Buongiorno, oggi è il 31 agosto.
Il 31 agosto 2006 vengono ritrovati dalla polizia norvegese "L'urlo" e "la Madonna" di Munch, due capolavori del celebre artista norvegese ospitati al Museo Munch di Oslo.
Il furto avvenne in pieno giorno da parte di due malviventi mascherati e armati, i quali imposero ai vigilanti di staccare le tele e consegnarle. Successivamente si sono dileguati a bordo di un'auto che li attendeva in strada.
Nonostante fossero danneggiati dall'umidità, il direttore del museo di Munch, Ingebjørg Ydstie, ha dichiarato possibile il restauro. Il 23 maggio 2008 le due opere sono tornate in esposizione al museo.
Molto si è detto sull'assurdità di rubare tele tanto famose, così difficili da piazzare sul mercato nero proprio per la loro popolarità a livello planetario, a maggior ragione con l'avvento di Internet.
Perché allora si ruba l’arte famosa?
Una prima ragione può essere quella del beneficio derivante dal possesso ‘maniacale’ e dalla fruizione personale dell’opera. Tra i casi più citati vi sono quelli di Etoh Mvondo che avrebbe rubato negli anni ’80 tre Renoir per soddisfare il desiderio di possedere dei Renoir prima dei vent’anni o quello del Dr Frank Waxman che avrebbe rubato più di 170 capolavori negli anni ’70, senza alcun obiettivo di rivendita. Si racconta che il furto di alcuni Monet e Renoir sia stato commissionato dal gangster giapponese Shuinichi Fujikuma, in latitanza, al fine di poterne godere personalmente. Alcuni pentiti di mafia, tra i quali Mannoia, Spatuzza e Cangemi, raccontano che in diverse riunioni di Cosa Nostra trionfava un dipinto di Caravaggio, La natività coi santi Francesco e Lorenzo, che i boss esponevano a tutti come simbolo della propria potenza. Si tratta tuttavia di casi estremi.
La seconda e più diffusa ragione economica per il furto di capolavori d’arte consiste non nel difficilissimo tentativo di rivendita nel mercato nero (uno dei pochi casi fortunati fu quello del marchese di Valfierno che nel 1911 rubò la Monnalisa di Leonardo, per venderne contemporaneamente diverse copie), ma nella rivendita alle compagnie di assicurazione, sotto forma di riscatto. E’ evidente che le compagnie di assicurazione siano ben liete di pagare il riscatto piuttosto che liquidare un ingente rimborso assicurativo.
Per esempio, il recupero di un precedente furto nel 94 delle opere di Munch fu possibile proprio grazie all’intervento della polizia durante i contatti che i ladri intrapresero ai fini del riscatto.
Nell’ultimo caso di furto dei quadri di Munch, al museo di Oslo nel 2004, molti gridarono allo scandalo in ragione del fatto che (i) il museo era sprovvisto di misure di allarmi o protezione adeguate; (ii) le opere risultavano non assicurate.
Tali scelte, da parte del Museo di Olso, erano invece razionali ed efficienti. Secondo la letteratura di law and economics, assicurare un quadro e spendere molti soldi nella sua protezione sono le condizioni che più favoriscono il furto a fini di riscatto, risultando del tutto inefficaci ed inefficienti come strumenti di deterrenza. Gli unici strumenti efficaci ed efficienti di deterrenza sono invece: (a) una protezione minima; (b) nessuna assicurazione e (c) un forte investimento in ‘famousness’ del quadro, volto ad aumentarne all’infinito i costi di rivendita. Non è un caso che dopo poco tempo i quadri siano stati ritrovati, senza che alcun riscatto fosse stato pagato.
Dunque uno dei paradossi della razionalità in questi casi non è tanto il fatto di rubare quadri invendibili, quanto piuttosto la corsa ad assicurarli per paura dei furti. Non basta pubblicizzare il quadro rubato, occorre avere il coraggio di non assicurarlo e di rendere noto questo commitment ai futuri ladri.
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martedì 31 agosto 2021
lunedì 30 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 30 agosto.
Il 30 agosto 1706 Pietro Micca si sacrifica per salvare la città di Torino, diventandone così un indelebile eroe.
Pietro Micca nacque a Sagliano, in provincia di Biella, il 6 marzo 1677.
Non si hanno molte notizie su di lui prima del suo eroico gesto: si sa solo che la sua famiglia era modesta.
Durante l'assedio di Torino, la notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, alcuni granatieri francesi di La Feuillade riuscirono ad entrare in una delle gallerie sotterranee della cittadella, dopo aver sopraffatto le guardie. Pietro Micca e un suo commilitone erano di guardia ad una delle porte che conducevano dalla galleria dove si trovavano i francesi ad una galleria inferiore.
Quando sentirono i colpi che tentavano di abbatterla, intuendo che non avrebbero potuto resistere per molto, decisero di far esplodere un barilotto da 20 kg di polvere da sparo in un anfratto della galleria, allo scopo di farla crollare impedendo così il passaggio alle truppe nemiche.
Non potevano impiegare una miccia lunga, perchè avrebbe richiesto troppo tempo. Così Pietro Micca decise di utilizzare una miccia corta, pur consapevole del rischio che stava correndo. Quindi, allontanò il compagno (con una frase che sarebbe diventata storica: "Alzati, vai e salvati, che sei più lungo di una giornata senza pane") e diede fuoco alla miccia.
L'esplosione fu quasi immediata: fece crollare la volta, travolgendo l'esercito nemico e scaraventando il corpo del minatore a una distanza di quaranta passi, uccidendolo.
Anche se probabilmente l'episodio non fu decisivo, come altrove si sostiene, testimonia comunque un atto di eroismo che diventò poi il simbolo del sacrificio di quanti furono chiamati a combattere per la difesa della cittadella durante le lunghe giornate d'assedio.
Fu sepolto in una fossa comune. L'ubicazione della scala su cui avvenne il gesto si è avuta soltanto nel 1958 grazie alle ricerche del generale Guido Amoretti (1920-2008), appassionato archeologo e studioso di storia patria.
Secondo il conte Giuseppe Maria Solaro della Margherita, all'epoca comandante della guarnigione di Torino, la morte di Micca è da addebitarsi più ad un errore di calcolo della lunghezza della miccia che ad una deliberata volontà di sacrificare la propria vita. Nel suo Journal historique du siège de Turin, del 1708, non sono presenti i dettagli dell'azione di Pietro Micca, che sono il risultato di un'elaborazione successiva.
In una supplica inviata al duca Vittorio Amedeo II il 26 febbraio 1707, la vedova di Pietro Micca chiese una pensione. Nella richiesta è scritto che il marito eseguì un ordine del colonnello Giuseppe Amico di Castellalfero, magari offrendosi volontario «invitato dalla generosità del suo animo a portarsi a dare il fuoco a detta mina, non ostante l'evidente pericolo di sua vita». La vedova Maria Bonino ottenne un vitalizio di due pani al giorno e si risposò nel 1709 con un certo Lorenzo Pavanello, da cui ebbe il figlio Francesco.
L'esaltazione della figura di Pietro Micca iniziò con la pubblicazione nel 1781 del suo elogio, scritto dal conte Durando di Villa, e con la novella L'amor della patria di Francesco Soave, del 1782. Trovò la consacrazione nel 1828, con grandi festeggiamenti in onore di un Giovanni Antonio Micca (1758-1834) - in realtà non suo discendente diretto - e l'esposizione del primo quadro rappresentante Pietro Micca, opera di Stefano Chiantore, ritrattista ufficiale del Regno.
A Sagliano esiste ancora la casa nativa, situata all'interno di uno dei tipici cortili del Piemonte. Fu visitata da Garibaldi nel 1859, nel 1880 da Umberto I, che inaugurò il monumento di Micca nella piazza del paese, e nel 1906 dalla regina Margherita.
Alla sua memoria il Comune di Torino ha intitolato nel 1897 la via omonima che collega la vicina piazza Solferino alla centralissima piazza Castello. Un Museo a lui intitolato, ideato dal generale Amoretti e dedicato al suo gesto e all'assedio del 1706, si trova a Torino, nell'edificio della Cittadella.
Il 30 agosto 1706 Pietro Micca si sacrifica per salvare la città di Torino, diventandone così un indelebile eroe.
Pietro Micca nacque a Sagliano, in provincia di Biella, il 6 marzo 1677.
Non si hanno molte notizie su di lui prima del suo eroico gesto: si sa solo che la sua famiglia era modesta.
Durante l'assedio di Torino, la notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, alcuni granatieri francesi di La Feuillade riuscirono ad entrare in una delle gallerie sotterranee della cittadella, dopo aver sopraffatto le guardie. Pietro Micca e un suo commilitone erano di guardia ad una delle porte che conducevano dalla galleria dove si trovavano i francesi ad una galleria inferiore.
Quando sentirono i colpi che tentavano di abbatterla, intuendo che non avrebbero potuto resistere per molto, decisero di far esplodere un barilotto da 20 kg di polvere da sparo in un anfratto della galleria, allo scopo di farla crollare impedendo così il passaggio alle truppe nemiche.
Non potevano impiegare una miccia lunga, perchè avrebbe richiesto troppo tempo. Così Pietro Micca decise di utilizzare una miccia corta, pur consapevole del rischio che stava correndo. Quindi, allontanò il compagno (con una frase che sarebbe diventata storica: "Alzati, vai e salvati, che sei più lungo di una giornata senza pane") e diede fuoco alla miccia.
L'esplosione fu quasi immediata: fece crollare la volta, travolgendo l'esercito nemico e scaraventando il corpo del minatore a una distanza di quaranta passi, uccidendolo.
Anche se probabilmente l'episodio non fu decisivo, come altrove si sostiene, testimonia comunque un atto di eroismo che diventò poi il simbolo del sacrificio di quanti furono chiamati a combattere per la difesa della cittadella durante le lunghe giornate d'assedio.
Fu sepolto in una fossa comune. L'ubicazione della scala su cui avvenne il gesto si è avuta soltanto nel 1958 grazie alle ricerche del generale Guido Amoretti (1920-2008), appassionato archeologo e studioso di storia patria.
Secondo il conte Giuseppe Maria Solaro della Margherita, all'epoca comandante della guarnigione di Torino, la morte di Micca è da addebitarsi più ad un errore di calcolo della lunghezza della miccia che ad una deliberata volontà di sacrificare la propria vita. Nel suo Journal historique du siège de Turin, del 1708, non sono presenti i dettagli dell'azione di Pietro Micca, che sono il risultato di un'elaborazione successiva.
In una supplica inviata al duca Vittorio Amedeo II il 26 febbraio 1707, la vedova di Pietro Micca chiese una pensione. Nella richiesta è scritto che il marito eseguì un ordine del colonnello Giuseppe Amico di Castellalfero, magari offrendosi volontario «invitato dalla generosità del suo animo a portarsi a dare il fuoco a detta mina, non ostante l'evidente pericolo di sua vita». La vedova Maria Bonino ottenne un vitalizio di due pani al giorno e si risposò nel 1709 con un certo Lorenzo Pavanello, da cui ebbe il figlio Francesco.
L'esaltazione della figura di Pietro Micca iniziò con la pubblicazione nel 1781 del suo elogio, scritto dal conte Durando di Villa, e con la novella L'amor della patria di Francesco Soave, del 1782. Trovò la consacrazione nel 1828, con grandi festeggiamenti in onore di un Giovanni Antonio Micca (1758-1834) - in realtà non suo discendente diretto - e l'esposizione del primo quadro rappresentante Pietro Micca, opera di Stefano Chiantore, ritrattista ufficiale del Regno.
A Sagliano esiste ancora la casa nativa, situata all'interno di uno dei tipici cortili del Piemonte. Fu visitata da Garibaldi nel 1859, nel 1880 da Umberto I, che inaugurò il monumento di Micca nella piazza del paese, e nel 1906 dalla regina Margherita.
Alla sua memoria il Comune di Torino ha intitolato nel 1897 la via omonima che collega la vicina piazza Solferino alla centralissima piazza Castello. Un Museo a lui intitolato, ideato dal generale Amoretti e dedicato al suo gesto e all'assedio del 1706, si trova a Torino, nell'edificio della Cittadella.
domenica 29 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 agosto.
Il 29 agosto 1294 viene eletto papa Pietro Angeleri, col nome di Celestino V.
Pietro Angeleri, in seguito chiamato fra' Pietro da Morrone, poi divenuto papa col nome di Celestino V e infine canonizzato come San Pietro Celestino, nacque ad Isernia nel 1215 da Angelo Angelerio e Maria Leone, contadini poveri, onesti e profondamente religiosi. Penultimo nato di 12 fratelli, dopo la morte prematura del padre, si dedicò fin da ragazzo al lavoro dei campi. Pur non essendo nato a Sulmona, la sua storia si intrecciò fortemente con la città.
Nel 1231 decise di vestire l'abito benedettino ma a 20 anni, insoddisfatto della vita spirituale dell'ordine, si ritirò da eremita in una grotta nelle vicinanze del fiume Aventino, nei pressi di Palena. Nel 1238 andò a Roma dove fu ordinato sacerdote nel 1241. Celebrò la prima messa nella chiesa di San Pietro in Montorio e tornò in Abruzzo, stabilendosi alle falde del monte Morrone, prendendo come modello di vita S. Giovanni Battista: non beveva vino, non mangiava carne e praticava quattro quaresime l'anno.
Nel 1259 fra' Pietro da Morrone ottene i finanziamenti per costruire l'Abbazia morronese che sorse attorno all'antica chiesetta di S. Maria del Morrone, poi detta di Santo Spirito. Poi verso il 1265 fra' Pietro fece costruire l'Eremo di Sant'Onofrio (patrono degli eremiti), dove si ritirò in preghiera ed eremitaggio solitario. Qui nel luglio del 1294 fu informato dell'avvenuta elezione a Pontefice. La decisione venne presa nel Conclave di Perugia il 5 luglio del 1294. La cerimonia di inconorazione avvenne il 29 agosto nella basilica di S. Maria di Collemaggio a L'Aquila, sede ancora oggi della "Perdonanza Celestiniana", e che egli stesso aveva fatto costruire qualche anno prima.
Il fatto rimasto alla storia non è tanto la sua elezione quanto la celebre rinuncia al papato avvenuta dopo soli cinque mesi e precisamente il 13 dicembre 1294, allorchè in concistoro disse:
"Io Celestino V, mosso da ragioni legittime, per bisogno di umiltà, di perfezionamento morale e per obbligo di coscienza, per debolezza del corpo, per difetto di dottrina e per cattiveria del mondo, per l'infermità della persona, al fine di recuperare la pace e le consolazioni del mio precedente modo di vivere, liberamente e spontaneamente, mi dimetto dal Pontificato..."
Celestino V si alzò dopo aver finito di leggere l'atto papale, scese dal trono, si tolse mitra, manto porporino e insegne e le depose per terra. Si rivestì del suo rozzo mantello e uscì dal Concistoro. Così si concluse l'avventura di fra' Pietro da Morrone, dopo soli cinque mesi di tormentato pontificato, primo esempio di dimissioni dalla carica di pontefice, fino a quelle recenti di Benedetto XVI. Per capire i motivi della rinuncia bisogna compredere il particolare momento che attraversava la chiesa in quel periodo, segnato dalla feroce lotta tra la famiglia degli Orsini, guelfi, e dei Colonna, ghibellini.
Dopo la morte di Nicolò IV nell'aprile del 1292, le riunioni del Conclave (l'organo predisposto all'elezione del papa) furono spostate da Roma a Rieti e infine a Perugia. Dopo 27 mesi di discussioni, con le quali non si riusciva a ottenere un'accordo, giunse al cardinale Malabranca, decano del Sacro Collegio, una lettera di fra' Pietro da Morrone, che lo pregava di giungere in fretta alla nomina, pena gravi castighi a lui rivelati da Dio in un sogno. La lettera fu letta nel Conclave e, raggiunta l'unanimità dei consensi sul nome di fra' Pietro, fu stilato il decreto di elezione in data 5 luglio 1294. L'annuncio venne inviato all' eremo di Sant'Onofrio, dove l'eremita si trovava, tramite una delegazione di cui facevano parte Carlo II d'Angiò e suo figlio Carlo Martello.
L'episodio della rinuncia al papato è entrato nella storia anche grazie alla Divina Commedia nella quale Dante narra di aver visto "colui che fece per viltà il gran rifiuto" (Inf III, 58-60). Il personaggio, volutamente ignoto, venne identificato in Celestino V, ma ci sono diversi studiosi che appoggiano tesi diverse: Dante, che sceglieva nel modo più preciso possibile le parole, scrive di un " rifiuto" mentre fu quella del papa fu una "rinuncia" che è cosa ben diversa. Inoltre Dante era profondamente religioso e non avrebbe mai posto all'inferno un santo (il poema venne pubblicato nel 1319, sei anni dopo la proclamazione di santità di Celestino).
Oggi le ipotesi più accreditate sono quelle che riferiscono il personaggio a Ponzio Pilato o al cardinale Matteo Rosso Orsini. Quest'ultimo, subito dopo la rinuncia di Celestino, era stato eletto al primo scrutinio dal Conclave ma rifiutò l'elezione per poi sostenere con forza la candidatura del futuro papa Bonifacio VIII. Infatti se avvesse accettato il papato avrebbe dovuto mettersi al di sopra delle parti, mentre, con l'elezione dell'amico Caetani, riuscì a far espellere la famiglia dei Colonna, sequestrandone i beni e privandone dei titoli.
Al di là di queste vicende però rimane l'atto di umiltà e fede di Celestino, che rifiutava la "chiesa politica" a favore di una più alta spiritualità. Inoltre la figura di umile e sprovveduto frate di provincia non corrisponde a realtà: infatti Celestino fondò un proprio ordine e guidò monasteri. Il motivo vero della rinuncia è dunque riconducibile alla sua limpida condotta morale che è anche la ragione per la quale questo papa viene ancora oggi ricordato con ammirazione e a titolo d'esempio.
Il suo successore, Bonifacio VIII, protagonista di numerose e poco nobili vicende, arrivò ad imprigionarlo nella rocca di Fumone (Frosinone) dove morì solo e dimenticato il 19 maggio del 1296.
La fama di Celestino, tuttavia, non morì e nel maggio del 1313, fra' Pietro venne elevato agli onori degli altari col nome di San Pietro del Morrone, con solenne cerimonia nella cattedrale di Avignone e alla presenza di Clemente V. Il festeggiamento avviene il 12 giugno, ma i pellegrini si recano negli eremi della regione anche il 19 maggio, giorno della sua morte. L'ordine dei Celestini fu istituito nel 1274 da Gregorio X (prima quindi della sua elezione) e arrivò a contare 96 monasteri italiani e 21 francesi. L'ordine scomparve in Francia nel 1789 e in Italia nel 1807.
A seguito del terremoto dell'Aquila del 2009, il crollo della volta della basilica ha provocato il seppellimento della teca con le spoglie, recuperate poi dai Vigili del Fuoco, dalla Protezione Civile e con la collaborazione della Guardia di Finanza.
Con la peregrinatio delle spoglie di Celestino V per le diocesi di Abruzzo e Molise, avvenuta dopo il terremoto, la maschera di cera che ricopriva il volto del Santo mostrava evidenti segni di scioglimento.
