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sabato 3 giugno 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 3 giugno.
Il 3 giugno 1928 un radioamatore russo capta l'SOS dei superstiti della tragedia del Dirigibile Italia, al polo Nord.
Umberto Nobile è stato tra i più importanti inventori e progettisti del XX secolo. Le sue invenzioni e testi scientifici hanno dato un grandissimo contributo alla ricerca scientifica, ma dai più è ricordato per la drammatica tragedia del dirigibile "Italia" che tra il maggio e luglio del 1928 ha tenuto in apprensione milione di italiani, per la sorte di Nobile e del suo equipaggio sui ghiacci del Circolo polare artico.
Umberto Nobile nasce a Lauro (Avellino) il 21 gennaio 1885; dopo gli studi classici frequenta l'Università e la Scuola d'Ingegneria di Napoli, laureandosi nel 1908, a pieni voti e con lode, ingegnere industriale meccanico. Si specializza nello studio e costruzione dei dirigibili e nel 1923 entra nei ranghi della Regia Aeronautica nel Corpo Ingegneri con il grado di Tenente Colonnello.
Da civile aveva progettato nel 1918 il primo paracadute italiano e nel 1922 promosse con l'ingegner Gianni Caproni, la costruzione del primo aeroplano metallico italiano.
Nel 1926 su commissione dell'aeroclub di Norvegia progetta e fa costruire in Italia il dirigibile Norge, con il quale i norvegesi volevano sorvolare per primi il Polo Nord. Nobile fa parte della spedizione con il grande esploratore Roald Amundsen, già conquistatore del Polo Sud, che tentò la trasvolata con degli idrovolanti alcuni anni prima.
Il 10 aprile 1926 il Norge lascia l'aeroporto di Ciampino e dopo aver fatto scalo alla Baia del Re (Isole Svalbard), nella notte tra l'11 e il 12 maggio sorvola il Polo Nord; il viaggio si conclude due giorni dopo con l'approdo senza scalo a Telier in Alaska. La trasvolata di Nobile dimostra l'inesistenza della terra di Gillis e l'assenza di terra ferma all'interno del circolo polare artico.
In seguito al successo della spedizione sorgono polemiche per i meriti tra Amundsen e Nobile.
Al rientro in Italia Nobile è promosso Generale e dà vita ad una nuova spedizione con equipaggio e mezzi interamente italiani. Nasce così il dirigibile "Italia", che Nobile costruisce con finanziamenti privati poiché il governo fascista indirizza i fondi nella costruzione di aerei da guerra e idrovolanti.
L'obiettivo di Nobile questa volta è viaggiare su rotte inesplorate e cercare di atterrare sui ghiacci del Polo al fine di effettuare rilevazioni sul posto.
Il 15 aprile 1928 il dirigibile Italia parte dall'aerodromo milanese di Baggio e con un volo di circa 6000 km, facendo tappa a Stolp (Pomerania) e Vadsö (Norvegia), giunge nella Baia del Re il 6 maggio.
Alle 4.28 del 23 maggio 1928 l'Italia si alza in volo con sedici persone a bordo e, nonostante una violenta perturbazione, raggiunge il Polo Nord all'1.30 del 24 maggio. I forti venti (che portarono ad una bufera nelle ore successive) rendono impossibile la discesa sui ghiacci. Nobile ordina la via del ritorno e alle 10.30 del 24 maggio l'Italia perde improvvisamente quota fino a schiantarsi sul pack del Mar Glaciale Artico per cause tuttora sconosciute, a quasi 100 km dalle isole Svalbard.
Sul ghiaccio cade la cabina di pilotaggio con all'interno dieci uomini, (tra questi Nobile ferito ad una gamba) e generi vari tra cui una tenda da campo che viene tinta di rosso con l'anilina (la mitica "Tenda rossa"), e una radio (Ondina 33) che sarà l'unica ancora di salvezza per Nobile e i suoi compagni. Del resto dell'involucro del dirigibile con a bordo sei persone a tutt'oggi non se ne sa nulla. Molto probabilmente si è inabissato nelle acque del Mare di Barents.
Per giorni i deboli segnali di SOS mandati dal radiotelegrafista Biagi non sono captati dalla nave appoggio "Città di Milano", fino a quando il 3 giugno un giovane radioamatore russo nella città di Arcangelo riceve l'SOS riaccendendo le speranze dei superstiti (che ascoltano le trasmissioni italiane) e del governo italiano.
Prende dunque il via una gigantesca operazione di soccorso che coinvolge uomini e mezzi di molte nazioni e che costerà la vita a diversi soccorritori tra cui lo stesso Roald Amundsen.
Il 19 giugno il Tenente Colonnello Umberto Maddalena, a bordo di un idrovolante SM55, riesce a localizzare la "tenda rossa" ma senza poter atterrare. Il 24 giugno l'aviere svedese Einar Lundborg riesce ad atterrare con il suo Fokker nei pressi della "tenda rossa". Nobile avrebbe voluto che fosse portato via per primo il capo meccanico Natale Cecioni, anche lui ferito seriamente ad una gamba. Lundborg é irremovibile adducendo ordini superiori che gli imponevano di prelevare per primo Umberto Nobile che avrebbe così potuto meglio coordinare le operazioni di soccorso.
Dopo aver portato in salvo Nobile e la cagnetta Titina, Lundborg torna indietro ma nell'atterraggio il suo aereo si ribalta e il pilota svedese resta anch'egli prigioniero dei ghiacci; verrà poi salvato da una successiva spedizione.
Gli svedesi non organizzano altri voli e tutte le speranze sono affidate al rompighiaccio russo "Krassin", che prima trae in salvo gli ufficiali Mariano e Zappi, fuoriusciti dalla tenda insieme al meteorologo svedese Malmgren (morto durante il tragitto) alla ricerca di soccorsi a piedi, e raggiunge la "tenda rossa" il 12 luglio dopo quarantotto giorni di sopravvivenza sui ghiacci.
Al ritorno in Italia una commissione di inchiesta condanna Nobile per aver abbandonato per primo la "tenda rossa". Per protesta nel 1929 il "Generale" lascia l'Aeronautica e presta le sue conoscenze nell'Urss, Stati Uniti e Spagna.
Nel 1945 Nobile torna in Italia ed è eletto come indipendente all'interno dell'Assemblea Costituente. Una nuova commissione militare scagiona Nobile e gli restituisce il grado e il prestigio che merita.
Chiude la parentesi politica nel 1948 per dedicarsi solo agli insegnamenti di aerodinamica presso l'Università di Napoli.
Per il resto dei suoi giorni sarà comunque costretto a difendersi dalla accuse di coloro che giudicarono egoistico il suo comportamento nei tragici momenti della "tenda rossa".
Scrive vari libri in cui racconta la sua versione dei fatti ma non bastano a convincere l'intera opinione pubblica ed anche una certa parte di specialisti e militari.
Umberto Nobile muore a Roma il 30 luglio 1978.
Solo molto anni dopo si arriverà ad una opinione condivisa circa la buona fede di Nobile, valoroso e audace aeronauta ed esploratore italiano.

venerdì 2 giugno 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 2 giugno.
Il 2 giugno 1743 nasce Giuseppe Giovanni Battista Vincenzo Pietro Antonio Matteo Balsamo, noto ai più come Cagliostro.
Innumerevoli biografie hanno cercato di fare chiarezza sul misterioso avventuriero che caratterizzò il secolo dei Lumi: taumaturgo, "amico dell'Umanità", cultore e divulgatore delle scienze esoteriche oppure scaltro imbonitore, comune ciarlatano? Il quesito, finora, non ha avuto risposta certa: il mistero che da sempre avvolge le molteplici attività svolte da Cagliostro contribuisce a tenere vivo l'interesse su di lui.
Giuseppe Balsamo nacque a Palermo il 2 giugno 1743, dal mercante Pietro Balsamo e da Felicita Bracconieri. A causa delle modeste condizioni economiche, alla morte del padre fu affidato al seminario di S. Rocco a Palermo.
Nel 1756 entrò come novizio presso il convento dei Fatebenefratelli di Caltagirone per essere affiancato al frate speziale, dal quale apprese i primi rudimenti di farmacologia e chimica. Nel 1768 sposò a Roma Lorenza Feliciani, avvenente e giovanissima fanciulla dell' età di quattordici anni. Fino al momento del matrimonio non si hanno altre notizie documentate: è presumibile che abbia vissuto di espedienti durante la gioventù. D'altra parte, lo stesso Cagliostro dichiarò pubblicamente di provenire da paesi sconosciuti, di aver trascorso gli anni dell'infanzia alla Mecca e di aver conosciuto gli antichi misteri dei sacerdoti egizi attraverso gli insegnamenti del sapiente Altotas. Sarà monsignor Giuseppe Barberi, fiscale generale del Sant'Uffizio, che nel suo Compendio sulla vita e sulle gesta di Giuseppe Balsamo, redatto nel 1791, smentirà queste dichiarazioni divenendo uno dei suoi più accaniti detrattori. Secondo il Barberi, Cagliostro avrebbe esercitato truffe e mistificazioni anche a Barcellona, Madrid e Lisbona con l'aiuto della maliarda Lorenza, che irretiva uomini facoltosi con arti sottili che andavano dall'avvenenza fisica alla promessa di miracolose guarigioni grazie a polveri e a formule magiche.
Risale al 1771 il primo viaggio a Londra della giovane coppia: sembra che là il Balsamo sia finito in prigione per debiti e, per restituire le somme dovute, fu costretto a lavorare come decoratore. Nel 1772 a Parigi, Lorenza si invaghì dell'avvocato Duplessis e, a causa di questa relazione, fu rinchiusa nel carcere di Santa Pelagia, la prigione delle donne di malaffare. La riconciliazione non tardò ad avvenire e i coniugi, dopo varie peregrinazioni in Belgio e in Germania, rientrarono a Palermo e poi a Napoli. Nello stesso anno, il Balsamo si recò a Marsiglia e si cimentò nelle vesti di taumaturgo: sembra che, dietro lauto compenso, fece credere ad un innamorato di poter riacquistare il vigore fisico mediante l'attuazione di alcuni riti magici. Scoperto l'imbroglio, fu costretto a fuggire e a cercare riparo in Spagna, a Venezia, quindi ad Alicante per terminare la fuga a Cadice.
Ritornò a Londra nel 1776, presentandosi come conte Alessandro di Cagliostro, dopo aver fatto uso di nomi altisonanti accompagnati da fantasiosi titoli quali conte d'Harat, marchese Pellegrini, principe di Santa Croce: durante questo soggiorno, insieme alla moglie, divenuta nel frattempo la celestiale Serafina, viene ammesso alla loggia massonica "La Speranza". Da questo momento la vicenda di Cagliostro può essere ricostruita sulla base di documenti ufficiali e non su libelli diffamatori fatti circolare dai nemici più acerrimi. La massoneria gli offrì ottime opportunità per soddisfare ogni ambizione sopita. Grazie alle vie da essa indicate e alle cognizioni acquisite, egli poté riscuotere successi appaganti moralmente ed economicamente che lo portarono, dal 1777 al 1780, ad attraversare l'Europa centro-settentrionale, dall'Aia a Berlino, dalla Curlandia a Pietroburgo e alla Polonia. Il nuovo rito egiziano di cui Cagliostro era Gran Cofto, aveva affascinato nobili ed intellettuali con le sue iniziazioni e pratiche rituali che prevedevano la rigenerazione del corpo e dell'anima. Grande risalto ebbe, inoltre, la figura di Serafina, presidentessa di una loggia che ammetteva anche le donne, con il titolo di regina di Saba. Alla corte di Varsavia, nel maggio del 1780, ricevette un'accoglienza trionfale tributata dal sovrano in persona: la sua fama di alchimista e guaritore aveva raggiunto le vette più alte!
Considerevole diffusione ebbero in quegli anni l'elixir di lunga vita, il vino egiziano e le cosiddette polveri rinfrescanti con i quali Cagliostro compì alcune portentose guarigioni curando, spesso senza alcun compenso, i numerosi ammalati che, nel 1781, gremivano la residenza di Strasburgo. Il comportamento filantropico, la conoscenza di alcuni elementi del magnetismo animale e dei segreti alchemici, la capacità di infondere fiducia e, al tempo stesso, di turbare l'interlocutore, penetrarlo con la profondità dello sguardo, da tutti ritenuto quasi soprannaturale: queste le componenti che contribuirono a rafforzare il fascino personale e l'alone di leggenda e di mistero che accompagnarono Cagliostro fin dalle prime apparizioni.
Poliedrico e versatile, conquistò la stima e l'ammirazione del filosofo Lavater e del gran elemosiniere del re di Francia, il cardinale di Rohan, entrambi in quegli anni a Strasburgo. Tuttavia, Cagliostro raggiunse l'apice del successo a Lione, dove giunse dopo una breve sosta a Napoli e dopo aver risieduto più di un anno a Bordeaux con sua moglie. A Lione, infatti, egli consolidò il rito egiziano, istituendo la "madre loggia", la Sagesse triomphante, per la quale ottenne una fiabesca sede e la partecipazione di importanti personalità. Quasi nello stesso momento giunse l'invito al convegno dei Philalèthes, la prestigiosa società che intendeva appurare le antiche origini della massoneria.
