messico, affidandogli la terza spedizione di conquista.
Di fronte ha un impero di milioni di uomini, quello Azteco, e quando parte, il condottiero ha con sé undici navi e 508 soldati.
Nel 1519, il militare nativo di Medellìn sbarca a Cozumel. Qui si unisce al naufrago Jerónimo de Aguilar e sulla costa del golfo messicano familiarizza con la tribù dei Totonachi, portandoli dalla sua parte nella guerra contro l'Impero azteco-méxica. Il naufrago spagnolo diventa un punto di riferimento per quello che di lì a poco verrà soprannominato El Conquistador: questi parla la lingua dei Maya e questa caratteristica fornisce a Cortés le giuste basi per dare sfoggio alle proprie abilità di comunicatore e soprattutto di manipolatore.
Immediatamente però, a causa dei suoi metodi poco ortodossi e della sua propensione ad agire per proprio conto, Velasquez lo richiama all'ordine, pentendosi della sua decisione di inviare Cortés in Messico. Tuttavia, il condottiero spagnolo si dichiara fedele alla sola autorità del Re di Spagna e incendia le proprie navi, fondando simbolicamente la città di Veracruz, sua base militare e organizzativa.
L'incendio delle navi è una mossa azzardata ma che rispecchia bene l'identità del personaggio: onde evitare qualsiasi ripensamento, pur agendo da ribelle, egli di fatto impone a tutto il suo seguito quale unica risoluzione quella della conquista dei territori messicani.
Da questo momento, nel pieno della sua autorità, si fa ricevere dall'imperatore Montezuma e comincia un'opera di insediamento nei suoi possedimenti quasi agevolata dallo stesso capo tribale, il quale interpreta l'arrivo del militare spagnolo e dei suoi uomini come una sorta di presagio divino, da intendere sotto ogni buon auspicio. Dopo alcuni mesi dalla conquista definitiva dei possedimenti aztechi, convinto da Cortés e dalle sue abilità di grande affabulatore, l'imperatore Montezuma si farà addirittura battezzare cristiano.
Nel giro di poco tempo Hernán Cortés porta dalla sua parte un buon numero di uomini e, forte di oltre 3.000 unità tra indios e spagnoli, si mette in marcia per Tenochtitlán, la capitale dei Méxica. Il 13 agosto del 1521, dopo due mesi e mezzo di assedio, la città messicana viene presa, e in meno di un anno gli spagnoli assumono il pieno dominio della capitale e dei dintorni.
Tenochtitlán è la città su cui sorge la nuova Città del Messico, di cui assume il governatorato lo stesso Cortés, nominandola capitale della "Nuova Spagna" e per volere dello stesso reale spagnolo, Carlo V.
Ad ogni modo, nonostante gli stenti della guerra e la popolazione ormai in ginocchio, dimezzata da stragi e malattie, e pur con pochi uomini al suo servizio, il condottiero decide di partire alla conquista dei restanti territori aztechi, spingendosi fino in Honduras. Quando decide di rimettersi in viaggio, Cortés è un uomo ricco ma che non gode di molta stima da parte dei nobili e della corona spagnola. Nel 1528 viene richiamato in Spagna e gli viene tolta la carica di governatore.
Tuttavia la stasi dura poco. Con il titolo di Marchese della Valle di Oaxaca, riparte verso l'America, nonostante non goda della stima del nuovo Viceré. Per questa ragione il condottiero volge il proprio sguardo verso altre terre e, nel 1535, scopre la California. È il canto del cigno, per così dire, del Conquistador. Il Re infatti, dopo qualche tempo, lo rivuole in Spagna, per spedirlo alla volta dell'Algeria. Ma qui non riesce ad imprimere una svolta all'esercito, che subisce una dura sconfitta.
Cortés, ormai stanco delle spedizioni, decide di ritirarsi a vita privata nella sua proprietà a Castilleja de la Cuesta, in Andalusia. Qui, il 2 dicembre del 1547, Hernán Cortés muore all'età di 62 anni. La sua salma, così come espresso nei suoi ultimi voleri, viene inviata a Città del Messico e tumulata nella chiesa di Gesù Nazareno.
Oggi il Golfo di California, il tratto di mare che separa la penisola della California dal Messico continentale, è conosciuto anche come Mare di Cortés
Il 21 aprile 1521 Hernan Cortes sbarca a Veracruz.
Hernán Cortés Monroy Pizarro Altamirano, passato alla storia unicamente con il nome e cognome di Hernán Cortés, nasce a Medellín, in Estremadura (Spagna), allora territorio della corona spagnola, nel 1485.
Condottiero spagnolo, è noto sui libri di storia per aver ridotto all'obbedienza le popolazioni indigene viventi durante il periodo della conquista del nuovo mondo, abbattendo con i suoi uomini il leggendario Impero Azteco, sottomettendolo al Regno di Spagna. Tra i suoi soprannomi, c'è quello tuttora famoso di "El Conquistador".
Sulle origini di quest'uomo d'arme non ci sono note certe. Alcuni lo vogliono nobile, altri proveniente da umili origini. Di sicuro, l'ambito nel quale cresce è impregnato di cattolicesimo istituzionale, per così dire, mentre deve aver abbracciato sin da subito la vita militare: sua unica, grande vocazione.
L'epopea di Cortés comincia intorno al 1504, al servizio del governatore Diego Velasquez Cuellar, il quale lo vuole prima a Santo Domingo e poi a Cuba, due territori all'epoca sotto la corona spagnola. Il futuro condottiero non è un tipo facile e, per ragioni tuttora inspiegate, finisce agli arresti quasi subito, per volere proprio del governatore. Questi però, fiutando il suo talento militare, a seguito delle due spedizioni messicane fallite dai capitani Cordoba e Grijalva, decide di inviare proprio Cortés in Messico, affidandogli la terza spedizione di conquista.
Di fronte ha un impero di milioni di uomini, quello Azteco, e quando parte, il condottiero ha con sé undici navi e 508 soldati.
Nel 1519, il militare nativo di Medellìn sbarca a Cozumel. Qui si unisce al naufrago Jerónimo de Aguilar e sulla costa del golfo messicano familiarizza con la tribù dei Totonachi, portandoli dalla sua parte nella guerra contro l'Impero azteco-méxica. Il naufrago spagnolo diventa un punto di riferimento per quello che di lì a poco verrà soprannominato El Conquistador: questi parla la lingua dei Maya e questa caratteristica fornisce a Cortés le giuste basi per dare sfoggio alle proprie abilità di comunicatore e soprattutto di manipolatore.
