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martedì 31 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 ottobre.
Il 31 ottobre 1970 viene completata l'attivazione in tutta Italia della teleselezione telefonica. Da questo giorno ogni abbonato telefonico può raggiungerne un altro senza dover passare dal centralino.
Parlando di telefonia in Italia il 1903 è il nostro anno-zero. Viene infatti per la prima volta promulgata una legge nazionale mirata alla creazione, a spese dello Stato, di una rete telefonica pubblica che attraversi l’intera penisola. La rete così costruita verrà poi privatizzata nel 1923 dal primo Governo Mussolini, suddividendo l’Italia in cinque aree di gestione affidate a società private e riservando allo Stato tramite la ASST (Azienda di Stato per i Servizi Telefonici) le telefonate interurbane e internazionali. La ASST, controllata direttamente dal Ministero per le Comunicazioni, ha anche il compito di vigilare l’operato delle cinque aziende private che gestiscono il traffico telefonico urbano secondo la seguente ripartizione:
Piemonte e Lombardia STIPEL
Tre Venezie, Friuli, Zara TELVE
Emilia, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise TIMO
Liguria, Toscana, Lazio, Sardegna TETI
Italia meridionale e Sicilia SET
Siamo nel 1925 e una simile ripartizione, pur affidando alla STIPEL la zona più rilevante per volumi di produzione e per strutture disponibili, viene fatta per evitare una concentrazione del mercato che potesse facilmente finire preda di capitali stranieri. L’ipotesi di una gestione diretta da parte dello Stato viene esclusa a causa del pesante debito pubblico che in quegli anni già doveva sostenere. Inizia a diffondersi contemporaneamente una rete di cabine telefoniche pubbliche. Gli anni venti si concludono con la concentrazione nella SIP (Società Idroelettrica Piemontese), che già possedeva STIPEL, di TELVE e TIMO. Viene così a crearsi il primo grande gruppo telefonico italiano, capace di gestire ben oltre la metà del traffico telefonico nazionale.
 Nel 1933 il Governo crea l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), la quale subito acquisisce il pacchetto di controllo della SIP, scorpora STIPEL, TELVE e TIMO e ne trasferisce il controllo alla STET, la prima grande finanziaria di settore dell’IRI. Prima dei bombardamenti del 1942 gli abbonati al servizio telefonico erano 634.483, pari al solo 1,5% della popolazione italiana.
 Nel 1952 per la prima volta tutti i comuni sono collegati alla rete telefonica nazionale. Tra il 1957 e il 1958 l’IRI acquista la SET e la TETI e le trasferisce alla STET. Per la prima volta si ha una totale concentrazione della telefonia italiana (eccezion fatta per le telefonate interurbane di lunga distanza e quelle internazionali, gestite ancora da ASST e Italcable), che verrà definitivamente sancita nel 1964 quando le cinque società telefoniche locali verranno incorporate nella SIP; il Governo inizia a questo punto a trasferire la gestione di una quota sempre maggiore di telefonate interurbane dall’ASST alla SIP stessa, che in seguito all’incorporazione possedeva 4.220.000 abbonati in tutta Italia (circa l’8% della popolazione in quegli anni). Gli anni ’70 e ‘80 sono anni di grandi scoperte tecnologiche nel campo della telefonia e, anche a causa del suo arretramento storico nel settore, l’Italia fatica a seguire lo sviluppo europeo delle telecomunicazioni. La SIP avvia così nel 1988 un massiccio piano di investimenti chiamato “Piano Europa” per raggiungere in quattro anni, tramite l’investimento di 44.000 miliardi di lire, gli standard europei. Nel 1994 gli utenti SIP erano più di 24 milioni  (quasi metà della popolazione), e si apprestavano ad affrontare l’ennesimo cambiamento nel settore: nel 1994 SIP e le altre società del gruppo IRI-STET vengono fuse in un nuovo gestore unico, Telecom Italia.
 Telecom Italia nasce con la fusione di SIP e delle società del gruppo IRI-STET decretata il 30 giugno 1994 con un atto del consiglio di amministrazione dell’IRI. Sotto la presidenza di Guido Rossi, nel 1997 Telecom Italia viene privatizzata dal Governo Prodi: la cessione del 35,26% del capitale frutta 26.000 miliardi di lire. La privatizzazione, nelle intenzioni, sperava di far nascere un “nocciolo duro”  di pochi azionisti capaci di gestire la società: la scarsa risposta degli imprenditori italiani vede formarsi un gruppo di controllo molto fragile (al 6,62% delle azioni), guidato dalla famiglia Agnelli. La fragilità del gruppo favorisce la scalata di Olivetti nel 1999. L’operazione, la prima in Europa per dimensioni, ha portato l’amministratore delegato Roberto Colaninno ad acquisire il controllo di una impresa quattro volte più grande di Olivetti (13.750 miliardi di lire di fatturato e 16.700 dipendenti di Olivetti contro i 46.470 miliardi di lire e i 111.000 dipendenti di Telecom Italia nel 1999), raccogliendo a seguito dell’OPA il 51,02% del capitale di Telecom Italia. Il Ministero del Tesoro, detentore del 3,5% delle azioni di Telecom Italia (e forte di una golden share), preferì nell’occasione tenersi neutrale, e non partecipò all’assemblea degli azionisti che doveva decidere le contromisure alla scalata Olivetti, e ciò agevolò l’esito positivo di questa. La scalata si concluderà con un costo complessivo per Olivetti pari a 61.000 miliardi di lire, tutti raccolti dalle banche tramite emissione di obbligazioni, ai quali vanno aggiunti i 37.000 miliardi raccolti dall’emissione di nuove azioni.