A Cagliostro non restava che dedicarsi anima e corpo a questo nuovo incarico, parallelamente alla sua attività taumaturgica ed esoterica, ma il coinvolgimento nell'affaire du collier de la reine lo rese protagonista suo malgrado, insieme a Rohan e alla contessa Jeanne Valois de la Motte, del più celebre ed intricato scandalo dell'epoca, il complotto che diffamò la regina Maria Antonietta e aprì la strada alla rivoluzione francese. Colpevole solo di essere amico di Rohan e di aver consigliato di rivelare la truffa al sovrano, Cagliostro, accusato dalla de la Motte, artefice di ogni inganno, fu arrestato e rinchiuso con sua moglie nella Bastiglia, in attesa del processo. Durante la detenzione, ebbe modo di constatare quanto grande fosse la popolarità raggiunta: furono organizzate manifestazioni di solidarietà e, il giorno della scarcerazione, fu accompagnato a casa dalla folla acclamante.
Nonostante il Parlamento di Parigi avesse appurato l'estraneità di Cagliostro e di sua moglie alla vicenda, i monarchi ne decretarono l'esilio: la notizia giunse a pochi giorni dalla liberazione, costringendo il "Gran Cofto" a riparare frettolosamente a Londra. Da qui scrisse al popolo francese, colpendo il sistema giudiziario e preannunciando profeticamente la caduta del trono capetingio e l'avvento di un regime moderato. Il governo francese si difese opponendo gli scritti di un libellista francese Théveneau de Morande che, stabilita la vera identità di Cagliostro e di Serafina, raccontò sulle gazzette le peripezie e i raggiri dei precedenti soggiorni londinesi, al punto che l'avventuriero decise di chiedere l'ospitalità del banchiere Sarrasin e di Lavater in Svizzera. Rimasta a Londra, Serafina fu persuasa a rilasciare compromettenti dichiarazioni sul marito che la richiamò in Svizzera in tempo per farle ritrattare tutte accuse.
Tra il 1786 e il 1788 la coppia cercò di risollevare le proprie sorti compiendo vari viaggi: Aix in Savoia, Torino, Genova, Rovereto. In queste città Cagliostro continuò a svolgere l'attività di taumaturgo e ad istaurare logge massoniche. Giunto a Trento nel 1788, fu accolto con benevolenza dal vescovo Pietro Virgilio Thun che lo aiutò ad ottenere i visti necessari per rientrare a Roma: pur di assecondare i desideri di Serafina, era disposto a stabilirsi in una città ostile agli esponenti della massoneria, considerati faziosi e reazionari. Cagliostro, poi, preannunziando la presa della Bastiglia, carcere simbolo dell'assolutismo monarchico, e la fine dei sovrani di Francia, destava particolare preoccupazione, alimentata anche dalla sua intraprendenza negli ambienti massonici. Non trovando terreno fertile nei liberi muratori, che oramai guardavano a lui solo come ad un volgare lestofante, Cagliostro tentò di costituire anche a Roma una loggia di rito egiziano, invitando il 16 settembre 1789 a Villa Malta prelati e patrizi romani. Le adesioni furono soltanto due: quella del marchese Vivaldi e quella del frate cappuccino Francesco Giuseppe da San Maurizio, che fu nominato segretario. L'iniziativa, pur non conseguendo l'esito sperato, fu interpretata come una vera e propria sfida dalla Chiesa che, attraverso il Sant'Uffizio, sorvegliò con maggior zelo le mosse dello sprovveduto avventuriero.
Il pretesto per procedere contro Cagliostro fu offerto proprio da Lorenza che, consigliata dai parenti, aveva rivolto al marito accuse molto gravi durante la confessione: era stata indotta a denunciarlo come eretico e massone. Cagliostro sapeva bene di non potersi fidare della moglie, che in più di un'occasione aveva dimostrato scarso attaccamento al tetto coniugale, e per questo sperava di poter rientrare in Francia, essendo caduta la monarchia che lo aveva perseguitato. A tal fine scrisse un memoriale diretto all'Assemblea nazionale francese, dando la massima disponibilità al nuovo governo. La relazione venne intercettata dal Sant'Uffizio che redasse un dettagliato rapporto sull'attività politica ed antireligiosa del "Gran Cofto": papa Pio VI, il 27 dicembre 1789, decretò l'arresto di Cagliostro, della moglie Lorenza e del frate cappuccino.
Ristretto nelle carceri di Castel Sant'Angelo sotto stretta sorveglianza, Cagliostro attese per alcuni mesi l'inizio del processo. Al consiglio giudicante, presieduto dal Segretario di Stato cardinale Zelada, egli apparve colpevole di eresia , massoneria ed attività sediziose. Il 7 aprile 1790 fu emessa la condanna a morte e fu indetta, nella pubblica piazza, la distruzione dei manoscritti e degli strumenti massonici. In seguito alla pubblica rinuncia ai principi della dottrina professata, Cagliostro ottenne la grazia: la condanna a morte venne commutata dal pontefice nel carcere a vita, da scontare nelle tetre prigioni dell'inaccessibile fortezza di San Leo, allora considerato carcere di massima sicurezza dello Stato Pontificio. Lorenza fu assolta, ma venne rinchiusa, quale misura disciplinare, nel convento di Sant'Apollonia in Trastevere dove terminò i suoi giorni. Del lungo periodo di reclusione, iniziato il 21 aprile 1791 e durato più di quattro anni, rimane testimonianza nell'Archivio di Stato di Pesaro, ove sono tuttora conservati gli atti riguardanti l'esecuzione penale ed il trattamento, improntato a principi umanitari, riservato al detenuto.
In attesa di segregare adeguatamente il prigioniero, egli fu alloggiato nella cella del Tesoro, la più sicura ma anche la più tetra ed umida dell'intera fortezza.
In seguito ad alcune voci sull'organizzazione di una fuga da parte di alcuni sostenitori di Cagliostro, nonostante fossero state prese tutte le misure necessarie per scongiurare qualunque tentativo di evasione, il conte Semproni, responsabile in prima persona del prigioniero, decise il suo trasferimento nella cella del Pozzetto, ritenuta ancor più sicura e forte di quella detta del Tesoro.
Il 26 agosto 1795 il famoso avventuriero, oramai gravemente ammalato, si spense a causa di un colpo apoplettico. La leggenda che aveva accompagnato la sua fascinosa vita si impossessò anche della morte: dai poco attendibili racconti sulla sua presunta scomparsa giunti fino ai giorni nostri, è possibile intravedere il tentativo, peraltro riuscito, di rendere immortale, se non il corpo, almeno le maliarde gesta di questo attraente personaggio.

giovedì 1 giugno 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il primo giugno.
Il primo giugno 1307 Fra Dolcino muore sul rogo, accusato di eresia dall'Inquisizione.
Tutto era cominciato con il Concilio di Lione (1274), che ereticizzava il dissenso, introduceva l’Inquisizione, imponeva una teologia di carattere teocratico che non poteva che scontrarsi con altre ed opposte istanze pure presenti da gran tempo tra il “popolo di Dio” e nella stessa Chiesa gerarchica.
La frattura prodotta da questo Concilio fu di portata storica: basti pensare che esso pose le basi per una successiva identificazione tra “eresia” e “magia - stregoneria”, dei cui frutti avvelenati patirà l’intera Europa con roghi isolati, dapprima, e con la caccia a streghe e stregoni poi e per lungo tempo (XV-XVII secolo).
Dolcino fu dapprima seguace e poi erede spirituale di Gherardino Segalello da Parma, passato alla storia per la penna non propriamente a lui favorevole di Salimbene de Adam. Gherardino aveva dato vita agli Apostolici, un movimento di penitenza e di ritorno alle origini dell’uguaglianza cristiana e della più stretta povertà francescana.
Mal gliene incolse, perché, dopo il carcere duro e la successiva condanna a quello perpetuo, fu mandato a morte il 18 luglio del 1300, e a nulla gli valse la protezione del vescovo di Parma, Obizzo Sanvitali, che aveva cercato di proteggerlo ricorrendo all’espediente di farlo passare per “ydiota”, come potevano suggerire i comportamenti giullareschi di Gherardino, in tutto imitatore di Francesco, il secondo Cristo.
Dolcino Torielli (o Tornielli) nacque, intorno al 1250/1260, probabilmente a Prato Sesia (Novara) e si dice fosse il figlio illegittimo di un prete spretato. Crebbe a Vercelli educato dal maestro Sion. In gioventù fu probabilmente un francescano o perlomeno compì degli studi regolari, perché mostrò sempre una certa cultura e una buona conoscenza del latino e delle Sacre Scritture.
Nel 1290 entrò nel movimento degli apostolici di Gherardo Segarelli, ma per diversi anni non si fece particolarmente notare.
Il cambiamento avvenne nel 1300 dopo la morte sul rogo del Segarelli: la repressione da parte della Chiesa cattolica fu molto brutale e lo stesso Dolcino riparò per qualche tempo in Dalmazia. Da qui scrisse la prima delle sue lettere a tutti i seguaci del movimento, presentando la sua idea sullo sviluppo delle ere della Storia rielaborando le ben note teorie di Gioacchino da Fiore. Il concetto e semplice ed interessante: la setta degli Apostolici è totalmente spirituale, non vi sono vincoli esteriori. E' uno strumento di Dio per salvare le anime. I "cattivi" per Dolcino sono i preti ed i frati francescani e domenicani. Nell'interminabile lettera scritta da Dolcino si afferma che il quarto ed ultimo Stato della Chiesa è stato annunciato da segni inequivocabili. Tutti i religiosi (frati ed ecclesiastici) verranno sterminati da Federico d'Aragona, re di Sicilia; Bonifacio VIII sarà assassinato ed al suo posto andrà un Papa eletto da Dio ed allora tornerà la pace tra i Cristiani. Sempre all'interno della lettera sono elencati i sette angeli dell'Apocalisse (L'angelo di Efaso fu S. Benedetto; L'angelo di Pergamo fu S. Silvestro; L'angelo di Sardi fu S. Francesco; L'angelo di Laodicea fu S. Domenico, che aveva fondato l'ordine antieretico dei Domenicani; L'angelo di Smirne fu Gerardo; L'angelo di Tiatira fu Fra Dolcino; L'angelo di Filadelfia sarebbe stato un Papa successore di Bonifacio VIII).
Ben presto Dolcino fu nominato capo del movimento degli apostolici e nei primi mesi del 1303, egli trasferì il movimento sulle montagne del Trentino, vicino ad Arco sul Lago di Garda, dove conobbe Margherita di Trento, figlia della contessa Oderica di Arco ed educanda in un convento. La fanciulla sarebbe diventata la futura compagna di Dolcino, nella vita e nella morte.
La rigorosa coerenza nell'essere sempre aderente con l'azione da lui predicata, in tempi in cui questo esercizio - stando a quanto racconta la storia - era disatteso in primis proprio dai grandi prelati, fece sì che il seguito che raccolse durante l'incessante peregrinare in alta Italia (ben presto tramutatosi in vera e propria fuga dalle autorità) aumentasse giorno dopo giorno.
Come sempre avveniva in casi simili, molti - avvinti dalla sincerità e coerenza del predicatore di passaggio - decidevano di seguirlo, finendo anche per vendere ciò che possedevano per versare il ricavato nelle casse del trascinatore.
Perseguitato dalla Chiesa corrotta trovò sostegno e rifugio in svariati luoghi dell'Italia settentrionale, dove continuò a predicare le sue convinzioni. Gli inquisitori avevano ormai istituito numerosi processi contro Dolcino ed i suoi seguaci.
Dolcino non dovette scappare da Vercelli per via dei furti come viene spesso scritto, ma per ragioni politiche. L'instaurazione guelfa aveva appunto fatto scappare le famiglie ghibelline. Da Arco, Dolcino scrisse la seconda delle sue lettere agli apostolici dove pubblicò anche il numero di seguaci in Italia, oltre quattromila fratelli e sorelle, con i nomi degli esponenti di maggior rilievo. Ribadiva la sua profezia di sterminio di preti e monaci ad opera di Federico re di Sicilia e che nel 1305 avrebbe ottenuto giustizia e pace tra i Cristiani. Purtroppo però il suo gruppo era ormai alle strette. Dolcino pensò così di trovare rifugio tra le montagne dove trascorse la sua giovinezza. Pensava di potersi difendere, attendendo che le sue profezie si fossero avverate.
Tuttavia poiché la lunga mano dell'Inquisizione era giunta fino in Trentino con il rogo di tre apostolici, Dolcino decise nel 1304, per organizzare meglio la resistenza, di guidare i suoi seguaci (ben tremila persone) con una epica marcia attraverso le montagne lombarde fino in Val Sesia, la sua terra natia. Si dice che il nome di Campodolcino, un paese vicino a Chiavenna, sia una diretta testimonianza di questo esodo di massa dei dolciniani.
In Val Sesia i dolciniani si insediarono dapprima nella parte bassa della valle tra Gattinara e Serravalle, in località Piano di Cordova, nel feudo dei conti di Biandrate, e grazie all'apporto di servi fuggiaschi dei vescovi di Novara e di Vercelli, arrivarono ad essere una schiera di circa 4.000 persone. Si unirono anche diversi letterati provenienti da varie parti d'Italia (Bologna, Toscana e Umbria), come Bentivegna da Gubbio. Nei suoi spostamenti Dolcino continuò la sua predicazione ed aggregava persone al suo movimento. La sua grande abilità consisteva nell'essere efficace e convincente, sebbene dovesse agire di nascosto. Riuscì infatti a corrompere il rettore della chiesa di Serravalle.