Immediatamente però, a causa dei suoi metodi poco ortodossi e della sua propensione ad agire per proprio conto, Velasquez lo richiama all'ordine, pentendosi della sua decisione di inviare Cortés in Messico. Tuttavia, il condottiero spagnolo si dichiara fedele alla sola autorità del Re di Spagna e incendia le proprie navi, fondando simbolicamente la città di Veracruz, sua base militare e organizzativa.
L'incendio delle navi è una mossa azzardata ma che rispecchia bene l'identità del personaggio: onde evitare qualsiasi ripensamento, pur agendo da ribelle, egli di fatto impone a tutto il suo seguito quale unica risoluzione quella della conquista dei territori messicani.
Da questo momento, nel pieno della sua autorità, si fa ricevere dall'imperatore Montezuma e comincia un'opera di insediamento nei suoi possedimenti quasi agevolata dallo stesso capo tribale, il quale interpreta l'arrivo del militare spagnolo e dei suoi uomini come una sorta di presagio divino, da intendere sotto ogni buon auspicio. Dopo alcuni mesi dalla conquista definitiva dei possedimenti aztechi, convinto da Cortés e dalle sue abilità di grande affabulatore, l'imperatore Montezuma si farà addirittura battezzare cristiano.
Nel giro di poco tempo Hernán Cortés porta dalla sua parte un buon numero di uomini e, forte di oltre 3.000 unità tra indios e spagnoli, si mette in marcia per Tenochtitlán, la capitale dei Méxica. Il 13 agosto del 1521, dopo due mesi e mezzo di assedio, la città messicana viene presa, e in meno di un anno gli spagnoli assumono il pieno dominio della capitale e dei dintorni.
Tenochtitlán è la città su cui sorge la nuova Città del Messico, di cui assume il governatorato lo stesso Cortés, nominandola capitale della "Nuova Spagna" e per volere dello stesso reale spagnolo, Carlo V.
Ad ogni modo, nonostante gli stenti della guerra e la popolazione ormai in ginocchio, dimezzata da stragi e malattie, e pur con pochi uomini al suo servizio, il condottiero decide di partire alla conquista dei restanti territori aztechi, spingendosi fino in Honduras. Quando decide di rimettersi in viaggio, Cortés è un uomo ricco ma che non gode di molta stima da parte dei nobili e della corona spagnola. Nel 1528 viene richiamato in Spagna e gli viene tolta la carica di governatore.
Tuttavia la stasi dura poco. Con il titolo di Marchese della Valle di Oaxaca, riparte verso l'America, nonostante non goda della stima del nuovo Viceré. Per questa ragione il condottiero volge il proprio sguardo verso altre terre e, nel 1535, scopre la California. È il canto del cigno, per così dire, del Conquistador. Il Re infatti, dopo qualche tempo, lo rivuole in Spagna, per spedirlo alla volta dell'Algeria. Ma qui non riesce ad imprimere una svolta all'esercito, che subisce una dura sconfitta.
Cortés, ormai stanco delle spedizioni, decide di ritirarsi a vita privata nella sua proprietà a Castilleja de la Cuesta, in Andalusia. Qui, il 2 dicembre del 1547, Hernán Cortés muore all'età di 62 anni. La sua salma, così come espresso nei suoi ultimi voleri, viene inviata a Città del Messico e tumulata nella chiesa di Gesù Nazareno.
Oggi il Golfo di California, il tratto di mare che separa la penisola della California dal Messico continentale, è conosciuto anche come Mare di Cortés
sabato 20 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 aprile.
Il 20 aprile 1303 Bonifacio VIII istituisce lo "Studium Urbis", ossia l'odierna università La Sapienza.
Il passato della Sapienza comincia allora. Benedetto Caetani convince il suo predecessore Celestino V ad abdicare e diventa papa con il nome di Bonifacio VIII. Sostenitore della supremazia universale del papato, Bonifacio si scontra con Filippo IV di Francia e dopo aver redatto la bolla Unam Sanctam, dove ribadisce la supremazia del pontefice su tutte le podestà della terra, lo scomunica nel 1303. Nello stesso anno Bonifacio con la bolla In suprema praeminentia dignitatis fonda lo Studium Urbis, l’Università di Roma. L’Università viene collocata fuori dalle mura vaticane, ubicazione che, se non risolve i vincoli esistenti tra l’università e il clero, segna tuttavia l’inizio di un nuovo rapporto tra la città di Roma e gli studiosi che in essa giungevano da tutte le parti del mondo.
Lo Studium Urbis acquista man mano importanza e prestigio e dal 1363 riceve dalla città di Roma un contributo stabile. La sede di Trastevere non è più sufficiente; così nel 1431 papa Eugenio IV, per dare all’Università una struttura più articolata, affianca al Rettore quattro amministratori e provvede all’acquisto di alcuni edifici nel rione Sant’Eustachio, tra piazza Navona e il Pantheon. In quell’area sorgerà duecento anni dopo lo storico palazzo della Sapienza, oggi sede dell'Archivio di Stato.
Nei primi anni del Cinquecento fu il figlio di Lorenzo De’ Medici, papa Leone X a dare un forte impulso all’Università romana, chiamando a Roma da tutta Europa studiosi famosi che le conferirono prestigio. È a Roma che per la prima volta in Europa vengono introdotte materie come i simplicia medicamenta, base della spagirica, un sistema di cure che a partire dall’energia presente nell’uomo cerca di ristabilirne l’equilibrio turbato dalla malattia. È in quegli anni che lavora nello Studium Urbis Bartolomeo Eustachio, uno dei fondatori della scienza anatomica moderna. Fu sempre papa Leone X a dare impulso agli insegnamenti storici, umanistici, archeologici e scientifici. Nel 1592 papa Clemente VIII chiama a Roma Andrea Cesalpino che l'anno dopo fornisce la prova della circolazione sanguigna e dimostra che esiste una corrente centripeta opposta rispetto a quella che, tramite l'aorta e i suoi rami, porta il sangue dal cuore alla periferia.