Per fronteggiare questo problema, l'Arcidiocesi di L'Aquila ha effettuato nel 2013 una ricognizione canonica dei resti mortali di Celestino, in particolare della scatola cranica, al fine di poter ricostruire, grazie all'aiuto di strumentazione scientifica, le vere fattezze del suo volto. La maschera in cera, irrimediabilmente deteriorata, è stata pertanto sostituita da una nuova in argento. Anche i paramenti settecenteschi del Santo sono stati sostituiti con altri di produzione moderna, e che richiamano stilisticamente le fattezze dei signa pontificalia medioevali. Questa ricognizione è stata inoltre l'occasione per porre sul corpo di san Pietro Celestino il pallio che papa Benedetto XVI aveva indossato il giorno dell'inizio del suo ministero petrino e che egli stesso aveva donato al suo predecessore in occasione della sua visita a L'Aquila il 28 aprile 2009, pochi giorni dopo il sisma.
Il corpo di Celestino V è stato restituito alla sua Basilica di Santa Maria di Collemaggio in L'Aquila il 5 maggio 2013, in occasione del settecentesimo anniversario della sua canonizzazione, avvenuta il 5 maggio 1313 da parte di papa Clemente V.
Il gesto del pallio donato da Benedetto XVI verrà poi ripreso nel 2013, quando darà come il suo predecessore Celestino V le dimissioni al Soglio Petrino, ciò da come supposizione che Benedetto XVI aveva già da tempo l'idea delle dimissioni.
Il 29 agosto 1294 viene eletto papa Pietro Angeleri, col nome di Celestino V.
Pietro Angeleri, in seguito chiamato fra' Pietro da Morrone, poi divenuto papa col nome di Celestino V e infine canonizzato come San Pietro Celestino, nacque ad Isernia nel 1215 da Angelo Angelerio e Maria Leone, contadini poveri, onesti e profondamente religiosi. Penultimo nato di 12 fratelli, dopo la morte prematura del padre, si dedicò fin da ragazzo al lavoro dei campi. Pur non essendo nato a Sulmona, la sua storia si intrecciò fortemente con la città.
Nel 1231 decise di vestire l'abito benedettino ma a 20 anni, insoddisfatto della vita spirituale dell'ordine, si ritirò da eremita in una grotta nelle vicinanze del fiume Aventino, nei pressi di Palena. Nel 1238 andò a Roma dove fu ordinato sacerdote nel 1241. Celebrò la prima messa nella chiesa di San Pietro in Montorio e tornò in Abruzzo, stabilendosi alle falde del monte Morrone, prendendo come modello di vita S. Giovanni Battista: non beveva vino, non mangiava carne e praticava quattro quaresime l'anno.
Nel 1259 fra' Pietro da Morrone ottene i finanziamenti per costruire l'Abbazia morronese che sorse attorno all'antica chiesetta di S. Maria del Morrone, poi detta di Santo Spirito. Poi verso il 1265 fra' Pietro fece costruire l'Eremo di Sant'Onofrio (patrono degli eremiti), dove si ritirò in preghiera ed eremitaggio solitario. Qui nel luglio del 1294 fu informato dell'avvenuta elezione a Pontefice. La decisione venne presa nel Conclave di Perugia il 5 luglio del 1294. La cerimonia di inconorazione avvenne il 29 agosto nella basilica di S. Maria di Collemaggio a L'Aquila, sede ancora oggi della "Perdonanza Celestiniana", e che egli stesso aveva fatto costruire qualche anno prima.
Il fatto rimasto alla storia non è tanto la sua elezione quanto la celebre rinuncia al papato avvenuta dopo soli cinque mesi e precisamente il 13 dicembre 1294, allorchè in concistoro disse:
"Io Celestino V, mosso da ragioni legittime, per bisogno di umiltà, di perfezionamento morale e per obbligo di coscienza, per debolezza del corpo, per difetto di dottrina e per cattiveria del mondo, per l'infermità della persona, al fine di recuperare la pace e le consolazioni del mio precedente modo di vivere, liberamente e spontaneamente, mi dimetto dal Pontificato..."
Celestino V si alzò dopo aver finito di leggere l'atto papale, scese dal trono, si tolse mitra, manto porporino e insegne e le depose per terra. Si rivestì del suo rozzo mantello e uscì dal Concistoro. Così si concluse l'avventura di fra' Pietro da Morrone, dopo soli cinque mesi di tormentato pontificato, primo esempio di dimissioni dalla carica di pontefice, fino a quelle recenti di Benedetto XVI. Per capire i motivi della rinuncia bisogna compredere il particolare momento che attraversava la chiesa in quel periodo, segnato dalla feroce lotta tra la famiglia degli Orsini, guelfi, e dei Colonna, ghibellini.
Dopo la morte di Nicolò IV nell'aprile del 1292, le riunioni del Conclave (l'organo predisposto all'elezione del papa) furono spostate da Roma a Rieti e infine a Perugia. Dopo 27 mesi di discussioni, con le quali non si riusciva a ottenere un'accordo, giunse al cardinale Malabranca, decano del Sacro Collegio, una lettera di fra' Pietro da Morrone, che lo pregava di giungere in fretta alla nomina, pena gravi castighi a lui rivelati da Dio in un sogno. La lettera fu letta nel Conclave e, raggiunta l'unanimità dei consensi sul nome di fra' Pietro, fu stilato il decreto di elezione in data 5 luglio 1294. L'annuncio venne inviato all' eremo di Sant'Onofrio, dove l'eremita si trovava, tramite una delegazione di cui facevano parte Carlo II d'Angiò e suo figlio Carlo Martello.
L'episodio della rinuncia al papato è entrato nella storia anche grazie alla Divina Commedia nella quale Dante narra di aver visto "colui che fece per viltà il gran rifiuto" (Inf III, 58-60). Il personaggio, volutamente ignoto, venne identificato in Celestino V, ma ci sono diversi studiosi che appoggiano tesi diverse: Dante, che sceglieva nel modo più preciso possibile le parole, scrive di un " rifiuto" mentre fu quella del papa fu una "rinuncia" che è cosa ben diversa. Inoltre Dante era profondamente religioso e non avrebbe mai posto all'inferno un santo (il poema venne pubblicato nel 1319, sei anni dopo la proclamazione di santità di Celestino).
Oggi le ipotesi più accreditate sono quelle che riferiscono il personaggio a Ponzio Pilato o al cardinale Matteo Rosso Orsini. Quest'ultimo, subito dopo la rinuncia di Celestino, era stato eletto al primo scrutinio dal Conclave ma rifiutò l'elezione per poi sostenere con forza la candidatura del futuro papa Bonifacio VIII. Infatti se avvesse accettato il papato avrebbe dovuto mettersi al di sopra delle parti, mentre, con l'elezione dell'amico Caetani, riuscì a far espellere la famiglia dei Colonna, sequestrandone i beni e privandone dei titoli.
Al di là di queste vicende però rimane l'atto di umiltà e fede di Celestino, che rifiutava la "chiesa politica" a favore di una più alta spiritualità. Inoltre la figura di umile e sprovveduto frate di provincia non corrisponde a realtà: infatti Celestino fondò un proprio ordine e guidò monasteri. Il motivo vero della rinuncia è dunque riconducibile alla sua limpida condotta morale che è anche la ragione per la quale questo papa viene ancora oggi ricordato con ammirazione e a titolo d'esempio.
Il suo successore, Bonifacio VIII, protagonista di numerose e poco nobili vicende, arrivò ad imprigionarlo nella rocca di Fumone (Frosinone) dove morì solo e dimenticato il 19 maggio del 1296.
La fama di Celestino, tuttavia, non morì e nel maggio del 1313, fra' Pietro venne elevato agli onori degli altari col nome di San Pietro del Morrone, con solenne cerimonia nella cattedrale di Avignone e alla presenza di Clemente V. Il festeggiamento avviene il 12 giugno, ma i pellegrini si recano negli eremi della regione anche il 19 maggio, giorno della sua morte. L'ordine dei Celestini fu istituito nel 1274 da Gregorio X (prima quindi della sua elezione) e arrivò a contare 96 monasteri italiani e 21 francesi. L'ordine scomparve in Francia nel 1789 e in Italia nel 1807.
A seguito del terremoto dell'Aquila del 2009, il crollo della volta della basilica ha provocato il seppellimento della teca con le spoglie, recuperate poi dai Vigili del Fuoco, dalla Protezione Civile e con la collaborazione della Guardia di Finanza.
Con la peregrinatio delle spoglie di Celestino V per le diocesi di Abruzzo e Molise, avvenuta dopo il terremoto, la maschera di cera che ricopriva il volto del Santo mostrava evidenti segni di scioglimento.
Per fronteggiare questo problema, l'Arcidiocesi di L'Aquila ha effettuato nel 2013 una ricognizione canonica dei resti mortali di Celestino, in particolare della scatola cranica, al fine di poter ricostruire, grazie all'aiuto di strumentazione scientifica, le vere fattezze del suo volto. La maschera in cera, irrimediabilmente deteriorata, è stata pertanto sostituita da una nuova in argento. Anche i paramenti settecenteschi del Santo sono stati sostituiti con altri di produzione moderna, e che richiamano stilisticamente le fattezze dei signa pontificalia medioevali. Questa ricognizione è stata inoltre l'occasione per porre sul corpo di san Pietro Celestino il pallio che papa Benedetto XVI aveva indossato il giorno dell'inizio del suo ministero petrino e che egli stesso aveva donato al suo predecessore in occasione della sua visita a L'Aquila il 28 aprile 2009, pochi giorni dopo il sisma.
Il corpo di Celestino V è stato restituito alla sua Basilica di Santa Maria di Collemaggio in L'Aquila il 5 maggio 2013, in occasione del settecentesimo anniversario della sua canonizzazione, avvenuta il 5 maggio 1313 da parte di papa Clemente V.
Il gesto del pallio donato da Benedetto XVI verrà poi ripreso nel 2013, quando darà come il suo predecessore Celestino V le dimissioni al Soglio Petrino, ciò da come supposizione che Benedetto XVI aveva già da tempo l'idea delle dimissioni.
sabato 28 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno. Oggi è il 28 agosto.
Il 28 agosto 1963 Martin Luther King tenne al Lincoln Memorial di Washington il famoso discorso "I have a dream".
Pacifista convinto e grande uomo del Novecento, Martin Luther King Jr. nasce il 15 gennaio 1929 ad Atlanta (Georgia), nel Profondo sud degli States. Suo padre era un predicatore della chiesa battista e sua madre una maestra. I King inizialmente vivono nella Auburn Avenue, soprannominata il Paradiso Nero, dove risiedono i borghesi del ghetto, gli "eletti della razza inferiore", per dirla con un'espressione paradossale in voga al tempo. Nel 1948 Martin si trasferisce a Chester (Pennsylvania) dove studia teologia e vince una borsa di studio che gli consente di conseguire il dottorato di filosofia a Boston.
Qui conosce Coretta Scott, che sposa nel '53. A partire da quell'anno, é pastore della Chiesa battista a Montgomery (Alabama). Nel periodo '55-'60, invece, è l'ispiratore e l'organizzatore delle iniziative per il diritto di voto ai neri e per la parità nei diritti civili e sociali, oltre che per l'abolizione, su un piano più generale, delle forme legali di discriminazione ancora attive negli Stati Uniti.
Nel 1957 fonda la "Southern Christian Leadership Conference" (Sclc), un movimento che si batte per i diritti di tutte le minoranze e che si fonda su ferrei precetti legati alla non-violenza di stampo gandhiano, suggerendo la nozione di resistenza passiva. Per citare una frase di un suo discorso: "...siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione... Se protesterete con coraggio, ma anche con dignità e con amore cristiano, nel futuro gli storici dovranno dire: laggiù viveva un grande popolo, un popolo nero, che iniettò nuovo significato e dignità nelle vene della civiltà.". Il culmine del movimento si ha il 28 agosto 1963 durante la marcia su Washington quando King pronuncia il suo discorso più famoso "I have a dream...." ("Ho un sogno").
"[...] E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi! [...]"
Nel 1964 riceve ad Oslo il premio Nobel per la pace.
Durante gli anni della lotta, King viene più volte arrestato e molte manifestazioni da lui organizzate finiscono con violenze e arresti di massa; egli continua a predicare la non violenza pur subendo minacce e attentati.
"Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Metteteci in prigione, e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora. Mandate i vostri incappucciati sicari nelle nostre case nell'ora di mezzanotte, batteteci e lasciateci mezzi morti, e noi vi ameremo ancora. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello alla vostra coscienza e al vostro cuore che alla fine conquisteremo anche voi, e la nostra vittoria sarà piena.
Nel 1966 si trasferisce a Chicago e modifica parte della sua impostazione politica: si dichiara contrario alla guerra del Vietnam e si astiene dal condannare le violenze delle organizzazioni estremiste, denunciando le condizioni di miseria e degrado dei ghetti delle metropoli, entrando così direttamente in conflitto con la Casa Bianca.
Nel mese di aprile dell'anno 1968 Luther King si recò a Memphis per partecipare ad una marcia a favore degli spazzini della città (bianchi e neri), che erano in sciopero. Mentre, sulla veranda dell'albergo, s'intratteneva a parlare con i suoi collaboratori, dalla casa di fronte vennero sparati alcuni colpi di fucile: King cadde riverso sulla ringhiera, pochi minuti dopo era morto. Approfittando dei momenti di panico che seguirono, l'assassino si allontanò indisturbato. Erano le ore diciannove del 4 aprile. Il killer fu arrestato a Londra circa due mesi più tardi, si chiamava James Earl Ray.
Il 10 marzo 1969 venne condannato a 99 anni di reluclusione. Il 10 giugno 1977, Ray e altri 6 carcerati evasero dal penitenziario di stato Brushy Mountain (a Petros, in Tennessee). I sette furono ritrovati tre giorni dopo e ricondotti in prigione. Morì in carcere di epatite C il 23 aprile 1998.
Il 28 agosto 1963 Martin Luther King tenne al Lincoln Memorial di Washington il famoso discorso "I have a dream".
Pacifista convinto e grande uomo del Novecento, Martin Luther King Jr. nasce il 15 gennaio 1929 ad Atlanta (Georgia), nel Profondo sud degli States. Suo padre era un predicatore della chiesa battista e sua madre una maestra. I King inizialmente vivono nella Auburn Avenue, soprannominata il Paradiso Nero, dove risiedono i borghesi del ghetto, gli "eletti della razza inferiore", per dirla con un'espressione paradossale in voga al tempo. Nel 1948 Martin si trasferisce a Chester (Pennsylvania) dove studia teologia e vince una borsa di studio che gli consente di conseguire il dottorato di filosofia a Boston.
Qui conosce Coretta Scott, che sposa nel '53. A partire da quell'anno, é pastore della Chiesa battista a Montgomery (Alabama). Nel periodo '55-'60, invece, è l'ispiratore e l'organizzatore delle iniziative per il diritto di voto ai neri e per la parità nei diritti civili e sociali, oltre che per l'abolizione, su un piano più generale, delle forme legali di discriminazione ancora attive negli Stati Uniti.
Nel 1957 fonda la "Southern Christian Leadership Conference" (Sclc), un movimento che si batte per i diritti di tutte le minoranze e che si fonda su ferrei precetti legati alla non-violenza di stampo gandhiano, suggerendo la nozione di resistenza passiva. Per citare una frase di un suo discorso: "...siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione... Se protesterete con coraggio, ma anche con dignità e con amore cristiano, nel futuro gli storici dovranno dire: laggiù viveva un grande popolo, un popolo nero, che iniettò nuovo significato e dignità nelle vene della civiltà.". Il culmine del movimento si ha il 28 agosto 1963 durante la marcia su Washington quando King pronuncia il suo discorso più famoso "I have a dream...." ("Ho un sogno").
"[...] E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi! [...]"
Nel 1964 riceve ad Oslo il premio Nobel per la pace.
Durante gli anni della lotta, King viene più volte arrestato e molte manifestazioni da lui organizzate finiscono con violenze e arresti di massa; egli continua a predicare la non violenza pur subendo minacce e attentati.
"Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Metteteci in prigione, e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora. Mandate i vostri incappucciati sicari nelle nostre case nell'ora di mezzanotte, batteteci e lasciateci mezzi morti, e noi vi ameremo ancora. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello alla vostra coscienza e al vostro cuore che alla fine conquisteremo anche voi, e la nostra vittoria sarà piena.
Nel 1966 si trasferisce a Chicago e modifica parte della sua impostazione politica: si dichiara contrario alla guerra del Vietnam e si astiene dal condannare le violenze delle organizzazioni estremiste, denunciando le condizioni di miseria e degrado dei ghetti delle metropoli, entrando così direttamente in conflitto con la Casa Bianca.
Nel mese di aprile dell'anno 1968 Luther King si recò a Memphis per partecipare ad una marcia a favore degli spazzini della città (bianchi e neri), che erano in sciopero. Mentre, sulla veranda dell'albergo, s'intratteneva a parlare con i suoi collaboratori, dalla casa di fronte vennero sparati alcuni colpi di fucile: King cadde riverso sulla ringhiera, pochi minuti dopo era morto. Approfittando dei momenti di panico che seguirono, l'assassino si allontanò indisturbato. Erano le ore diciannove del 4 aprile. Il killer fu arrestato a Londra circa due mesi più tardi, si chiamava James Earl Ray.
Il 10 marzo 1969 venne condannato a 99 anni di reluclusione. Il 10 giugno 1977, Ray e altri 6 carcerati evasero dal penitenziario di stato Brushy Mountain (a Petros, in Tennessee). I sette furono ritrovati tre giorni dopo e ricondotti in prigione. Morì in carcere di epatite C il 23 aprile 1998.
venerdì 27 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 agosto.
Il 27 agosto del 1950 Cesare Pavese si toglie la vita.
Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno pascolianamente con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso.
Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.
Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende a evidenziare due elementi fondamentali: la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto e aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al «vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.
Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato, desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il mestiere di vivere.
Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo.
Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.
Studia nell’Istituto Sociale dei Gesuiti e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglio è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.
Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».
Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.
Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte.
Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio a un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava e impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.
Contro la monotonia della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano), per la comune ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.
Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.
Si richiude in un isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».
Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa, Paesi tuoi, «ambientata in quelle colline e vigne delle Langhe, che accanto alla Torino dei viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l'altro grande luogo mitico della poetica pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma.
Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire a essere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al Decadentismo).
Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.
Recatosi a Roma per lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…
A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell' albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.».
Aveva solo 42 anni.
Il 27 agosto del 1950 Cesare Pavese si toglie la vita.
Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno pascolianamente con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso.
Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.
Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende a evidenziare due elementi fondamentali: la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto e aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al «vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.
Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato, desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il mestiere di vivere.
Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo.
Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.
Studia nell’Istituto Sociale dei Gesuiti e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglio è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.
Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».
Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.
Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte.
Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio a un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava e impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.
Contro la monotonia della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano), per la comune ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.
Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.
Si richiude in un isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».
Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa, Paesi tuoi, «ambientata in quelle colline e vigne delle Langhe, che accanto alla Torino dei viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l'altro grande luogo mitico della poetica pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma.
Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire a essere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al Decadentismo).
Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.
Recatosi a Roma per lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…
A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell' albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.».
Aveva solo 42 anni.
giovedì 26 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 agosto.
Il 26 agosto 1498 viene commissionata a Michelangelo una statua da esporre in Vaticano.
Michelangelo, a soli 22 anni, stipula un contratto, garantito da Jacopo Galli, con il cardinale francese di San Dionigi, per la realizzazione, entro un anno, di una Pietà di marmo destinata ad essere esposta nella Basilica di San Pietro.
La Pietà di Michelagelo nasce su un blocco di marmo scelto personalmente nelle cave di Carrara, dove l'artista rappresenta le figure isolate della Vergine Maria che tiene in grembo il corpo di Cristo appena deposto dalla croce, secondo un'iconografia che, in quel periodo, aveva trovato largo consenso al di là delle Alpi.