Nel 2001 Olimpia s.p.a., una società costruita per l’occasione da Pirelli (60%), Benetton (20%), Hopa, Unicredito e Banca Intesa, rileva il 23,3% di Olivetti da Bell per 6,56 miliardi di euro. Nel 2003 Olivetti si fonde con Telecom Italia, e sulla società telefonica ricadono tutti i debiti contratti da Olivetti per pagarsi le varie scalate. Nel 2005 Telecom riacquista il controllo di TIM, una delle aziende italiane con i migliori profitti negli ultimi anni,  per favorire la convergenza rete fissa – rete mobile – internet. L’operazione viene ancora una volta finanziata da una cordata di banche, capeggiate da Banca Intesa; l’indebitamento di Telecom in seguito all’acquisizione di TIM passa da 29 a 44 miliardi di euro. Nonostante ciò, i vertici di Telecom decidono di continuare ad aumentare i dividendi azionari e, per questo, il rating di Telecom Italia presso l’agenzia Fitch Ratings scende da A- a BBB+.
L'11 settembre 2006 il consiglio d'amministrazione dell'azienda decide di procedere alla divisione e riorganizzazione dell'azienda Telecom Italia in quattro distinti settori:
    Telecom Italia (telefonia fissa);
    Telecom Italia Mobile (telefonia mobile);
    Telecom Italia Rete (la rete telefonica);
    Telecom Italia Net (Tin.it, internet e media);
Lo scorporo della rete permetterà l'ingresso facilitato a tutti i nuovi operatori alternativi nella telefonia fissa e internet.
In un primo momento si è parlato di una possibile cessione di TIM, sia in Italia sia in Brasile, valutate rispettivamente 30-35 miliardi di euro e 6-7 miliardi di euro. La cessione permetterebbe a Telecom Italia di sanare il suo debito di 44 miliardi di euro. Numerose sono state le polemiche, anche di carattere politico, per quanto riguarda l'eventuale cessione dell'unico operatore mobile italiano a una società straniera o a Mediaset (ipotesi non impossibile ma che comporterebbe delicatissimi problemi relativi alle norme contro i cartelli di società, avendo entrambe posizioni importanti nelle telecomunicazioni). Successivamente il futuro presidente Guido Rossi dichiarerà che non esistono ipotesi di modifica del perimetro delle attività di Telecom Italia, escludendo esplicitamente qualsiasi cessione. La divisione di Telecom Italia da TIM ha portato a un'inversione di tendenza nella strada che era stata intrapresa per la convergenza fisso-mobile.
Telecom Italia si occuperebbe, invece, della telefonia fissa e dei media, soprattutto grazie agli accordi con News Corporation, di Rupert Murdoch, in merito a contenuti televisivi. Gli accordi con Murdoch però non sono stati della portata prevista: è stata annunciata solo la concessione in licenza del catalogo per la diffusione in linea su Alice Home TV.
Dopo la decisione del consiglio di amministrazione, il presidente del Consiglio Prodi lascia trapelare la sua insoddisfazione dicendo di "Non saperne nulla". Il 15 settembre 2006, dopo l'annuncio dello scorporo di TIM, Marco Tronchetti Provera in polemica con Prodi, si dimette dalla guida della società; la presidenza torna, dopo 9 anni, a Guido Rossi, che deve lasciare la FIGC.
La prima mossa di Guido Rossi alla guida di Telecom è la creazione, il 18 ottobre 2006, di un "Patto di controllo" dell'azienda tra Olimpia, Mediobanca e Generali che controllano in tutto il 21,5% della società: Olimpia (ora controllata all'80% da Pirelli e al 20% da Edizione Holding) porta in dote il proprio 18%, Assicurazioni Generali il 2,01%, Mediobanca l'1,54%.
Il 15 febbraio 2007 (comunicazione di Consob del 23 febbraio 2007) Assicurazioni Generali passano dal 2,01% al 4,06% di azioni Telecom Italia. Il Patto di controllo tra le aziende Olimpia + Generali + Mediobanca arriva al 23,6%.
Il patto prevede vincoli sulle quote conferite, la possibilità per i contraenti di aumentare la loro quote e anche quella di vendere in prelazione ai soci. Esiste inoltre la possibilità di entrare nel patto per altri soci che abbiano più dello 0,5% del gruppo: si è parlato dell'ingresso di Intesa Sanpaolo, Capitalia e Unicredit, mentre il secondo azionista l'Hopa (3,72%) ne è rimasto fuori. Il patto è un passo decisivo per il rafforzamento dell'azionariato della società telefonica, che con l'ingresso di nuovi partner potrebbe avvicinarsi alla soglia del 30% oltre la quale è obbligatorio lanciare un'offerta totalitaria.
Presidente del nuovo patto è, dopo la sua uscita da Telecom, Tronchetti Provera.
Anche in conseguenza del patto e dell'influenza dei nuovi soci nel controllo delle strategie del gruppo, è definitivamente tramontata l'ipotesi di ricostituire TIM come società autonoma e di venderla successivamente insieme a Telecom Brasil.
A febbraio 2007 Telecom avvia i contatti con la spagnola Telefónica per l'entrata degli iberici nell'azienda italiana. L'ipotesi è quella di cedere una parte di Olimpia, la finanziaria che controlla il 18% di Telecom. Il 1º marzo 2007 l'azienda Telefónica annuncia in un comunicato che i contatti con Telecom Italia sono temporaneamente sospesi, ma continuano quelli con altri soci al fine di arrivare a una cordata.
Il 9 marzo 2007 viene presentato il nuovo piano industriale per il triennio 2007/2009 al quale, tuttavia, il mercato reagisce facendo registrare un forte ribasso per le azioni di Telecom Italia anche alla luce del fatto che gli utili risultano in calo e, per il futuro, si annuncia una diminuzione dei dividendi.