Nel 1660 lo Studium Urbis si trasferisce nella nuova sede, il palazzo in Corso Rinascimento che prende il nome di Sapienza dall’iscrizione posta sopra il portone principale: Initium Sapientiae timor Domini. Presso quella sede prestigiosa, che oggi ospita l’Archivio di Stato, nel 1670 viene fondata da Alessandro VII Chigi la biblioteca Alessandrina. Messi papali sono inviati nei paesi del vicino Oriente per procurare testi, volumi, alfabeti e grammatiche. A metà del Settecento un nuovo impulso viene dato all’Università da Benedetto XIV che regolamenta i percorsi di studio e i concorsi a cattedra, introduce nuovi insegnamenti come fisica sperimentale, chimica e matematiche sublimi, porta da tre a cinque i corsi di laurea: materie sacre, giurisprudenza, medicina e chirurgia, arti e filosofia e lingue. Benedetto ritiene ragionevole anche stanziare adeguate risorse per attrezzature e gabinetti scientifici mostrando l’utilità di accompagnare le riforme con le risorse necessarie per portarle avanti.
Quando lo spirito della Rivoluzione francese raggiunge Roma e, nel 1798, viene proclamata la prima Repubblica romana, si cerca di dare una nuova impostazione all’Università fondando l’Istituto nazionale per le scienze e per le arti e di rendere culturalmente più autonomi gli insegnamenti. Ma la speranza legata a Napoleone dura poco e lo spirito laico degli studenti deve aspettare la repubblica romana della primavera dei popoli. Nel 1849 un battaglione di studenti universitari si copre di gloria combattendo a difesa della Roma repubblicana di Mazzini, Saffi e Armellini, contro Napoleone III e le truppe francesi. Quando nel 1870 i bersaglieri completano l’unità d’Italia, sollevando i pontefici dall’ingrato e pur così difeso compito di esercitare il potere temporale, inizia un periodo di riforme significative per l’università romana. L’Italia in quegli anni è immersa nello spirito europeo e il ministro dell’Istruzione del nuovo Stato è Terenzio Mamiani, filosofo e intellettuale di altissimo livello. Con la sua azione e quella dei suoi successori la Sapienza ha modo di aprirsi in senso laico alle nuove correnti del pensiero moderno europeo.
Lo spirito patriottico che caratterizza la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento contiene in sé elementi diversi, tra i quali anche i germi del nazionalismo. Così, a ridosso della prima guerra mondiale, lo scontro tra interventisti e internazionalisti si ripropone nell’Università con manifestazioni anti tedesche, costringendo il rettore Alberto Tonelli, lui stesso convinto interventista, a sospendere le lezioni e a chiudere l’Ateneo. La guerra lascia un segno profondo nella vita dell’Università tanto che, terminato il conflitto, viene conferita la laurea per onore a tutti gli studenti caduti.
Gli anni del dopoguerra e lo scontro sociale che ne segue avviano il nostro paese verso la dittatura fascista. Il regime, che considera l’università e la scuola luoghi privilegiati per la propaganda, impone nel 1931 a tutti i docenti l’obbligo di un giuramento di fedeltà al duce pena la sospensione dall’insegnamento per chi avesse rifiutato. Su 1200 professori italiani solo dodici hanno il coraggio di opporsi rifiutando il giuramento. Fra questi quattro professori della Sapienza: Ernesto Buonaiuti, professore di storia del cristianesimo, Giorgio Levi della Vida, professore di studi orientali, Vito Volterra, professore di matematica e fisica, Gaetano De Sanctis, professore di storia antica. Tutti perdono il lavoro. Qualche altro docente preferisce chiedere il pensionamento anticipato piuttosto che sottomettersi all'obbligo del giuramento, come Antonio de Viti De Marco, professore di scienza delle finanze. Gli altri si piegano e il regime li ricompensa edificando una prestigiosa città universitaria: la nuova sede, progettata da Marcello Piacentini, viene inaugurata nel 1935 con cerimonie grandiose alla presenza della famiglia reale. Ma il clima in Italia diventa sempre più difficile per gli studiosi e inizia la migrazione dei cervelli. Enrico Fermi rimane a Roma fino al 1938. Quando riceve il premio Nobel, il fascismo ha appena promulgato le leggi razziali; Fermi, la cui moglie è di religione ebraica, dopo aver ritirato il premio a Stoccolma, emigra a New York. Lo segue un suo allievo, Emilio Segrè, che era salito in cattedra alla Sapienza dieci anni prima. L’anno dopo lascia Roma per gli Stati Uniti anche un giovane laureato in giurisprudenza della nostra università, Franco Modigliani, che riceverà nel 1985 il Nobel per l’economia.
Dopo la seconda guerra mondiale inizia una nuova ricostruzione: i docenti che avevano perso il posto per motivi politici o razziali vengono reintegrati nell’insegnamento e si ripristina l’elezione diretta del rettore e delle altre cariche accademiche.
Con gli anni Sessanta inizia una nuova fase. L’Italia vive il boom economico e si comincia a respirare un’aria nuova, il primo governo di centrosinistra apre una stagione di riforme, la Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II realizza una svolta più attenta al contributo della scienza al progresso dell’umanità, il partito comunista italiano dopo i fatti di Ungheria rompe con l’Unione Sovietica e accentua una sua elaborazione politica autonoma. Gli studenti aumentano in modo significativo, l’università invece rimane ancorata alle logiche tradizionali, il fermento studentesco si traduce in scontri violenti tra studenti di destra e di sinistra. Il 27 aprile del 1966 lo studente Paolo Rossi muore sulle scalinate di Lettere e filosofia durante una incursione di studenti di destra. Gli studenti e i professori per protesta occupano in modo non violento diverse facoltà. Per la prima volta nella storia il rettore Ugo Papi si trova costretto a dimettersi.
Poi il sessantotto, la contestazione, le occupazioni, Valle Giulia, il movimento studentesco e insieme le proteste e le attese di studenti e operai per un mondo più giusto. Nel 1969 sotto la spinta della protesta studentesca il Governo liberalizza l’accesso alle università.
Si apre una fase di grandi speranze e di grande partecipazione. In questi anni le scienze sociali, che in Italia erano state compresse dall’impostazione gentiliana, trovano finalmente uno sbocco accademico: nascono negli anni ’70 i corsi di laurea in psicologia e sociologia che diventeranno facoltà nel 1991.
Gli avvenimenti successivi fanno parte della storia recente: la burrascosa stagione del 1977, la rottura tra il movimento degli studenti e il sindacato, a cui segue una fase di disincanto e di scarsa partecipazione degli studenti che si riscuotono solo negli anni novanta con il movimento della Pantera. L’Italia vive i cosiddetti anni di piombo; l'università è colpita con gli assassini di due illustri docenti: Vittorio Bachelet nel 1980 e Ezio Tarantelli nel 1985.