Alta 1.74cm, la Pietà di Michelangelo presenta forti particolari anatomici e nelle finiture dei panneggi, con effetti di traslucido accentuati dal modo in cui la luce sembra carezzare le superfici marmoree.
Una delle cose che maggiormente sorprende nella scultura è l'aspetto estremamente giovanile che l'artista volle dare al volto della Vergine Maria; questa scelta, vivamente criticata dai contemporanei, trova giustificazione nel carattere astratto della composizione.
Nelle intenzioni dello scultore, la Madonna rappresenta probabilmente l'intera umanità e come tale, usando le parole della "Divina Commedia" di Dante, ella è "Vergine Madre, figlia di tuo figlio".
Dalla figura del Cristo sono assenti i segni della Passione, Michelangelo, infatti, non persegue la rappresentazione oggettiva della morte ma manifesta la propria visione religiosa nel volto abbandonato e tuttavia sereno del Figlio a testimonianza della comunione fra uomo e Dio sancita con il sacrificio del Salvatore.
Si racconta che Michelangelo, non solito a firmare le proprie opere, dopo aver casualmente sentito alcuni visitatori lombardi dire che la Pietà era opera di Gobbo di Milano, sia entrato la notte stessa nella Basilica di San Pietro, ed abbia inciso sull'opera la scritta: "Angelus Bonarotus Florentinus Faciebat".
La scultura fu collocata nel 1499 d.C. nella Cappella di Santa Petronilla in San Pietro, dove rimase fino al 1517 d.C quando venne spostata nella Sacrestia vecchia.
Dal 1749 d.C. l'opera occupa l'attuale collocazione ed ha abbandonato la Basilica di San Pietro solo per essere ospitata nell'Esposizione Universale di New York dal 1962 al 1964.
Il 21 maggio 1972, giorno di Pentecoste, un geologo australiano di origini ungheresi di 34 anni, Laszlo Toth – eludendo la sorveglianza – riuscì a colpire con un martello l'opera di Michelangelo per quindici volte in un tempo di pochi secondi, al grido di I Am Jesus Christ, risen from the dead! ("Io sono Gesù Cristo, risorto dalla morte!"), prima che fosse afferrato e reso inoffensivo.
La Pietà subì dei danni molto seri, soprattutto sulla Vergine: i colpi di martello avevano staccato una cinquantina di frammenti, spaccando il braccio sinistro e frantumando il gomito, mentre sul volto il naso era stato quasi distrutto, come anche le palpebre. Il restauro venne avviato quasi subito, dopo una fase di studio, e fu effettuato riutilizzando per quanto possibile i frammenti originali, oltre che un impasto a base di colla e polvere di marmo. Fu effettuato nei vicini laboratori dei Musei Vaticani, sotto la responsabilità del direttore Deoclecio Redig de Campos e, grazie all'esistenza di numerosi calchi, fu possibile reintegrare l'opera fedelmente, senza rifacimenti arbitrari delle lacune.
L'autore dello sfregio, riconosciuto infermo di mente, fu tenuto in un manicomio italiano per un anno e poi rimpatriato in Australia. Da allora la Pietà è protetta da una speciale parete di cristallo antiproiettile.
Il 26 agosto 1498 viene commissionata a Michelangelo una statua da esporre in Vaticano.
Michelangelo, a soli 22 anni, stipula un contratto, garantito da Jacopo Galli, con il cardinale francese di San Dionigi, per la realizzazione, entro un anno, di una Pietà di marmo destinata ad essere esposta nella Basilica di San Pietro.
La Pietà di Michelagelo nasce su un blocco di marmo scelto personalmente nelle cave di Carrara, dove l'artista rappresenta le figure isolate della Vergine Maria che tiene in grembo il corpo di Cristo appena deposto dalla croce, secondo un'iconografia che, in quel periodo, aveva trovato largo consenso al di là delle Alpi.
Alta 1.74cm, la Pietà di Michelangelo presenta forti particolari anatomici e nelle finiture dei panneggi, con effetti di traslucido accentuati dal modo in cui la luce sembra carezzare le superfici marmoree.
Una delle cose che maggiormente sorprende nella scultura è l'aspetto estremamente giovanile che l'artista volle dare al volto della Vergine Maria; questa scelta, vivamente criticata dai contemporanei, trova giustificazione nel carattere astratto della composizione.
Nelle intenzioni dello scultore, la Madonna rappresenta probabilmente l'intera umanità e come tale, usando le parole della "Divina Commedia" di Dante, ella è "Vergine Madre, figlia di tuo figlio".
Dalla figura del Cristo sono assenti i segni della Passione, Michelangelo, infatti, non persegue la rappresentazione oggettiva della morte ma manifesta la propria visione religiosa nel volto abbandonato e tuttavia sereno del Figlio a testimonianza della comunione fra uomo e Dio sancita con il sacrificio del Salvatore.
Si racconta che Michelangelo, non solito a firmare le proprie opere, dopo aver casualmente sentito alcuni visitatori lombardi dire che la Pietà era opera di Gobbo di Milano, sia entrato la notte stessa nella Basilica di San Pietro, ed abbia inciso sull'opera la scritta: "Angelus Bonarotus Florentinus Faciebat".
La scultura fu collocata nel 1499 d.C. nella Cappella di Santa Petronilla in San Pietro, dove rimase fino al 1517 d.C quando venne spostata nella Sacrestia vecchia.
Dal 1749 d.C. l'opera occupa l'attuale collocazione ed ha abbandonato la Basilica di San Pietro solo per essere ospitata nell'Esposizione Universale di New York dal 1962 al 1964.
Il 21 maggio 1972, giorno di Pentecoste, un geologo australiano di origini ungheresi di 34 anni, Laszlo Toth – eludendo la sorveglianza – riuscì a colpire con un martello l'opera di Michelangelo per quindici volte in un tempo di pochi secondi, al grido di I Am Jesus Christ, risen from the dead! ("Io sono Gesù Cristo, risorto dalla morte!"), prima che fosse afferrato e reso inoffensivo.
La Pietà subì dei danni molto seri, soprattutto sulla Vergine: i colpi di martello avevano staccato una cinquantina di frammenti, spaccando il braccio sinistro e frantumando il gomito, mentre sul volto il naso era stato quasi distrutto, come anche le palpebre. Il restauro venne avviato quasi subito, dopo una fase di studio, e fu effettuato riutilizzando per quanto possibile i frammenti originali, oltre che un impasto a base di colla e polvere di marmo. Fu effettuato nei vicini laboratori dei Musei Vaticani, sotto la responsabilità del direttore Deoclecio Redig de Campos e, grazie all'esistenza di numerosi calchi, fu possibile reintegrare l'opera fedelmente, senza rifacimenti arbitrari delle lacune.
L'autore dello sfregio, riconosciuto infermo di mente, fu tenuto in un manicomio italiano per un anno e poi rimpatriato in Australia. Da allora la Pietà è protetta da una speciale parete di cristallo antiproiettile.
mercoledì 25 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 agosto.
Il 25 agosto 1944 Parigi viene liberata dall'occupazione nazista, ad opera delle truppe alleate.
Spinta dall’avanzata delle truppe alleate dopo gli sbarchi in Normandia del 6 giugno e in Provenza del 15 agosto 1944, la popolazione parigina si solleva. Sulla scia dei movimenti iniziati dagli agenti della metropolitana, dai gendarmi, dai poliziotti e dai lavoratori delle poste, il 18 agosto scoppia uno sciopero generale. Vengono innalzate delle barricate, scoppiano dei violenti scontri, la Resistenza interna combatte contro i 20.000 tedeschi presenti nella capitale.
Il 25 agosto, la 2° Divisione blindata del Generale francese Leclerc e le truppe alleate entrano in città.
Contravvenendo all'ordine diretto di Hitler per una resistenza ad oltranza e nell'eventuale distruzione della città in caso di abbandono, il General der Infanterie Dietrich von Choltitz si arrese dopo un breve scontro con gli alleati. Gli ordini di Hitler erano la distruzione dei ponti e monumenti di Parigi, la feroce soppressione di qualsiasi resistenza da parte della popolazione, fino all'ultimo uomo. L'obbiettivo era di creare una seconda "Stalingrado" sul fronte occidentale e immobilizzare così diverse divisioni alleate. Ma il generale Von Choltitz non mostrò alcuna volontà di attuarli. La guarnigione tedesca infatti costituiva di soli 20.000 uomini, era scarsamente attrezzata, ed era un miscuglio eterogeneo di vari tipi di unità (ad esempio unità amministrative) dal basso valore di combattimento; gli 80 carri armati a disposizione (alcuni risalenti all'estate 1940) come ad esempio il Renault FT-17 (con l'intenzione di utilizzarli a Parigi nel combattimento urbano che avrebbe dovuto avere luogo contro gli Americani) erano per l'epoca assolutamente obsoleti, così come diversi pezzi di artiglieria. Per la prima volta dal 1940, la bandiera tricolore viene issata in cima alla Torre Eiffel. Nel pomeriggio, il Generale von Choltitz firma la resa degli occupanti mentre il Generale de Gaulle arriva a Parigi e stabilisce nel Ministero della Guerra la sede del Governo provvisorio della Repubblica francese. Alle 19,00, dal balcone dell’Hôtel de Ville, pronuncia il suo celebre discorso: “Parigi oltraggiata! Parigi martirizzata! Ma Parigi liberata!”.
Nonostante gli scontri che si susseguirono ancora per qualche giorno, il 26 agosto, i parigini assistettero in festa alla sfilata lungo gli Champs-Élysées da parte del Generale de Gaulle e degli eserciti di liberazione.
Il 25 agosto 1944 Parigi viene liberata dall'occupazione nazista, ad opera delle truppe alleate.
Spinta dall’avanzata delle truppe alleate dopo gli sbarchi in Normandia del 6 giugno e in Provenza del 15 agosto 1944, la popolazione parigina si solleva. Sulla scia dei movimenti iniziati dagli agenti della metropolitana, dai gendarmi, dai poliziotti e dai lavoratori delle poste, il 18 agosto scoppia uno sciopero generale. Vengono innalzate delle barricate, scoppiano dei violenti scontri, la Resistenza interna combatte contro i 20.000 tedeschi presenti nella capitale.
Il 25 agosto, la 2° Divisione blindata del Generale francese Leclerc e le truppe alleate entrano in città.
Contravvenendo all'ordine diretto di Hitler per una resistenza ad oltranza e nell'eventuale distruzione della città in caso di abbandono, il General der Infanterie Dietrich von Choltitz si arrese dopo un breve scontro con gli alleati. Gli ordini di Hitler erano la distruzione dei ponti e monumenti di Parigi, la feroce soppressione di qualsiasi resistenza da parte della popolazione, fino all'ultimo uomo. L'obbiettivo era di creare una seconda "Stalingrado" sul fronte occidentale e immobilizzare così diverse divisioni alleate. Ma il generale Von Choltitz non mostrò alcuna volontà di attuarli. La guarnigione tedesca infatti costituiva di soli 20.000 uomini, era scarsamente attrezzata, ed era un miscuglio eterogeneo di vari tipi di unità (ad esempio unità amministrative) dal basso valore di combattimento; gli 80 carri armati a disposizione (alcuni risalenti all'estate 1940) come ad esempio il Renault FT-17 (con l'intenzione di utilizzarli a Parigi nel combattimento urbano che avrebbe dovuto avere luogo contro gli Americani) erano per l'epoca assolutamente obsoleti, così come diversi pezzi di artiglieria. Per la prima volta dal 1940, la bandiera tricolore viene issata in cima alla Torre Eiffel. Nel pomeriggio, il Generale von Choltitz firma la resa degli occupanti mentre il Generale de Gaulle arriva a Parigi e stabilisce nel Ministero della Guerra la sede del Governo provvisorio della Repubblica francese. Alle 19,00, dal balcone dell’Hôtel de Ville, pronuncia il suo celebre discorso: “Parigi oltraggiata! Parigi martirizzata! Ma Parigi liberata!”.
Nonostante gli scontri che si susseguirono ancora per qualche giorno, il 26 agosto, i parigini assistettero in festa alla sfilata lungo gli Champs-Élysées da parte del Generale de Gaulle e degli eserciti di liberazione.
martedì 24 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 agosto.
Secondo una testimonianza di Plinio il Giovane, che ne parla in una lettera indirizzata a Tacito, il 24 agosto del 79 d.C. iniziò l'eruzione del Vesuvio, che distrusse Pompei ed Ercolano.
Dopo secoli di completo riposo, durante i quali le pendici del vulcano si erano ricoperte di fitta vegetazione, il risveglio del Vesuvio è annuncianto fin dal 62 o 63 d.C. con un terremoto. L'episodio è noto perché avvenne proprio mentre l'imperatore Nerone era impegnato a cantare in un teatro di Napoli.
Secondo Seneca, le scosse si ripeterono per diversi giorni, fino a che si fecero meno intense, ma ancora in grado di causare danni. Le città maggiormente colpite furono Pompei e Ercolano e, in misura minore, Napoli e Nocera.
La terra deve essersi mossa di frequente anche nei 17 anni successivi, se Plinio il Giovane riferisce che immediatamente prima dell'eruzione per molti giorni si erano succeduti terremoti, ma non temevamo perché essi sono comuni in Campania.
Anche Dione Cassio (150-235 d.C.) riferisce che prima dell'eruzione vi erano stati terremoti e brontolii sotterranei e che i giganti erano stati visti vagare nella zona. Fin nelle mitologie più antiche, la visione dei giganti viene associata ai fenomeni naturali catastrofici.
I terremoti sono testimoniati anche dalle riparazioni provvisorie e dalle ristrutturazioni in corso in molti edifici privati e pubblici, compresi quelli intorno al Foro di Pompei e i luoghi di culto, segno evidente di danni subiti poco prima dell'eruzione.
I terremoti sono i segnali precursori più comuni del risveglio di un vulcano quiescente. Al Vesuvio la stessa cosa si era verificata prima dell'eruzione del 1631, anche questa avvenuta dopo un lungo periodo di inattività. Nel descrivere l'eruzione del 1631, l'abate Braccini (1632) dice che la zona intorno al vulcano: "tremava quasi nel continuo".
L'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. inizia con la formazione di un'alta colonna, descritta da Plinio.
Plinio, da Miseno (21 km dal vulcano), può osservare la colonna eruttiva in tutto il suo sviluppo. La sua descrizione è tanto efficace che il termine pliniano viene utilizzato nella vulcanologia moderna per indicare una fase eruttiva durante la quale si forma una colonna verticale sopra il cratere, composta da una miscela di cenere, pomici e gas.
Nel 79 d.C., dalla colonna pliniana caddero pomici in direzione di Pompei, dove si accumularono formando uno strato alto circa 4 metri. Nello stesso tempo, su Ercolano pioveva solo una sottile cenere e la città fu risparmiata per molte ore dal disastro. Sapendo quel che sarebbe successo, gli ercolanesi avrebbero potuto salvarsi.
Dalla stima del volume totale delle pomici e dei valori di flusso tipici di fasi eruttive pliniane di eruzioni recenti, la colonna dovrebbe essere rimasta alta nel cielo tra 10 e 20 ore.
L'ipotesi possibile è che il magma in profondità fosse diviso in due strati, di cui quello più siliceo e più leggero era migrato verso il tetto della camera magmatica ed era stato espulso in superficie per primo.
La porzione di magma da cui derivano le pomici grigie si trovava probabilmente in una zona più profonda, dove era affondato sotto quello siliceo, contenendo una maggiore quantità di specie mineralogiche pesanti. Tra le pomici grigie si trovano numerosi frammenti di rocce che segnalano la demolizione di parti del vulcano stesso.
Dopo il passaggio da pomici bianche a pomici grigie, la colonna superò i 30 Km di altezza, provocando una più ampia dispersione delle pomici grigie. La stima del volume di magma emesso in questa fase è di circa 2,6 Km3.
L'eruzione può essere stata innescata da un progressivo aumento di pressione all'interno della camera magmatica. Una delle circostanze in cui questo avviene è quando il magma ha in soluzione la quantità massima possibile di gas (magma saturo) e interviene una variazione nei diversi parametri che controllano l'equilibrio del sistema (temperatura, cristallizzazione, ecc.). Parte del magma può diventare così soprassatura e non essere in grado di trattenere in soluzione il gas in eccesso che si separa e forma delle bolle (processo di essoluzione).
Il processo di essoluzione del gas causa un aumento di pressione nella camera magmatica che innesca la risalita del magma
Una volta iniziata l'eruzione, l'apertura del condotto e lo svuotamento di parte del serbatoio di magma crea una rapida diminuzione di pressione nella camera magmatica. Una minore pressione è la condizione per avere altro magma soprassaturo, dal quale può continuare a separarsi la fase gassosa.
Se cresce la quantità di gas essolto, riprende a crescere anche la pressione all'interno della camera magmatica e il gas risale nel condotto vulcanico trascinando il magma. Le bolle gassose cominciano a esplodere, frammentando il magma, mentre si muovono verso l'alto, al progressivo decrescere della distanza con la superficie e, pertanto, della pressione esterna.
A un incremento di pressione nella camera magmatica corrisponde la maggiore altezza raggiunta dalla colonna eruttiva cui corrisponde, alla stessa distanza dal cratere, la caduta di frammenti di magma ormai solido (pomici) più grandi. L'allargamento del condotto e la frantumazione di rocce in profondità è indicata dall'abbondanza crescente di litici che si trovano insieme alle pomici.
La forte pressione all'interno della camera magmatica preme sulle rocce circostanti e le frattura, dando luogo al tremore che accompagna la fase pliniana. Queste scosse hanno un'origine più profonda di quelle avvertite all'inizio dell'eruzione e la terra trema anche oltre le pendici del vulcano, come testimonia Plinio da Miseno.
Dopo la fase a colonna pulsante, l'eruzione cambia completamente. Il materiale vulcanico non si alza più sopra il cratere, nemmeno a intervalli come nella fase precedente, ma scivola veloce dalla cima del Vesuvio con una successione di flussi densi di cenere e pomici, che travolgono come violenti e torridi fiumi tutto quello che incontrano.
Il cambiamento di stile eruttivo viene ricollegato al continuo variare delle condizioni di equilibrio tra pressione interna al serbatoio magmatico e pressione esterna.
La pressione interna, che era bruscamente diminuita al momento dell'apertura del condotto, veniva poi rapidamente incrementata dall'essoluzione di gas, causando il crescendo di violenza della fase pliniana.
Quanto più magma era espulso dalla camera magmatica, tanto più vi erano le condizioni per la formazione di altre bolle di gas nel magma residuo. Il movimento verso la superficie di grandi quantità di bolle prossime all'esplosione, trascinava una crescente quantità di magma, fino a che al cratere si formarono i flussi piroclastici che rappresentano il momento di maggiore distruzione.
Come in una bottiglia di bibita gassata aperta improvvisamente, dopo un certo tempo, dal liquido si libera sempre meno gas. Così, quando il magma non è più in grado di essolvere gas in quantità sufficiente a controbilanciare la pressione delle rocce che formano le pareti del serbatoio, queste, già in parte fratturate nel corso della fase pliniana, cominciano a cedere, trascinando anche le falde acquifere. Il contatto tra rocce, acqua e magma innesca le ultime, violente esplosioni.
I prodotti delle esplosioni finali, quelle innescate dall'apporto di acqua di falda o di rocce umide, sono prevalentemente cenere contenenti aggregati sferici (pisoliti vulcaniche) che si formano in presenza di vapore acqueo.
Le eruzioni esplosive sono eventi devastanti. Le ceneri delle colonne pliniane si disperdono su aree molto vaste e compromettono anche per anni pascoli e raccolti, con conseguenti carestie e catastrofi tra gli animali.