Il 1º aprile 2007 Pirelli, a seguito di un CdA straordinario, annuncia di avere ricevuto due offerte tese a rilevare il 66% di Olimpia, la holding che detiene il pacchetto di controllo di Telecom Italia.
Le offerte, da parte dell'azienda statunitense AT&T (che, successivamente - il 16 aprile - ha dichiarato di ritirarsi dall'operazione) e dalla messicana América Móvil di Carlos Slim Helú, erano tese a rilevare, ciascuna, il 33% di Olimpia.
A sorpresa, pochi giorni dopo l'annuncio delle due offerte, Guido Rossi, presidente della società dal settembre 2006, non avendo vista rinnovata la propria candidatura a far parte del Consiglio di amministrazione (poi rinnovato nell'assemblea degli azionisti del 16 aprile 2007) si dimette da presidente dell'azienda non senza aver aspramente criticato, in un'intervista a La Repubblica, Tronchetti Provera. Al suo posto viene nominato Pasquale Pistorio come presidente di transizione. Il 28 aprile una cordata italo-spagnola composta da Mediobanca, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo, Sintonia e Telefónica lancia un'offerta per rilevare la quota di Pirelli in Olimpia, con la contestuale creazione di una società veicolo, denominata Telco S.p.A. (patto di controllo): quest'ultima nacque con lo scopo di controllare circa il 23% di Telecom Italia. Tale offerta è stata accettata dal CdA straordinario tenutosi in tale data.
Il 24 ottobre 2007 c'è stata la firma per il passaggio da Olimpia a Telco che ha concretizzato l'operazione ma ponendo 28 condizioni all'azienda Telefónica, legate anche ai paesi dove le 2 aziende sono concorrenti, in primis in Sudamerica. A dicembre, saranno nominati come presidente Gabriele Galateri di Genola e come amministratore delegato Franco Bernabè, ex-presidente della compagnia telefonica.
Il 27 ottobre 2009, i soci di Telco S.p.A., con l'eccezione di Sintonia, rinnovarono per altri 3 anni il patto di controllo.
Nella notte del 23 settembre 2013, Generali, Mediobanca ed Intesa Sanpaolo raggiungono un accordo con Telefónica per la cessione a quest'ultima delle loro quote in Telco. L'operazione permetterebbe al gestore spagnolo di portare dal 46 al 66% la sua partecipazione nella holding che controlla il 22,4% di Telecom Italia, con un'opzione per un ulteriore incremento fino al 70% nel breve periodo per poi arrivare al 100% a partire da gennaio 2014 in caso di approvazione da parte delle autorità Antitrust.
Il 3 ottobre 2013 Franco Bernabè da le dimissioni come presidente di Telecom Italia ricevendo una liquidazione di 6,6 milioni; tutte le deleghe sono affidate temporaneamente all'ad Marco Patuano.
Il 16 aprile 2014 si tiene l'assemblea societaria che procede con la nomina dei nuovi amministratori e di Giuseppe Recchi a Presidente del nuovo Consiglio di Amministrazione; nel CdA del 18 aprile vengono conferite le deleghe e Marco Patuano confermato Amministratore Delegato.
Il 16 giugno 2014 Generali, Mediobanca ed Intesa Sanpaolo hanno annunciato l'intenzione di uscire dal patto di controllo inerente l'holding Telco S.p.A.: in virtù di ciò, nei prossimi mesi Telefónica deterrà direttamente una partecipazione di circa il 15% in Telecom Italia, diventandone unico azionista di controllo, anche se di fatto gli amministratori Recchi e Patuano dichiarano che la società viene gestita come una public company.
Il 16 luglio 2014 Telefonica si avvia a ridurre sotto il 10% la propria partecipazione in Telecom Italia attraverso l'emissione di un bond convertendo in azioni Telecom da 750 milioni, pari quindi a circa il 6% del capitale del gruppo italiano. L'annuncio degli spagnoli, che con lo scioglimento di Telco avrebbero il 14,8% di Telecom, è in pratica una mossa preventiva in funzione Cade: a dicembre l'Antitrust brasiliano - dopo il rafforzamento di Telefonica nella holding Telco che è primo socio di Telecom - aveva sottolineato che l'incremento della quota era contraria agli impegni assunti con l'Authority e aveva chiesto agli spagnoli di conseguenza di uscire da Telecom Italia o di vendere Tim Brasil per riequilibrare la propria presenza nel mercato sudamericano. Con il convertendo triennale dunque Telefonica va verso la riduzione del proprio peso in Telecom Italia, in pratica tornando a una situazione simile a quella che aveva prima dell'autunno precedente, e in proiezione conserverà una partecipazione intorno all'8% circa di Telecom Italia.

lunedì 30 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 ottobre.
Il 30 ottobre 1922, dopo la marcia su Roma, Mussolini riceve da Vittorio Emanuele III l'incarico di formare un governo. Nasce così il ventennio fascista.
Benito Mussolini nasce il 29 luglio 1883 a Dovia di Predappio, in provincia di Forlì, da Rosa Maltoni, maestra elementare, e Alessandro Mussolini, fabbro ferraio. Dapprima studia nel collegio salesiano di Faenza (1892-'93), poi presso il collegio Carducci di Forlimpopoli, conseguendo anch'egli il diploma di maestro elementare.
Stimolato dal padre, esponente socialista facinoroso e violentemente anticlericale, comincia la sua carriera politica appunto con l'iscrizione al Partito Socialista Italiano (PSI). Poco tempo dopo incappa in una vera avventura. Allo scopo di sottrarsi al servizio militare, infatti, fugge in Svizzera, dove conosce importanti esponenti rivoluzionari, rimanendo fra l'altro affascinato dalle idee di stampo marxista. Rientrato in Italia nel 1904 dopo essere stato espulso dai cantoni per ripetuto ed esasperato attivismo antimilitarista e anticlericale, scampa la pena prevista per la renitenza alla leva grazie ad un errore burocratico, per compiere quindi il servizio militare nel reggimento di bersaglieri di stanza a Verona. Per un breve periodo trova anche il tempo per insegnare presso Tolmezzo ed Oneglia (1908), dove tra l'altro collabora attivamente al periodico socialista "La lima"; dopodiché, torna a Dovia.