La preoccupazione per la dimensione eccessiva della Sapienza porta a promuovere lo sviluppo di altre due importanti università statali: l’Università di Tor Vergata e Roma Tre che negli anni si affermano raggiungendo anch’esse dimensioni considerevoli.
È un rettore ingegnere a riportare la Sapienza a un ruolo centrale nello sviluppo delle politiche universitarie italiane: Antonio Ruberti. È a lui che si deve il recupero del nome Sapienza. Il suo impegno lo porta negli anni successivi a diventare il primo ministro dell’Università e della ricerca scientifica nel nostro Paese.
Dopo una lieve flessione nelle iscrizioni la Sapienza ha ripreso a crescere e rimane il più grande ateneo d’Europa, con circa 112.000 studenti e 8.000 dipendenti tra professori, impiegati e tecnici. Le riforme che hanno riguardato il sistema universitario alla fine degli anni Novanta hanno portato a una forte espansione dell’offerta formativa e delle strutture della Sapienza. A partire dal 2009 è iniziato un processo di riordino che ha portato all’adozione nel 2010 del nuovo Statuto, ispirato a criteri di razionalizzazione e a principi meritocratici. Le facoltà, oggi 11, hanno assunto un ruolo di coordinamento e di supervisione, mentre i dipartimenti, ridotti a 63, si occupano di didattica e ricerca.
Il futuro della Sapienza comincia oggi dal suo passato e dal contributo di tutte le componenti della comunità universitaria.
Il 20 aprile 1303 Bonifacio VIII istituisce lo "Studium Urbis", ossia l'odierna università La Sapienza.
Il passato della Sapienza comincia allora. Benedetto Caetani convince il suo predecessore Celestino V ad abdicare e diventa papa con il nome di Bonifacio VIII. Sostenitore della supremazia universale del papato, Bonifacio si scontra con Filippo IV di Francia e dopo aver redatto la bolla Unam Sanctam, dove ribadisce la supremazia del pontefice su tutte le podestà della terra, lo scomunica nel 1303. Nello stesso anno Bonifacio con la bolla In suprema praeminentia dignitatis fonda lo Studium Urbis, l’Università di Roma. L’Università viene collocata fuori dalle mura vaticane, ubicazione che, se non risolve i vincoli esistenti tra l’università e il clero, segna tuttavia l’inizio di un nuovo rapporto tra la città di Roma e gli studiosi che in essa giungevano da tutte le parti del mondo.
Lo Studium Urbis acquista man mano importanza e prestigio e dal 1363 riceve dalla città di Roma un contributo stabile. La sede di Trastevere non è più sufficiente; così nel 1431 papa Eugenio IV, per dare all’Università una struttura più articolata, affianca al Rettore quattro amministratori e provvede all’acquisto di alcuni edifici nel rione Sant’Eustachio, tra piazza Navona e il Pantheon. In quell’area sorgerà duecento anni dopo lo storico palazzo della Sapienza, oggi sede dell'Archivio di Stato.
Nei primi anni del Cinquecento fu il figlio di Lorenzo De’ Medici, papa Leone X a dare un forte impulso all’Università romana, chiamando a Roma da tutta Europa studiosi famosi che le conferirono prestigio. È a Roma che per la prima volta in Europa vengono introdotte materie come i simplicia medicamenta, base della spagirica, un sistema di cure che a partire dall’energia presente nell’uomo cerca di ristabilirne l’equilibrio turbato dalla malattia. È in quegli anni che lavora nello Studium Urbis Bartolomeo Eustachio, uno dei fondatori della scienza anatomica moderna. Fu sempre papa Leone X a dare impulso agli insegnamenti storici, umanistici, archeologici e scientifici. Nel 1592 papa Clemente VIII chiama a Roma Andrea Cesalpino che l'anno dopo fornisce la prova della circolazione sanguigna e dimostra che esiste una corrente centripeta opposta rispetto a quella che, tramite l'aorta e i suoi rami, porta il sangue dal cuore alla periferia.
Nel 1660 lo Studium Urbis si trasferisce nella nuova sede, il palazzo in Corso Rinascimento che prende il nome di Sapienza dall’iscrizione posta sopra il portone principale: Initium Sapientiae timor Domini. Presso quella sede prestigiosa, che oggi ospita l’Archivio di Stato, nel 1670 viene fondata da Alessandro VII Chigi la biblioteca Alessandrina. Messi papali sono inviati nei paesi del vicino Oriente per procurare testi, volumi, alfabeti e grammatiche. A metà del Settecento un nuovo impulso viene dato all’Università da Benedetto XIV che regolamenta i percorsi di studio e i concorsi a cattedra, introduce nuovi insegnamenti come fisica sperimentale, chimica e matematiche sublimi, porta da tre a cinque i corsi di laurea: materie sacre, giurisprudenza, medicina e chirurgia, arti e filosofia e lingue. Benedetto ritiene ragionevole anche stanziare adeguate risorse per attrezzature e gabinetti scientifici mostrando l’utilità di accompagnare le riforme con le risorse necessarie per portarle avanti.
Quando lo spirito della Rivoluzione francese raggiunge Roma e, nel 1798, viene proclamata la prima Repubblica romana, si cerca di dare una nuova impostazione all’Università fondando l’Istituto nazionale per le scienze e per le arti e di rendere culturalmente più autonomi gli insegnamenti. Ma la speranza legata a Napoleone dura poco e lo spirito laico degli studenti deve aspettare la repubblica romana della primavera dei popoli. Nel 1849 un battaglione di studenti universitari si copre di gloria combattendo a difesa della Roma repubblicana di Mazzini, Saffi e Armellini, contro Napoleone III e le truppe francesi. Quando nel 1870 i bersaglieri completano l’unità d’Italia, sollevando i pontefici dall’ingrato e pur così difeso compito di esercitare il potere temporale, inizia un periodo di riforme significative per l’università romana. L’Italia in quegli anni è immersa nello spirito europeo e il ministro dell’Istruzione del nuovo Stato è Terenzio Mamiani, filosofo e intellettuale di altissimo livello. Con la sua azione e quella dei suoi successori la Sapienza ha modo di aprirsi in senso laico alle nuove correnti del pensiero moderno europeo.
Lo spirito patriottico che caratterizza la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento contiene in sé elementi diversi, tra i quali anche i germi del nazionalismo. Così, a ridosso della prima guerra mondiale, lo scontro tra interventisti e internazionalisti si ripropone nell’Università con manifestazioni anti tedesche, costringendo il rettore Alberto Tonelli, lui stesso convinto interventista, a sospendere le lezioni e a chiudere l’Ateneo. La guerra lascia un segno profondo nella vita dell’Università tanto che, terminato il conflitto, viene conferita la laurea per onore a tutti gli studenti caduti.