I flussi piroclastici e i surge, al contrario, non lasciano praticamente scampo anche a notevoli distanze, sia per la loro velocità di propagazione che per la temperatura.
Anche le persone non direttamente investite dal flusso possono subire gravi danni o morire per soffocamento o ustioni.
L'eruzione del 79 d.C. ha cancellato nel giro di poco più di un giorno intere città, consegnandoci, sotto una coltre di pomici e ceneri, pezzi intatti di vita quotidiana dell'epoca romana. Purtroppo, gli scavi, che durano ormai da oltre due secoli, raramente conservano, come meriterebbero, i prodotti vulcanici con i segni dell'improvvisa catastrofe.
Solo negli ultimi tempi gli archeologi hanno rivolto maggiore attenzione all'aspetto vulcanologico, consentendo di sfruttare i dati degli scavi in corso per studi sul rischio vulcanico.
D'altra parte, in nessun altro luogo al mondo esiste una testimonianza così ampia e completa dell'impatto di un'eruzione esplosiva su un'area densamente abitata.
Si è notato, ad esempio, che contrariamente alle aspettative, dei 1044 corpi recuperati a Pompei, il 38% era perito nel corso della caduta di pomici e, di questi, l'80% è stato rinvenuto in luoghi chiusi, per lo più cantine. Da una stima fatta sulle eruzioni esplosive avvenute negli ultimi 400 anni, solo il 4% delle vittime risulta colpito a morte dalla caduta di pomici.
Il soffitto a volta delle terme urbane di Ercolano ha retto alle ondate dei flussi piroclastici. I prodotti vulcanici avevano comunque invaso gli ambienti, che quindi non sarebbero stati un rifugio sicuro, deformando con il loro peso il pavimento
Se i luoghi chiusi e sotterranei sembrano essere un riparo talvolta sufficiente per salvarsi dai flussi piroclastici, evidentemente non lo sono per la caduta di pomici, in teoria meno pericolose.
I cadaveri trovati a Pompei all'aperto giacciono sopra lo strato di pomici e le ceneri del primo surge, coperti dai prodotti dei flussi piroclastici successivi.
E' probabile che tentassero di salvarsi dopo essere rimasti al coperto durante la caduta di pomici, oppure che, allontanatesi, siano tornate sui loro passi per cercare di recuperare qualche cosa dalle abitazioni e siano state sorprese dall'arrivo dei flussi.
Questo potrebbe significare che, tra la fase pliniana e quella dei flussi, l'eruzione abbia avuto una tregua che ha tratto in inganno e causato la morte di molte persone.
Le vittime rinvenute in ambienti chiusi, come cantine o stanze dove il tetto reggeva al peso delle pomici, anche se non raggiunte direttamente dai flussi sono morte soffocate dall'aria resa irrespirabile dal calore, dalla cenere che aderiva alla trachea e intasava i polmoni e dal gas residuo tra i prodotti vulcanici.
A Ercolano, dove non sono cadute pomici, quasi tutte le vittime, oltre duecento, sono state trovate nei portici antistanti la spiaggia, sepolte dai prodotti dei flussi. Per loro la morte deve essere sopraggiunta mentre tentavano di fuggire via mare, causata soprattutto dall'alta temperatura.
Dopo l'eruzione, Marziale (40-104 d.C.) descrive il Vesuvio "poc'anzi verdeggiante di vigneti ombrosi (...) Ora tutto giace sommerso in fiamme e in tristo lapillo"
Le morti e i danni materiali causati dal Vesuvio furono tanto gravi che l'Imperatore Tito incaricò due ex-consoli (Curatores Restituendae Campaniae) di sovrintendere ai lavori di ricostruzione e di risolvere le questioni legali sorte per la scomparsa di così tante persone.
L'economia della regione ne uscì compromessa e la produzione di vino subì una drastica riduzione. Pompei era famosa anche per una salsa di pesce detta "garum" che esportava in grande quantità.
Il ritrovamento di numerose anfore di tipo gallico, con la completa scomparsa di quelle provenienti dalla Campania, testimonia che a Roma, dopo l'eruzione, si importava vino e altri prodotti dalla Gallia.
Le pomici della fase pliniana caddero verso Sud-Est e i flussi scesero verso a Sud e Ovest, ma anche le altre zone intorno al vulcano, pur essendo state risparmiate dai danni più gravi, subirono serie conseguenze economiche.
Pochi centimetri di ceneri o di pomici possono compromettere il raccolto per anni ed è possibile che le colture dell'intera Campania siano state distrutte con conseguenti carestie, perdita di bestiame per mancanza di foraggio e malattie.
Marco Aurelio (121-180 d.C.) e Dione Cassio (150-235 d.C.) parlano dei gravi danni riportati a Pompei e a Ercolano e riferiscono anche che le ceneri dell'eruzione raggiunsero l'Africa, la Siria e l'Egitto, dove causarono pestilenze.
Non vi sono molte notizie sulle conseguenze dell'eruzione a Napoli o nelle zone non direttamente investite dai prodotti dell'eruzione. Nelle sue lettere, Plinio il Giovane riferisce solo della morte dello zio, avvenuta sulla spiaggia di Stabia, e del terrore seminato dall'evento fino a Miseno.
Papinio Stazio (40- 96 d.C.) nella sua opera "Silvae" parla di danni a Napoli e dovrebbe trattarsi di una testimonianza diretta, dal momento che il poeta visse nella città e probabilmente vi si trovava durante l'eruzione (ritirò un premio di poesia nella città nel 78 o nell'80).
Allontanatosi dopo l'eruzione, Stazio torna a Napoli nel 92 e scrive alla moglie Claudia cercando di convincerla a tornare a vivere in Campania. Napoli gli appare come una città viva e brulicante di gente. Promette alla moglie di farle visitare i templi e il porto di Pozzuoli con le sue belle spiagge. Vuole che torni nei luoghi dove " l'inverno è mite e l'estate fresca, dove il mare lambisce la terra con pigre onde".
Il ricordo dell'eruzione sembra rapidamente svanito, probabilmente perché a Napoli e nei Campi Flegrei i danni agli edifici non furono rilevanti e non vi erano state perdite di vite umane.
Al contrario, le condizioni di altre zone danneggiate e più vicine al vulcano dovevano essere molto diverse. Stabia fu la prima a riprendersi lentamente e a costruire un'importante via di comunicazione con Nocera nel 121.
La zona di Portici e Torre del Greco fu rioccupata tra il II e IV-V secolo d.C. e quella di Pompei e Ercolano solo tra il III e V secolo.
La memoria delle città sepolte perdurò per secoli ma, dopo la caduta dell'impero romano, se ne persero praticamente le tracce. Eppure, in ogni opera di scavo e nella coltivazione dei campi, immancabilmente emergevano vestige di una città che veniva chiamata "La Civita".
Gli scavi sistematici iniziarono a Ercolano nel 1738, e dieci anni dopo a Pompei, per volere di Carlo III di Borbone, re delle Due Sicilie. A tutt'oggi, i siti continuano a riservare sorprese che aggiungono alla documentazione archeologica i particolari di una cronaca dettagliata non solo della sciagura, ma anche dell'eruzione che la provocò. La lunga e spesso tormentata vicenda degli scavi rappresenta da sola un capitolo di storia nella storia.
Secondo una testimonianza di Plinio il Giovane, che ne parla in una lettera indirizzata a Tacito, il 24 agosto del 79 d.C. iniziò l'eruzione del Vesuvio, che distrusse Pompei ed Ercolano.
Dopo secoli di completo riposo, durante i quali le pendici del vulcano si erano ricoperte di fitta vegetazione, il risveglio del Vesuvio è annuncianto fin dal 62 o 63 d.C. con un terremoto. L'episodio è noto perché avvenne proprio mentre l'imperatore Nerone era impegnato a cantare in un teatro di Napoli.
Secondo Seneca, le scosse si ripeterono per diversi giorni, fino a che si fecero meno intense, ma ancora in grado di causare danni. Le città maggiormente colpite furono Pompei e Ercolano e, in misura minore, Napoli e Nocera.
La terra deve essersi mossa di frequente anche nei 17 anni successivi, se Plinio il Giovane riferisce che immediatamente prima dell'eruzione per molti giorni si erano succeduti terremoti, ma non temevamo perché essi sono comuni in Campania.
Anche Dione Cassio (150-235 d.C.) riferisce che prima dell'eruzione vi erano stati terremoti e brontolii sotterranei e che i giganti erano stati visti vagare nella zona. Fin nelle mitologie più antiche, la visione dei giganti viene associata ai fenomeni naturali catastrofici.
I terremoti sono testimoniati anche dalle riparazioni provvisorie e dalle ristrutturazioni in corso in molti edifici privati e pubblici, compresi quelli intorno al Foro di Pompei e i luoghi di culto, segno evidente di danni subiti poco prima dell'eruzione.
I terremoti sono i segnali precursori più comuni del risveglio di un vulcano quiescente. Al Vesuvio la stessa cosa si era verificata prima dell'eruzione del 1631, anche questa avvenuta dopo un lungo periodo di inattività. Nel descrivere l'eruzione del 1631, l'abate Braccini (1632) dice che la zona intorno al vulcano: "tremava quasi nel continuo".
L'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. inizia con la formazione di un'alta colonna, descritta da Plinio.
Plinio, da Miseno (21 km dal vulcano), può osservare la colonna eruttiva in tutto il suo sviluppo. La sua descrizione è tanto efficace che il termine pliniano viene utilizzato nella vulcanologia moderna per indicare una fase eruttiva durante la quale si forma una colonna verticale sopra il cratere, composta da una miscela di cenere, pomici e gas.
Nel 79 d.C., dalla colonna pliniana caddero pomici in direzione di Pompei, dove si accumularono formando uno strato alto circa 4 metri. Nello stesso tempo, su Ercolano pioveva solo una sottile cenere e la città fu risparmiata per molte ore dal disastro. Sapendo quel che sarebbe successo, gli ercolanesi avrebbero potuto salvarsi.
Dalla stima del volume totale delle pomici e dei valori di flusso tipici di fasi eruttive pliniane di eruzioni recenti, la colonna dovrebbe essere rimasta alta nel cielo tra 10 e 20 ore.
L'ipotesi possibile è che il magma in profondità fosse diviso in due strati, di cui quello più siliceo e più leggero era migrato verso il tetto della camera magmatica ed era stato espulso in superficie per primo.
La porzione di magma da cui derivano le pomici grigie si trovava probabilmente in una zona più profonda, dove era affondato sotto quello siliceo, contenendo una maggiore quantità di specie mineralogiche pesanti. Tra le pomici grigie si trovano numerosi frammenti di rocce che segnalano la demolizione di parti del vulcano stesso.
Dopo il passaggio da pomici bianche a pomici grigie, la colonna superò i 30 Km di altezza, provocando una più ampia dispersione delle pomici grigie. La stima del volume di magma emesso in questa fase è di circa 2,6 Km3.
L'eruzione può essere stata innescata da un progressivo aumento di pressione all'interno della camera magmatica. Una delle circostanze in cui questo avviene è quando il magma ha in soluzione la quantità massima possibile di gas (magma saturo) e interviene una variazione nei diversi parametri che controllano l'equilibrio del sistema (temperatura, cristallizzazione, ecc.). Parte del magma può diventare così soprassatura e non essere in grado di trattenere in soluzione il gas in eccesso che si separa e forma delle bolle (processo di essoluzione).
Il processo di essoluzione del gas causa un aumento di pressione nella camera magmatica che innesca la risalita del magma
Una volta iniziata l'eruzione, l'apertura del condotto e lo svuotamento di parte del serbatoio di magma crea una rapida diminuzione di pressione nella camera magmatica. Una minore pressione è la condizione per avere altro magma soprassaturo, dal quale può continuare a separarsi la fase gassosa.
Se cresce la quantità di gas essolto, riprende a crescere anche la pressione all'interno della camera magmatica e il gas risale nel condotto vulcanico trascinando il magma. Le bolle gassose cominciano a esplodere, frammentando il magma, mentre si muovono verso l'alto, al progressivo decrescere della distanza con la superficie e, pertanto, della pressione esterna.
A un incremento di pressione nella camera magmatica corrisponde la maggiore altezza raggiunta dalla colonna eruttiva cui corrisponde, alla stessa distanza dal cratere, la caduta di frammenti di magma ormai solido (pomici) più grandi. L'allargamento del condotto e la frantumazione di rocce in profondità è indicata dall'abbondanza crescente di litici che si trovano insieme alle pomici.
La forte pressione all'interno della camera magmatica preme sulle rocce circostanti e le frattura, dando luogo al tremore che accompagna la fase pliniana. Queste scosse hanno un'origine più profonda di quelle avvertite all'inizio dell'eruzione e la terra trema anche oltre le pendici del vulcano, come testimonia Plinio da Miseno.
Dopo la fase a colonna pulsante, l'eruzione cambia completamente. Il materiale vulcanico non si alza più sopra il cratere, nemmeno a intervalli come nella fase precedente, ma scivola veloce dalla cima del Vesuvio con una successione di flussi densi di cenere e pomici, che travolgono come violenti e torridi fiumi tutto quello che incontrano.
Il cambiamento di stile eruttivo viene ricollegato al continuo variare delle condizioni di equilibrio tra pressione interna al serbatoio magmatico e pressione esterna.
La pressione interna, che era bruscamente diminuita al momento dell'apertura del condotto, veniva poi rapidamente incrementata dall'essoluzione di gas, causando il crescendo di violenza della fase pliniana.
Quanto più magma era espulso dalla camera magmatica, tanto più vi erano le condizioni per la formazione di altre bolle di gas nel magma residuo. Il movimento verso la superficie di grandi quantità di bolle prossime all'esplosione, trascinava una crescente quantità di magma, fino a che al cratere si formarono i flussi piroclastici che rappresentano il momento di maggiore distruzione.
Come in una bottiglia di bibita gassata aperta improvvisamente, dopo un certo tempo, dal liquido si libera sempre meno gas. Così, quando il magma non è più in grado di essolvere gas in quantità sufficiente a controbilanciare la pressione delle rocce che formano le pareti del serbatoio, queste, già in parte fratturate nel corso della fase pliniana, cominciano a cedere, trascinando anche le falde acquifere. Il contatto tra rocce, acqua e magma innesca le ultime, violente esplosioni.
I prodotti delle esplosioni finali, quelle innescate dall'apporto di acqua di falda o di rocce umide, sono prevalentemente cenere contenenti aggregati sferici (pisoliti vulcaniche) che si formano in presenza di vapore acqueo.
Le eruzioni esplosive sono eventi devastanti. Le ceneri delle colonne pliniane si disperdono su aree molto vaste e compromettono anche per anni pascoli e raccolti, con conseguenti carestie e catastrofi tra gli animali.
I flussi piroclastici e i surge, al contrario, non lasciano praticamente scampo anche a notevoli distanze, sia per la loro velocità di propagazione che per la temperatura.
Anche le persone non direttamente investite dal flusso possono subire gravi danni o morire per soffocamento o ustioni.
L'eruzione del 79 d.C. ha cancellato nel giro di poco più di un giorno intere città, consegnandoci, sotto una coltre di pomici e ceneri, pezzi intatti di vita quotidiana dell'epoca romana. Purtroppo, gli scavi, che durano ormai da oltre due secoli, raramente conservano, come meriterebbero, i prodotti vulcanici con i segni dell'improvvisa catastrofe.
Solo negli ultimi tempi gli archeologi hanno rivolto maggiore attenzione all'aspetto vulcanologico, consentendo di sfruttare i dati degli scavi in corso per studi sul rischio vulcanico.
D'altra parte, in nessun altro luogo al mondo esiste una testimonianza così ampia e completa dell'impatto di un'eruzione esplosiva su un'area densamente abitata.
Si è notato, ad esempio, che contrariamente alle aspettative, dei 1044 corpi recuperati a Pompei, il 38% era perito nel corso della caduta di pomici e, di questi, l'80% è stato rinvenuto in luoghi chiusi, per lo più cantine. Da una stima fatta sulle eruzioni esplosive avvenute negli ultimi 400 anni, solo il 4% delle vittime risulta colpito a morte dalla caduta di pomici.
Il soffitto a volta delle terme urbane di Ercolano ha retto alle ondate dei flussi piroclastici. I prodotti vulcanici avevano comunque invaso gli ambienti, che quindi non sarebbero stati un rifugio sicuro, deformando con il loro peso il pavimento
Se i luoghi chiusi e sotterranei sembrano essere un riparo talvolta sufficiente per salvarsi dai flussi piroclastici, evidentemente non lo sono per la caduta di pomici, in teoria meno pericolose.
I cadaveri trovati a Pompei all'aperto giacciono sopra lo strato di pomici e le ceneri del primo surge, coperti dai prodotti dei flussi piroclastici successivi.
E' probabile che tentassero di salvarsi dopo essere rimasti al coperto durante la caduta di pomici, oppure che, allontanatesi, siano tornate sui loro passi per cercare di recuperare qualche cosa dalle abitazioni e siano state sorprese dall'arrivo dei flussi.
Questo potrebbe significare che, tra la fase pliniana e quella dei flussi, l'eruzione abbia avuto una tregua che ha tratto in inganno e causato la morte di molte persone.
Le vittime rinvenute in ambienti chiusi, come cantine o stanze dove il tetto reggeva al peso delle pomici, anche se non raggiunte direttamente dai flussi sono morte soffocate dall'aria resa irrespirabile dal calore, dalla cenere che aderiva alla trachea e intasava i polmoni e dal gas residuo tra i prodotti vulcanici.
A Ercolano, dove non sono cadute pomici, quasi tutte le vittime, oltre duecento, sono state trovate nei portici antistanti la spiaggia, sepolte dai prodotti dei flussi. Per loro la morte deve essere sopraggiunta mentre tentavano di fuggire via mare, causata soprattutto dall'alta temperatura.
Dopo l'eruzione, Marziale (40-104 d.C.) descrive il Vesuvio "poc'anzi verdeggiante di vigneti ombrosi (...) Ora tutto giace sommerso in fiamme e in tristo lapillo"
Le morti e i danni materiali causati dal Vesuvio furono tanto gravi che l'Imperatore Tito incaricò due ex-consoli (Curatores Restituendae Campaniae) di sovrintendere ai lavori di ricostruzione e di risolvere le questioni legali sorte per la scomparsa di così tante persone.
L'economia della regione ne uscì compromessa e la produzione di vino subì una drastica riduzione. Pompei era famosa anche per una salsa di pesce detta "garum" che esportava in grande quantità.
Il ritrovamento di numerose anfore di tipo gallico, con la completa scomparsa di quelle provenienti dalla Campania, testimonia che a Roma, dopo l'eruzione, si importava vino e altri prodotti dalla Gallia.
Le pomici della fase pliniana caddero verso Sud-Est e i flussi scesero verso a Sud e Ovest, ma anche le altre zone intorno al vulcano, pur essendo state risparmiate dai danni più gravi, subirono serie conseguenze economiche.
Pochi centimetri di ceneri o di pomici possono compromettere il raccolto per anni ed è possibile che le colture dell'intera Campania siano state distrutte con conseguenti carestie, perdita di bestiame per mancanza di foraggio e malattie.
Marco Aurelio (121-180 d.C.) e Dione Cassio (150-235 d.C.) parlano dei gravi danni riportati a Pompei e a Ercolano e riferiscono anche che le ceneri dell'eruzione raggiunsero l'Africa, la Siria e l'Egitto, dove causarono pestilenze.
Non vi sono molte notizie sulle conseguenze dell'eruzione a Napoli o nelle zone non direttamente investite dai prodotti dell'eruzione. Nelle sue lettere, Plinio il Giovane riferisce solo della morte dello zio, avvenuta sulla spiaggia di Stabia, e del terrore seminato dall'evento fino a Miseno.