Successivamente sotto l'incalzare delle truppe dei vescovi di Novara e Vercelli, essi si spinsero più in su nella valle, nei possedimenti di un ricco valligiano, di nome Milano Sola, di Campertogno, un paese pochi chilometri prima di Alagna. Da lì, per difendersi meglio dapprima si trasferirono sulle pendici della Cima Balme ed infine in Val Rassa, vicino a Quare, su una montagna denominata Parete Calva, dove i superstiti (circa 1.500 persone) si asserragliarono per tutto l'inverno del 1304. Da qui scendevano per saccheggiare e rubare nei villaggi sottostanti.
Ogni azione malvagia compiuta dai dolciniani in questo periodo fu giustificata da Dolcino. Egli riteneva che essi fossero talmente perfetti da poter commettere qualsiasi atto contro i fedeli a Santa Romana Chiesa senza correre il rischio di peccare, secondo il detto di San Paolo: Tutto è puro per i puri (Lettera a Tito 1,15) ed in questo essi assomigliarono molto ai Fratelli del Libero Spirito.
Ma nel rigido inverno del 1305 la morsa dell'assedio delle truppe cattoliche e dei valligiani fu talmente incisiva che Margherita di Trento, con inaspettato coraggio, decise lei stessa di guidare il gruppo in una disperata azione di sgancio dall'assedio attraverso montagne e passi innevati fino alla loro nuova roccaforte, il monte Rubello (oggi San Bernardo), vicino a Trivero, in provincia di Vercelli, dove giunsero nel Marzo 1306. Ranieri Avogadro di Pezzana, vescovo di Vercelli, nonché signore di Biella, organizzò le prime difese.
Nel frattempo, nello stesso 1306, volendo definitivamente farla finita con questa setta, il Papa Clemente V (1305-1314) aveva bandito una crociata, cui avevano aderito gli Inquisitori di Lombardia, l'arcivescovo di Milano, e Ludovico di Savoia. Addirittura furono reclutati uomini persino a Genova da inviare contro Dolcino.
Le bolle papali, emesse da Bordeaux, da papa Clemente V, il 26 agosto del 1306 fecero accorrere ancora più gente in difesa della Chiesa Romana. Veniva raccontato che gli uomini di Dolcino fossero spietati criminali, che razziassero, uccidessero, mutilassero ed incendiassero ogni cosa che trovavano sul loro cammino. Chiunque indossi la veste con croce e si appresti a partire verso le valli del Novarese e Vercellese per combattere l'eresia dolciniana - questo il senso della disposizione delle autorità ecclesiastiche - avrà rimessa la totalità dei peccati.
I dolciniani, completamente circondati e posti d'assedio dalle truppe cattoliche, resistettero per circa un anno. Con una resistenza disperata gli uomini di Dolcino riuscirono a respingere l'esercito, facendo anche diversi prigionieri, tenuti per il riscatto, ma poi, oramai ridotti in condizioni disumane (mangiavano carne di topi e di cani e ci furono perfino episodi di cannibalismo), dopo un ultimo assalto, costato la morte a 800 dolciniani, si arresero alfine nel 1307.  La battaglia ebbe luogo il 23 Marzo (giovedì santo), l'esercito cristiano fece 140 prigionieri, trovando sulle montagne oltre 400 morti, dalla fame e dal freddo.
Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo di Bergamo, luogotenente di Dolcino, vennero catturati vivi e il 25 marzo furono portati al castello di Biella, dove Longino e Margherita furono arsi sul rogo il 1° Giugno 1307, nonostante i tentativi di alcuni nobili locali di salvare la vita della donna, facendola abiurare. Longino fu arso vivo sulle rive del Torrente Cervo. Dolcino fu costretto ad assistere al rogo della sua compagna (Darà - come dice un cronista anonimo del tempo - continuo conforto alla sua donna in modo dolcissimo e tenero") e successivamente portato a Vercelli per essere, a sua volta, arso (1° giugno del 1307). A sentenza emessa e prima che fosse giustiziato, Dolcino su sottoposto ad una sorta di tortura: incatenato su un carro tirato da due lenti buoi farà un interminabile percorso per le vie cittadine mentre due aguzzini con tenaglie arroventate strapperanno, di tanto in tanto, parti del suo corpo. Il cronista anonimo - che assistette alla scena - scrisse che "mai un solo lamento uscì dalla bocca del frate, e solo quando gli fu strappato il pene si sentì un verso rauco come di animale ferito". Quindi Dolcino fu issato sul rogo e arso vivo. Nonostante questa atroce tortura, Dolcino non si lamentò mai, eccetto quando si strinse nelle spalle all'amputazione del naso o quando sospirò profondamente al momento dell'evirazione. Nessuno di loro rinnegò le proprie dottrine, nemmeno durante le precedenti torture ed il rogo.
Uno tra i più crudeli inquisitori della storia della Chiesa, Bernardo Gui, disse:
"Dolcino radunò nella sua setta ereticale molte migliaia di persone di entrambi i sessi, da ogni dove, soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana e nelle altre regioni vicine, e a loro trasmise una dottrina pestifera e predisse molti avvenimenti futuri con spirito, non tanto profetico quanto fanatico ed insensato, affermando e fingendo di avere da Dio delle rivelazioni e uno spirito profetico. Ma in tutte queste cose fu trovato falso, ingannatore ed illuso, insieme con Margherita, sua malefica ed eretica compagna nei delitti e nell'errore..." (Bernardo Gui, De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum).
La tragica vicenda di Dolcino suscitò l'interesse di diversi letterati nel corso dei secoli come Nietzsche che ha esaltato la figura di Dolcino come quella di un prototipo ideale del super-uomo, così come egli lo immaginava:
    "Dolce e spietato, al di sopra di ogni miserabile morale, praticamente l'individuo che può porsi al di là del bene e del male".
e Dante Alighieri, che lo descrisse nell'Inferno nel canto XXVIII ai versi 55-60
Siamo tra gli scismatici e seminatori di discordie e parla a Dante nientemeno che Maometto:
Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,
Tu che forse vedrai lo sole in breve,
S’egli non vuol qui tosto seguitarmi,
Sì di vivanda, che stretta di neve
Non rechi la vittoria al Noarese,
Ch’altrimenti acquistar non saria a lieve.
Nel 1907 sul luogo della sua ultima resistenza fu eretto un obelisco commemorativo, che fu abbattuto a cannonate durante il fascismo per essere poi ricostruito negli anni '60.
Come si diceva, Dolcino si ispirò alle dottrine millenariste di Gioacchino da Fiore. Secondo Dolcino, la storia dell'umanità era contraddistinta da quattro periodi:
- Quello del Vecchio Testamento, caratterizzato dalla moltiplicazione del genere umano,
- Quello di Gesù Cristo e degli Apostoli, caratterizzato dalla castità e povertà,
- Quello iniziato al tempo dell'imperatore Costantino e di Papa Silvestro I, caratterizzato da una decadenza della Chiesa a causa dell'accumulo delle ricchezze e dell'ambizione,
- Quello degli apostolici Segalelli e Dolcino, caratterizzato dal modo di vivere apostolico, dalla povertà, dalla castità e dall'assenza di forme di governo ed esso sarebbe durato fino alla fine dei tempi.
Inoltre, nelle sue lettere, egli fece ampio accenno all'Apocalisse di Giovanni e in particolare ai sette angeli delle sette chiese, precursori della propria setta. Egli infatti attendeva il settimo angelo, cioè di un papa, finalmente eletto da Dio e non dai cardinali: questi ultimi sarebbero stati distrutti, assieme a Papa Bonifacio VIII (1294-1303), da Federico III d'Aragona e di Sicilia (1296-1337), re nel quale erano state riposte le speranze dei ghibellini italiani.
Nonostante le profezie di Dolcino su Federico III non si avverassero, Dolcino rimase sempre un riferimento per i suoi seguaci ai quali aveva predetto che, sotto questo nuovo papa, gli apostolici avrebbero potuto ricevere la grazia dello Spirito Santo e predicare e vivere in pace fine alla fine dei tempi.
La vicenda degli Apostolici si inscrive nella grande crisi della cristianità tra XIII e XIV secolo, ben rappresentata dalla disputa interna all'ordine francescano tra conventuali e spirituali. Da un lato i fautori di una canonizzazione e di un'equiparazione agli altri ordini monastici, dall'altro i partigiani dell'adesione letterale al messaggio e all'esempio di Francesco, che rifiutavano proprietà, beni, inserimento nella gerarchia e nel "sistema" Chiesa. Un conflitto che si trascinerà per oltre un secolo a suon d'inquisizioni, e da cui a loro volta si diramano altri conflitti e movimenti.
Tra questi, gli Apostolici di Gerardo Segarelli prima e di Dolcino poi predicavano e praticavano una separazione totale dalla Chiesa romana, vista come un'istituzione corrotta e putrescente, destinata ad essere abbattuta da un nuovo potere statale, un nuovo Imperatore, che avrebbe finalmente strappato la sposa di Cristo al suo declino, privandola delle proprietà e del potere secolare. In questo modo essa sarebbe tornata a essere santa, a occuparsi dello spirito. Posizione questa, condivisa da molti intellettuali dell'epoca, tra cui Dante Alighieri, solo per citarne uno.
Così, con più di duecento anni d'anticipo su Martin Lutero, gli Apostolici proclamarono il sacerdozio universale, ovvero la necessità che il cristiano dovesse vivere direttamente il rapporto con Dio, senza bisogno di una struttura ecclesiastica che pascolasse il suo gregge.
Dolcino e i suoi scelsero di praticare già questa nuova dimensione, di tagliare i ponti con la Chiesa e di vivere liberi e sciolti da ogni vincolo. Saldarono il loro credo con le istanze delle popolazioni povere delle valli alpine e alla lotta di quest'ultime contro i grandi feudatari ecclesiastici e i loro interessi. Diedero vita a un piccolo modello di società comunistica e – come avrebbe scritto Calvino due secoli più tardi riferendosi ad altri eretici – "libertina". Basti pensare al ruolo fondamentale che ebbero le emancipate figure femminili all'interno delle comunità apostoliche, prima fra tutte Margherita da Trento, la compagna di Dolcino. Ma anche al ruolo strategico che gli "eretici" svolsero nell'organizzare la resistenza montana contro le rappresaglie dei nobili. Non violenti per vocazione, i dolciniani scelsero di autodifendersi, quando il papa bandì la crociata contro di loro. Fino alle estreme conseguenze.
Il sacerdozio universale, l'idea di una Chiesa costruita dal basso, un certo "comunismo" cristiano, sono ad esempio capisaldi della Teologia della Liberazione che ancora oggi ha una parte politica assai importante in molte zone del mondo. Così l'idea di una fraternitas universale, posta dal cristianesimo e a cui tanti eretici si rifacevano, si ritrova sui vessilli della Rivoluzione francese in veste laica e resta ancora oggi uno dei parti migliori della cultura occidentale. Allo stesso modo l'idea di un ambito religioso separato da quello politico-istituzionale, una Chiesa che abbandona il potere secolare, si è potuta affermare tardi e anche in questo caso a prezzi altissimi, ma rimane più che mai epicentro della nostra peculiarità culturale.
Non solo. Oggi il sistema economico che l'Occidente ha esteso al mondo intero vive una crisi epocale. In questo passaggio, i movimenti di contestazione e rinnovamento che aspirano a un altro mondo possibile sono spesso propensi a ricercare altrove, in spazi geopolitici lontani dal nostro, elementi di una sensibilità diversa, che immetta sangue e idee nuove nel modo tradizionale, stantio, che abbiamo di rapportarci alla politica. In tempi di globalizzazione questo non solo è assolutamente giustificato, ma anche giusto. Tuttavia dovremmo essere capaci di guardare alla nostra storia e leggere i germi di quelle alternative di pensiero, se non ancora pratiche, che ci hanno preceduto suggerendo altri percorsi. Questo senza bisogno di mancare a una doverosa storicizzazione e contestualizzazione delle esperienze passate. Quando ancora certe forme dello sfruttamento e dell'alienazione non erano che in potenza, qualcuno aveva immaginato un mondo diverso. Altri rapporti sociali, altre concezioni della vita associata, un altro destino per l'umanità.

mercoledì 31 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 maggio.
Il 31 maggio 1916, nell'ambito della prima guerra mondiale, si ebbe la battaglia navale dello Jutland.
La Prima Guerra Mondiale ridusse in maniera netta l'importanza delle Marine militari europee. Ciò valse soprattutto per la Royal Navy britannica. Questa venne tuttavia impegnata con successo, nel Blocco totale di ogni via commerciale verso Germania e Austria-Ungheria.
Dopo il 1900, la Germania diede il via alla creazione di una Flotta d'alto mare, iniziando a minacciare direttamente l’egemonia navale britannica. Fino ad allora il Kaiser aveva posseduto poco più di una forza di difesa costiera, ma all'inizio del XX secolo cominciò anche progettare corazzate simili a quelle della Royal Navy. Nel frattempo aveva costruito alcuni incrociatori, potenzialmente anche in grado di minacciare le navi mercantili avversarie.