L'attività politica però continua incessante. Fra l'altro, viene imprigionato per dodici giorni per aver sostenuto uno sciopero di braccianti. Ricopre quindi la carica di segretario della Camera del Lavoro a Trento (1909) e dirige un altro quotidiano: "L'avventura del lavoratore". Si scontra presto con gli ambienti moderati e cattolici e, dopo sei mesi di frenetica attività propagandistica viene espulso dal giornale tra le vibranti proteste dei socialisti trentini suscitando una vasta eco in tutta la sinistra italiana. Torna a Forlì dove si unisce, senza vincoli matrimoniali né civili né religiosi, con Rachele Guidi, figlia della nuova compagna del padre. Insieme ebbero cinque figli: Edda nel 1910, Vittorio nel 1925, Bruno nel 1918, Romano nel 1927 e Anna Maria nel 1929. Nel 1915 sarebbe stato celebrato il matrimonio civile mentre nel 1925 quello religioso.
Contemporaneamente la dirigenza socialista forlivese gli offre la direzione del settimanale "Lotta di classe" e lo nomina proprio segretario. Al termine del congresso socialista a Milano dell'ottobre 1910, ancora dominato dai riformisti, Mussolini pensa di scuotere la minoranza massimalista, anche a rischio di spaccare il partito, provocando l'uscita dal PSI della federazione socialista forlivese, ma nessun'altro lo segue nell'iniziativa. Quando sopraggiunge la guerra in Libia, Mussolini appare come l'uomo più adatto a impersonare il rinnovamento ideale e politico del partito. Protagonista del congresso emiliano di Reggio Emilia e assunta la direzione del quotidiano "Avanti!" alla fine del 1912, diventa il principale catalizzatore delle insoddisfazioni della società italiana, piegata da crisi economiche e ideali.
Lo scoppio del primo conflitto mondiale trova Mussolini sulla stessa linea del partito e cioè di neutralità. Nel giro di pochi mesi, però, nel futuro Duce matura il convincimento che l'opposizione alla guerra avrebbe finito per trascinare il PSI ad un ruolo sterile e marginale, mentre, secondo il suo parere, sarebbe stato opportuno sfruttare l'occasione per riportare le masse sulla via del rinnovamento rivoluzionario. Si dimette perciò dalla direzione del quotidiano socialista il 20 ottobre 1914, proprio due giorni dopo la pubblicazione di un suo articolo che faceva appunto notare il mutato programma.
Dopo la fuoriuscita dall'Avanti! decide di fondare un suo giornale. Ai primi di novembre fonda quindi "Il Popolo d'Italia", foglio ultranazionalista e radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa. Il popolo, a giudicare dal clamoroso boom di vendite, è con lui.
A seguito di queste prese di posizione, viene espulso anche dal partito (è il 24-25 novembre 1914) e richiamato alle armi (agosto 1915). Dopo essere stato seriamente ferito durante un'esercitazione può ritornare alla guida del suo giornale, dalle colonne del quale rompe gli ultimi legami con la vecchia matrice socialista, prospettando l'attuazione di una società produttivistico-capitalistica capace di soddisfare le esigenze economiche di tutti i ceti.
Le esigenze inespresse che serpeggiano nella società Italiana Mussolini sa raccoglierle sagacemente e un primo tentativo lo effettua con la fondazione, avvenuta a Milano il 23 marzo 1919 con un discorso di Mussolini a Piazza San Sepolcro, dei "Fasci di Combattimento" basata su un mescolamento di idee radicali di sinistra e di acceso nazionalismo. L'iniziativa non riscuote di primo acchito un gran successo. Man mano però che la situazione italiana si va deteriorando e il fascismo si caratterizza come forza organizzata in funzione antisindacale e antisocialista, Mussolini ottiene crescenti adesioni e pareri favorevoli dai settori agrari e industriali e dai ceti medi. La "marcia su Roma" (28 ottobre 1922) apre a Mussolini le porte per formare il nuovo Governo, costituendo un gabinetto di larga coalizione che lascia sperare a molti l'avvento dell'attesa "normalizzazione". Il potere si consolida ulteriormente con la vittoria nelle elezioni del 1924. Successivamente Mussolini attraversa un periodo di grande difficoltà a causa dell'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), il primo grande omicidio fascista (anche se gli storici contemporanei non lo riconducono direttamente al volere di Mussolini stesso).
La reazione avversaria non si fa attendere. Alla fine del 1925 viene fatto oggetto di numerosi attentati firmati da socialisti (il primo fu quello ad opera di Tito Zaniboni), massoni, anarchici e quant'altri (perfino una solitaria donna irlandese). Sta di fatto che nonostante l'affermazione di un regime chiaramente dittatoriale, Mussolini riesce a conservare e, in alcuni momenti ad accrescere, la sua popolarità sfruttando abilmente alcune iniziative genericamente populistiche come la risoluzione dell'annoso problema della cosiddetta "questione romana", realizzando attraverso i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929, firmati per conto del Vaticano dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato) la conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa.
Un'incessante propaganda comincia così ad esaltare le doti del dittatore, dipinto di volta in volta come "genio" o come "duce supremo", in un'esaltazione della personalità tipica dei regimi totalitari.