Papinio Stazio (40- 96 d.C.) nella sua opera "Silvae" parla di danni a Napoli e dovrebbe trattarsi di una testimonianza diretta, dal momento che il poeta visse nella città e probabilmente vi si trovava durante l'eruzione (ritirò un premio di poesia nella città nel 78 o nell'80).
Allontanatosi dopo l'eruzione, Stazio torna a Napoli nel 92 e scrive alla moglie Claudia cercando di convincerla a tornare a vivere in Campania. Napoli gli appare come una città viva e brulicante di gente. Promette alla moglie di farle visitare i templi e il porto di Pozzuoli con le sue belle spiagge. Vuole che torni nei luoghi dove " l'inverno è mite e l'estate fresca, dove il mare lambisce la terra con pigre onde".
Il ricordo dell'eruzione sembra rapidamente svanito, probabilmente perché a Napoli e nei Campi Flegrei i danni agli edifici non furono rilevanti e non vi erano state perdite di vite umane.
Al contrario, le condizioni di altre zone danneggiate e più vicine al vulcano dovevano essere molto diverse. Stabia fu la prima a riprendersi lentamente e a costruire un'importante via di comunicazione con Nocera nel 121.
La zona di Portici e Torre del Greco fu rioccupata tra il II e IV-V secolo d.C. e quella di Pompei e Ercolano solo tra il III e V secolo.
La memoria delle città sepolte perdurò per secoli ma, dopo la caduta dell'impero romano, se ne persero praticamente le tracce. Eppure, in ogni opera di scavo e nella coltivazione dei campi, immancabilmente emergevano vestige di una città che veniva chiamata "La Civita".
Gli scavi sistematici iniziarono a Ercolano nel 1738, e dieci anni dopo a Pompei, per volere di Carlo III di Borbone, re delle Due Sicilie. A tutt'oggi, i siti continuano a riservare sorprese che aggiungono alla documentazione archeologica i particolari di una cronaca dettagliata non solo della sciagura, ma anche dell'eruzione che la provocò. La lunga e spesso tormentata vicenda degli scavi rappresenta da sola un capitolo di storia nella storia.
lunedì 23 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 agosto.
Il 23 agosto 1305 veniva giustiziato a Londra William Wallace, destinato a diventare l'eroe nazionale scozzese.
Nel 1296 Edoardo I d’Inghilterra si mosse con tutte le forze del regno contro la nemica e vicina Scozia con l’ovvio intento di conquistarne il territorio. La campagna fu vittoriosa, il re scozzese John Baliol fu imprigionato e molti nobili prestarono giuramento al re inglese, ormai fortemente convinto di avere la nazione in pugno.
Edoardo I pose a guardia del regno settentrionale un grande feudatario di origine normanna, Giovanni di Warenne conte del Surrey, che aveva dato un forte contributo sia nella campagna di Galles sia in quella scozzese. Ormai vecchio per il compito assegnatogli, lo affidó ad altri due funzionari inglesi, Ugo di Cressingham e Guglielmo di Ormsby, nominati rispettivamente tesoriere e giustiziere di Scozia.
I soprusi nei confronti del popolo scozzese non tardarono a presentarsi, scatenando insurrezioni caratterizzate dall’assenza di un comandante a causa del giuramento che i nobili avevano prestato all’Inghilterra.
Fu quindi il momento di William Wallace (piccolo proprietario delle Basse Terre occidentali appena venticinquenne) che, in seguito all’uccisione della donna che amava, attaccó con un gruppo di uomini fidati, la guarnigione di Lanark uccidendo lo sceriffo inglese Sir Guglielmo di Hazelrig.
Altre fonti sostengono invece che Sir Wallace sia insorto contro gli inglesi per vendicare la morte del padre e che il tutto ebbe inizio durante una lite con due ufficiali per il possesso di alcuni pesci. Un motivo futile ma dimostrativo dell’odio di Wallace nei confronti del popolo inglese.
Non possiamo sapere con certezza quale fu il reale motivo scatenante per mancanza di documenti del tempo ma solo affidarci alle notizie lasciateci da alcuni storici successivamente alle vicende. Potrebbero anche essere vere entrambe.
Wallace inizió a radunare attorno a sé sbandati, scontenti e tutti coloro che erano pronti a mettere in pericolo la propria vita a favore dell’indipendenza della Scozia. Le accurate tattiche di guerriglia escogitate dallo scozzese conferirono alla sua armata numerose vittorie e un gran credito tanto che, quando giunsero in prossimitá di Scone, il giustiziere Ormsby preferí darsi alla fuga e tornare in Inghilterra. Wallace inoltre aveva dichiarato di combattere in nome del prigioniero re Baliol. Il guardiano Warenne fu costretto a prendere provvedimenti e mosse contro i ribelli 40000 fanti e 300 cavalieri. Le forze di Wallace contavano invece circa 180 cavalieri e qualche migliaio di fanti, che armati di picche e asce, misero in seria difficoltá le truppe nemiche costrette a muoversi tra le montagne scozzesi.
Ció spinse Edoardo I a rinforzare ulteriormente le fila del proprio esercito, ignaro che ancora una volta sarebbe stato sconfitto dagli astuti scozzesi. Wallace nel frattempo si uní a Andrew de Moray, nobile scozzese impegnato a guidare la rivolta nella scozia del nord.
Si arrivó dunque alla famosa battaglia di Stirling Bridge durante la quale gli scozzesi, capitanati da Wallace, attesero nascosti sulle montagne l’arrivo degli inglesi al ponte. Una volta iniziato l’attraversamento, li attaccarono uccidendoli uno alla volta e costringendoli alla ritirata mentre i compagni dalle retrovie li spingevano avanti perché continuassero ad affrontare il nemico.
Il ponte a causa dell’eccessivo peso crolló e molti inglesi affogarono, gli altri invece vennero colti di sorpresa dalle truppe scozzesi che avevano guadato il fiume piú a monte. Il forte e organizzato esercito inglese, composto da circa 3000 cavalieri, venne letteralmente spazzato via.
Fino ad allora la cavalleria aveva sempre considerato la fanteria come marmaglia da disperdere ma in questa occasione, grazie alla conformazione del territorio e alle strategie accuratamente studiate, dovette fortemente ricredersi e ammetterne la superioritá in determinate situazioni. (Ci volle comunque del tempo prima che questo messaggio venisse perfettamente recepito.)
Hugh Cressingham, il tesoriere, venne ucciso nel corso della battaglia e la vittoria fu un enorme iniezione di fiducia per l’esercito scozzese. Wallace venne dichiarato cavaliere e Guardiano di Scozia mentre De Moray, rimasto gravemente ferito, morí tre mesi dopo lasciando al solo Wallace il compito di difendere la nazione.
L’anno seguente (1298) gli inglesi invasero nuovamente la Scozia facendo terra bruciata al loro passaggio e riconquistando alcuni castelli perduti senza incontrare l’opposizione dei ribelli fino a Falkirk. Wallace organizzó i suoi lancieri in quattro schiltron, formazioni circolari in cui i soldati tenevano le picche inclinate verso l’alto e col calcio ben piantato per terra creando un ostacolo difficilmente superabile da fanti e cavalieri. Gli schiltron erano difesi da piccoli gruppi di arcieri che vennero presto dispersi dalla cavalleria inglese. Gli arcieri inglesi nel frattempo si concentrarono sugli schiltron scagliando una gran quantitá di frecce e riuscendo ad aprire dei varchi che permisero ai cavalieri di affondare i colpi. La cavalleria scozzese, in netta inferioritá numerica, si diede alla fuga.
Anche Wallace riuscí a scappare ma la sua reputazione e il suo orgoglio ne pagarono un caro prezzo. La fuga duró fino a maggio 1305 quando un cavaliere scozzese traditore, John de Menteith, lo catturó nelle vicinanze di Glasgow. Il 23 agosto 1305 a Smithfield (Londra) venne sommariamente processato e condannato a morte subendo il trattamento riservato ai traditori.
Venne impiccato e il corpo squartato in quattro parti che vennero macabramente esposte a Edimburgo, Perth, Berwick e Newcastle. La testa fu invece impalata ed esposta sul London Bridge. La lapide si trova al St Bartolomew’s Hospital a Smithfield vicino al luogo dell’esecuzione e ancora oggi, gli scozzesi vi depongono dei fiori.
Un traditore per gli inglesi, una leggenda per il popolo scozzese, che ne hanno fatto il loro eroe nazionale.
Nel 1995 Mel Gibson fece un film romanzando ampiamente le sue gesta. Braveheart vinse 5 premi oscar.
Il 23 agosto 1305 veniva giustiziato a Londra William Wallace, destinato a diventare l'eroe nazionale scozzese.
Nel 1296 Edoardo I d’Inghilterra si mosse con tutte le forze del regno contro la nemica e vicina Scozia con l’ovvio intento di conquistarne il territorio. La campagna fu vittoriosa, il re scozzese John Baliol fu imprigionato e molti nobili prestarono giuramento al re inglese, ormai fortemente convinto di avere la nazione in pugno.
Edoardo I pose a guardia del regno settentrionale un grande feudatario di origine normanna, Giovanni di Warenne conte del Surrey, che aveva dato un forte contributo sia nella campagna di Galles sia in quella scozzese. Ormai vecchio per il compito assegnatogli, lo affidó ad altri due funzionari inglesi, Ugo di Cressingham e Guglielmo di Ormsby, nominati rispettivamente tesoriere e giustiziere di Scozia.
I soprusi nei confronti del popolo scozzese non tardarono a presentarsi, scatenando insurrezioni caratterizzate dall’assenza di un comandante a causa del giuramento che i nobili avevano prestato all’Inghilterra.
Fu quindi il momento di William Wallace (piccolo proprietario delle Basse Terre occidentali appena venticinquenne) che, in seguito all’uccisione della donna che amava, attaccó con un gruppo di uomini fidati, la guarnigione di Lanark uccidendo lo sceriffo inglese Sir Guglielmo di Hazelrig.
Altre fonti sostengono invece che Sir Wallace sia insorto contro gli inglesi per vendicare la morte del padre e che il tutto ebbe inizio durante una lite con due ufficiali per il possesso di alcuni pesci. Un motivo futile ma dimostrativo dell’odio di Wallace nei confronti del popolo inglese.
Non possiamo sapere con certezza quale fu il reale motivo scatenante per mancanza di documenti del tempo ma solo affidarci alle notizie lasciateci da alcuni storici successivamente alle vicende. Potrebbero anche essere vere entrambe.
Wallace inizió a radunare attorno a sé sbandati, scontenti e tutti coloro che erano pronti a mettere in pericolo la propria vita a favore dell’indipendenza della Scozia. Le accurate tattiche di guerriglia escogitate dallo scozzese conferirono alla sua armata numerose vittorie e un gran credito tanto che, quando giunsero in prossimitá di Scone, il giustiziere Ormsby preferí darsi alla fuga e tornare in Inghilterra. Wallace inoltre aveva dichiarato di combattere in nome del prigioniero re Baliol. Il guardiano Warenne fu costretto a prendere provvedimenti e mosse contro i ribelli 40000 fanti e 300 cavalieri. Le forze di Wallace contavano invece circa 180 cavalieri e qualche migliaio di fanti, che armati di picche e asce, misero in seria difficoltá le truppe nemiche costrette a muoversi tra le montagne scozzesi.
Ció spinse Edoardo I a rinforzare ulteriormente le fila del proprio esercito, ignaro che ancora una volta sarebbe stato sconfitto dagli astuti scozzesi. Wallace nel frattempo si uní a Andrew de Moray, nobile scozzese impegnato a guidare la rivolta nella scozia del nord.
Si arrivó dunque alla famosa battaglia di Stirling Bridge durante la quale gli scozzesi, capitanati da Wallace, attesero nascosti sulle montagne l’arrivo degli inglesi al ponte. Una volta iniziato l’attraversamento, li attaccarono uccidendoli uno alla volta e costringendoli alla ritirata mentre i compagni dalle retrovie li spingevano avanti perché continuassero ad affrontare il nemico.
Il ponte a causa dell’eccessivo peso crolló e molti inglesi affogarono, gli altri invece vennero colti di sorpresa dalle truppe scozzesi che avevano guadato il fiume piú a monte. Il forte e organizzato esercito inglese, composto da circa 3000 cavalieri, venne letteralmente spazzato via.
Fino ad allora la cavalleria aveva sempre considerato la fanteria come marmaglia da disperdere ma in questa occasione, grazie alla conformazione del territorio e alle strategie accuratamente studiate, dovette fortemente ricredersi e ammetterne la superioritá in determinate situazioni. (Ci volle comunque del tempo prima che questo messaggio venisse perfettamente recepito.)
Hugh Cressingham, il tesoriere, venne ucciso nel corso della battaglia e la vittoria fu un enorme iniezione di fiducia per l’esercito scozzese. Wallace venne dichiarato cavaliere e Guardiano di Scozia mentre De Moray, rimasto gravemente ferito, morí tre mesi dopo lasciando al solo Wallace il compito di difendere la nazione.
L’anno seguente (1298) gli inglesi invasero nuovamente la Scozia facendo terra bruciata al loro passaggio e riconquistando alcuni castelli perduti senza incontrare l’opposizione dei ribelli fino a Falkirk. Wallace organizzó i suoi lancieri in quattro schiltron, formazioni circolari in cui i soldati tenevano le picche inclinate verso l’alto e col calcio ben piantato per terra creando un ostacolo difficilmente superabile da fanti e cavalieri. Gli schiltron erano difesi da piccoli gruppi di arcieri che vennero presto dispersi dalla cavalleria inglese. Gli arcieri inglesi nel frattempo si concentrarono sugli schiltron scagliando una gran quantitá di frecce e riuscendo ad aprire dei varchi che permisero ai cavalieri di affondare i colpi. La cavalleria scozzese, in netta inferioritá numerica, si diede alla fuga.
Anche Wallace riuscí a scappare ma la sua reputazione e il suo orgoglio ne pagarono un caro prezzo. La fuga duró fino a maggio 1305 quando un cavaliere scozzese traditore, John de Menteith, lo catturó nelle vicinanze di Glasgow. Il 23 agosto 1305 a Smithfield (Londra) venne sommariamente processato e condannato a morte subendo il trattamento riservato ai traditori.
Venne impiccato e il corpo squartato in quattro parti che vennero macabramente esposte a Edimburgo, Perth, Berwick e Newcastle. La testa fu invece impalata ed esposta sul London Bridge. La lapide si trova al St Bartolomew’s Hospital a Smithfield vicino al luogo dell’esecuzione e ancora oggi, gli scozzesi vi depongono dei fiori.
Un traditore per gli inglesi, una leggenda per il popolo scozzese, che ne hanno fatto il loro eroe nazionale.
Nel 1995 Mel Gibson fece un film romanzando ampiamente le sue gesta. Braveheart vinse 5 premi oscar.
domenica 22 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 agosto.
Il 22 agosto 1978 muore a Ginevra Ignazio Silone.
Nato a Pescina dei Marsi (Aq) nel 1900 (vero nome Secondo Tranquilli), nel 1911 entra in Seminario, ma nel 1915 deve abbandonare gli studi, in seguito al terremoto avvenuto nello stesso anno nella Marsica, durante il quale muoiono il padre e cinque fratelli. Inizia a dedicarsi alla politica fin da giovanissimo. Partecipa alla fondazione del Partito Comunista, che con Togliatti rappresenta a Mosca nel Komintern, dal quale si dimette nel 1930 non condividendo le purghe staliniane.
Antifascista, è costretto all’esilio e soggiorna in Svizzera dal 1930 al 1945. È in questi anni che comincia la sua vocazione di scrittore, che gli dà notorietà all’estero molto prima che in Italia. Dopo la Liberazione, entra nel Partito Socialista ed è Deputato alla Costituente.
Nel 1956 aderisce al Partito Socialdemocratico guidato da Giuseppe Saragat.
I suoi primi romanzi sono: “Fontamara”, del 1930; “Pane e vino”, 1936; “Il seme sotto la neve”, 1942. Essi denunciano la condizione umana del proletariato contadino, anche se con ironia grottesca, lo sfruttamento secolare e le lotte dei “cafoni” della Marsica. Altri romanzi sono: “Una manciata di more”, 1952; “Il segreto di Luca”, 1956; “La volpe e le camelie”, 1960. Inoltre scrive alcune commedie per il teatro, come: “Ed egli si nascose”, 1944; “Avventura di un povero cristiano”, 1968. Questi ultimi lavori sfiorano un evangelismo socialista fino a vagheggiare una sorta di cristianesimo primitivo e pauperistico. Nella sua saggistica politica troviamo: “La scuola dei dittatori”, 1938; “Uscita di sicurezza”, 1955, che viene ripubblicata nel 1965 con altri scritti e dà il titolo alla raccolta. Il suo lavoro di saggista si esprime nella veduta europea dell’antitotalitarismo con un forte impegno morale più che ideologico.
Fontamara è il romanzo più noto di Ignazio Silone. Tradotto in innumerevoli lingue, ha ottenuto ampio riconoscimento di pubblico in tutto il mondo. La sua descrizione di un universo contadino, disperato ed immutabile nel tempo, ha trovato ampi riscontri in luoghi remoti rispetto alle montagne dell'Abruzzo, dove è ambientato il romanzo (un esempio è il Giappone).
Fontamara è un paesino arretrato economicamente e tecnologicamente. Fontamara era e sarà uguale a sé stessa per sempre, non cambierà nulla e ogni anno sarà uguale a quelli precedenti e a quelli successivi: prima la semina, poi l'insolfatura, in seguito la mietitura e, infine, la vendemmia.
In questo universo contadino, sia le catastrofi naturali che le ingiustizie vengono subite passivamente; ecco perché nella premessa tutta la vicenda di Fontamara, ovvero la rivendicazione del diritto all'acqua, è definita come "un fatto strano".
Semplice nella trama e nel linguaggio, il romanzo ha a volte il tono di una fiaba, ma assume nel complesso un aspetto epico.
Un altro aspetto del libro è la denuncia contro i potenti e le autorità.
L'azione di denuncia è volta anche contro il fascismo; infatti attraverso l'episodio di Berardo l'autore ci presenta la realtà della censura e dei tentativi d'insurrezione attraverso la stampa clandestina che incitava la gente alla disobbedienza e alla ribellione. Silone descrive anche l'aspetto violento di quell'epoca, ovvero la dura repressione contro i rivoluzionari attuata anche con la pena capitale.
Si scorge il sentimento religioso popolare quando nei dialoghi l'opera di deviazione del corso d'acqua è considerata un sacrilegio, un peccato contro Dio, poiché cambia la natura che Egli ha creato.
Da Fontamara viene un ricco contributo documentario per la conoscenza del meridione italiano. Silone riesce a cogliere la fatica e la miseria dei contadini del Sud, le attività agricole nel variare delle stagioni vengono illustrate con minuzia e competenza. Nelle sue pagine non c'è soltanto una descrizione realistica, finalmente senza retorica, Silone analizza criticamente, dalla parte del Sud e dei cafoni, tutto uno scorcio di storia italiana: l'annessione al regno sabaudo è avvenuta con le modalità della conquista coloniale, mentre sono rimasti intoccati il latifondo e i rapporti sociali che esso determina. I governi post-unitari non hanno soddisfatto la fame di terra dei contadini, infatti non si è praticato l'esproprio, neppure parziale, dei grandi possidenti né sono state assegnate ai cafoni le terre confiscate agli ordini religiosi, oggetto, invece di una vendita all'asta che ha favorito solo i detentori di capitale liquido.