L'artefice dell’espansione navale tedesca fu l'ammiraglio Alfred von Tirpitz, il cui chiodo fisso era la costruzione delle corazzate (le famose “Dreadnought” inventate dagli inglesi). La sua filosofia navale era stata definita “la teoria del rischio”, costituire cioè una minaccia per la Royal Navy grazie a una forza di corazzate che, pur non esattamente in grado di sconfiggerla, ne avrebbe limitato il potere, minacciandola con il pericolo di rovinosi attacchi di sorpresa. Guglielmo II, per quanto fosse per metà inglese e ammiraglio onorario della Royal Navy, abbracciò completamente la teoria del rischio di Tirpitz. Il suo pensiero strategico si formò sulla base dell'amore-odio per la supremazia mondiale britannica. Il Kaiser desiderava anche fondare un impero oltremare sul modello britannico, il che richiedeva la creazione di una flotta di incrociatori per il servizio all'estero. Inizialmente Tirpitz si dimostrò favorevole alla costruzione degli incrociatori, ma dopo l'approvazione della legge navale nel 1900 osteggiò il progetto. A quel punto, però, le mire imperiali tedesche erano ormai inarrestabili. Tirpitz, il creatore della marina tedesca, si era opposto alle spese per gli incrociatori. Nel suo rapporto del giugno 1897, sul quale si basava il programma navale imperiale tedesco, scrisse che “le incursioni contro le navi mercantili e la guerra transatlantica contro l'Inghilterra hanno così poche speranze, data la nostra carenza di basi e l'abbondanza di quelle inglesi, che dobbiamo ignorare questo tipo di guerra”. In seguito avrebbe rivisto tale posizione, ma essa intanto determinò la composizione e lo schieramento della flotta tedesca nel 1914, con grande vantaggio della Gran Bretagna.
La Kriegsmarine tedesca, la seconda flotta più forte del mondo (dopo quella britannica), poteva vantare una sostanziale parità nei confronti degli avversari. La Germania poteva quindi tentare di rompere l'isolamento forzato, con buone probabilità di successo. Nel maggio del 1916 la Hochseeflotte avrebbe simulato, con lo spostamento di poche unità, l'occupazione degli Stretti di Danimarca.
La “Grand Fleet” britannica sarebbe caduta nella trappola e avrebbe inviato il grosso delle proprie forze verso gli Stretti: le navi tedesche, più leggere e manovrabili, avrebbero attaccato di colpo gli avversari, distruggendoli.
L'Ammiragliato di Londra cadde in pieno nel tranello ordinando sei incrociatori di battaglia e quattro supercorazzate “Dreadnought”, di dirigersi verso il punto dove riteneva si sarebbero trovati i "pochi" incrociatori tedeschi (lo Stretto dello Jutland). L’Inghilterra mise in moto anche 24 corazzate semplici, altri 3 incrociatori da battaglia, 26 incrociatori leggeri e 79 cacciatorpediniere.
La Germania schierava 16 corazzate, 11 incrociatori leggeri, 5 incrociatori da battaglia e 61 cacciatorpediniere. Lo scontro tra le due possenti forze avvenne il 31 maggio 1916: la battaglia sarebbe divenuta la maggiore del Primo conflitto mondiale, e una delle più importanti nella Storia Navale.
Dopo circa cinque ore, le due flotte si separarono, avendo entrambe subito gravi danni. Dal punto di vista del morale e delle perdite, risultava indubbia la vittoria tedesca; ma la Grand Fleet non era stata annientata.
Ciò avrebbe avuto conseguenze pesantissime per lo svolgimento della guerra e per la stessa Germania. Il governo tedesco, disilluso fino alla paranoia nei confronti della propria flotta, decise di affidarsi all'unica arma capace, a suo dire, di garantire risultati strategicamente significativi: il sottomarino.

martedì 30 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 maggio.
Il 30 maggio 1879 apre al pubblico, dopo una ristrutturazione, il "nuovo" Madison Square Garden.
Sotto quei riflettori è passata una buona parte della storia della cultura popolare a stelle e strisce. Non c'è memorabile partita di basket, storico concerto rock, leggendario incontro di pugilato, combattuta partita di hockey; non c'è imperdibile spettacolo teatrale o ricordato evento di massa che non possa essere accostato a quel nome. Ha vissuto tre vite quel tempio dello sport e spettacolo (quattro, se si conta la prima, quando era un deposito della stazione ferroviaria);ci sono stati tre diversi edifici per un solo, mitico nome: Madison Square Garden. L'ultimo costruito è l'arena sorta nel 1968 sopra alla Pennsylvania Station. Ancora qualche anno e poi dovrà lasciare il passo all'ampliamento dell'importante scalo ferroviario. Lo ha deciso il Consiglio Comunale. (Con tutta probabilità) lo stadio dovrà essere abbattuto e trasferito, ricostruito in un'altra zona della metropoli. Troppo pressanti le esigenze di sviluppo della città per non chiedere al Garden di vivere altrove un'altra vita: la quinta.
Fu P.T. Barnum a dare forma alla prima vita del Garden. Quando attorno al 1871, il deposito ferroviario venne trasferito, l'inventore del "Più grande spettacolo del mondo", della più ambiziosa ed esotica performance circense dell'epoca, prese in leasing l'edificio e lo fece diventare un originale teatro per il suo circo o per altri show. Da grande imprenditore, Barnum aveva capito che quella location era speciale per i newyorchesi. Negli anni a seguire, uscito di scena lui, il Primo Garden si trasformò: divenne un velodromo, il ciclismo su pista era uno degli sport più seguiti negli Usa, e ospitò alcuni incontri di pugilato. I proprietari di allora - nomi mitici della finanza statunitense come JP Morgan e Andrew Carnagie - capirono che il business poteva essere ampliato. Decisero quindi di abbattere il vecchio edificio e di costruirne uno più grande.
Il Secondo Garden vide la luce il 6 giugno del 1890. Poteva contenere 17.000 persone. La sua storia durò poco meno di 40 anni. Tra le sue mura vennero combattuti importanti incontri di boxe, ma la struttura andò presto in sofferenza finanziaria e la società che ne era diventata proprietaria, la New York Life Insurance Company, decise di demolirla, per farne costruire una nuova, sempre chiamata Madison Square Garden, questa volta tra la 49° e la 50° strada a Manhattan. Era il 1928. Iniziava la terza vita, per lo più dedicata ai guantoni. Leggendari pugili salirono su quel ring. Henry Amstrong, l'unico a essere campione contemporaneamente in tre categorie; Sugar Ray Robinson, Jack La Motta, Rocky Marciano: nomi che hanno fatto la storia dello sport mondiale, con i loro trionfi e le loro sconfitte, con il loro sudore e le loro vicende private.
Ma il Garden non fu solo sangue e pugni: mantenne la sua anima poliedrica, la sua capacità di essere polo d'attrazione dello spettacolo non solo sportivo. Vero palcoscenico della cultura popolare statunitense per le forme espressive che quella cultura creava. Fu proprio quella la sua fortuna. I concerti di Frank Sinatra e di Elvis Presley, quell'indimenticabile sera del 1962 quando Marilyn Monroe cantò "Happy Birthday Mister President" davanti a JFK e a 15.000 persone che si erano radunate nello stadio per festeggiare il compleanno di John Fitzgerald Kennedy.
La storia non si conclude con la costruzione del quarto edificio nel 1968, l'attuale. Anzi. Diventa ancora più ricca. Semplicemente, si trasforma. Il Garden si dimostra ancora più eclettico. Un grande Business. Lo sport che prende piede è il basket. E' nell'arena ("Un'architettura a forma di fritella rovesciata" scriverà una volta Time) che giocano i New York Knicks davanti a un pubblico di 20.000 persone. Poi arriva anche l'hockey su ghiaccio con i Rangers, che ne fanno lo stadio di casa. I concerti non finiscono, anzi, si moltiplicano grazie alla capacità della nuova struttura: dagli anni'70 (Led Zeppelin, il concerto per il Bangladesh, Billy Joel) agli anni'80 (Michael Jackson, Madonna, David Bowie) per poi arrivare ai grandi concerti organizzati a scopo di beneficienza degli anni'90, nel 2001 dopo l'attacco alle Torri Gemelle e nel 2012 in favore delle vittime dell'uragano Sandy. Nel teatro ospitato all'interno del Garden c'è spazio anche per gli imponenti musical e per gli eventi politici: nel 1992, si tiene lì la convention democratica per la nomination di Bill Clinton per le elezioni presidenziali.
Ora, grazie alle decisioni dell'amministrazione newyorchese, il Madison Square Garden rischia di dover affrontare la sfida di una quinta vita. Lontano dall'attuale sede di Midtown, nel centro di Manhattan. I proprietari del Garden aveva chiesto la concessione perpetua del sito, ma la risposta delle istituzioni pubbliche è stata per ora diversa. C'è da scommettere che, comunque sia, il Garden rimarrà sempre quel tempio dello sport e dello spettacolo che è diventato nel corso della sua lunga storia secolare.

lunedì 29 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 maggio.
Il 29 maggio 1940 Fausto Coppi, vincendo la tappa Firenze-Modena con quasi 4 minuti di vantaggio sul secondo, indossa per la prima volta in carriera la maglia rosa del Giro d'Italia.
Fausto Angelo Coppi nasce a Castellania, in provincia di Alessandria, il 15 settembre 1919 in una famiglia di modeste origini. Trascorre la vita a Novi Ligure, prima in viale Rimembranza, poi a Villa Carla sulla strada per Serravalle. Poco più che adolescente è costretto a trovarsi un lavoro come garzone di salumeria. Ragazzo a modo ed educato è subito apprezzato per la sua dedizione, il suo fare introverso e la sue naturale gentilezza.
Per hobby scorrazza qua e là su di una rudimentale bicicletta regalatagli dallo zio. Si distende dal lavoro con lunghe scampagnate, dove si inebria al contatto con l'aria aperta e la natura.
Nel luglio 1937 disputa la sua prima corsa. Il tracciato non è facile, anche se si svolge tutto in prevalenza da un paese di provincia all'altro. Purtroppo a metà gara è costretto a ritirarsi poiché una gomma si sgonfia inaspettatamente.
Gli inizi non sono quindi promettenti, malgrado il ritiro sia da attribuire al caso e alla sfortuna più che alle doti atletiche del giovane Fausto.
Mentre Coppi pensa al ciclismo sopra la sua testa scoppia la seconda guerra mondiale. Militare a Tortona, Caporale della terza squadra di un plotone in quadrato nella compagnia agli ordini di Fausto Bidone, viene fatto prigioniero degli inglesi in Africa, a Capo Bon.
Il 17 maggio 1943 viene internato a Megez el Bab e poi trasferito al campo di concentramento di Blida, nei pressi di Algeri.
Fortunatamente esce incolume da questa esperienza e, una volta tornato a casa, ha modo di riprendere i suoi allenamenti in bicicletta. Il 22 novembre 1945, a Sestri Ponente, si unisce in matrimonio con Bruna Ciampolini, che gli darà Marina, la prima dei suoi figli (Faustino, nascerà in seguito alla scandalosa relazione con la Dama Bianca).
Poco dopo, qualche osservatore, convintosi del suo talento, lo chiama alla Legnano, che diventa di fatto la prima squadra professionistica a cui prende parte. In seguito difenderà i colori delle seguenti squadre: Bianchi, Carpano, Tricofilina (alle ultime due abbinò il proprio nome). Alla fine del 1959 si lega alla S. Pellegrino.
Al primo anno di professionismo, arrivando con 3'45" di vantaggio nella tappa Firenze-Modena del Giro d'Italia, conquista una vittoria che gli consente di smentire le previsioni generali che volevano Gino Bartali vincitore della corsa rosa. A Milano in rosa giunse infatti lui, Fausto Angelo Coppi.
Alcune delle altre cavalcate solitarie che fecero scorrere fiumi d'inchiostro furono: quella di 192 Km nella tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d'Italia del 1949 (vantaggio 11'52"), quella di 170 Km del Giro del Veneto (vantaggio 8') e quella di 147 Km della Milano-Sanremo del '46 (vantaggio 14').
Il Campionissimo del ciclismo, vinse 110 corse di cui 53 per distacco. Il suo arrivo solitario sui grandi traguardi era annunciato con una frase, coniata da Mario Ferretti in una famosa radiocronaca dell'epoca: "Un uomo solo al comando!" (a cui Ferretti aveva aggiunto: "[...], la sua maglia è biancoceleste, il suo nome Fausto Coppi!").
Il grande ciclista si aggiudicò due volte il Tour de France nel 1949 e nel 1952 e cinque volte il Giro d'Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953) ed entrò nella storia per essere uno dei pochi ciclisti al mondo ad aver vinto Giro e Tour nello stesso anno (tra cui ricordiamo anche Marco Pantani, 1998).
Al suo attivo vi furono tre volte la Milano-Sanremo (1946, 1948, 1949), cinque Giri di Lombardia (1946-1949, 1954), due Gran premi delle Nazioni (1946, 1947), una Parigi-Roubaix (1950) e una Freccia vallone (1950).
La sua fama di ciclista, caratterizzata dalla rivalità-alleanza con Gino Bartali, fu parzialmente oscurata dalle sue vicende private, in particolare dalla scandalosa relazione segreta con la "dama bianca", che nell'Italia degli anni 50 destò scalpore più delle sue vittorie in solitaria.
Era in agosto, a Lugano. Anno 1953. Faceva un caldo infernale, nonostante qualche strisciolina di brezza che arrivava dal Lago. Lui, come sempre, aveva corso da grande e quando, con passo deciso, si era inerpicato sulle scalette della tribuna, con quelle gambe lunghe e magre, era sembrato un uccellaccio intento a saltabeccare fuori zona. Gli occhi erano spalancati, i capelli spettinati, il profilo duro e la bocca chiusa da un vago sorriso, come se le labbra fossero serrata da un pacco di spilli. Fausto, il campionissimo, il Coppi di sempre, timido e un po' a disagio, si era fatto al centro della tribuna tra le autorità sportive. Qualcuno si era presentato davanti a lui con la maglia iridata in mano, quella di campione del mondo e l'aveva infilata sulla testa del vincitore che, con grande sforzo, alla fine, era riuscito ad infilarla.