Con il passare del tempo, invece, la Storia darà drammaticamente ragione alla Realtà. Gli eventi mostrano un leader incapace di ferme decisioni, di una strategia a lungo termine non legata agli eventi contingenti. In politica estera, con l'obiettivo di rinnovare e fortificare il prestigio della Nazione in un inusuale miscuglio di cauto realismo imperialistico e letterario della romanità, tiene una condotta a lungo incerta e ondivaga.
Dopo l'occupazione delle truppe italiane di Corfù, nel 1923, e la decisa presa di posizione contro l'annessione dell'Austria alla Germania nazista, Mussolini si getta alla conquista dell'Etiopia: il 3 ottobre 1935 le truppe italiane varcano il confine con l'Abissinia e il 9 maggio 1936 il Duce annuncia la fine della guerra e la nascita dell'Impero italiano d'Etiopia. La conquista da un lato lo fa arrivare al punto più alto della sua fama in Patria ma dall'altro lo rende inviso al Regno Unito, alla Francia e alla Società delle Nazioni, costringendolo ad un progressivo ma fatale avvicinamento alla Germania hitleriana, con la quale firma, nel 1939, il cosiddetto "Patto d'Acciaio", un accordo che lo lega ufficialmente a quell'infame regime.
Il giorno 10 giugno 1940, benché impreparato militarmente, decide di entrare in guerra assumendo il comando supremo delle truppe operanti, nell'illusione di un rapido e facile trionfo. Purtroppo per lui (e per l'Italia!), le sorti si rivelano negative e drammatiche per Mussolini e il fascismo. Dopo l'invasione anglo-americana della Sicilia e uno dei suoi ultimi colloqui con Hitler (19 luglio 1943) viene sconfessato dal Gran Consiglio (24 luglio) e arrestato dal re Vittorio Emanuele III (25 luglio). Trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine al Campo Imperatore sul Gran Sasso, il 12 settembre viene liberato dai paracadutisti tedeschi e portato prima a Vienna e poi in Germania, dove il 15 proclama la ricostituzione del Partito Repubblicano Fascista.
La liberazione di Mussolini è ordinata da Hitler in persona, che ne affida l'esecuzione all'austriaco Otto Skorzeny, dichiarato successivamente dagli Alleati "l'uomo più pericoloso d'Europa" per le sue capacità e per la sua audacia.
Mussolini attraversa periodi di evidente stanchezza, è ormai "alle dipendenze" di Hitler. Si insedia a Salò, sede della nuova Repubblica Sociale Italiana (RSI). Sempre più isolato e privo di credibilità, quando gli ultimi reparti tedeschi vengono sconfitti, propone ai capi del C.L.N.A.I (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) un passaggio di poteri, che viene respinto. Travestito da militare tedesco, tenta la fuga assieme alla compagna Claretta Petacci, verso la Valtellina. Viene riconosciuto a Dongo dai partigiani, successivamente arrestato e giustiziato il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra (Como).

domenica 29 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 ottobre.
Il 29 ottobre 1787 va in scena a Praga la prima rappresentazione del "Don Giovanni" di Mozart.
 Don Giovanni (titolo originale: Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, K 527) è un'opera lirica in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart, composta tra il marzo e l'ottobre del 1787, quando Mozart aveva 31 anni.
Seconda delle tre opere italiane che Mozart scrisse su libretto di Lorenzo Da Ponte, Don Giovanni è un'opera buffa (così la chiama Mozart nel suo catalogo), con la presenza di elementi tratti dall'opera seria, come i pezzi scritti per Donna Anna e Don Ottavio.
L'opera ebbe due stesure, quella rappresentata al Teatro degli Stati di Praga il 29 ottobre 1787 che ebbe un'accoglienza strepitosa, ed una seconda stesura "purgata" per il pubblico conservatore di Vienna e rappresentata nel maggio dell'anno dopo.
Il librettista, Lorenzo Da Ponte, per la stesura dell'opera si appoggiò ad un precedente libretto di Giovanni Bertati intitolato Don Juan Tenorio, ossia Il convitato di pietra, apportandovi importanti modifiche.
Bertati aveva quasi certamente derivato il suo testo da un dramma in versi del 1630 dello scrittore spagnolo Tirso de Molina, "El burlador de Sevilla y Convidado de piedra".
Un altro riferimento importante per Da Ponte e Mozart fu certamente anche il Don Giovanni o Il convitato di pietra di Molière, una tragicommedia in prosa in cinque atti rappresentata a Parigi al Palais-Royal il 15 febbraio 1665.
Siviglia, XVI secolo.
Il Commendatore accorso in difesa dell’onore della figlia Donna Anna, viene ucciso dall’audace seduttore, il nobile Don Giovanni.
Il duca Ottavio, promesso sposo di Donna Anna, giura di scoprire l’assassino, mentre questi fugge coperto dalle tenebre assieme al servo Leporello.
Raggiunto da Donna Elvira, una delle passate amanti, Don Giovanni abbandona la scena, lasciando Leporello a sciorinare il “catalogo” delle conquiste amorose dello straordinario seduttore.
Intanto si stanno svolgendo i festeggiamenti per le nozze di due contadini, Masetto e Zerlina, ma Don Giovanni seduce la sposina e, con minacce e lusinghe, riesce a star solo con lei.
L'arrivo di Donna Elvira sottrae l'ingenua Zerlina alle mire di Don Giovanni.
Donna Anna dopo aver riconosciuto dalla voce che è Don Giovanni l’assassino di suo padre si dirige al castello di quest'ultimo con Don Ottavio e Donna Elvira, mentre è in corso una festa organizzata “in onore” di Zerlina.
Don Giovanni viene smascherato e su di lui viene invocata la vendetta del cielo.
Nel secondo atto, dopo altri inganni perpetrati grazie allo scambio di abiti con Leporello, Don Giovanni si rifugia in un cimitero, dove beffardamente invita a cena la statua del Commendatore.