Nel 1932, l'anno in cui si svolgono le vicende di Fontamara, non diversamente dal periodo borbonico, la sopravvivenza del cafone dipende dal suo minifondo, in cui pratica una stentata agricoltura di sussistenza, e dipende dal lavoro a giornata, precario e mal pagato, sulle terre dei latifondisti. E alla miseria dei cafoni si collegano strettamente ignoranza, vulnerabilità agli imbrogli e ai soprusi, dipendenza dai notabili per ogni contatto con il mondo evoluto e complicato della città. Il regime fascista legalizza il sopruso, emana provvedimenti che peggiorano la situazione dei cafoni, come le leggi sull'emigrazione e la riduzione dei salari, ma non rappresenta nulla di realmente nuovo: Silone individua infatti una sostanziale continuità, almeno per quanto riguarda la politica meridionale, fra il fascismo e i governi liberali del periodo post-unitario, esprimendo così una recisa condanna anche nei confronti di questi ultimi.
Per la prima volta nella letteratura italiana, i cafoni sono protagonisti e narratori e le altre opere importanti, successive a Fontamara, che colgono la vita e i problemi del Sud, sono certamente debitrici a quest'opera: ad esempio, Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, Le terre del sacramento di Francesco Jovine, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Fontamara ha avuto un grande successo in tutto il mondo e traduzioni in moltissime lingue, come a confermare che «...i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano a tutti i paesi del mondo...» come afferma Ignazio Silone nella prefazione del romanzo.
Il 22 agosto 1978 muore a Ginevra Ignazio Silone.
Nato a Pescina dei Marsi (Aq) nel 1900 (vero nome Secondo Tranquilli), nel 1911 entra in Seminario, ma nel 1915 deve abbandonare gli studi, in seguito al terremoto avvenuto nello stesso anno nella Marsica, durante il quale muoiono il padre e cinque fratelli. Inizia a dedicarsi alla politica fin da giovanissimo. Partecipa alla fondazione del Partito Comunista, che con Togliatti rappresenta a Mosca nel Komintern, dal quale si dimette nel 1930 non condividendo le purghe staliniane.
Antifascista, è costretto all’esilio e soggiorna in Svizzera dal 1930 al 1945. È in questi anni che comincia la sua vocazione di scrittore, che gli dà notorietà all’estero molto prima che in Italia. Dopo la Liberazione, entra nel Partito Socialista ed è Deputato alla Costituente.
Nel 1956 aderisce al Partito Socialdemocratico guidato da Giuseppe Saragat.
I suoi primi romanzi sono: “Fontamara”, del 1930; “Pane e vino”, 1936; “Il seme sotto la neve”, 1942. Essi denunciano la condizione umana del proletariato contadino, anche se con ironia grottesca, lo sfruttamento secolare e le lotte dei “cafoni” della Marsica. Altri romanzi sono: “Una manciata di more”, 1952; “Il segreto di Luca”, 1956; “La volpe e le camelie”, 1960. Inoltre scrive alcune commedie per il teatro, come: “Ed egli si nascose”, 1944; “Avventura di un povero cristiano”, 1968. Questi ultimi lavori sfiorano un evangelismo socialista fino a vagheggiare una sorta di cristianesimo primitivo e pauperistico. Nella sua saggistica politica troviamo: “La scuola dei dittatori”, 1938; “Uscita di sicurezza”, 1955, che viene ripubblicata nel 1965 con altri scritti e dà il titolo alla raccolta. Il suo lavoro di saggista si esprime nella veduta europea dell’antitotalitarismo con un forte impegno morale più che ideologico.
Fontamara è il romanzo più noto di Ignazio Silone. Tradotto in innumerevoli lingue, ha ottenuto ampio riconoscimento di pubblico in tutto il mondo. La sua descrizione di un universo contadino, disperato ed immutabile nel tempo, ha trovato ampi riscontri in luoghi remoti rispetto alle montagne dell'Abruzzo, dove è ambientato il romanzo (un esempio è il Giappone).
Fontamara è un paesino arretrato economicamente e tecnologicamente. Fontamara era e sarà uguale a sé stessa per sempre, non cambierà nulla e ogni anno sarà uguale a quelli precedenti e a quelli successivi: prima la semina, poi l'insolfatura, in seguito la mietitura e, infine, la vendemmia.
In questo universo contadino, sia le catastrofi naturali che le ingiustizie vengono subite passivamente; ecco perché nella premessa tutta la vicenda di Fontamara, ovvero la rivendicazione del diritto all'acqua, è definita come "un fatto strano".
Semplice nella trama e nel linguaggio, il romanzo ha a volte il tono di una fiaba, ma assume nel complesso un aspetto epico.
Un altro aspetto del libro è la denuncia contro i potenti e le autorità.
L'azione di denuncia è volta anche contro il fascismo; infatti attraverso l'episodio di Berardo l'autore ci presenta la realtà della censura e dei tentativi d'insurrezione attraverso la stampa clandestina che incitava la gente alla disobbedienza e alla ribellione. Silone descrive anche l'aspetto violento di quell'epoca, ovvero la dura repressione contro i rivoluzionari attuata anche con la pena capitale.
Si scorge il sentimento religioso popolare quando nei dialoghi l'opera di deviazione del corso d'acqua è considerata un sacrilegio, un peccato contro Dio, poiché cambia la natura che Egli ha creato.
Da Fontamara viene un ricco contributo documentario per la conoscenza del meridione italiano. Silone riesce a cogliere la fatica e la miseria dei contadini del Sud, le attività agricole nel variare delle stagioni vengono illustrate con minuzia e competenza. Nelle sue pagine non c'è soltanto una descrizione realistica, finalmente senza retorica, Silone analizza criticamente, dalla parte del Sud e dei cafoni, tutto uno scorcio di storia italiana: l'annessione al regno sabaudo è avvenuta con le modalità della conquista coloniale, mentre sono rimasti intoccati il latifondo e i rapporti sociali che esso determina. I governi post-unitari non hanno soddisfatto la fame di terra dei contadini, infatti non si è praticato l'esproprio, neppure parziale, dei grandi possidenti né sono state assegnate ai cafoni le terre confiscate agli ordini religiosi, oggetto, invece di una vendita all'asta che ha favorito solo i detentori di capitale liquido.
Nel 1932, l'anno in cui si svolgono le vicende di Fontamara, non diversamente dal periodo borbonico, la sopravvivenza del cafone dipende dal suo minifondo, in cui pratica una stentata agricoltura di sussistenza, e dipende dal lavoro a giornata, precario e mal pagato, sulle terre dei latifondisti. E alla miseria dei cafoni si collegano strettamente ignoranza, vulnerabilità agli imbrogli e ai soprusi, dipendenza dai notabili per ogni contatto con il mondo evoluto e complicato della città. Il regime fascista legalizza il sopruso, emana provvedimenti che peggiorano la situazione dei cafoni, come le leggi sull'emigrazione e la riduzione dei salari, ma non rappresenta nulla di realmente nuovo: Silone individua infatti una sostanziale continuità, almeno per quanto riguarda la politica meridionale, fra il fascismo e i governi liberali del periodo post-unitario, esprimendo così una recisa condanna anche nei confronti di questi ultimi.
Per la prima volta nella letteratura italiana, i cafoni sono protagonisti e narratori e le altre opere importanti, successive a Fontamara, che colgono la vita e i problemi del Sud, sono certamente debitrici a quest'opera: ad esempio, Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, Le terre del sacramento di Francesco Jovine, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Fontamara ha avuto un grande successo in tutto il mondo e traduzioni in moltissime lingue, come a confermare che «...i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somigliano a tutti i paesi del mondo...» come afferma Ignazio Silone nella prefazione del romanzo.
sabato 21 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 agosto.
Il 21 agosto 1959 le isole Hawaii vengono ammesse come 50esimo (e attualmente ultimo) stato degli Stati Uniti d'America.
Il sistema politico degli Stati Uniti d'America comprende il sistema federale che unisce gli stati, e il sistema di ciascuno stato.
Nonostante la possibilità teorica di ampia indipendenza, gli stati tendono ad assomigliarsi nei sistemi di governo, e generalmente sono basati sul sistema federale con un capo dello stato (il presidente degli Stati Uniti, o il governatore di ciascun Stato), un'assemblea legislativa (di solito bicamerale, con un Senato e una Camera dei Rappresentanti - "House" o "House of Representatives") e un sistema di giudici e tribunali, federali e statali, ciascuno con una propria giurisdizione.
Il rapporto fra il governo federale e gli stati è regolato dalla costituzione americana, interpretata dalla Corte Suprema.
Il governo federale, per Costituzione, ha il solo potere di regolare il commercio fra gli stati, di proteggere i diritti dei cittadini, e di difendere il paese. Di fatto e con l'avallo della Corte Suprema, col tempo ha acquisito grandi poteri, che esercita attraverso organismi federali i quali, ad esempio, regolamentano la circolazione delle droghe o la cattura dei criminali, ma anche l'educazione e i diritti dei disabili.
Ogni stato elegge al congresso due senatori e un numero di rappresentanti proporzionale alla popolazione (almeno uno), un sistema che offre un maggiore peso agli stati più piccoli.
Il sistema politico statunitense è bipolare e assegna il potere a chi ha ricevuto più voti tra i due partiti maggiori, il Partito Democratico (di centro-sinistra e di tendenze progressiste) e il Partito Repubblicano (di centro-destra e di tendenze conservatrici).
L'elezione del presidente avviene ogni quattro anni, il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre. L'elezione del Presidente avviene in modo indiretto. I cittadini eleggono i grandi elettori che a loro volta si riuniscono ed eleggono il Presidente. Ogni stato possiede un numero di grandi elettori pari al numero di deputati e di senatori che lo stato esprime.
Con rare eccezioni in ciascuno stato i grandi elettori vengono assegnati alla lista che prende il maggior numero di voti (the winner takes all). Il meccanismo elettorale spinge i candidati a concentrare i propri sforzi per ottenere i voti di pochi decisivi stati nei quali il risultato è incerto, trascurando invece gli stati nei quali con ragionevole certezza il risultato finale è scontato. La scelta del candidato alla presidenza avviene attraverso elezioni primarie che avvengono nel corso di diverse settimane, secondo un calendario che rispecchia la tradizione e vede nell'Iowa e nel New Hampshire i primi stati interessati da questo tipo di voto.
Nel senato una maggioranza di tre quinti è necessaria per porre fine al dibattito. Questo permette a una sostanziale minoranza di bloccare leggi particolarmente sfavorevoli, con un processo chiamato "filibuster". Inoltre, se il presidente si rifiuta di firmare una legge (ponendo il suo diritto di "veto"), maggioranze di due terzi sia nella Camera sia nel Senato possono approvare una legge senza la firma del presidente, superandone il suo "veto". Talvolta, le leggi passate dal Senato e dalla Camera sono diverse. In tal caso, un comitato formato da senatori e rappresentanti ("conference committee") si riunisce per cercare un compromesso accettabile ad entrambe le camere: compromesso che spesso esprime più le preferenze del comitato che delle due camere. Ciononostante le leggi, molto spesso, vengono approvate comunque. In tali battaglie politiche spesso il conflitto non è a viso aperto: infatti, spesso il presidente firma una legge approvata dai due terzi di ciascuna delle due camere ("a veto-proof majority") pur dichiarandosi contrario.
Per quanto riguarda la costituzione, questa può essere emendata, mediante due procedure:
con la prima, il Congresso, con l'approvazione di due terzi di ciascuna delle Camere, propone agli Stati l'emendamento in questione;
con la seconda (che non è stata mai applicata) il Congresso, dietro richiesta delle assemblee legislative di due terzi degli Stati, convoca una Convenzione nazionale per discutere e presentare l'emendamento.
A questo punto, in entrambi i casi, è necessario che tre quarti degli Stati approvino l'emendamento. Questa approvazione può essere opera dell'assemblea legislativa dello Stato, o di un'apposita convenzione. Tranne in un caso, l'approvazione degli emendamenti è sempre stata opera delle assemblee legislative degli stati.
Vari emendamenti si sono succeduti nella storia statunitense. Sono famose le modifiche dopo la guerra civile intese a proibire la schiavitù. Clamoroso il XVIII emendamento che proibisce il consumo dell'alcool, successivamente abrogato dal XXI, emendamento che è stato l'unico ad essere approvato mediante convenzioni statali, e l'unico ad abrogare un precedente emendamento (il XVIII, appunto).
Il 21 agosto 1959 le isole Hawaii vengono ammesse come 50esimo (e attualmente ultimo) stato degli Stati Uniti d'America.
Il sistema politico degli Stati Uniti d'America comprende il sistema federale che unisce gli stati, e il sistema di ciascuno stato.
Nonostante la possibilità teorica di ampia indipendenza, gli stati tendono ad assomigliarsi nei sistemi di governo, e generalmente sono basati sul sistema federale con un capo dello stato (il presidente degli Stati Uniti, o il governatore di ciascun Stato), un'assemblea legislativa (di solito bicamerale, con un Senato e una Camera dei Rappresentanti - "House" o "House of Representatives") e un sistema di giudici e tribunali, federali e statali, ciascuno con una propria giurisdizione.
Il rapporto fra il governo federale e gli stati è regolato dalla costituzione americana, interpretata dalla Corte Suprema.
Il governo federale, per Costituzione, ha il solo potere di regolare il commercio fra gli stati, di proteggere i diritti dei cittadini, e di difendere il paese. Di fatto e con l'avallo della Corte Suprema, col tempo ha acquisito grandi poteri, che esercita attraverso organismi federali i quali, ad esempio, regolamentano la circolazione delle droghe o la cattura dei criminali, ma anche l'educazione e i diritti dei disabili.
Ogni stato elegge al congresso due senatori e un numero di rappresentanti proporzionale alla popolazione (almeno uno), un sistema che offre un maggiore peso agli stati più piccoli.
Il sistema politico statunitense è bipolare e assegna il potere a chi ha ricevuto più voti tra i due partiti maggiori, il Partito Democratico (di centro-sinistra e di tendenze progressiste) e il Partito Repubblicano (di centro-destra e di tendenze conservatrici).
L'elezione del presidente avviene ogni quattro anni, il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre. L'elezione del Presidente avviene in modo indiretto. I cittadini eleggono i grandi elettori che a loro volta si riuniscono ed eleggono il Presidente. Ogni stato possiede un numero di grandi elettori pari al numero di deputati e di senatori che lo stato esprime.
Con rare eccezioni in ciascuno stato i grandi elettori vengono assegnati alla lista che prende il maggior numero di voti (the winner takes all). Il meccanismo elettorale spinge i candidati a concentrare i propri sforzi per ottenere i voti di pochi decisivi stati nei quali il risultato è incerto, trascurando invece gli stati nei quali con ragionevole certezza il risultato finale è scontato. La scelta del candidato alla presidenza avviene attraverso elezioni primarie che avvengono nel corso di diverse settimane, secondo un calendario che rispecchia la tradizione e vede nell'Iowa e nel New Hampshire i primi stati interessati da questo tipo di voto.
Nel senato una maggioranza di tre quinti è necessaria per porre fine al dibattito. Questo permette a una sostanziale minoranza di bloccare leggi particolarmente sfavorevoli, con un processo chiamato "filibuster". Inoltre, se il presidente si rifiuta di firmare una legge (ponendo il suo diritto di "veto"), maggioranze di due terzi sia nella Camera sia nel Senato possono approvare una legge senza la firma del presidente, superandone il suo "veto". Talvolta, le leggi passate dal Senato e dalla Camera sono diverse. In tal caso, un comitato formato da senatori e rappresentanti ("conference committee") si riunisce per cercare un compromesso accettabile ad entrambe le camere: compromesso che spesso esprime più le preferenze del comitato che delle due camere. Ciononostante le leggi, molto spesso, vengono approvate comunque. In tali battaglie politiche spesso il conflitto non è a viso aperto: infatti, spesso il presidente firma una legge approvata dai due terzi di ciascuna delle due camere ("a veto-proof majority") pur dichiarandosi contrario.
Per quanto riguarda la costituzione, questa può essere emendata, mediante due procedure:
con la prima, il Congresso, con l'approvazione di due terzi di ciascuna delle Camere, propone agli Stati l'emendamento in questione;
con la seconda (che non è stata mai applicata) il Congresso, dietro richiesta delle assemblee legislative di due terzi degli Stati, convoca una Convenzione nazionale per discutere e presentare l'emendamento.
A questo punto, in entrambi i casi, è necessario che tre quarti degli Stati approvino l'emendamento. Questa approvazione può essere opera dell'assemblea legislativa dello Stato, o di un'apposita convenzione. Tranne in un caso, l'approvazione degli emendamenti è sempre stata opera delle assemblee legislative degli stati.
Vari emendamenti si sono succeduti nella storia statunitense. Sono famose le modifiche dopo la guerra civile intese a proibire la schiavitù. Clamoroso il XVIII emendamento che proibisce il consumo dell'alcool, successivamente abrogato dal XXI, emendamento che è stato l'unico ad essere approvato mediante convenzioni statali, e l'unico ad abrogare un precedente emendamento (il XVIII, appunto).
venerdì 20 agosto 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 agosto.
Il 20 agosto 1882 nasce a Cassino Enrico Toti.
Alcuni decenni fa, quando a scuola si cantava la canzone del Piave e tutti sapevano perché in ogni comune d’Italia c’è una via o una piazza dedicata a Vittorio Veneto o ad Armando Diaz, tutti ricordavano la figura di un soldato, Enrico Toti, mutilato ad una gamba, bersagliere ciclista, che in una delle innumerevoli offensive sul Carso (la sesta battaglia dell’Isonzo) aveva lanciato la sua stampella contro gli austriaci dopo aver finito le munizioni, questo, secondo la tradizione, il suo ultimo gesto prima di essere colpito a morte.
Nei mesi e negli anni a seguire Toti era diventato il simbolo di un’Italia che seppur colpita e in difficoltà aveva la forza, la volontà e la voglia di combattere, di non fermarsi di fronte a nulla, nemmeno e soprattutto di fronte i propri limiti. In questo periodo però e ancora di più durante il fascismo l’episodio della stampella assorbe e risucchia la vita del bersagliere romano, fissandone tutta l’esistenza in quel solo momento, che era ormai stato divinizzato dalla retorica nazionalista. Inutile dire che proprio il dissolvimento di quella retorica ha iniziato a frantumare la figura di Toti negando l’unica cosa che ne restava: l’episodio della stampella. Lo studio del terreno secondo alcuni dimostra che era impossibile per un mutilato raggiungere la trincea dove sarebbe morto Toti, alcuni dicono di aver raccolto testimonianze indirette (quindi un sentito dire) secondo cui Toti fu colpito perché essendo ubriaco inveiva contro il nemico e si sporgeva troppo dalla trincea, secondo altre ancora di queste testimonianze di seconda (spesso terza) mano, il bersagliere era semplicemente morto sotto un bombardamento nelle retrovie.
Storici e studiosi si sono cimentati alla ricerca di prove dell’una e delle altre versioni, ma prove inconfutabili non ce ne sono in nessuna direzione, c’è però una storia in fin dei conti più appassionante e molto più significativa per capire il personaggio, la sua vita.
Enrico Toti nasce a Roma nel 1882 ed è sostanzialmente figlio di quello scorcio di ‘800 fatto di entusiasmo per il futuro, speranza nel progresso e voglia di avventura. E’ proprio quest’ultima che a 14 anni lo porta ad arruolarsi in Marina, dove dopo la scuola militare è imbarcato come elettricista sulla Regia Nave Emanuele Filiberto. In Marina oltre alla specializzazione professionale acquisirà una serie di valori in cui crederà orgogliosamente e che entreranno a far parte del suo modo di vivere anche quando dovrà lasciare la vita militare a causa della morte del fratello che imporrà il suo ritorno alle necessità della famiglia. Nel 1905 Toti è quindi di nuovo a Roma e nel 1907 riesce ad essere assunto nelle ferrovie dello Stato come fuochista, è qui che avviene l’incidente che segnerà la sua storia, nel 1908, quando ha soli 26 anni, alla stazione di Segni un locomotore in manovra gli trancia la gamba sinistra.