Poi, da un angolo, era sbucata una signora con un vestito bianco, leggero e vaporoso e un gran mazzo di fiori in mano. Quella signora, presa dall'entusiasmo sportivo, aveva abbracciato il campione sporco e sudaticcio e aveva stampato un paio di baci sulla bocca di Fausto, porgendo i fiori. Il campionissimo, per la prima volta, non si era schernito come faceva sempre. Lei, per moltissimi minuti, era rimasta accanto a lui guardandolo con un sorriso dolcissimo. Tanto dolce che tutti avevano capito. I fotografi si erano precipitati e avevano fatto scattare i flash. Anche i giornalisti sportivi, nella confusione, si erano fatti intorno ai due. Tutti sapevano che Fausto era sposato da molti anni con Bruna Ciampolini, una donna silenziosa e schiva come il marito. E quella chi era? Lei aveva risposto, con un sorriso niente affatto timido: «Sono una vecchia amica di Fausto e una grande tifosa. Che volete farci. È un gran campione e come si fa a non ammirarlo?». Da quel momento e da quel giorno era nata la leggenda della «dama Bianca» ed erano stati i giornalisti francesi a battezzare così quella donna che aveva osato baciare in pubblico «le phenomene», «l'airone delle salite», il campione dei campioni, l'inafferrabile, quello che le suonava a Bartali.
Poco, troppo poco, invece, è stato raccontato sull'amore di Fausto e Giulia Occhini, sulla loro vita privata al di fuori dei miti e delle leggende. E anche sulle sofferenze che una Italia bacchettona, retriva, bigotta e poco disposta ad uscire, in qualche modo, dai canoni della vita e dell'amore fissati da una religiosità crudele, inflisse all'uomo Coppi e alla sua compagna. Fu quel giorno d'agosto, a Lugano che tutta l'Italia, per la prima volta, seppe. Seppe di un amore «proibito» per la morale comune del tempo e seppe di quei «due pubblici concubini» e peccatori «pericolosi».
Cerchiamo di capire un po' meglio l'amore di Fausto per la «dama Bianca», o meglio per Giulia Occhini e vedere come andarono le cose: l'arresto di lei, il processo, la condanna di tutti e due, la nascita del loro bambino in Argentina. Gli emigranti dell'amore, che ormai si sentivano perseguitati in Italia, erano, infatti, finiti laggiù.
Fausto, come abbiamo visto, si sposa con Bruna Ciampolini che, più tardi, darà alla luce la figlia Marina. Che donna è Bruna? Una cara e dolce moglie, silenziosa e modesta. Di quelle che si sposano perché c'è un rapporto fin da ragazzini. Di quelle donne, insomma, che piacciono tanto ad una famiglia di contadini che vuole mogli, semplici, concrete, senza grilli per la testa. Una donna che garantisca sempre, al futuro marito, un posto sicuro dove «appoggiarsi» nei momenti più duri e difficili della vita. Bruna è così e piace tanto alla famiglia di Fausto. Lui continua a correre con quel suo sguardo triste da «eterno povero».
Eppure vince, eccome. Incassa anche molti soldi. Un giorno fa amicizia con un suo tifoso, il dottor Enrico Locatelli che è sposato con Giulia Occhini, una bella ragazza che viene da una famiglia agiata. Hanno due figli, Maurizio e Loli, ma nonostante questo, ogni tanto seguono Coppi. Non si è mai saputo quando e come sia nato l'amore tra il campionissimo e Giulia. Insomma la storia sarà nata in segreto e in segreto continuata. Cose eterne come il mondo.
Ma c'è quel benedetto giorno a Lugano, quando tutti capiscono. La moglie di Coppi, la signora Bruna, dicono che aveva subito capito come stavano andando le cose perché, per un paio di volte, Giulia era andata, con il marito, in casa Coppi, così per «approfondire l'amicizia». Giulia era sempre elegante, sapeva muoversi senza timidezze ed era abituata a vedere gente, a leggere libri e giornali, a spostarsi da una città all'altra e a vivere in albergo. Tutto il contrario della signora Bruna. I giornalisti, dopo i baci di Lugano, ricordano di aver visto Coppi, durante una tappa del Tour, rallentare quando aveva visto lei a lato della strada e ricordano anche di una volta che Bruna Ciampolini, moglie di Fausto e il dottor Locatelli, marito di Giulia, si erano precipitati insieme sul Garda, durante una tappa del Giro.
Il caso Coppi-«Dama Bianca», esplode come una bomba nell'Italia delle scomuniche Vaticane ai comunisti o contro chi non si sposava in chiesa, della mancanza di divorzio, delle mamme fattrici ad ogni costo, della famiglia come unica possibilità, per un uomo e una donna di vivere il loro rapporto. I giornali parlano subito di «amore scandaloso» e «lei», la «cattiva» viene indicata come una «rovina famiglie» e l'esempio di «tutto quello che le donne non dovrebbero essere». Pare che persino il Papa in persona (Pio XII) sia intervenuto per invitare Coppi a pensare bene a quel che andava facendo. Non si trattava di minacce, ovviamente.
Rimane il fatto che il codice Rocco, il vecchio codice fascista, prevedeva i reati di abbandono del tetto coniugale e di adulterio ed è in questo senso che si muovono subito i magistrati. Coppi e Giulia Occhini, nel frattempo, erano andati a vivere insieme nella villa di Novi Ligure, acquistata da Fausto al momento della separazione dalla moglie Bruna, separazione che datava già da qualche tempo. Giulia Occhini, in quei mesi aveva 26 anni ed era una splendida signora sempre elegante, ben truccata, sicura. Quella di sempre, insomma. Chi è cambiato, invece, è Fausto. Ha lasciato i panni dell'eterno poveraccio. Non è più un rozzo ex contadino. Veste con proprietà, giacca doppio petto e cravatta, cappotti ben tagliati e fatti su misura. È diventato un «signore» e nei nuovi panni si sente bene. Sembra non aver paura di nulla. Si potrebbe dire, con l'aiuto di un po' di psicologia, che Fausto ha raggiunto il mondo e il modo di vita al quale, da eterno morto di fame, aspirava da tutta una vita. Giulia Occhini, dunque, lo aveva trasformato in profondità. Ma gli attacchi del perbenismo ufficiale e non ufficiale, non cessano un attimo e tutto diventa crudele, umiliante, cattivo. L'Italia si divide in due: chi è solidale con Fausto e chi lo condanna senza appello. A Coppi, il campionissimo, viene ritirato il passaporto. È soltanto la prima mossa. Una notte, nella villa di Novi Ligure, arrivano i carabinieri che procedono ad una serie di «costatazioni di legge». Cercano la prova dell'adulterio e la trovano. Come? Lo raccontano, senza vergogna o imbarazzo gli uomini dei verbali conservati negli atti del processo. Un brigadiere mette le mani nel letto della coppia e lo trova ancora caldo. Dunque, i due, non potevano certo più dire che stavano semplicemente bevendo insieme un caffè: erano a letto insieme e basta.
Che Italia incredibile, barbara e medievale. Lei finisce subito ammanettata. Nella notte, viene trasferita nel carcere di Alessandria. È donna e quindi, evidentemente, doveva pagare ancora più dell'uomo. Fausto è disperato e tenta di tutto per liberarla. Ma non è così semplice. Passano più di 96 ore prima che lei torni a casa. Nel marzo del 1955, il processo. Lei è accusata di aver abbandonato il marito e i figli. Lui, oltre che di adulterio deve rispondere anche di violazione degli obblighi di assistenza familiare. A Fausto, i giudici infliggono due mesi di carcere e tre a lei. Giulia Occhini viene, però, anche «confinata» ad Ancona in casa di una zia. I giudici le vietano, inoltre, di vedere i figli e tornare a Novi Ligure. Giulia, incinta di Fausto, decide allora insieme al suo uomo, di andare a partorire a Buenos Aires. In Italia, chissà cosa avrebbe potuto accadere al piccolo, figlio di «pubblici peccatori» e concubini. Fausto, durante il Giro, riceve a Venezia la prima foto del bambino al quale è stato messo il nome di Faustino. Il campionissimo piange. Poi, in cima allo Stelvio, lancia un urlo di saluto al bambino e si butta nella discesa come un pazzo. Forse è l'unico urlo che sia mai uscito dalla sua bocca in tutta la sua vita. Una coppia, comunque, che ha avuto certamente periodi felici. Lo raccontano tutti: Giulia e Fausto erano davvero fatti l'uno per l'altro. Ma anche l'angoscia e i dolori non hanno mai avuto fine per loro. Lui, in gara, è caduto mille volte e mille volte ha riportato fratture gravi. A lei è morta, giovane, la figlia Lolli. Poi la fine terribile e beffarda di Fausto. Il campionissimo parte per una esibizione nell'Alto Volta: in realtà una scusa per una grande partita di caccia, insieme a colleghi e amici. Ha appena 40 anni.
Torna e racconta a Giulia che quel viaggio è stato come una straordinaria e indimenticabile avventura. Due giorni dopo è a letto con una febbre terribile. «È un virus, un brutto virus», dicono i medici. Non si accorgono che si tratta di un terribile attacco di malaria. Il 2 gennaio 1960, alle 8.45 è la fine. Una agenzia di stampa diffonde una notizia agghiacciante, terribile. Eccola: «Essendo il campione un pubblico peccatore a causa delle sue vicende coniugali, ha potuto ricevere l'estrema unzione solo a patto di una solenne rinuncia della sua donna ai legami con lui in caso di guarigione». C'è una foto straordinaria scattata ai funerali e lungo la stradina in salita che da Castellania porta alla casa dei Coppi. Si vede una bellissima campagna maculata di neve e un corteo di migliaia di persone che salgono lassù, per rendere l'ultimo saluto al campionissimo. In un'altra foto scattata in casa ci sono tre grandi campioni di quelli che arrivavano al traguardo con la faccia coperta di fango. I loro nomi? Girardengo, Binda e Bartali. Già, Bartali. Alcuni anno fa disse: «Io, terziario francescano, bacchettone e bigotto, come avete sempre scritto su l'Unità, ho voluto molto bene a Coppi. Ora potete anche scriverlo. Sono stato proprio io ad accompagnarlo più di una volta in Vaticano per risolvere la sua situazione con la Occhini. L'ho fatto parlare anche con il Papa... Non è stato possibile far niente..». Giulia Occhini, invece, muore a 69 anni, nel 1993, dopo 510 giorni di coma. Era rimasta gravemente ferita in un incidente stradale davanti a «Villa Coppi», dove viveva con il figlio di quel suo grande e famosissimo amore.

domenica 28 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 maggio.
Il 28 maggio 1980 viene ammazzato Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera.
La carriera giornalistica di Walter Tobagi cominciò al ginnasio come redattore della Zanzara, il celebre giornale del liceo milanese Parini. Dopo il liceo, entrò all’Avanti! di Milano, ma pochi mesi dopo passò al quotidiano cattolico Avvenire. Furono anni di pratica alla scuola di “cronista sul campo” che lo portarono prima al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera. Il suo interesse prioritario era per i temi sociali, l’informazione, la politica e il movimento sindacale. Ma il suo impegno professionale maggiore Tobagi lo dedicò alle vicende del terrorismo. Al Corriere della Sera seguì tutte le vicende relative agli “anni di piombo”. Uno dei suoi ultimi articoli sui terroristi rossi è considerato tra i più significativi sin dal titolo: “Non sono samurai invincibili”.
Walter Tobagi – 33 anni, moglie e due figli, scrittore e docente universitario, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti – venne ucciso alle 11 di mattina sotto casa con cinque colpi di pistola da un gruppo di assassini della Brigata 28 Marzo poco dopo essere uscito di casa. A sparare furono Marco Barbone e Mario Marano.
Gli assassini furono catturati in fretta e ancora più in fretta uscirono di galera perché al tempo era così: se parlavi, a prescindere da cosa dicessi, ti davano una pacca sulle spalle e ti lasciavano andare. Erano ragazzi borghesi, figli di dirigenti e di giornalisti, stupidi, conformisti e quindi fatalmente brigatisti o qualcosa del genere, comunque comunisti e smaniosi di segnalarsi ai compagni armati. L’esatto contrario di Tobagi che, pur essendo poco più che trentenne, non aveva mai seguito le mode, neppure quelle ideologiche, e si dedicava al lavoro con slancio e passione. Era già un buon motivo, dato il clima, per farlo fuori.
Walter poi non era un giornalista qualunque, ma uno che ci sapeva fare. Colto, analitico e profondo, seppe approfittare dell’arrivo di Franco Di Bella alla direzione del Corriere, che lo aveva promosso alla «scrittura» riconoscendone l’abilità (anche politica e diplomatica), per emergere dall’anonimato cui gran parte dei corrieristi erano condannati causa l’appiattimento imposto all’epoca dal sindacalismo rosso. In pochi mesi, Tobagi imparò a volare e divenne una firma. Ma nell'ambiente era già qualcuno perché nelle assemblee redazionali, da semplice redattore, si era distinto sconfiggendo il branco della falce e martello. Era «padrone» della Associazione Lombarda e la sua opinione pesava.