Gli anni del dopoguerra e lo scontro sociale che ne segue avviano il nostro paese verso la dittatura fascista. Il regime, che considera l’università e la scuola luoghi privilegiati per la propaganda, impone nel 1931 a tutti i docenti l’obbligo di un giuramento di fedeltà al duce pena la sospensione dall’insegnamento per chi avesse rifiutato. Su 1200 professori italiani solo dodici hanno il coraggio di opporsi rifiutando il giuramento. Fra questi quattro professori della Sapienza: Ernesto Buonaiuti, professore di storia del cristianesimo, Giorgio Levi della Vida, professore di studi orientali, Vito Volterra, professore di matematica e fisica, Gaetano De Sanctis, professore di storia antica. Tutti perdono il lavoro. Qualche altro docente preferisce chiedere il pensionamento anticipato piuttosto che sottomettersi all'obbligo del giuramento, come Antonio de Viti De Marco, professore di scienza delle finanze. Gli altri si piegano e il regime li ricompensa edificando una prestigiosa città universitaria: la nuova sede, progettata da Marcello Piacentini, viene inaugurata nel 1935 con cerimonie grandiose alla presenza della famiglia reale. Ma il clima in Italia diventa sempre più difficile per gli studiosi e inizia la migrazione dei cervelli. Enrico Fermi rimane a Roma fino al 1938. Quando riceve il premio Nobel, il fascismo ha appena promulgato le leggi razziali; Fermi, la cui moglie è di religione ebraica, dopo aver ritirato il premio a Stoccolma, emigra a New York. Lo segue un suo allievo, Emilio Segrè, che era salito in cattedra alla Sapienza dieci anni prima. L’anno dopo lascia Roma per gli Stati Uniti anche un giovane laureato in giurisprudenza della nostra università, Franco Modigliani, che riceverà nel 1985 il Nobel per l’economia.
Dopo la seconda guerra mondiale inizia una nuova ricostruzione: i docenti che avevano perso il posto per motivi politici o razziali vengono reintegrati nell’insegnamento e si ripristina l’elezione diretta del rettore e delle altre cariche accademiche.
Con gli anni Sessanta inizia una nuova fase. L’Italia vive il boom economico e si comincia a respirare un’aria nuova, il primo governo di centrosinistra apre una stagione di riforme, la Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II realizza una svolta più attenta al contributo della scienza al progresso dell’umanità, il partito comunista italiano dopo i fatti di Ungheria rompe con l’Unione Sovietica e accentua una sua elaborazione politica autonoma. Gli studenti aumentano in modo significativo, l’università invece rimane ancorata alle logiche tradizionali, il fermento studentesco si traduce in scontri violenti tra studenti di destra e di sinistra. Il 27 aprile del 1966 lo studente Paolo Rossi muore sulle scalinate di Lettere e filosofia durante una incursione di studenti di destra. Gli studenti e i professori per protesta occupano in modo non violento diverse facoltà. Per la prima volta nella storia il rettore Ugo Papi si trova costretto a dimettersi.
Poi il sessantotto, la contestazione, le occupazioni, Valle Giulia, il movimento studentesco e insieme le proteste e le attese di studenti e operai per un mondo più giusto. Nel 1969 sotto la spinta della protesta studentesca il Governo liberalizza l’accesso alle università.
Si apre una fase di grandi speranze e di grande partecipazione. In questi anni le scienze sociali, che in Italia erano state compresse dall’impostazione gentiliana, trovano finalmente uno sbocco accademico: nascono negli anni ’70 i corsi di laurea in psicologia e sociologia che diventeranno facoltà nel 1991.
Gli avvenimenti successivi fanno parte della storia recente: la burrascosa stagione del 1977, la rottura tra il movimento degli studenti e il sindacato, a cui segue una fase di disincanto e di scarsa partecipazione degli studenti che si riscuotono solo negli anni novanta con il movimento della Pantera. L’Italia vive i cosiddetti anni di piombo; l'università è colpita con gli assassini di due illustri docenti: Vittorio Bachelet nel 1980 e Ezio Tarantelli nel 1985.
La preoccupazione per la dimensione eccessiva della Sapienza porta a promuovere lo sviluppo di altre due importanti università statali: l’Università di Tor Vergata e Roma Tre che negli anni si affermano raggiungendo anch’esse dimensioni considerevoli.
È un rettore ingegnere a riportare la Sapienza a un ruolo centrale nello sviluppo delle politiche universitarie italiane: Antonio Ruberti. È a lui che si deve il recupero del nome Sapienza. Il suo impegno lo porta negli anni successivi a diventare il primo ministro dell’Università e della ricerca scientifica nel nostro Paese.
Dopo una lieve flessione nelle iscrizioni la Sapienza ha ripreso a crescere e rimane il più grande ateneo d’Europa, con circa 112.000 studenti e 8.000 dipendenti tra professori, impiegati e tecnici. Le riforme che hanno riguardato il sistema universitario alla fine degli anni Novanta hanno portato a una forte espansione dell’offerta formativa e delle strutture della Sapienza. A partire dal 2009 è iniziato un processo di riordino che ha portato all’adozione nel 2010 del nuovo Statuto, ispirato a criteri di razionalizzazione e a principi meritocratici. Le facoltà, oggi 11, hanno assunto un ruolo di coordinamento e di supervisione, mentre i dipartimenti, ridotti a 63, si occupano di didattica e ricerca.
Il futuro della Sapienza comincia oggi dal suo passato e dal contributo di tutte le componenti della comunità universitaria.
venerdì 19 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 aprile.
Il 19 aprile 1927 l'attrice Mae West venne condannata a 10 giorni di prigione e a una multa di 500 dollari, per l'accusa di "oscenità e corruzione della morale della gioventù" nell'aver diretto e interpretato la commedia "Sex". La commedia fu la prima scritta dalla promettente starlet di 34 anni, che presto divenne una tra le persone più pagate in America, in gran parte per merito della notorietà ricevuta per le proteste su "Sex" e per le sue tre successive commedie: Drag (poi rinominata "L'uomo del piacere" per Broadway), una commedia sull'omosessualità; Diamond Lil, che introdusse il suo personaggio più caratteristico, poi ripreso in tutta la carriera successiva; e The Constant Sinner, commedia che fu fatta chiudere dal procuratore distrettuale dopo due sole serate. L'uomo del piacere fu recitata per una sola serata, prima che anch'essa venisse chiusa e l'intero cast arrestato per oscenità; tuttavia grazie a un giudice clemente furono tutti rilasciati.