Tornato al suo castello, Don Giovanni si siede a tavola, respingendo l’ultimo tentativo di Donna Elvira di farlo ravvedere e resiste anche quando persino la statua del Commendatore parla invitandolo a pentirsi.
Ma è arrivata l’ora fatale: la terra si squarcia e Don Giovanni viene inghiottito tra le fiamme.
Il Don Giovanni è considerato uno dei massimi capolavori di Mozart, ma anche della storia della musica e della cultura occidentale in generale.
In esso vi è il riflesso di tutto il genio mozartiano che realizza un irripetibile equilibrio tra il comico, particolarmente con  le caratterizzazioni di Leporello e Masetto, ed il tragico che si realizza nello scontro tra il mondo delle leggi morali e la titanica opposizione del protagonista, di cui la musica di Mozart ha fatto un autentico eroe.
Don Giovanni, pur essendo nobile, veste quasi il ruolo del tipico basso buffo settecentesco (vocalmente, un baritono o un basso-baritono), quasi a sottolineare l'immoralità del suo comportamento che, per così dire, lo "abbassa" di livello.
Leporello (anche lui un basso ai limiti del buffo) è invece un personaggio in bilico tra l'ironia, l'insolenza e la sottomissione nei confronti del padrone.

sabato 28 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 ottobre.
Il 28 ottobre 1965 viene inaugurato a San Louis il "Gateway arch".
Il Gateway Arch fa parte del Jefferson National Expansion Memorial, il Parco commemorativo creato sulle rive del Mississippi nel 1935 per ricordare lo sviluppo verso ovest degli Stati Uniti fra il 1803 ed il 1890.
Progettato dall'architetto Eero Saarinen che nel 1947 si aggiudicò il concorso di idee, fu costruito tra il 1963 ed il 1965, ma aperto al pubblico nel 1967. Alto 192 metri con una base anch'essa di 192 m, consente l'accesso ai turisti fin sulla sommità, per godere di una emozionante visione panoramica della città.
L'architettura del monumento è uno degli aspetti più interessanti. La costruzione si basa su un arco catenario, per il quale Saarinen ricorse ad un'interessante equazione matematica. L'arco è molto forte e robusto ed è stato edificato in modo da resistere a venti e terremoti con una spesa di circa 13 milioni di dollari. La curva catenaria appesantita classica ondeggia di 1/2"- 1" con vento a 20 miglia orari. La struttura ha fondamenta profonde circa 17 metri e pesa 43.000 tonnellate. La sezioni delle sue gambe sono triangoli equilateri, che vanno recingendosi da 16,5 m per lato alla base fino a 5,2 m nella parte più alta. Ogni parete è costruita in acciaio inossidabile posto a copertura del cemento armato, dal livello del suolo fino a 91 m. Dai 91 m fino al picco, è stato utilizzato acciaio al carbonio. La cavità interna all'Arco, racchiude un sistema unico di trasporto che conduce fino ad un ponte di osservazione in alto, due scale di emergenza da 1076 gradini ciascuna, per evacuare l'Arco in caso di emergenza o in presenza di problemi con il sistema di tram.
Il sistema usato per la visita del pubblico all'interno del triangolo, è stato progettato da Richard Bowser. Si può accedere all'arco da un centro sotterraneo per i visitatori ed andare in visita alla struttura salendo su un tram da 40 posti che compie un giro all'interno dell'arco, fino al punto più alto di osservazione.
Gateway Arch è il monumento più alto (il secondo in Missouri) e la maggiore attrazione di St. Louis. Oltre che un'opera di ingegneria, l'Arco costituisce un simbolo dello spirito della città di St Louis.
Durante la costruzione, gli appoggi dell’arco sono stati costruiti contemporaneamente. Al momento di collegarli all'apice, la dilatazione termica dell'appoggio a sud ha impedito l’allineamento con quello a nord. Il problema è stato risolto quando il Saint Louis City Fire Department ha irrorato con acqua il lato sud fino a raffreddarlo ed allinearlo con quello a nord.
Eero Saarinen morì di tumore cerebrale prima che l'Arco venisse completato. Prima della morte Saarinen aveva pensato ad un sistema di ascensori per ovviare all’uso delle scale. La forma dell'arco rendeva tuttavia impossibile l’adozione di un ascensore standard. A Richard Bowser vennero date solo due settimane per mettere a punto il sistema che venne poi adottato.
Una curiosità: l'arco apparteneva al primo progetto del quartiere EUR di Roma che non venne però mai realizzato.

venerdì 27 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 ottobre.
Il 27 ottobre 1275 viene considerata la data di fondazione di Amsterdam.
Le origini della capitale olandese affondano le loro radici nel XIII secolo: la prima testimonianza conosciuta del nome "Amsterdam" risale ad un documento del 1275 in cui si menziona che gli abitanti di un piccolo villaggio di pescatori, situato sulle sponde del fiume Amstel, vi aveva costruito un ponte poco prima della sua foce nell’Ij che allora non era niente più che un’ampia insenatura di acqua salata. Questo ponte era già dotato di porte di legno che all’occorrenza potevano essere chiuse, trasformando il ponte in una rudimentale diga. Non a caso "Amsterdam" significa appunto "diga sull’Amstel".
La città continuò a svilupparsi e presto entrò a far parte della diocesi di Utrecht, ma fu solo nel 1300 che le fu garantito lo status ufficiale di città.
I dazi imposti sul commercio della birra proveniente da Amburgo e le scorte di grano ne accrebbero l’importanza commerciale, ma questa crescita vertiginosa subì un primo arresto quando, sempre nel XV secolo, la città fu quasi rasa al suolo da due incendi che si susseguirono a pochi decenni di distanza l’uno dall’altro, dopo i quali fu dato l’ordine di costruire le case in pietra anziché in legno.