Pacioso, cordiale, grassoccio e sorridente, aveva l’aspetto e i modi di un giovane parroco; e in effetti era cattolico benché vicino ai socialisti. Mai aggressivo, al termine di ogni discussione aveva sempre ragione. Nell’arte di convincere era un maestro senza essere un trascinatore. Insomma, aveva qualità di leader, personalità, conoscenza, pazienza. Tutto ciò che occorreva per rendersi detestabile agli avversari comunisti a lui non mancava.
Non è  chiaro se l’idea di uccidere Walter sia nata negli scantinati del Corriere, come qualcuno ha sostenuto; certo è che gli esecutori materiali dell’omicidio sono stati ispirati, se non istigati, da chi identificava in Tobagi un nemico politico, un concorrente professionale e sindacale. Colleghi? E chi altri avrebbe avuto interesse a sopprimerlo coi metodi in voga negli anni di piombo: tre o quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo? Indubbiamente, l’inviato grazie al suo lavoro e alle attività collaterali non era un anonimo cronista; ma la sua fama era circoscritta alla cittadella giornalistica e ai recinti del partito armato che egli aveva raccontato con perizia e spirito critico. Il fatto poi che gli assassini gravitassero attorno al mondo dell’informazione, e fossero addirittura famigliari di addetti all’editoria, rafforza il sospetto che il la all’agguato sia partito dalla zona di via Solferino.
Un delitto, questo, come quasi tutti quelli dei comunisti combattenti, di una idiozia sconfinata. Si è tentato di saperne di più rispetto all’ufficialità, ma gli assassini una volta riconquistata la libertà, senza troppa fatica, si sono chiusi in sé guardandosi dal dire la verità. Forse se ne vergognano, giustamente, perché se è vero che non esiste ragione per ammazzare un uomo, uccidere un ragazzo quale Walter, generoso e pacifico, innocuo e onesto, richiede una tale meschinità e una tale incoscienza che solo dei figli di papà comunisti improvvisati potevano avere. E sono loro ad aver dato un’impronta conformistica a quegli anni di imbecillità collettiva che portarono scompiglio nella miserrima società italiana infatuata dall’utopia. Fa rabbia costatare che la morte di Walter non sia servita neppure a capire che il passato non è migliore del presente.
Marco Barbone (Milano, 1958), il leader del gruppo terrorista, che esplose probabilmente il colpo mortale, fu condannato nel 1983 a soli 8 anni e nove mesi, poiché divenuto immediatamente collaboratore di giustizia, ed ebbe subito la libertà provvisoria, dopo tre anni di carcere scontati (uscì dopo la sentenza). Negli anni successivi Barbone si è convertito al cattolicesimo e ha aderito a Comunione e Liberazione, è responsabile comunicazione della Compagnia delle Opere. Per un periodo ha collaborato con il settimanale Tempi del quotidiano Il Giornale.
Paolo Morandini, anche lui immediatamente "pentito", ebbe la medesima condanna di Barbone.
Mario Marano (Milano, 1953), che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti per la sua collaborazione, a 12 anni in appello (poi 10 con un condono). Fu condannato anche a undici anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti e a tre anni e mezzo nel processo a Prima Linea, per un totale di circa 24 anni. Scontò la pena ai domiciliari a partire dal 1986. Scarcerato ufficialmente negli anni novanta.
Manfredi De Stefano (Salerno, 23 maggio 1957), condannato a 28 anni e otto mesi; morì in carcere nel 1984, colpito da aneurisma.
Daniele Laus, l'autista del delitto, confessò ma poi ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado ebbe sedici anni. Dal dicembre 1985 fu rimesso in libertà provvisoria.
Francesco Giordano, che fece la copertura del gruppo di fuoco, non volle ammettere la partecipazione né collaborare, anche se condannò l'esperienza del terrorismo e la sua affiliazione al gruppo. Fu condannato a 30 anni e otto mesi, in appello divenuti 21. Fu l'unico che scontò l'intera pena: uscì di prigione nel 2004. Fu condannato anche a 13 anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti. Giordano sostenne di essere stato torturato da polizia e carabinieri nel 1980, dopo il suo arresto.

sabato 27 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 maggio.
Il 27 maggio 1940 al teatro Valle di Roma debutta il quartetto Egie, più noto come Quartetto Cetra.
Fra i protagonisti del secondo dopoguerra un posto particolare lo occupa il Quartetto Cetra. I Cetra avevano esordito intorno ad un biliardo del bar Camerucci di Roma, con l’intento di emulare i grandi del Canton Jazz. Il primo nome del gruppo era Quartetto Egie, sigla che si otteneva mettendo insieme le iniziali dei nomi dei quattro componenti del gruppo: Enrico Gentile (Palermo, 20-1-1921 –  Milano 3-2-1990), Giovanni Giacobetti detto “Tata” (Roma 24/6/1922 – Roma 2/12/1988), Jacopo Jacomelli (Bordeaux 12-7-1921), ed Enrico De Angelis (Roma 23/11/1920 Milano 21/08/2018). La loro prima esibizione era stata al Teatro Valle di Roma il 27 maggio 1940 con Caccia al passante, uno spettacolo di sapore goliardico, scritto dal loro amico Agenore Incrocci, meglio conosciuto come Age (che in seguito sarà uno dei più quotati sceneggiatori italiani); l’8 ottobre 1941 il quartetto aveva esordito alla radio accompagnato dall’Orchestra Zeme con Il Visconte di Castelfombrone, riesumato dal copione dei Quattro moschettieri di Nizza e Morbelli, a cui segue La leggenda di Radames, rielaborazione del celebre brano Mister Paganini.
Il gruppo si ispira al quartetto americano Mills Brothers, in Italia infatti non esistevano complessi in campo maschile, uniche concorrenti erano le sorelle Lescano, che dai microfoni dell’Eiar facevano il verso alle americane Hundred Sisters. Nel 1941 Virgilio Savona (Palermo 1/1/1920 Milano, 27/8/2009) sostituisce Jacomelli e il gruppo decide di cambiare nome per assumere quello definitivo di Cetra; Enrico Gentile, il solista parte per il militare e viene sostituito da Felice Chiusano (Fondi, Latina, 28/3/1922 – Milano 3/2/1990). Nel 1942 il quartetto interpreta due film: Arcobaleno con Odoardo Spadaro, e Pazzo d’amore con Renato Rascel. Nel 1943 il quartetto si esibisce in Ritmi e canzoni al Teatro Nuovo di Milano diretto da Remigio Paone.
Nel settembre 1943 il quartetto torna a Roma al Teatro Valle e si esibisce in uno spettacolo a benificio dei sinistrati dai bombardamenti aerei: Aria nuova. Poi vi è un altro avventuroso trasferimento a Milano dove incontrano Gorni Kramer e dove allestiscono altri spettacoli teatrali: Una notte al Madera e Via delle sette note. Il 6 maggio 1945 il quartetto partecipa al Teatro Lirico ad uno spettacolo di varietà con Walter Chiari, i fratelli De Rege, Luciano Tajoli, Gorni Kramer, Pippo Starnazza e Aldo Donà, e vengono quindi scritturati per una serie di spettacoli per i militari dove cantano brani come Candy, I sourrended dear e Mister five e Long ago and far away. Nel 1945 incidono Pietro vogie il ciabattino, il primo boogie woogie italiano.
Nel 1946 il quartetto si esibisce in una tournèe all’estero e in una serie di trasmissioni con la radio svizzera. Nell’estate 1947 esce La senora del leon, una samba parodista apprezzata anche da Evita Peron, sulla quale si ironizzava, allora in visita in Italia. Intanto ha abbandonato il gruppo Enrico De Angelis (poi divenuto imprenditore) che viene sostituito dalla moglie di Savona, Lucia Mannucci (Bologna, 18 maggio 1920 - Milano 7.3.2012), il debutto con la nuova e definitiva formazione avviene a Roma al Teatro delle Arti nell’ottobre 1947. Nel 1949 arriva il successo internazionale Nelle vecchia fattoria (un brano tradizionale irlandese rielaborato da Kramer, Savone e Giacobetti).
Negli anni ’50 il Quartetto Cetra spopola: Vecchia America (Luttazzi, 1951), Sole pizza e amore, In un palco della Scala (Garinei-Giovannini-Kramer, 1952), Donna (Kramer-Garinei-Giovannini, 1958) tutti tratti da fortunate riviste musicali come Gran baldoria, In un palco della Scala, Un bacio a mezzanotte, Gran baraonda (di Garinei e Giovannini, con Alberto Sordi e Wanda Osiris) e Un trapezio per Lisistrata, hanno goduto di una larghissima popolarità.
Nel 1951 sono in radio con L’allegro convegno dei quattro, garbata parodia comico-musicale dell’assai seguita trasmissione-dibattito Il convegno dei cinque. I Cetra nel 1952 tengono a battesimo la televisione sperimentale italiana con una serie di sketch di enorme successo, che anticipano il futuro racconto sceneggiato, un viaggio immaginario attraverso vari paesi del mondo fra cui l’America, la Russia e l’Italia. Ad ogni fermata dei fantasiosi trenini sui quali viaggiano i Cetra cantano una canzone caratteristica gustosamente sceneggiata e parodiata: ad esempio Nella vecchia fattoria in America, Occhi neri in Russia.
Nell’estate 1953 si esibiscono in Giringiro, programma di varietà ideato da Garinei e Giovannini che veniva improvvisato sera per sera nelle città sede del Giro d’Italia. Fra gli altri loro successi del periodo ricordiamo: Piripicchio e piripicchia, Arriva il direttore, Musetto, Ricordate Marcellino, Un po’ di cielo. Nel 1954, dopo una non troppo fortunata apparizione al Festival di Sanremo (ma il disco di Aveva un bavero ebbe buoni risultati) ci fu la partecipazione al film di Blasetti Tempi nostri e in estate una tournèe in America Latina.
Le canzoni di questo periodo sono: Un romano a Capocabana, Ricordate Marcellino? e le versioni parodistiche di pezzi sanremesi come Musetto e Aprite le finestre. In televisione esordiscono già nel 1954 primo anno dell'era televisiva con lo spettacolo In quattro si viaggia meglio, una sorta di viaggio canoro alla ricerca delle tradizioni delle principali città italiane.
Nella stagione 1956/57 i Cetra partecipano ad una nuova commedia musicale di Garinei e Giovannini: Carlo non farlo, con Carlo Dapporto, Lauretta Masiero, Luisetta Nava e Valeria Fabrizi, che più tardi avrebbe sposato Giacobetti. Le canzoni lanciate in questo spettacolo furono: Evviva la radio a galena, Passa la prima Milano-Sanremo e C’è un po’ di cielo. Nel 1957 dopo avere registrato la colonna sonora del film L’incontro della foresta, incidono il titolo di L’orologio matto, la versione italiana di Rock around the clock, piazzandosi tra i primi a fare del rock and roll in Italia. Dopo quattro puntate dello spettacolo musicale televisivo Cetra volante, nella stagione 1957/58 risollevano le sorti della rivista Bulli e pupe di Dino Verde con Mario Billi, ormai senza Mario Riva che aveva scelto la carriera del conduttore televisivo (Il musichiere).
Le nuove canzoni dei Cetra erano: Un disco dei Platters (memorabile una loro interpretazione del brano con Marcello Mastroianni), Pummarola boat, Dirotta a Brodway, e la parodia di un altro brano sanremese, Il pericolo numero uno. Tornati in Italia dopo un’altra tournèe estiva in America Latina nella stagione 1958/59 ebbero la funzione di coro in Un trapezio per Lisistrata, commedia musicale di Garinei e Giovannini liberamente ispirata ad un celebre lavoro del greco Aristofane alla quale partecipavano Delia Scala, Nino Manfredi, Paolo Panelli, Ave Ninchi e Mario Carotenuto. Particolarmente felice era la partitura di Kramer che comprendeva per il Quartetto: Raggio di sole, Prendiamola con filosofia, e, soprattutto, Donna.
All’inizio degli anni ’60 i Cetra cambiarono casa discografica per la quale incisero: Sei come un flipper, Triana, Concertino, Il testamento del toro, Bianco e nero, I ricordi della sera, e altre canzoni lanciate in una serie di spettacoli televisivi: la prima e la seconda serie di Buone vacanze, le quattro puntate di Serata di gala (registrate negli studi del Teatro della Fiera di Milano per la regia di Vito Molinari), Giardino d’inverno, la prima edizione di Buone vacanze, Studio Uno, Stasera Cetra, Biblioteca Cetra (biblioteca di Studio Uno, nella quale offrono parodie e canzoni legandole a classici della narrativa come: l’Odissea, I promessi sposi, I tre moschettieri, Il conte di Montecristo, Via col vento), Cetra 66, Il signore ha suonato?, Music club, E’ domenica ma senza impegno, Non cantare, spara! (un western musicale a puntate del 1968, per la regia di Daniele D'Anza) nel quale con un cast imponente, degno di un grande film, in tutto 350 persone impegnate, fra cui Giorgio Gaber nell’insolita versione di pistolero), La terapia del whisky, Donna, Sole pizza e amore. I Cetra sono stati attivi anche nel doppiaggio cinematografico (nel film a cartoni animati di Walt Disney Dumbo, Musica maestro, Il mago di Oz ecc.) e negli short pubblicitari (dove hanno dato la voce a molti personaggi, e reclamizzato prodotti per le ditte Tricofilina, Motta, Nestlè, Martini & Rossi, Ignis, Philco, Lombardi, cera Solex, il talco Felce Azzurra, la Liquigas, e la Mira Lanza, “ah Ava come lava…”, e un cortometraggio a colori per il lancio della Lambretta, per una lunga serie di Caroselli scritti da Marcello Marchesi, diretti dal regista Luciano Emmer).