In Sex, Mae West interpretava una prostituta di nome Margie La Monte intenta a migliorare la propria vita con la ricerca di un riccone da sposare. Prima che lo show venisse bloccato nel febbraio del 27, più di 325000 persone fecero la coda per assistervi dal suo debutto nel 26 (37 rappresentazioni).
Mae West cenò varie volte col direttore del carcere di Welfare Island e sua moglie, durante la permanenza nel penitenziario. Venne rilasciata per buona condotta, una cosa che non mancò di riferire ai giornalisti in seguito: "la prima volta che nella mia vita ebbi qualcosa grazie a una buona condotta"...
Nonostante le pessime critiche le sue commedie continuarono a vendere bene, in parte grazie alla controversia riguardante i soggetti. Presto Mae si guadagnò l'attenzione dei produttori di Hollywood. A 38 anni la maggior parte delle attrici di allora cominciavano la parabola discendente; la West invece a quell'età iniziò la sua carriera cinematografica quando la Paramount Pictures le offrì un contratto di 5000 dollari a settimana (circa 80000 di oggi). Le permise inoltre di riscrivere le proprie battute nei film, come nel primo, "Night after night", in cui chiarì il tono del suo personaggio fin dalla prima battuta, in cui una ragazza le dice "Mio Dio, che splendidi diamanti" alla quale West risponde "Dio non ha nulla a che fare con loro, mia cara". Nell'arco di tre anni divenne la seconda persona più pagata in America, alle spalle del solo William Randolph Hearst.
Mae West morì nel 1980 ad 87 anni, dopo aver subito due infarti. Recitava ancora pochi anni prima di morire, nella sua ultima grande produzione, il musical Sextette del 1978.
Il 19 aprile 1927 l'attrice Mae West venne condannata a 10 giorni di prigione e a una multa di 500 dollari, per l'accusa di "oscenità e corruzione della morale della gioventù" nell'aver diretto e interpretato la commedia "Sex". La commedia fu la prima scritta dalla promettente starlet di 34 anni, che presto divenne una tra le persone più pagate in America, in gran parte per merito della notorietà ricevuta per le proteste su "Sex" e per le sue tre successive commedie: Drag (poi rinominata "L'uomo del piacere" per Broadway), una commedia sull'omosessualità; Diamond Lil, che introdusse il suo personaggio più caratteristico, poi ripreso in tutta la carriera successiva; e The Constant Sinner, commedia che fu fatta chiudere dal procuratore distrettuale dopo due sole serate. L'uomo del piacere fu recitata per una sola serata, prima che anch'essa venisse chiusa e l'intero cast arrestato per oscenità; tuttavia grazie a un giudice clemente furono tutti rilasciati.
In Sex, Mae West interpretava una prostituta di nome Margie La Monte intenta a migliorare la propria vita con la ricerca di un riccone da sposare. Prima che lo show venisse bloccato nel febbraio del 27, più di 325000 persone fecero la coda per assistervi dal suo debutto nel 26 (37 rappresentazioni).
Mae West cenò varie volte col direttore del carcere di Welfare Island e sua moglie, durante la permanenza nel penitenziario. Venne rilasciata per buona condotta, una cosa che non mancò di riferire ai giornalisti in seguito: "la prima volta che nella mia vita ebbi qualcosa grazie a una buona condotta"...
Nonostante le pessime critiche le sue commedie continuarono a vendere bene, in parte grazie alla controversia riguardante i soggetti. Presto Mae si guadagnò l'attenzione dei produttori di Hollywood. A 38 anni la maggior parte delle attrici di allora cominciavano la parabola discendente; la West invece a quell'età iniziò la sua carriera cinematografica quando la Paramount Pictures le offrì un contratto di 5000 dollari a settimana (circa 80000 di oggi). Le permise inoltre di riscrivere le proprie battute nei film, come nel primo, "Night after night", in cui chiarì il tono del suo personaggio fin dalla prima battuta, in cui una ragazza le dice "Mio Dio, che splendidi diamanti" alla quale West risponde "Dio non ha nulla a che fare con loro, mia cara". Nell'arco di tre anni divenne la seconda persona più pagata in America, alle spalle del solo William Randolph Hearst.
Mae West morì nel 1980 ad 87 anni, dopo aver subito due infarti. Recitava ancora pochi anni prima di morire, nella sua ultima grande produzione, il musical Sextette del 1978.
giovedì 18 aprile 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 aprile.
Il 18 aprile 1775 Paul Revere compie la sua storica cavalcata notturna.
A partire dal 1775 le tensioni tra le colonie americane e il governo di Londra erano ormai al punto di rottura, soprattutto in Massachusetts, dove i leader del movimento rivoluzionario avevano formato un governo ombra e addestravano milizie in vista dello scontro con le truppe britanniche che presidiavano Boston, e che vedevano ormai inevitabile. Nell’Aprile di quell’anno il generale Thomas Gage, che agiva come governatore del Massachusetts, ricevette istruzioni da Londra di sequestrare tutte le armi da fuoco e la polvere da sparo che si sapeva i rivoltosi tenevano nelle campagne circostanti Boston.
Il 18 Aprile egli ordinò al tenente colonnello Francis Smith e al maggiore John Pitcairn di porsi al comando di 650-900 soldati e marciare contro Concord e Lexington, dove si credeva numerosi depositi di armi fossero nascosti. Consapevole che i movimenti delle sue truppe erano tenuti sotto sorveglianza, Gage tentò di mantenere segrete le sue intenzioni non dicendo nulla del piano ai suoi ufficiali fino all’ultimo momento. Ma qualcosa filtrò poiché a partire dal 16 gli americani compresero che Gage stava preparandosi a qualcosa di importante e avvisarono il dottor Joseph Warren, il leader provvisorio del Congresso Provinciale del Massachusetts. Costui ottenne presto conferma che i soldati si sarebbero mossi per arrestare Samuel Adams e John Hancock, i leader del Congresso ricercati dalle autorità di Boston ed operanti in clandestinità in una località alla periferia della città portuale. Proprio il 16 Warren inviò a Concord Paul Revere, l’orafo che aveva realizzato la famosa incisione del Massacro di Boston del 1770 ed attivo da anni per la causa rivoluzionaria, a spargere la voce di stare all’allerta più del solito poiché gli Inglesi stavano per passare all’azione.