Rimangono oggi soltanto pochissime costruzioni antecedenti quest’editto e il Begijnhof, uno dei più antichi cortili di Amsterdam situato nel cuore della città, ne costituisce l’esempio più eccellente. Nel XVI secolo si aprì il conflitto con la Spagna, causato dal vuoto di potere politico nella nobiltà locale e dall’oppressione religiosa praticata dalla Spagna e che sfociò poi nella Guerra di Ottanta anni e nella successiva indipendenza olandese.
Grazie alla politica di tolleranza messa in atto nei Paesi Bassi, moltissime persone perseguitate per motivi religiosi o politici trovarono rifugio in Amsterdam, trasferendovi altresì le loro ricchezze e la loro diversità culturale.
Il XVII secolo è conosciuto come "l’età dell’oro" olandese e ciò fu particolarmente vero per Amsterdam che in questo periodo fiorì fino a divenire il più importante porto europeo, nonché uno dei maggiori centri finanziari del mondo. Ricchi mercanti mettevano a disposizione ingenti capitali per sovvenzionare spedizioni fin nei più remoti angoli del mondo e numerosissime navi salpavano regolarmente da Amsterdam per raggiungere lontane ed esotiche destinazioni in Brasile, Nord America ed Indonesia, formando così le basi per il successivo impero coloniale olandese.
In questo periodo Amsterdam continuò ad ampliarsi, soprattutto nelle aree attorno ai canali e, per tenere il passo con lo sviluppo cittadino, la richiesta di artigiani specializzati fu continua: venivano reclutati da ogni dove e l’immigrazione crebbe a tal punto da arrivare a rappresentare la maggioranza della popolazione cittadina.
Nei secoli XVIII e XIX, a causa delle guerre con l’Inghilterra e la Francia, Amsterdam vide rapidamente scemare la sua prosperità: le guerre napoleoniche rappresentano probabilmente una delle parentesi più cupe della storia della città.
Un lento risanamento cominciò con l’instaurazione del Regno dei Paesi Bassi nel 1815, quando Amsterdam ricominciò lentamente a svilupparsi sotto la guida esperta dell’architetto Samuel Sarphat che prese ispirazione da Parigi per molti dei suoi progetti. Questa ripresa, galvanizzata dalla Rivoluzione Industriale, portò a due progetti di importanza fondamentale: il canale che dava ad Amsterdam accesso al fiume Reno e il canale del Nordzee che la congiungeva al Mare del Nord.
La fine del XIX secolo è a volte chiamata la "seconda età dell’oro", periodo in cui la popolazione crebbe notevolmente per via delle masse di lavoratori impegnate ora nei progetti appena descritti, ora nell’incessante costruzione di nuovi edifici, tra cui vari musei, la stazione centrale e il Concertgebouw (la sede dell’orchestra filarmonica).
Alcuni anni dopo seguì un’altra impresa titanica: la costruzione della diga Afsluitdijk che nel 1932 portò alla scomparsa del Mare del Sud e lasciò il posto al lago chiamato ora Ijsselmeer e, per la prima volta nella storia della città, Amsterdam si trovò priva di uno sbocco diretto sul mare. Le truppe tedesche occuparono la città durante la seconda Guerra mondiale (l’Olanda rimase neutrale durante il primo conflitto) e circa 100.000 cittadini ebrei furono deportati, tra cui anche la celeberrima Anne Frank. Con la loro scomparsa la città perdette anche il florido commercio dei diamanti, fino ad allora nelle mani di uomini d’affari ed artigiani ebrei che avevano trasformato Amsterdam nel più importante centro di lavorazione e smercio di diamanti esistente al mondo.
Durante gli anni ’60 e ’70 si verificò quella rivoluzione culturale che trasformò Amsterdam nel "centro magico d’Europa" e la cui politica di tolleranza sulle droghe leggere e la diffusa pratica di squatting (l’occupazione forzata di edifici disabitati) la resero una celebre destinazione fra gli hippies.
Gli anni ’80 videro giungere i grandi flussi migratori da Suriname, Turchia e Marocco che provocarono sia un mini-esodo di parte della popolazione verso piccole città satellite appena create che lo sviluppo di quartieri quali il Pijp e lo Jordaan, fino ad allora territorio della classe operaia, ed ora presi d’assalto da nugoli di yuppies e studenti.
Il nuovo millennio ha visto il sorgere di nuovi ed inquietanti problemi quali sicurezza, integrazione, discriminazione e segregazione, largamente provocati dalla collisione tra le varie etnie e diverse culture che, pur convivendo nella città, non sembrano riuscire a coesistere armoniosamente, situazione comprensibile considerando che ben il 45% degli abitanti di Amsterdam ha genitori non olandesi.

giovedì 26 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 ottobre.
Il 26 ottobre 1860 Giuseppe Garibaldi e re Vittorio Emanuele II hanno lo storico incontro, alla fine dell'impresa dei Mille.
Ancora oggi ci si chiede l'esatta collocazione dell'incontro fra i due Grandi della storia del nostro Risorgimento. Due comunità si contendono l'importante convegno.
Dopo la battaglia del Volturno, vinta dai volontari di Garibaldi, la situazione militare desta qualche preoccupazione per i generali del Dittatore. L'esercito Borbonico, ancora forte di circa cinquantamila uomini, è trincerato oltre il Volturno, nelle fortezze di Capua e Gaeta. Gli uomini di Francesco II non rimangono sulla difensiva ma spesso operano qualche limitato contrattacco. Garibaldi mantiene l'assedio di Capua e Gaeta disponendo di dodici o tredicimila uomini. Vorrebbe prendere Capua senza troppo spargimento di sangue, che lui ritiene fraterno, evitando il bombardamento indiscriminato della cittadina. Ma intanto i tempi stringono, i volontari sono stanchi e sfiduciati. Bixio, Medici, Tùrr e lo stesso Cavour, insistono presso Garibaldi affinché faccia votare il Plebiscito e l'annessione, prima che i Borbone organizzino una forte controffensiva e ritornino a Napoli.