I Cetra hanno anche inciso un repertorio di brani per bambini (Sei piccolo per i blue-jeans, Un cavallo senza cow-boy, Papà Walt Disney), canzoni popolari (Mamma mia dammi cento lire), parodie del Festival di Sanremo (Canzoncella italiana, Cha cha cha romano, Bianco e nero) e altri brani allegri (Che centrattacco, La vita è un paradiso di bugie, Ciabattino test, Ehi stop, Eva, Vavà Didì Pelè, Madison dance, Twist delle 21, Un disco dei Beatles, La mano sul fuoco, il rifacimento di Crapa pelada, Sole pizza e amore, La ballata del critico tv). Le loro canzoni sono entrate nel repertorio popolare italiano. Attivi anche negli anni ’70 e ’80, si danno dapprima al folck, portando al successo la famosissima Mamma mia dammi cento lire, Evviva lo scopone, Stasera si, Chissà come farà, Camminava voltando indietro, Pierino ha la febbre, Un pomeriggio con Natalino, Piume e pailettes, Era bello sognare. Fra gli anni ’70 e ’80 il Quartetto Cetra, dimenticato dalla Rai, trova un rilancio grazie alle televisioni private: vengono invitati da Enzo Tortora al centro di produzione di Antenna Tre Lombardia di Legnano, emittente pluriregionale che irradiava il suo segnale oltre che in Lombardia, anche in Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, dapprima sono ospiti fissi de IL BINGO di Renzo Villa, quindi producono il programma Cetrarca. La storia secondo i Cetra, rifacendosi alla mitica Biblioteca di Studio 1,  il gruppo propone rivisitazioni storiche.
La Cetrarca durerà dal 1979 al 1983; all'interno de IL BINGO di Renzo Villa i Cetra presentano circa centoventi fantasie di canzoni suddivise in diversi filoni (Enciclopedia della canzone, Dizionario della canzone, Storia del Festival di Sanremo), quindi interpretano una lunga serie di parodie per la regia di Guido Stagnaro su testi di Dino Verde con vari contributi di Giacobetti e due interventi di Gino e Michele, realizzano così circa 90 parodie di opere liriche, romanzi classici, film famosi e avvenimenti storici di ogni luogo e tempo; di tanto in tanto, quando i personaggi sono numerosi, si ricorre alla partecipazione di ospiti come Gaspare e Zuzzurro, Massimo Boldi e Teo Teocoli, Valeria Fabrizi, Gianni Magni e Gerry Bruno.  Terminato il periodo di lavoro ad Antenna Tre Lombardia, i Cetra partecipano ad una grande kermesse della Rai per festeggiare il trentesimo anniversario della televisione e a un'edizione natalizia speciale del Maurizio Costanzo Show, programma del quale il quartetto poi sarà spesso ospite. Nel 1984 partecipano ad una puntata della seconda edizione del programma di Antonello Falqui All Paradise,  Blitz di Gianni Minà, a Cari amici vicini e lontani di Renzo Arbore, e sono ospiti fissi di 13 puntate della trasmissione radiofonica L'aria che tira. Il Quartetto Cetra è entrato ormai a pieno diritto nella storia dello spettacolo italiano (e non solo), è stato il primo gruppo vocale misto europeo della musica leggera. Nel novembre 1984 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini invita il Quartetto al Quirinale, anticipando loro la sua decisione di nominarli Cavalieri della Repubblica; il Presidente Francesco Cossiga quattro anni dopo li promuoverà commendatori.
I Cetra preparano uno degli album più significativi della loro discografia: Una lunga tastiera, dieci canzoni che ripercorrono la loro avventura professionale e personale. Otto di queste canzoni sono poi presentate in Cetra graffiti, con numerosi illustri ospiti nell'ambito della terza serie di All Paradise trasmessa all'inizio del 1985, per la nona puntata su precisa richiesta del regista Antonello Falqui i Cetra scrivono un nuovo brano, Terzine terzine, in stile slow-rock. Per la decima puntata in omaggio a Biblioteca di Studio Uno Falqui decide di realizzare finalmente la famosa parodia de I Promessi Sposi vietata dalla Rai nell'ormai lontano 1964.  Felice Chiusano è Don Abbondio, Tata Giacobetti è Fra Cristoforo, Lucia Mannucci è Agnese, Virgilio Savona è Alessandro Manzoni, il cast comprende Albano e Romina Power (Renzo e Lucia), I Gatti di Vicolo Miracoli (i bravi), Gianni Agus (Don Rodrigo), Minnie Minoprio (la monaca di Monza), Gianni Minà (Azzeccagarbugli), Alvaro Vitali (il Griso), Arnoldo Foà (l'Innominato) e Nerina Montagnani (la simpatica vecchietta della pubblicità Lavazza) nel ruolo di Perpetua.   Dopo essere stati ospiti di Pippo Baudo a Domenica In e di Mike Bongiorno ne I sogni nel cassetto, i Cetra iniziano a preparare una nuova trasmissione televisiva che andrà in onda fra il gennaio e il febbraio 1986, era bello sognare, una panoramica sulla storia professionale realizzata sfruttando i grandi archivi della Rai. Nel gennaio 1987 i Cetra sono ospiti di Maurizio Nichetti in Pista, nel febbraio sono mattatori del Controfestival organizzato da Maurizio Costanzo in un albergo di Sanremo, i Cetra cantano la parodia dei brani delle edizioni passate. Nel febbraio 1987 partecipano a una puntata del programma Canzonissime dedicato alla casa discografica Fonit Cetra. Il 22 ottobre 1987 viene presentato a Milano alla stampa un cofanetto di dischi contenente 36 brani del loro repertorio, I formidabili Cetra. Il 1987 è anche l'anno del quarantennale dell'attività del Quartetto. Il 1988 si apre con un tour nei casinò (Campione d'Italia, Saint Vincent e Sanremo), quindi partecipano a Monterosa '84, rievocazione televisiva dei tempi d'oro del Derby Club: è la loro ultima esibizione televisiva. L’ultimo concerto in pubblico del quartetto al completo si tenne a Bologna a Palazzo Poggi l'8 luglio 1988, il 2 dicembre 1988 morì Tata Giacobetti, pochi mesi dopo i tre superstiti incidono, in onore dell’amico scomparso, Voglia di swing, con il nuovo nome de I Cetra. Il 2 febbraio 1990 muore Felice Chiusano, è la fine dell’attività della formazione. Importantissimo è stato anche il lavoro di Virgilio Savona come ricercatore della musica popolare, sociale, politica e di protesta (sulle quali ha scritto numerosi testi e pubblicato innumerevoli raccolte discografiche), nella sua veste di dirigente della Vedetta ha contribuito al successo di Sexus et politica di Giorgio Gaber. Savona come solista ha scritto anche canzoni impegnate come Ballata per un emigrante (storia di un calabrese vessato in Germania) e Il fante Massimiliano (che narra le dolorose vicende di un obiettore di coscienza). Savona come dirigente discografico ha in catalogo artisti come Lelio Luttazzi, Giorgio Gaber, Woodie Goothrie, e l’ideazione della famosa collana I Dischi dello Zodiaco.
Alla fine del 2001 è stato messo in commercio un triplo cd ironicamente intitolato Frusciati con brio, nel quale sono state inserite rarissime registrazioni di 78 dei Cetra del tutto ripulite dai fastidiosi rumori dovuti all’usura del tempo, grazie alla moderna e sofisticata tecnologia elettronica. Nel 2005 le canzoni di Virgilio Savona sono state protagoniste al Premio Tenco, e sono raccolte nel cd SEGUENDO VIRGILIO, edito dallo stesso Club Tenco Alabianca, che contiene una chicca: un brano scritto da Savona con Tata Giacobetti nel 1954, TROPPI AFFARI CAVALIERE, interpretato dalla Piccola Orchestra Avion Travel.
Nel novembre 2006 è uscito il disco IL QUARTETTO CETRA, SASSOFONI E VECCHIE TROMBETTE, con incisioni storiche di RadioRai dei Cetra, grazie al quale lo storico quartetto torna nel nuovo millennio alla ribalta con il varietà radiofonico.  E' un'occasione unica per ascoltare alcuni brani che non fanno parte della consueta antologia dei Cetra, e per capire la genesi della grande capacità interpretativa, poi sviluppata in tv negli anni '60 con BIBLIOTECA DI STUDIO UNO.

venerdì 26 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 maggio.
Il 26 maggio 1940 ha luogo la battaglia di Dunkerkque.
Il 10 maggio 1940, nel mese delle rose e degli amori, si scatena a occidente la macchina da guerra tedesca. Hitler, dopo la "finta guerra" dell'inverno, fa sul serio. Il 14 capitola l'Olanda, il 17 cade Bruxelles. Le divisioni corazzate della Wehrmacht puntano verso il cuore della Francia, quella "douce France" che si credeva invulnerabile dietro la Maginot. Bella e ricca è la campagna francese e, dove crescono le ciliegie, domani ci sarà battaglia. «I tedeschi avanzano - annota Leo Longanesi con distaccata ironia nel suo diario - ma la Francia ha sempre André Gide».
L'esercito francese si sfalda, smentendo il maresciallo Badoglio che il 9 maggio aveva confermato la sua reputazione di "stratega" giurando che «un attacco alla Maginot sarebbe stato un sicuro insuccesso». I tedeschi avanzano a 50 chilometri al giorno. La Francia - milioni di profughi, uomini esausti, bambini spauriti, masserizie stipate nei carri bestiame, povere cose abbandonate - attraversa l'ora più amara della sua storia: non ritornerà più quella di un tempo. A Palazzo Venezia Mussolini si agita, vuole la sua parte di bottino. L'avanzata a rullo compressore dei panzer tedeschi dà l'illusione che il cavallo vincente sia quello nazista, che la potenza inglese sia un mito tramontato e che la guerra sia un gioco a basso tasso di rischio in cui la furbizia italiana possa cogliere senza fatica un frutto maturo. Un'illusione traditrice che, entrando in guerra il 10 giugno, Mussolini pagherà cara.
L'invasione tedesca è un coltello nel burro, il dio delle armi non è francese. L'Armée, considerato il più forte esercito d'Europa, si scioglie come neve al sole e il corpo di spedizione inglese, che si batte bene ma senza speranza, sogna un apparentemente impossibile reimbarco. Il 23 maggio i panzer tedeschi sono pronti a sferrare l'attacco contro la sacca di Dunkerque, dove convergono gli inglesi in ritirata e reparti francesi ormai battuti. Improvviso, arriva l'ordine di von Rundstedt, comandante del gruppo di armate: un giorno di riposo alle divisioni corazzate. Hitler, in visita al comando di Charleville, approva, anzi rincara: «Bisogna risparmiare i carri armati». Estendendo l'ordine di von Rundstedt, le disposizioni del Fuehrer non lasciano dubbi: «Dunkerque deve essere affidata all'aviazione». I generali, increduli, premono. Guderian, il «genio dei panzer» che ha sfondato a Sedan e che è a 16 chilometri da Dunkerque, vuole attaccare subito. Il comandante in capo della Wehrmacht, von Brauchitsch, si scontra con Hitler: vuole la massima pressione sulla sacca e la cattura del corpo di spedizione inglese, al cui soccorso Londra sta muovendo le prime navi.
Mentre i tedeschi litigano, gli inglesi danno il via all' "Operazione Dynamo". Guderian, che assiste impotente ai primi reimbarchi sulla costa, scalda i motori dei panzer. Brauchitsch acconsente all'attacco, Halder, il capo di stato maggiore, è con lui ma Hitler interviene ancora, bluffando: «Non voglio decidere io - dice - Mi rimetto al giudizio di Rundstedt». E, per nulla perplesso di fronte all'assurdità che il comandante di un fronte debba fungere da arbitro fra il suo comandante in capo e il Fuehrer, Rundstedt non esita e dà ragione a Hitler. «Le divisioni sono stremate e vanno riequipaggiate per continuare l'offensiva verso Parigi, per Dunkerque basta la fanteria».
Ma non sarà così. I fanti non basteranno e la Luftwaffe di Goering, che ha premuto su Hitler per avere l'onore di annientare gli inglesi dal cielo, deluderà. Sarà Rundstedt, anni dopo, a dire: «A Dunkerque abbiamo commesso un grosso errore, è stata una delle svolte del conflitto». Gli inglesi, ammassati sulla spiaggia, si imbarcano giorno dopo giorno: più di 17mila il 28 maggio, più di 47mila il 29, quasi 54mila il 30, 68mila il 31. La mobilitazione dei mezzi navali inglesi e francesi è generosa: al largo le navi da guerra e a fare la spola con la spiaggia pescherecci, yacht, rimorchiatori, chiatte, barche da diporto, quasi 700 unità in tutto, esposte alle bombe della Luftwaffe. Gli Stuka picchiano senza pietà e i cadaveri danzano sull'acqua, ma Hurricane e Spitfire della Raf, entrati in battaglia coperti dai radar, hanno la meglio sui bombardieri tedeschi, che perderanno tre aerei per ogni aereo inglese caduto. Il cielo tradisce i tedeschi, come il mare, vecchio amico dell'Inghilterra.