Nel fiore degli anni, colpito da una tragedia del genere, Toti poteva condurre una tranquilla vita da invalido o continuare a vivere come se nulla fosse accaduto, ma Enrico non scelse nessuna di queste strade e decise invece di condurre una vita esemplare e avventurosa. Per prima cosa decise di riprendere le proprie attività sportive con maggiore intensità di quanto non avesse fatto prima, l’obiettivo era quello di affrontare il giro del mondo in bicicletta e per farlo partì dall’arco monumentale dell’Esposizione internazionale di Roma del 1911; questa avventura metterà a dura prova il suo carattere, ma nonostante le difficoltà e un rimpatrio forzato dall’Austria non si perderà d’animo e ripartirà più volte.
Allo scoppio della guerra Toti è in prima fila nelle dimostrazioni interventiste, fa di tutto per andare al fronte ma l’esercito non lo arruola, lui non si scoraggia e si fa cucire una divisa grigio-verde, prende la bicicletta e si avvia verso il fronte, forse insieme o in conseguenza della partenza dei volontari ciclisti romani. Arrivato al fronte viene più volte respinto, data la sua condizione, ma Toti è ostinato e riesce ad ottenere di poter svolgere piccoli servizi di retrovia come portaordini o più probabilmente postino. Quando è poco sorvegliato cerca sempre di raggiungere la prima linea ma viene scoperto e riportato indietro, alla fine un’infrazione del genere gli costa caro e viene rispedito a Roma. Toti non vuole per nessuna ragione darsi per vinto, e nella capitale gira per i ministeri, le radio e le redazioni dei giornali per trovare qualcuno che lo aiuti a tornare al fronte, qualcuno che gli dia l’opportunità di essere utile al suo Paese in quella guerra. Scrive perfino un’accorata lettera al Duca D’Aosta, comandante della III° Armata in cui tra l’altro si legge “Le giuro che ho del fegato e qualunque impresa la più difficile se mi venisse ordinata la eseguirei senza indugio”.
Alla fine la sua insistenza è premiata e Toti è ufficialmente autorizzato a recarsi in zona di guerra; nel febbraio del ’16 è a Monfalcone di nuovo con compiti secondari, ma la sua passione e la sua azione costante e infaticabile farà breccia nei sentimenti del tenente Bolzon che chiede di aggregare Toti alla sua compagnia; il suo superiore, maggiore Rizzo, è restio allora Bolzon si assume in pieno la responsabilità del caso e porta Toti in trincea a cave Selz.
In trincea Toti arriva in un momento di relativa calma, ma il suo eccessivo zelo gli fa comunque rimediare due ferite che però non lo scoraggiano affatto. Per interessamento del colonnello Razzini, che parlerà col maggiore Rizzo, Toti viene aggregato al 3° battaglione Bersaglieri ciclisti, nel settore del VII Corpo d’Armata del generale Tettoni; siamo a metà maggio del ’16 e per Toti è la svolta della vita, “Posso compiere il mio dovere e sono soddisfattissimo” scrive alla sorella, questo per lui è forse il momento più bello, è soldato tra i soldati, non più isolato, sperimenta lo spirito di gruppo e può fregiarsi delle stellette.
Nell’agosto del ’16 il 3°, il 4° e l’11° bersaglieri sono spostati a quota 85 a est di Monfalcone per l’attacco a Gorizia; proprio durante questo assalto Toti avrebbe lanciato la sua stampella contro il nemico dopo essere riuscito a raggiungere la prima linea. Il se, il come, il perché; se è vero o non è vero e in che termini possa essere avvenuto il fatto è probabilmente uno di quei tanti segreti che la storia terrà per sé, eppure da quello che di documentato abbiamo non possiamo non avere stima e ammirazione per un personaggio che nonostante una grave menomazione decise di fare di tutto per riprendere il possesso di sé, per superare la sua sventura, per essere utile al proprio paese, un vero eroe della perseveranza.
In sua memoria fu eretto un monumento in bronzo nei giardini del Pincio a Roma e un altro a Gorizia. Un altro monumento in bronzo gli è stato dedicato a Cassino, città d'origine dei genitori, in piazza Marconi. A lui furono intitolati il sommergibile italiano Enrico Toti, varato nel 1928, e il successivo sottomarino Enrico Toti, varato nel 1968, oggi esposto al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Nel giugno 1923 gli fu intitolata la XI Legione Ferroviaria Enrico Toti di Bari della Milizia ferroviaria. Molte vie, in tutta Italia, portano il suo nome.
Il 20 agosto 1882 nasce a Cassino Enrico Toti.
Alcuni decenni fa, quando a scuola si cantava la canzone del Piave e tutti sapevano perché in ogni comune d’Italia c’è una via o una piazza dedicata a Vittorio Veneto o ad Armando Diaz, tutti ricordavano la figura di un soldato, Enrico Toti, mutilato ad una gamba, bersagliere ciclista, che in una delle innumerevoli offensive sul Carso (la sesta battaglia dell’Isonzo) aveva lanciato la sua stampella contro gli austriaci dopo aver finito le munizioni, questo, secondo la tradizione, il suo ultimo gesto prima di essere colpito a morte.
Nei mesi e negli anni a seguire Toti era diventato il simbolo di un’Italia che seppur colpita e in difficoltà aveva la forza, la volontà e la voglia di combattere, di non fermarsi di fronte a nulla, nemmeno e soprattutto di fronte i propri limiti. In questo periodo però e ancora di più durante il fascismo l’episodio della stampella assorbe e risucchia la vita del bersagliere romano, fissandone tutta l’esistenza in quel solo momento, che era ormai stato divinizzato dalla retorica nazionalista. Inutile dire che proprio il dissolvimento di quella retorica ha iniziato a frantumare la figura di Toti negando l’unica cosa che ne restava: l’episodio della stampella. Lo studio del terreno secondo alcuni dimostra che era impossibile per un mutilato raggiungere la trincea dove sarebbe morto Toti, alcuni dicono di aver raccolto testimonianze indirette (quindi un sentito dire) secondo cui Toti fu colpito perché essendo ubriaco inveiva contro il nemico e si sporgeva troppo dalla trincea, secondo altre ancora di queste testimonianze di seconda (spesso terza) mano, il bersagliere era semplicemente morto sotto un bombardamento nelle retrovie.
Storici e studiosi si sono cimentati alla ricerca di prove dell’una e delle altre versioni, ma prove inconfutabili non ce ne sono in nessuna direzione, c’è però una storia in fin dei conti più appassionante e molto più significativa per capire il personaggio, la sua vita.
Enrico Toti nasce a Roma nel 1882 ed è sostanzialmente figlio di quello scorcio di ‘800 fatto di entusiasmo per il futuro, speranza nel progresso e voglia di avventura. E’ proprio quest’ultima che a 14 anni lo porta ad arruolarsi in Marina, dove dopo la scuola militare è imbarcato come elettricista sulla Regia Nave Emanuele Filiberto. In Marina oltre alla specializzazione professionale acquisirà una serie di valori in cui crederà orgogliosamente e che entreranno a far parte del suo modo di vivere anche quando dovrà lasciare la vita militare a causa della morte del fratello che imporrà il suo ritorno alle necessità della famiglia. Nel 1905 Toti è quindi di nuovo a Roma e nel 1907 riesce ad essere assunto nelle ferrovie dello Stato come fuochista, è qui che avviene l’incidente che segnerà la sua storia, nel 1908, quando ha soli 26 anni, alla stazione di Segni un locomotore in manovra gli trancia la gamba sinistra.
Nel fiore degli anni, colpito da una tragedia del genere, Toti poteva condurre una tranquilla vita da invalido o continuare a vivere come se nulla fosse accaduto, ma Enrico non scelse nessuna di queste strade e decise invece di condurre una vita esemplare e avventurosa. Per prima cosa decise di riprendere le proprie attività sportive con maggiore intensità di quanto non avesse fatto prima, l’obiettivo era quello di affrontare il giro del mondo in bicicletta e per farlo partì dall’arco monumentale dell’Esposizione internazionale di Roma del 1911; questa avventura metterà a dura prova il suo carattere, ma nonostante le difficoltà e un rimpatrio forzato dall’Austria non si perderà d’animo e ripartirà più volte.
Allo scoppio della guerra Toti è in prima fila nelle dimostrazioni interventiste, fa di tutto per andare al fronte ma l’esercito non lo arruola, lui non si scoraggia e si fa cucire una divisa grigio-verde, prende la bicicletta e si avvia verso il fronte, forse insieme o in conseguenza della partenza dei volontari ciclisti romani. Arrivato al fronte viene più volte respinto, data la sua condizione, ma Toti è ostinato e riesce ad ottenere di poter svolgere piccoli servizi di retrovia come portaordini o più probabilmente postino. Quando è poco sorvegliato cerca sempre di raggiungere la prima linea ma viene scoperto e riportato indietro, alla fine un’infrazione del genere gli costa caro e viene rispedito a Roma. Toti non vuole per nessuna ragione darsi per vinto, e nella capitale gira per i ministeri, le radio e le redazioni dei giornali per trovare qualcuno che lo aiuti a tornare al fronte, qualcuno che gli dia l’opportunità di essere utile al suo Paese in quella guerra. Scrive perfino un’accorata lettera al Duca D’Aosta, comandante della III° Armata in cui tra l’altro si legge “Le giuro che ho del fegato e qualunque impresa la più difficile se mi venisse ordinata la eseguirei senza indugio”.
Alla fine la sua insistenza è premiata e Toti è ufficialmente autorizzato a recarsi in zona di guerra; nel febbraio del ’16 è a Monfalcone di nuovo con compiti secondari, ma la sua passione e la sua azione costante e infaticabile farà breccia nei sentimenti del tenente Bolzon che chiede di aggregare Toti alla sua compagnia; il suo superiore, maggiore Rizzo, è restio allora Bolzon si assume in pieno la responsabilità del caso e porta Toti in trincea a cave Selz.
In trincea Toti arriva in un momento di relativa calma, ma il suo eccessivo zelo gli fa comunque rimediare due ferite che però non lo scoraggiano affatto. Per interessamento del colonnello Razzini, che parlerà col maggiore Rizzo, Toti viene aggregato al 3° battaglione Bersaglieri ciclisti, nel settore del VII Corpo d’Armata del generale Tettoni; siamo a metà maggio del ’16 e per Toti è la svolta della vita, “Posso compiere il mio dovere e sono soddisfattissimo” scrive alla sorella, questo per lui è forse il momento più bello, è soldato tra i soldati, non più isolato, sperimenta lo spirito di gruppo e può fregiarsi delle stellette.
Nell’agosto del ’16 il 3°, il 4° e l’11° bersaglieri sono spostati a quota 85 a est di Monfalcone per l’attacco a Gorizia; proprio durante questo assalto Toti avrebbe lanciato la sua stampella contro il nemico dopo essere riuscito a raggiungere la prima linea. Il se, il come, il perché; se è vero o non è vero e in che termini possa essere avvenuto il fatto è probabilmente uno di quei tanti segreti che la storia terrà per sé, eppure da quello che di documentato abbiamo non possiamo non avere stima e ammirazione per un personaggio che nonostante una grave menomazione decise di fare di tutto per riprendere il possesso di sé, per superare la sua sventura, per essere utile al proprio paese, un vero eroe della perseveranza.
In sua memoria fu eretto un monumento in bronzo nei giardini del Pincio a Roma e un altro a Gorizia. Un altro monumento in bronzo gli è stato dedicato a Cassino, città d'origine dei genitori, in piazza Marconi. A lui furono intitolati il sommergibile italiano Enrico Toti, varato nel 1928, e il successivo sottomarino Enrico Toti, varato nel 1968, oggi esposto al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Nel giugno 1923 gli fu intitolata la XI Legione Ferroviaria Enrico Toti di Bari della Milizia ferroviaria. Molte vie, in tutta Italia, portano il suo nome.
giovedì 19 agosto 2021
#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 agosto.
Secondo la tradizione cristiana, il 19 agosto si celebra la figura di Sara, moglie di Abramo.
La figura di Sara com'è descritta nel libro della Genesi rivela la sua personalità complessa: principessa di nome ma costretta a lasciare la propria casa per l'esilio; moglie del patriarca Abramo ma ritenuta sua sorella dal Faraone e Avimèlekh che l’hanno voluta come concubina a causa della sua straordinaria bellezza; la padrona di Hagar, serva egiziana giovane e fertile, mentre lei stessa una donna sterile che riuscirà a partorire solo in età avanzata. Le varie fasi della sua trasformazione vengono sottolineate nel testo ogni qualvolta cambia di nome: da Sarài, Iscà a Sara.
I primi due nomi appaiono nel testo quando “Abramo e Nachor presero moglie; la moglie di Abramo si chiamava Sarài, e Milcà quella di Nachor che era figlia di Haran padre pure di Iscà. Sarài era sterile; non aveva figli” (Genesi 11:29-30). Il grande commentatore biblico Rashì spiega: il nome Sarài significa “principessa”, “colei che amministra se stessa” (e non gli altri, quando si chiamerà Sara), mentre Iscà (dalla radice sch) significa colei che è coperta e protetta dalla Presenza divina in virtù delle sue doti profetiche, e di conseguenza, coloro che le stanno vicino godono della sua bellezza.
Ed è proprio per questa ragione che nel capitolo successivo quando, costretti a lasciare il paese per l’Egitto a causa della carestia, Abramo “Disse a sua moglie Sarài: So bene che tu sei donna di bell’aspetto; quando gli Egiziani ti vedranno, diranno: ‘Costei è sua moglie’, uccideranno me, e te lasceranno in vita. Di', dunque, che sei mia sorella.” (Genesi 12:11-13).
Nelle storie bibliche la bellezza è desiderata specialmente quando è l’espressione esteriore di un’integrità interiore, ma è anche strumento di seduzione come nel caso di Ester e Giuditta. Infatti, appena arrivati in Egitto, la notarono i notabili e la portarono dal Faraone. Ma subito dopo “Il Signore colpì il Faraone e la sua casa con grandi castighi a cagione di Sarài moglie di Abramo” (Ibid. 12:7). Il Faraone spaventato, libera subito Sarài che assieme al marito rientra nella terra di Canaan. Lo stesso evento si ripete quando Avimèlech, re di Gherar, mandò a prendere Sara, ma Dio lo avvertì nel sogno delle gravi conseguenze che tale azione avrebbe avuto sul suo regno rendendo sterile la sua famiglia, ed egli che era timoroso di Dio, la liberò immediatamente (Ibid. 20:1-18). Com'è detto dai saggi: “Chi ha timore del cielo viene ascoltato” (Berakhot 6b). Vediamo che in due casi diversi Sara fu costretta a figurare come sorella di Abramo e non come sua moglie; infatti, diventando “sorella” Sara acquista una posizione presso la corte dei re e la presenza di un “fratello” permette a lei di avere una protezione, mentre Abramo riceve in cambio un risarcimento materiale per il danno morale che gli è stato derivato.
Interessante notare che, fin quando il testo biblico menziona Sara come la “sorella” di Abramo, un termine che indica un rapporto di stretta parentela ma non di coppia, essi non sono capaci di procreare figli. Sara porta su di sé la tara della sua identità negata, rimane in fondo nella posizione di “sorella” per un determinato periodo o una donna desiderata da altri uomini, ma non moglie feconda.
Nonostante ciò Abramo e Sara sono il primo vero modello di coppia descritto nella Torà. Le loro vicende sono dettagliate, il loro rapporto si sviluppa tra alti e bassi, ma entrambi sono leali allo scopo comune che và ben oltre la relazione di coppia - si dirigono assieme verso la terra di Israele per annunciare il credo di un Dio unico e compiere l’esordio divino: “Và via (lekh lekhà) dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa paterna, al paese che t'indicherò” (Ibid.12:1). “Lekh lekhà” può essere tradotto in“Và verso te stesso”: un viaggio dai luoghi abituali alla volta di un’avventura spirituale, un rafforzamento della certezza della propria identità, che non và coperta con la menzogna. Infatti, è grazie al cammino, al continuo errare da un luogo all’altro che avviene la trasformazione che tocca la radice dell’essere. Da notare che a entrambi fu concesso di divenire padre e madre di nazioni: Abramo si occupò degli uomini e Sarài delle donne.
Malgrado la promessa divina di una prole vasta come il numero delle stelle nel cielo, che poi diventerà una grande nazione, “Sarài, moglie di Abramo, non gli aveva dato figli” (Ibid. 16:1) perciò Sarài decide di agire e dà la sua schiava Hagar, in moglie ad Abramo dicendole: “Beata te che vieni in contatto con questo corpo sacro” (Genesi Rabbà 45:3). L’unica ragione plausibile per un atto simile è la volontà di Sarài di compiere tramite Hagar la promessa divina. Questo testimonia la forza dell'agire femminile che prende iniziativa e responsabilità per cambiare il corso degli eventi, essendo la donna colei che genera e custodisce la vita, anche se a volte in modo manipolativo.
Hagar rimase subito incinta e partorì Ismaele.
Il risultato fu che la schiava trattò con disprezzo la padrona, mentre Sarài reagì diventando sempre più dura e amara esprimendo la vulnerabilità di una donna colpita nel nucleo della sua femminilità. Ora non si tratta più di una relazione tra padrona e serva, ma tra donne rivali che lottano per l’attenzione dello stesso uomo, per la loro posizione in famiglia ma soprattutto per il loro luogo nella memoria storica. Un racconto midrashico evidenzia questo: “Quando venivano le donne a fare visita a Sara, essa le mandava a osservare Hagar, la meschina. Hagar non rimaneva in debito e ribatteva: 'La mia padrona sembra una giusta, ma se lo era veramente a quest’ora doveva già partorire, come ho fatto io che sono rimasta incinta già dalla prima notte’” (Genesi Rabbà 45:4).
A questo punto, il Signore stesso interviene e sottolinea ad Abramo l’importanza della moglie; infatti, il figlio predestinato non è Ismaele, ma colui che nascerà dal grembo di Sara. Dio cambia il nome di Sarài con Sara, la benedice e annuncia la nascita di Isacco: “Sarài tua moglie non chiamarla più Sarài; il suo nome sia Sara. Io la benedirò e ti darò anche da lei un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli trarranno origine da lei. Abramo inchinò la faccia e rise; disse in cuor suo: 'A cent’anni può uno generare, e Sara a novant’anni partorire?’... e Dio disse ‘Comunque, tua moglie Sara è per partorirti un figlio; gli porrai nome Isacco... stabilirò il mio patto con Isacco che ti partorirà Sara l’anno venturo in questo tempo’” (Genesi 17:15-21). Rashì spiega, che nelle prime generazioni, uomini di 500 anni erano ancora in grado di generare, come Noè che “all’età di cinquecento anni generò Scem, Cham e Jèfeth” (Genesi 5:32). A partire dalla generazione di Noè, a causa delle vie corrotte seguite dagli uomini sulla terra, l’età possibile era calata ai sessanta o settanta anni, quindi, riuscire ad avere un figlio all’età di cento anni significava vincere le leggi della natura, un dono di Dio alle persone meritevoli.
Da questo possiamo dedurre che la longevità, in piena salute, era la vera natura dell'uomo nei tempi in cui viveva in piena armonia con la creazione e il suo Creatore. La malattia e la riduzione degli anni, sono un diretto risultato dell'infrazione di questo equilibrio tanto delicato e sottile.