Fu nel pomeriggio di Martedì 18 Aprile che il tredicenne Sam Ballard udì un discorso fra due ufficiali inglesi su un imminente raid a Lexington e Concord che convalidava l’intenzione di arrestare Adams e Hancock, mentre altre voci confermarono a Revere che le truppe britanniche stavano approntando le imbarcazioni per attraversare il fiume Charles. Alle 10 di quella notte Warren decise di inviare Revere e William Dawes, un calzolaio, a Lexington dove Adams e Hancock alloggiavano, affidando a Revere un messaggio scritto di suo pugno per i cospiratori. Allo stesso tempo i due dovevano avvisare la popolazione e i ribelli di prendere le armi e contrastare gli inglesi laddove possibile. Revere stava per lanciarsi in una corsa a cavallo di 20 miglia che avrebbe innescato gli eventi che portarono al primo scontro aperto fra coloni e truppe inglesi sul suolo americano e sarebbe stata immortalata nella poesia di Longfellow nel 1860.
I due presero percorsi separati in caso uno di loro venisse arrestato. Dawes andò via terra attraverso la penisola di Boston, mentre Revere inizialmente attraversò in barca il fiume presso Charlestown, dove per poco non venne catturato, prima di proseguire a cavallo. Nel frattempo i patrioti di Charlestown aspettavano un segnale da Boston che li informasse del movimento del nemico. Quando due lanterne apparvero appese al campanile della Old North Church, il punto più alto della città, segno che gli inglesi avevano attraversato il fiume a Cambridge, i coloni armati iniziarono a partire nella notte alla volta di Lexington e Concord. Lungo la strada, Revere e Dawes destarono centinaia di coloni, ma nessuno di loro urlò a squarciagola nella notte “Arrivano gli Inglesi!”, come è stato loro più volte attribuito. Il successo della loro missione dipendeva dalla segretezza e le campagne pullulavano di pattuglie inglesi. Inoltre molti coloni si consideravano leali sudditi della corona e avrebbero potuto a loro volta dare l’allarme o tentare di bloccarli. Si trattò piuttosto di un messaggio che venne comunicato nelle case abitate da simpatizzanti alla causa rivoluzionaria, a cui fu semplicemente detto “Arrivano i soldati!”, invitandoli a spargere la voce e ad armarsi. In questo modo in breve tempo vi furono diversi corrieri che andarono di villaggio in villaggio e nelle fattorie circostanti.
Revere arrivò per primo a Lexington poco dopo la mezzanotte di Mercoledì 19 e trovò Adams e Hancock nell’abitazione di Jonas Clack dove consegnò loro il messaggio di Warren. Hancock e Adams fuggirono in direzione di Woburn, mentre Revere veniva raggiunto in Lexington dopo mezz’ora da Dawes, con cui ripartì alla volta di Concord. Lungo la strada incontrarono Samuel Prescott, un giovane patriota che stava tornando a casa a cavallo dopo aver fatto visita ad un’amica e che si unì a loro. Di lì a poco i tre cavalieri s’imbatterono in una pattuglia di soldati che sorvegliava la strada per Concord.
Prescott riuscì a fuggire e raggiunse la cittadina dove diede l’allarme. Dawes inizialmente si sottrasse alla cattura ma fu arrestato poco dopo, mentre Revere fu subito fermato ed interrogato sotto la minaccia delle armi. Gli chiesero se fosse a conoscenza dei piani dei ribelli e dove si trovassero i depositi di munizioni. Revere gli rispose semplicemente dicendogli che a Concord vi erano 500 miliziani a altri 1.500 stavano arrivando. I soldati si avviarono quindi col prigioniero verso Concord dicendogli che se avesse tentato la fuga gli avrebbero sparato senza esitazione.
A circa mezzo miglio dall’abitato sentirono un suono di fucileria che andava crescendo. Credendo a ciò che Revere aveva dichiarato e temendo per la loro vita, lo liberarono, dopo avergli preso il cavallo e datogliene uno stanco.
Revere incontrò poi Adams e Hancock sulla via di Woburn, e venne rimandato alla taverna di Buckman a Lexington dove Hancock aveva dimenticato alcuni documenti riguardanti il Congresso. In quel frangente egli poté ancora sentire i colpi che venivano sparati a Concord.
Nel frattempo verso le 5 del mattino del 19 Aprile, 700 soldati Inglesi comandati da Pitcairn arrivarono a Lexington per trovare un contingente di 77 miliziani guidati da John Parker ad aspettarli. Pitcairn ordinò alla milizia di deporre le armi e tornarsene a casa, e tale era ancora l’autorità della corona che diversi coloni stavano per ubbidire, quando improvviso partì uno sparo, quel primo colpo di fucile “udito in tutto il mondo” il cui responsabile rimase sconosciuto. Gli inglesi aprirono allora il fuoco sul gruppo di miliziani che risposero e presto una nuvola di fumo ricopri la zona circostante. Quando il fuoco cessò, e la milizia si ritirò nei boschi, sul terreno erano rimasti 8 morti e una dozzina di feriti, tutti coloni. I soldati ripresero la marcia per Concord dove sarebbero stati messi in rotta. In questo modo ebbe inizio la prima battaglia della Rivoluzione Americana.
Una statua equestre dedicata a Paul Revere fu posta nel 1940 lungo Hanover Street nei pressi della Old North Church da cui partì il segnale che avvisò i coloni. Essa ricorda gli eventi della notte fra il 18 e 19 Aprile 1775 che insieme allo scontro di Lexington segnarono l’inizio della guerra per l’indipendenza.
Il 18 aprile 1775 Paul Revere compie la sua storica cavalcata notturna.
A partire dal 1775 le tensioni tra le colonie americane e il governo di Londra erano ormai al punto di rottura, soprattutto in Massachusetts, dove i leader del movimento rivoluzionario avevano formato un governo ombra e addestravano milizie in vista dello scontro con le truppe britanniche che presidiavano Boston, e che vedevano ormai inevitabile. Nell’Aprile di quell’anno il generale Thomas Gage, che agiva come governatore del Massachusetts, ricevette istruzioni da Londra di sequestrare tutte le armi da fuoco e la polvere da sparo che si sapeva i rivoltosi tenevano nelle campagne circostanti Boston.