«Gli inglesi se la squagliano sotto il nostro naso», scrive sul suo diario Halder. «Ce li troveremo contro appena riarmati», dice scoraggiato un altro generale tedesco, costretto a fare da spettatore. Dunkerque brucia, il perimetro si è ristretto ma la nube di fumo che grava sulla città costituisce il miglior schermo antiaereo. Il primo giugno il 5° corpo inglese, abbandonato tutto il materiale, si è imbarcato e il 2° sta per partire. La fanteria tedesca avanza e il 3 è a due chilometri dalla città. Gli ultimi battelli, il 4, mollano gli ormeggi. L' "Operazione Dynamo" si è conclusa con un successo insperato: 340mila uomini, di cui 115mila francesi, sono usciti dalla sacca e formeranno l'ossatura della difesa della Gran Bretagna. Trentaquattromila non ce l'hanno fatta e sono rimasti a terra, in un doloroso abbandono. Il 4 i tedeschi entrano in una città demolita: intatta, fra le rovine, spicca orgogliosa la grande torre. Il 5 la Wehrmacht attacca a fondo sulla Somme, destinazione Parigi. Dunkerque, nel bene e nel male, appartiene già al passato.
Perché Dunkerque? Perché il caporale stratega ha fermato i panzer, commettendo il primo dei suoi gravi errori? La ragione è semplice: Hitler non è interessato a Dunkerque, la considera una diversione, è ossessionato dal desiderio di dare il colpo di grazia alla Francia e di prendere Parigi. L'impazienza, l'incapacità di valutare le risorse navali inglesi e la sopravvalutazione della Luftwaffe lo inducono a sbagliare. Si parlerà anche di ipotesi politica: pensando di trattare con Londra una pace di compromesso, Hitler avrebbe risparmiato agli inglesi l'umiliazione della cattura del loro esercito. Ipotesi suggestiva e plausibile ma non supportata da testimonianze sicure.
Il 14 giugno i tedeschi entrano a Parigi. Risuona accorata la voce del maresciallo Pétain, pallido come una maschera di gesso: «Con il cuore spezzato vi dico di deporre le armi». Il 25 la Francia, annientata, capitola. L'Europa è un comodo sofà su cui Hitler si stende senza togliersi gli stivali. Ma nel trionfo del "signore della guerra", espresso con una gioia vendicativa e sprezzante, resterà la macchia di Dunkerque.

giovedì 25 maggio 2023

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 maggio.
Il 25 maggio 567 a.C. Servio Tullio, re di Roma, celebra la sua vittoria sugli Etruschi.
Tra il terzo ed il primo millennio a.C. la penisola italiana fu abitata da due generi di popolazioni: gli Italici (come i Liguri, Sardi, Piceni, Elimi, Sicani), che erano di origine italiana, e gli Indo-Europei (come i Veneti, Osco-Umbri, Latini, Sabini, Sanniti, Mesatti, Iapigi, Lucani, Bruzi, Siculi), arrivati in Italia dall'Europa centrale attraverso il nord della penisola ed il Mare Egeo. Ancora ignota è l'origine degli Etruschi, una delle civiltà maggiori dell'Italia centrale a quel tempo. Inoltre, dal VIII secolo a.C. a sud furono fondate colonie di altre popolazioni del Mediterraneo, come quelle fenicie fondate da Cartagine in Sicilia e Sardegna e quelle greche che formarono la Magna Grecia.
Nel primo millennio a.C., nelle coste occidentali dell'Italia centrale, il Tevere separava le genti Italiche dagli Etruschi. Roma fu fondata sulle colline della riva orientale del Tevere, che rappresentava un posto sicuro e salubre per vivere, essendo al riparo dai rischi della malaria che rappresentava il pericolo delle pianure del Lazio. I sette colli sui quali Roma fu fondata erano il Palatino al centro e, da nordovest a sud, il Capitolino, il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio e l'Aventino.
La tradizione vuole che Roma venne fondata da Romolo il 21 Aprile 753 a.C.. Romolo, dal cui nome deriva quello di Roma, fu il primo dei Sette Re di Roma, l'ultimo dei quali, Tarquinio il Superbo, venne deposto nel 509 a.C. quando venne instaurata la Repubblica Romana. I 244 anni della monarchia non sono in accordo con il numero dei re dato che un tempo medio di 35 anni per regno era sicuramente eccessivo per la vita media del tempo.
E' opinione diffusa che la storia della fondazione di Roma fu scritta nel III secolo a.C. come leggenda sotto l'influenza della cultura greca delle colonie del sud della penisola.
Secondo la leggenda, quando Amulio usurpò il trono del fratello Numitore, re di Alba Longa, forzò la sorella di Numitore, Rea Silvia, a diventare una vergine vestale, in modo che non avesse figli. Comunque, Marte si innamora della vestale e lei divenne madre di due gemelli, Romolo e Remo. Amulio quindi fece arrestare Rea Silvia e mise i gemelli in una cesta che venne abbandonata sul Tevere. La cesta si arenò sulla riva del fiume dove una lupa li allattò fino a che il pastore Faustolo e sua moglie Acca Larenzia li trovò e li portò al sicuro.
Quando crebbero, i gemelli conobbero la loro origine, uccisero Amulio e ripristinarono al trono Numitore. Poi decisero di fondare una nuova città dove vennero salvati dal Tevere. Romolo scelse il Palatino come sede della nuova città, mentre Remo l'Aventino. Non potendosi affidare  al diritto della primogenitura essendo gemelli, scelsero di affidarsi ad un presagio per scegliere una delle due sedi, ma questo (l'avvistamento di uno stormo di avvoltoi, visto per primo da Romolo ma con un numero maggiore di uccelli da Remo) causò una lite tra i due, durante la quale Romolo uccise Remo.
Dopo Romolo, secondo lo storico Livio, i Re di Roma furono inizialmente tre Romano-Sabini (Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio), seguiti da tre re Etruschi (Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo).
Romolo  753 a.C.-716 a.C.
Numa Pompilio  715 a.C.-674 a.C.
Tullo Ostilio  673 a.C.-642 a.C.
Anco Marzio  642 a.C.-617 a.C.
Lucio Tarquinio Prisco  616 a.C.-579 a.C.
Servio Tullio  578 a.C.-535 a.C.
Lucio Tarquinio il Superbo  535 a.C.-509 a.C.
Si deve a Romolo la creazione del Senato, formato dalle persone più influenti e con il ruolo di consiglieri. La struttura definitiva del Senato fu quella nei quali 100 Senatori, scelti dal re, erano rappresentanti delle tre antiche tribù dei Ramnes (Latini), Tities (Sabini) e Luceres (Etruschi).
Alla morte del re, il senato aveva il compito di eleggere il successore. Nel periodo di interregno, un senatore veniva eletto come reggente per una durata di cinque giorni in attesa della nuova elezione. Trovato un candidato, questo veniva discusso nei comizi curiati, le assemblee delle curie, cioè le 10 parti nelle quali venivano suddivise le tribù principali. Nel caso di accettazione da parte dei comizi curiati, il nuovo re doveva innanzitutto ottenere l'approvazione divina tramite il controllo degli auspicia da parte dell'augure. Dopodiché il procedimento di investitura prevedeva il conferimento del potere con un atto detto lex curiata de imperio.
Come detto, il primo re di Roma fu Romolo, dopo la morte di suo fratello Remo. La sua città venne popolata da persone che fuggivano dalle terre vicine; per avere delle mogli, i romani rapirono le donne delle tribù sabine confinanti (Ratto delle Sabine). Dopo un lungo regno, Romolo sparì in una tempesta e venne successivamente onorato come il dio Quirino.
L'origine delle regole e riti religiosi a Roma si fa risalire al successore di Romolo: Numa Pompilio. A lui si deve l'istituzione  della figura del Pontefice, cui spettava il compito di vigilare sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro. Sempre Numa Pompilio creò l'ordine dei Flamini, preti sacri dedicati al culto della Triade Capitolina costituita da Giove, Giunone e Minerva. Scelse le prime vergini Vestali per la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città. Introdusse il culto di Termine, dio dei confini, e costruì il tempio di Giano. Riorganizzò il calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi (355 giorni), con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio dal latino februltus, che significa "un rimedio agli errori" dato che nel calendario romano febbraio era il periodo dei rituali di purificazione; questi furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre, mentre l'anno iniziava con il mese di marzo.
Tullo Ostilio è il terzo re di Roma. Considerando Romolo e Numa rappresentanti dei Ramnes e dei Tities, Tullo fu il rappresentante dei Luceres. Le sue guerre vittoriose contro Alba Longa, Fidene e Veio rappresentano le prime conquiste di Roma al di fuori delle mura delle città. Sotto il suo regno avvenne il combattimento tra Orazi e Curiazi come rappresentanti di Roma e Alba Longa. Si dice che morì colpito da un fulmine come punizione del suo orgoglio.
Le prime tracce di insediamenti nell'area risalgono alla cultura dell'uomo di Neanderthal.
Nella zona di Roma sono stati effettuati diversi ritrovamenti, il più antico dei quali si riferisce al sito della Valchetta, con resti risalenti a 65.000 anni fa. Nella zona di Casal de' Pazzi, uno scavo ha restituito ossa di animali risalenti a circa 20.000 anni fa; mentre in via di Torre Spaccata, lo scavo per la costruzione di un istituto tecnico ha portato alla luce resti di un insediamento umano risalente a circa 6.000 anni fa.
Le tracce successive risalgono all'età del ferro e sono riferibili all'arrivo di genti di stirpe indoeuropea (Latini), nel quadro di un generale fenomeno di migrazione che sembra essersi svolto verso la penisola italiana in due ondate successive (prima il gruppo latino-falisco e quindi il gruppo umbro-sabello).
Le genti del gruppo latino-falisco si spostarono dall'Europa centrale oppure dalla penisola balcanica in seguito all'arrivo delle popolazioni illiriche, e in epoca protostorica si insediarono nella parte occidentale tirrenica dell'Italia centro-meridionale.
I Falisci occupavano la valle del Tevere, tra i monti Cimini e i Sabatini, mentre i Latini si erano stanziati nel Latius vetus ("Lazio antico"), che andava dalla riva destra del corso finale del Tevere ai Colli Albani.
Il loro territorio confinava con quello di diverse altre popolazioni, la più importante delle quali era sicuramente quella degli Etruschi, a nord del Tevere.
I Volsci, di origine osca, occupavano la parte meridionale del Lazio e i monti Lepini; gli Aurunci, la costa tirrenica a cavallo dell'attuale confine tra Lazio e Campania; a nord, sull'Appennino, si trovavano i Sabini; a est gli Equi. Nella valle del Trero, gli Ernici controllavano la via commerciale per la Campania e tra Ardea ed Anzio erano stanziati i Rutuli.
I primi insediamenti nella zona della futura città di Roma sorsero sul colle Palatino intorno al X secolo a.C. (ma le prime tracce archeologiche risalgono almeno al XIV secolo), mentre successivamente vennero occupati anche i colli Esquilino e Quirinale.
La città si venne formando attraverso un fenomeno di sinecismo durato vari secoli, che vide, in analogia a quanto accadeva in tutta l'Italia centrale, la progressiva riunione in un vero e proprio centro urbano degli insediamenti dispersi sui vari colli. Ed è quello che verosimilmente può essere accaduto sul Palatino, che inizialmente era composto da vari nuclei abitativi indipendenti: il Romolo della leggenda può essere stato il realizzatore della prima unificazione di questi nuclei in un’entità unica.
La data tradizionale alla metà dell'VIII secolo a.C., corrisponde al momento in cui i dati archeologici disponibili indicano la creazione di una grande necropoli comune sull'Esquilino, che sostituisce i precedenti luoghi di sepoltura nelle zone libere tra i villaggi, ormai considerate parte integrante dello spazio urbano, come ad esempio l’area del colle Velia, l’altura intermedia tra il Germalo ed il Palatino vero e proprio.
La data ufficiale fu fissata da Marco Terenzio Varrone, secondo il quale la città era stata fondata da Romolo e Remo il 21 aprile del 753 a.C.. Altre fonti riportano tuttavia date diverse: Quinto Ennio, poeta latino del III-II secolo a.C., nei suoi Annales colloca la fondazione nell'875, lo storico greco Timeo di Tauromenio (IV-III sec. a.C.) nel'814 (contemporaneamente, quindi, alla fondazione di Cartagine), Fabio Pittore (III a.C.) all'anno 748 e Lucio Cincio Alimento nel 729.
I primi Re di Roma appaiono soprattutto come figure mitiche. Ad ogni sovrano viene generalmente attribuito un particolare contributo nella nascita e nello sviluppo delle istituzioni romane e nella crescita socio-politica dell'urbe. Contemporaneamente, venivano fondati i primi edifici di culto e si insediavano sui colli periferici gli abitanti delle vicine città che venivano man mano conquistate e distrutte.
In particolare nel VI secolo, periodo di grande prosperità per la città sotto l'influenza etrusca e il dominio degli ultimi tre re, si realizzano le prime importanti opere pubbliche: il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, il santuario arcaico dell'area di Sant'Omobono, e la costruzione della Cloaca Massima, che permise la bonifica dell'area del Foro Romano e la sua prima pavimentazione, rendendolo il centro politico, religioso e amministrativo della città.
A Servio Tullio si deve la prima suddivisione della città in quattro regioni e la costruzione della prima cinta muraria (Mura serviane).
L'influenza etrusca lasciò a Roma testimonianze durevoli, riconoscibili sia nelle forme architettoniche dei templi, sia nell'introduzione del culto della Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) ripresa dagli dei etruschi Uni, Menrva e Tinia. Attraverso l'egemonia etrusca giunsero inoltre nella città i primi elementi di cultura greca.

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