L'annuncio a Sara è assai differente, tre angeli sotto le sembianze di ospiti visitano la tenda di Abramo a Mamré. "Gli domandarono: 'Dove è tua moglie Sara?' 'E' nella tenda' egli rispose. Uno di essi disse: 'Tornerò da te di qui a un anno e allora tua moglie Sara avrà un figlio.'… Sara intanto udiva alla porta… Abramo e Sara erano vecchi, avanzati in età; Sara non aveva più la regola delle donne. Essa rise dentro di sé, pensando: 'Logorata ormai sono, può tornarmi la freschezza? E, per di più, il mio signore è vecchio'" (Genesi 18:9-12).
Paragonando tra loro i due testi, vediamo che Abramo riceve la notizia dal Signore stesso, mentre Sara in modo indiretto dai messaggeri del Signore che chiedono esplicitamente di lei: essendo una donna modesta, l'annuncio viene trasmesso tramite il consorte. Interessante notare che Sara non dice "siamo vecchi", ma esalta la vecchiaia del marito come per far notare che il problema non è solo suo. Dio stesso le risponde immediatamente tramite Abramo: "Perché Sara ha riso pensando: E' proprio vero che io, così vecchia, possa partorire? C'è cosa impossibile per il Signore? Da qui a un anno tornerò da te e Sara avrà già un figlio" (Genesi 18:13-14). Notiamo che il Signore stesso non riferisce ad Abramo le stesse parole usate da Sara, così la frase: il mio signore è vecchio" diventa "Io sono vecchia". Gli interpreti spiegano che il motivo per cui Dio non ha usato esattamente le stesse parole è per non creare una lite in famiglia.
La nozione della vecchiaia appare qui per la prima volta nel testo biblico. Dall'analisi di questa storia risulta che quel che usualmente tendiamo a vedere come il tempo del declino, potrebbe essere vissuto come una promessa di nuova vita, un'età feconda di nuovi progetti, un tempo dedicato non solo a noi stessi, ma al benessere della società. L'anziano è colui che porta con sé il bagaglio di un'esperienza di vita vissuta che diventa preziosa quando viene messa a disposizione degli altri. Quando ciò accade l'anziano è il saggio, il capo, colui che dirige. Per esempio, vediamo come il cambiamento del nome da Sarài "colei che amministra se stessa" a Sara "colei che amministra gli altri", testimonia non solo il passaggio dalla sfera privata a quella collettiva, ma anche il nuovo compito che le è stato assegnato – la madre non solo di un figlio, ma la matriarca di un'intera discendenza.
La benedizione del Signore si manifesta, fatto che nonostante l'età avanzata, Sara torna a sentirsi una giovane e non solo, sfida le leggi della natura dal momento che ha la facoltà di rimanere incinta, allattare e crescere un figlio con serenità. Con questo vince la maledizione inflitta sulle donne dall'episodio di Eva, dove Dio disse: "Farò grandi le sofferenze tue e della tua gravidanza, partorirai figli con doglia e avrai desiderio di tuo marito; egli dominerà su di te" (Genesi 3:16). Non solo, Sara è colei che domina in casa, a tal punto che il Signore stesso dice ad Abramo: Dà ascolto a tutto ciò che Sara ti dice" riguardo la cacciata di Hagar (Ibid. 21:12), ma anche colei che partorisce facilmente. Infatti, spiega Rashì che dopo la nascita di Isacco, le malelingue insinuavano che Sara avesse portato in casa un orfano dal mercato, e per contraddirle, Sara decide di allattare anche i figli delle donne che le facevano visita.
Esaminando ciò che è stato detto fin'ora, notiamo che Abramo e Sara reagiscono esattamente nello stesso modo quando vengono a sapere della nascita di un figlio: con una bella risata. Abramo ride a causa della sua età e quella della sua consorte la quale, non solo era oramai vecchia, ma già nella sua giovinezza non era riuscita a partorire figli. Questo modo di comportarsi può essere interpretato in due modi diversi: da un lato, la risata può essere analoga ad un'irrisione, ma dall'altro potrebbe esprimere un'immensa gioia generata grazie alla realizzazione di un fatto ritenuto impossibile. E' scritto, infatti: "Quando il Signore ci fece tornare a Sion, ci pareva di sognare; allora la nostra bocca si riempì di risa" (Salmi 126:2). All'inizio, Sara "ride dentro di sé" e questo implica che lei si fa beffa della notizia, perché il vero riso è quello che si esprime con la bocca e con il suono; ma quando capisce che si tratta di una profezia, sceglie di negare la risata perché prova paura (Genesi 18:15). Solo quando realizza il suo luogo nel piano divino Sara disse: "Dio ma ha dato di che ridere; chi saprà il mio caso riderà… chi avrebbe detto ad Abramo che Sara allatterebbe dei figli! Che gli avrei partorito un figlio nella sua vecchiaia!" (Genesi 21:6-7).
La risata accomuna i due coniugi e forse spiega il segreto della loro buona salute, della lunga relazione di coppia che ha subito tante prove, ma che comunque le ha anche ben superate. La loro risata diventa un'espressione di fede e di gioia che sarà di eterna memoria quando Dio propone il nome Isacco, Itzchaq "colui che riderà" (dalla radice tzchq, ridere) al nascente.
Dopo che la posizione del figlio è assicurata in famiglia, Sara muore a 127 anni e viene sepolta a Chebron, dove Abramo compra la sua prima proprietà nella Terra d'Israele: la grotta di Makhpelà. Più avanti nel testo, quando il servo di Abramo cerca moglie per Isacco, esulterà la figura del padrone dicendo a Labano: "Il Signore ha molto benedetto il mio padrone… Sara moglie del mio padrone, già vecchia, gli ha partorito un figlio" (Genesi 24:35-36). Poi "Isacco condusse Rebecca nella tenda di Sara sua madre, la prese per moglie e l'amò; si confortò così dopo la morte di sua madre" (Ibid. 24:67).
Dopo la morte di Sara, Abramo sposa Keturà e genera con lei altri sei figli. Spiega Rashì che Keturà è Hagar, e, con questo avviene la riconciliazione con la donna che è stata ripudiata da Sara.
Secondo la tradizione cristiana, il 19 agosto si celebra la figura di Sara, moglie di Abramo.
La figura di Sara com'è descritta nel libro della Genesi rivela la sua personalità complessa: principessa di nome ma costretta a lasciare la propria casa per l'esilio; moglie del patriarca Abramo ma ritenuta sua sorella dal Faraone e Avimèlekh che l’hanno voluta come concubina a causa della sua straordinaria bellezza; la padrona di Hagar, serva egiziana giovane e fertile, mentre lei stessa una donna sterile che riuscirà a partorire solo in età avanzata. Le varie fasi della sua trasformazione vengono sottolineate nel testo ogni qualvolta cambia di nome: da Sarài, Iscà a Sara.
I primi due nomi appaiono nel testo quando “Abramo e Nachor presero moglie; la moglie di Abramo si chiamava Sarài, e Milcà quella di Nachor che era figlia di Haran padre pure di Iscà. Sarài era sterile; non aveva figli” (Genesi 11:29-30). Il grande commentatore biblico Rashì spiega: il nome Sarài significa “principessa”, “colei che amministra se stessa” (e non gli altri, quando si chiamerà Sara), mentre Iscà (dalla radice sch) significa colei che è coperta e protetta dalla Presenza divina in virtù delle sue doti profetiche, e di conseguenza, coloro che le stanno vicino godono della sua bellezza.
Ed è proprio per questa ragione che nel capitolo successivo quando, costretti a lasciare il paese per l’Egitto a causa della carestia, Abramo “Disse a sua moglie Sarài: So bene che tu sei donna di bell’aspetto; quando gli Egiziani ti vedranno, diranno: ‘Costei è sua moglie’, uccideranno me, e te lasceranno in vita. Di', dunque, che sei mia sorella.” (Genesi 12:11-13).
Nelle storie bibliche la bellezza è desiderata specialmente quando è l’espressione esteriore di un’integrità interiore, ma è anche strumento di seduzione come nel caso di Ester e Giuditta. Infatti, appena arrivati in Egitto, la notarono i notabili e la portarono dal Faraone. Ma subito dopo “Il Signore colpì il Faraone e la sua casa con grandi castighi a cagione di Sarài moglie di Abramo” (Ibid. 12:7). Il Faraone spaventato, libera subito Sarài che assieme al marito rientra nella terra di Canaan. Lo stesso evento si ripete quando Avimèlech, re di Gherar, mandò a prendere Sara, ma Dio lo avvertì nel sogno delle gravi conseguenze che tale azione avrebbe avuto sul suo regno rendendo sterile la sua famiglia, ed egli che era timoroso di Dio, la liberò immediatamente (Ibid. 20:1-18). Com'è detto dai saggi: “Chi ha timore del cielo viene ascoltato” (Berakhot 6b). Vediamo che in due casi diversi Sara fu costretta a figurare come sorella di Abramo e non come sua moglie; infatti, diventando “sorella” Sara acquista una posizione presso la corte dei re e la presenza di un “fratello” permette a lei di avere una protezione, mentre Abramo riceve in cambio un risarcimento materiale per il danno morale che gli è stato derivato.
Interessante notare che, fin quando il testo biblico menziona Sara come la “sorella” di Abramo, un termine che indica un rapporto di stretta parentela ma non di coppia, essi non sono capaci di procreare figli. Sara porta su di sé la tara della sua identità negata, rimane in fondo nella posizione di “sorella” per un determinato periodo o una donna desiderata da altri uomini, ma non moglie feconda.
Nonostante ciò Abramo e Sara sono il primo vero modello di coppia descritto nella Torà. Le loro vicende sono dettagliate, il loro rapporto si sviluppa tra alti e bassi, ma entrambi sono leali allo scopo comune che và ben oltre la relazione di coppia - si dirigono assieme verso la terra di Israele per annunciare il credo di un Dio unico e compiere l’esordio divino: “Và via (lekh lekhà) dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa paterna, al paese che t'indicherò” (Ibid.12:1). “Lekh lekhà” può essere tradotto in“Và verso te stesso”: un viaggio dai luoghi abituali alla volta di un’avventura spirituale, un rafforzamento della certezza della propria identità, che non và coperta con la menzogna. Infatti, è grazie al cammino, al continuo errare da un luogo all’altro che avviene la trasformazione che tocca la radice dell’essere. Da notare che a entrambi fu concesso di divenire padre e madre di nazioni: Abramo si occupò degli uomini e Sarài delle donne.
Malgrado la promessa divina di una prole vasta come il numero delle stelle nel cielo, che poi diventerà una grande nazione, “Sarài, moglie di Abramo, non gli aveva dato figli” (Ibid. 16:1) perciò Sarài decide di agire e dà la sua schiava Hagar, in moglie ad Abramo dicendole: “Beata te che vieni in contatto con questo corpo sacro” (Genesi Rabbà 45:3). L’unica ragione plausibile per un atto simile è la volontà di Sarài di compiere tramite Hagar la promessa divina. Questo testimonia la forza dell'agire femminile che prende iniziativa e responsabilità per cambiare il corso degli eventi, essendo la donna colei che genera e custodisce la vita, anche se a volte in modo manipolativo.
Hagar rimase subito incinta e partorì Ismaele.
Il risultato fu che la schiava trattò con disprezzo la padrona, mentre Sarài reagì diventando sempre più dura e amara esprimendo la vulnerabilità di una donna colpita nel nucleo della sua femminilità. Ora non si tratta più di una relazione tra padrona e serva, ma tra donne rivali che lottano per l’attenzione dello stesso uomo, per la loro posizione in famiglia ma soprattutto per il loro luogo nella memoria storica. Un racconto midrashico evidenzia questo: “Quando venivano le donne a fare visita a Sara, essa le mandava a osservare Hagar, la meschina. Hagar non rimaneva in debito e ribatteva: 'La mia padrona sembra una giusta, ma se lo era veramente a quest’ora doveva già partorire, come ho fatto io che sono rimasta incinta già dalla prima notte’” (Genesi Rabbà 45:4).
A questo punto, il Signore stesso interviene e sottolinea ad Abramo l’importanza della moglie; infatti, il figlio predestinato non è Ismaele, ma colui che nascerà dal grembo di Sara. Dio cambia il nome di Sarài con Sara, la benedice e annuncia la nascita di Isacco: “Sarài tua moglie non chiamarla più Sarài; il suo nome sia Sara. Io la benedirò e ti darò anche da lei un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli trarranno origine da lei. Abramo inchinò la faccia e rise; disse in cuor suo: 'A cent’anni può uno generare, e Sara a novant’anni partorire?’... e Dio disse ‘Comunque, tua moglie Sara è per partorirti un figlio; gli porrai nome Isacco... stabilirò il mio patto con Isacco che ti partorirà Sara l’anno venturo in questo tempo’” (Genesi 17:15-21). Rashì spiega, che nelle prime generazioni, uomini di 500 anni erano ancora in grado di generare, come Noè che “all’età di cinquecento anni generò Scem, Cham e Jèfeth” (Genesi 5:32). A partire dalla generazione di Noè, a causa delle vie corrotte seguite dagli uomini sulla terra, l’età possibile era calata ai sessanta o settanta anni, quindi, riuscire ad avere un figlio all’età di cento anni significava vincere le leggi della natura, un dono di Dio alle persone meritevoli.
Da questo possiamo dedurre che la longevità, in piena salute, era la vera natura dell'uomo nei tempi in cui viveva in piena armonia con la creazione e il suo Creatore. La malattia e la riduzione degli anni, sono un diretto risultato dell'infrazione di questo equilibrio tanto delicato e sottile.
L'annuncio a Sara è assai differente, tre angeli sotto le sembianze di ospiti visitano la tenda di Abramo a Mamré. "Gli domandarono: 'Dove è tua moglie Sara?' 'E' nella tenda' egli rispose. Uno di essi disse: 'Tornerò da te di qui a un anno e allora tua moglie Sara avrà un figlio.'… Sara intanto udiva alla porta… Abramo e Sara erano vecchi, avanzati in età; Sara non aveva più la regola delle donne. Essa rise dentro di sé, pensando: 'Logorata ormai sono, può tornarmi la freschezza? E, per di più, il mio signore è vecchio'" (Genesi 18:9-12).
Paragonando tra loro i due testi, vediamo che Abramo riceve la notizia dal Signore stesso, mentre Sara in modo indiretto dai messaggeri del Signore che chiedono esplicitamente di lei: essendo una donna modesta, l'annuncio viene trasmesso tramite il consorte. Interessante notare che Sara non dice "siamo vecchi", ma esalta la vecchiaia del marito come per far notare che il problema non è solo suo. Dio stesso le risponde immediatamente tramite Abramo: "Perché Sara ha riso pensando: E' proprio vero che io, così vecchia, possa partorire? C'è cosa impossibile per il Signore? Da qui a un anno tornerò da te e Sara avrà già un figlio" (Genesi 18:13-14). Notiamo che il Signore stesso non riferisce ad Abramo le stesse parole usate da Sara, così la frase: il mio signore è vecchio" diventa "Io sono vecchia". Gli interpreti spiegano che il motivo per cui Dio non ha usato esattamente le stesse parole è per non creare una lite in famiglia.
La nozione della vecchiaia appare qui per la prima volta nel testo biblico. Dall'analisi di questa storia risulta che quel che usualmente tendiamo a vedere come il tempo del declino, potrebbe essere vissuto come una promessa di nuova vita, un'età feconda di nuovi progetti, un tempo dedicato non solo a noi stessi, ma al benessere della società. L'anziano è colui che porta con sé il bagaglio di un'esperienza di vita vissuta che diventa preziosa quando viene messa a disposizione degli altri. Quando ciò accade l'anziano è il saggio, il capo, colui che dirige. Per esempio, vediamo come il cambiamento del nome da Sarài "colei che amministra se stessa" a Sara "colei che amministra gli altri", testimonia non solo il passaggio dalla sfera privata a quella collettiva, ma anche il nuovo compito che le è stato assegnato – la madre non solo di un figlio, ma la matriarca di un'intera discendenza.
La benedizione del Signore si manifesta, fatto che nonostante l'età avanzata, Sara torna a sentirsi una giovane e non solo, sfida le leggi della natura dal momento che ha la facoltà di rimanere incinta, allattare e crescere un figlio con serenità. Con questo vince la maledizione inflitta sulle donne dall'episodio di Eva, dove Dio disse: "Farò grandi le sofferenze tue e della tua gravidanza, partorirai figli con doglia e avrai desiderio di tuo marito; egli dominerà su di te" (Genesi 3:16). Non solo, Sara è colei che domina in casa, a tal punto che il Signore stesso dice ad Abramo: Dà ascolto a tutto ciò che Sara ti dice" riguardo la cacciata di Hagar (Ibid. 21:12), ma anche colei che partorisce facilmente. Infatti, spiega Rashì che dopo la nascita di Isacco, le malelingue insinuavano che Sara avesse portato in casa un orfano dal mercato, e per contraddirle, Sara decide di allattare anche i figli delle donne che le facevano visita.
Esaminando ciò che è stato detto fin'ora, notiamo che Abramo e Sara reagiscono esattamente nello stesso modo quando vengono a sapere della nascita di un figlio: con una bella risata. Abramo ride a causa della sua età e quella della sua consorte la quale, non solo era oramai vecchia, ma già nella sua giovinezza non era riuscita a partorire figli. Questo modo di comportarsi può essere interpretato in due modi diversi: da un lato, la risata può essere analoga ad un'irrisione, ma dall'altro potrebbe esprimere un'immensa gioia generata grazie alla realizzazione di un fatto ritenuto impossibile. E' scritto, infatti: "Quando il Signore ci fece tornare a Sion, ci pareva di sognare; allora la nostra bocca si riempì di risa" (Salmi 126:2). All'inizio, Sara "ride dentro di sé" e questo implica che lei si fa beffa della notizia, perché il vero riso è quello che si esprime con la bocca e con il suono; ma quando capisce che si tratta di una profezia, sceglie di negare la risata perché prova paura (Genesi 18:15). Solo quando realizza il suo luogo nel piano divino Sara disse: "Dio ma ha dato di che ridere; chi saprà il mio caso riderà… chi avrebbe detto ad Abramo che Sara allatterebbe dei figli! Che gli avrei partorito un figlio nella sua vecchiaia!" (Genesi 21:6-7).
La risata accomuna i due coniugi e forse spiega il segreto della loro buona salute, della lunga relazione di coppia che ha subito tante prove, ma che comunque le ha anche ben superate. La loro risata diventa un'espressione di fede e di gioia che sarà di eterna memoria quando Dio propone il nome Isacco, Itzchaq "colui che riderà" (dalla radice tzchq, ridere) al nascente.
Dopo che la posizione del figlio è assicurata in famiglia, Sara muore a 127 anni e viene sepolta a Chebron, dove Abramo compra la sua prima proprietà nella Terra d'Israele: la grotta di Makhpelà. Più avanti nel testo, quando il servo di Abramo cerca moglie per Isacco, esulterà la figura del padrone dicendo a Labano: "Il Signore ha molto benedetto il mio padrone… Sara moglie del mio padrone, già vecchia, gli ha partorito un figlio" (Genesi 24:35-36). Poi "Isacco condusse Rebecca nella tenda di Sara sua madre, la prese per moglie e l'amò; si confortò così dopo la morte di sua madre" (Ibid. 24:67).
Dopo la morte di Sara, Abramo sposa Keturà e genera con lei altri sei figli. Spiega Rashì che Keturà è Hagar, e, con questo avviene la riconciliazione con la donna che è stata ripudiata da Sara.
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