Il 18 Aprile egli ordinò al tenente colonnello Francis Smith e al maggiore John Pitcairn di porsi al comando di 650-900 soldati e marciare contro Concord e Lexington, dove si credeva numerosi depositi di armi fossero nascosti. Consapevole che i movimenti delle sue truppe erano tenuti sotto sorveglianza, Gage tentò di mantenere segrete le sue intenzioni non dicendo nulla del piano ai suoi ufficiali fino all’ultimo momento. Ma qualcosa filtrò poiché a partire dal 16 gli americani compresero che Gage stava preparandosi a qualcosa di importante e avvisarono il dottor Joseph Warren, il leader provvisorio del Congresso Provinciale del Massachusetts. Costui ottenne presto conferma che i soldati si sarebbero mossi per arrestare Samuel Adams e John Hancock, i leader del Congresso ricercati dalle autorità di Boston ed operanti in clandestinità in una località alla periferia della città portuale. Proprio il 16 Warren inviò a Concord Paul Revere, l’orafo che aveva realizzato la famosa incisione del Massacro di Boston del 1770 ed attivo da anni per la causa rivoluzionaria, a spargere la voce di stare all’allerta più del solito poiché gli Inglesi stavano per passare all’azione.
Fu nel pomeriggio di Martedì 18 Aprile che il tredicenne Sam Ballard udì un discorso fra due ufficiali inglesi su un imminente raid a Lexington e Concord che convalidava l’intenzione di arrestare Adams e Hancock, mentre altre voci confermarono a Revere che le truppe britanniche stavano approntando le imbarcazioni per attraversare il fiume Charles. Alle 10 di quella notte Warren decise di inviare Revere e William Dawes, un calzolaio, a Lexington dove Adams e Hancock alloggiavano, affidando a Revere un messaggio scritto di suo pugno per i cospiratori. Allo stesso tempo i due dovevano avvisare la popolazione e i ribelli di prendere le armi e contrastare gli inglesi laddove possibile. Revere stava per lanciarsi in una corsa a cavallo di 20 miglia che avrebbe innescato gli eventi che portarono al primo scontro aperto fra coloni e truppe inglesi sul suolo americano e sarebbe stata immortalata nella poesia di Longfellow nel 1860.
I due presero percorsi separati in caso uno di loro venisse arrestato. Dawes andò via terra attraverso la penisola di Boston, mentre Revere inizialmente attraversò in barca il fiume presso Charlestown, dove per poco non venne catturato, prima di proseguire a cavallo. Nel frattempo i patrioti di Charlestown aspettavano un segnale da Boston che li informasse del movimento del nemico. Quando due lanterne apparvero appese al campanile della Old North Church, il punto più alto della città, segno che gli inglesi avevano attraversato il fiume a Cambridge, i coloni armati iniziarono a partire nella notte alla volta di Lexington e Concord. Lungo la strada, Revere e Dawes destarono centinaia di coloni, ma nessuno di loro urlò a squarciagola nella notte “Arrivano gli Inglesi!”, come è stato loro più volte attribuito. Il successo della loro missione dipendeva dalla segretezza e le campagne pullulavano di pattuglie inglesi. Inoltre molti coloni si consideravano leali sudditi della corona e avrebbero potuto a loro volta dare l’allarme o tentare di bloccarli. Si trattò piuttosto di un messaggio che venne comunicato nelle case abitate da simpatizzanti alla causa rivoluzionaria, a cui fu semplicemente detto “Arrivano i soldati!”, invitandoli a spargere la voce e ad armarsi. In questo modo in breve tempo vi furono diversi corrieri che andarono di villaggio in villaggio e nelle fattorie circostanti.
Revere arrivò per primo a Lexington poco dopo la mezzanotte di Mercoledì 19 e trovò Adams e Hancock nell’abitazione di Jonas Clack dove consegnò loro il messaggio di Warren. Hancock e Adams fuggirono in direzione di Woburn, mentre Revere veniva raggiunto in Lexington dopo mezz’ora da Dawes, con cui ripartì alla volta di Concord. Lungo la strada incontrarono Samuel Prescott, un giovane patriota che stava tornando a casa a cavallo dopo aver fatto visita ad un’amica e che si unì a loro. Di lì a poco i tre cavalieri s’imbatterono in una pattuglia di soldati che sorvegliava la strada per Concord.
Prescott riuscì a fuggire e raggiunse la cittadina dove diede l’allarme. Dawes inizialmente si sottrasse alla cattura ma fu arrestato poco dopo, mentre Revere fu subito fermato ed interrogato sotto la minaccia delle armi. Gli chiesero se fosse a conoscenza dei piani dei ribelli e dove si trovassero i depositi di munizioni. Revere gli rispose semplicemente dicendogli che a Concord vi erano 500 miliziani a altri 1.500 stavano arrivando. I soldati si avviarono quindi col prigioniero verso Concord dicendogli che se avesse tentato la fuga gli avrebbero sparato senza esitazione.
A circa mezzo miglio dall’abitato sentirono un suono di fucileria che andava crescendo. Credendo a ciò che Revere aveva dichiarato e temendo per la loro vita, lo liberarono, dopo avergli preso il cavallo e datogliene uno stanco.
Revere incontrò poi Adams e Hancock sulla via di Woburn, e venne rimandato alla taverna di Buckman a Lexington dove Hancock aveva dimenticato alcuni documenti riguardanti il Congresso. In quel frangente egli poté ancora sentire i colpi che venivano sparati a Concord.
Nel frattempo verso le 5 del mattino del 19 Aprile, 700 soldati Inglesi comandati da Pitcairn arrivarono a Lexington per trovare un contingente di 77 miliziani guidati da John Parker ad aspettarli. Pitcairn ordinò alla milizia di deporre le armi e tornarsene a casa, e tale era ancora l’autorità della corona che diversi coloni stavano per ubbidire, quando improvviso partì uno sparo, quel primo colpo di fucile “udito in tutto il mondo” il cui responsabile rimase sconosciuto. Gli inglesi aprirono allora il fuoco sul gruppo di miliziani che risposero e presto una nuvola di fumo ricopri la zona circostante. Quando il fuoco cessò, e la milizia si ritirò nei boschi, sul terreno erano rimasti 8 morti e una dozzina di feriti, tutti coloni. I soldati ripresero la marcia per Concord dove sarebbero stati messi in rotta. In questo modo ebbe inizio la prima battaglia della Rivoluzione Americana.
Una statua equestre dedicata a Paul Revere fu posta nel 1940 lungo Hanover Street nei pressi della Old North Church da cui partì il segnale che avvisò i coloni. Essa ricorda gli eventi della notte fra il 18 e 19 Aprile 1775 che insieme allo scontro di Lexington segnarono l’inizio della guerra per l’indipendenza.
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