Si dice che lo stesso Medici, all'insaputa del Generale abbia scritto a Cavour implorando Vittorio Emanuele di venire in soccorso di Napoli. Garibaldi che era cosciente della realtà, il 4 ottobre aveva già scritto al Re invitandolo a fare una passeggiata, nella capitale dell'ex Regno delle Due Sicilie, con almeno una divisione… "Avvertito in tempo, io congiungerei la mia destra alla divisione suddetta, e mi recherei in persona a presentarle i miei omaggi e ricevere ordini per le ulteriori operazioni".
Vittorio Emanuele non aspettava altro. Il 15 ottobre passava il fiume Tronto ed entrava nel Regno di Napoli. Il 26 ottobre 1860, termina la grande avventura delle camicie rosse. Garibaldi consegna a Vittorio Emanuele II il Regno delle Due Sicilie e lo saluta "Re d'Italia".
La storia risorgimentale dà molta enfasi a quest'incontro che segnò una tappa storica per la nuova Italia. L'incontro avvenne nei pressi di Teano, senza troppe formalità, anzi con molta freddezza, fra lo stato maggiore del Re e gli aiutanti di campo di Garibaldi. Oggi, nel comune di Vairano Patenora, (CE) in località Taverna di Catena, al quadrivio, in ricordo dell'avvenimento sorge un monumento con la scritta: " QUI TAVERNA CATENA DI VAIRANO PARTENORA IL 26 OTTOBRE 1860 GIUSEPPE GARIBALDI E V. EMANUELE II CONCLUSERO L'UNITA' D'ITALIA".
Sembra tutto chiarito, e il monumento confermerebbe che il celebre saluto sia avvenuto in questo luogo. Ma non è così, con buona pace della storia, il punto preciso dell'incontro è ancora in discussione fra gli storici, tanto è vero che sulla strada che da Caianello porta a Teano, in questo comune, quasi al confine con quello di Vairano Patenora, al lato del ponte di S. Nicola, si nota una segnalazione turistica, indicante l'importante incontro, mezza abbattuta, un po' trascurata, senza alcuna pretesa storica, anzi rassegnata ad essere dimenticata, quasi ad indicare che non è quello il luogo dove avvenne il celebre saluto. Più avanti c'è una chiesetta, sui gradini della quale, a dire di Cesare Abba, il Generale avrebbe consumato un frugale pasto.
Per chiarire l'equivoco, e mettere pace fra le due cittadine che si contendono l'avvenimento, nel 1891 fu costituito in Teano un comitato per studiare e individuare esattamente il luogo dove Garibaldi salutò Vittorio Emanuele. Le ricerche durarono vari anni, sia da parte d'insigni studiosi sia dell'Ufficio Storico del Ministero della Guerra. Le indagini s'intensificarono nel 1907, con il I° centenario della nascita dell'Eroe dei due mondi. In quell'epoca furono scritti libri, articoli, monografie, pubblicati diari sulle imprese garibaldine. Al tema dell'incontro si appassionò il Prof. Vincenzo Boragine di Teano, membro del comitato, il quale impegnò venti anni in accertamenti, audizioni di testimoni, verifiche di documenti, d'informazioni ricevute da partecipanti a quei fatti quali: il generale piemontese Cialdini, Giuseppe Porta, i garibaldini Alberto Mario, il colonnello Giuseppe Missori, lo scrittore G. Cesare Abba e tanti altri. Alla fine i dubbi rimasero irrisolti. Nessuno fu concorde sulla versione dei fatti.
Diverso è l'orario, il luogo, ed altri particolari. La tesi che sostiene il Boragine è che l'incontro sia avvenuto fra Caianello e Teano, sul ponte di S. Nicola, nei pressi della chiesa di Borgonovo, verso le ore 8 del mattino, con un cielo nuvoloso. Il giornale," Il Mattino" del 24-25 agosto 1907 nr. 236", riferisce che vi furono abbracci e baci fra Garibaldi e Vittorio Emanuele, mentre il giornale la "Tribuna del 24 agosto 1907 nr. 234", riporta la testimonianza di Leopoldo Giovannelli, che prese parte a tutte le campagne dell'indipendenza italiana, prima nelle file dei garibaldini e poi dei bersaglieri: "Io nel 1860-61 facevo parte del 3° reggimento garibaldino della divisione Medici. Il mio battaglione, il 2°, proveniente dai posti avanzati sotto Gaeta, si trovava la mattina del 26 ottobre - sulla strada che da Caianello conduce a Teano - Saranno state le otto e mezza del mattino, quando a - circa mezza strada fra i due citati paesi - udii tre squilli di tromba segnale dell'Attenti - seguiti dalle prime note della marcia reale… Non appena schierati ci fu comandato di presentare le Armi, e allora vedemmo giungere dalla nostra destra, cioè dalla parte di Caianello, Re Vittorio Emanuele II, e dalla sinistra, cioè dalla parte di Teano, il generale Garibaldi. Il Re era accompagnato dal generale Fanti… e dal generale Morozzo della Rocca, al seguito, ma già fermi alla distanza di non meno di 50 metri, vi era lo stato maggiore… Il Generale era accompagnato dal generale Medici, dal generale Tùrr e dal colonnello Bertani, anche costoro si fermarono a considerevole distanza da Garibaldi, e molto più indietro ancora stavano diversi ufficiali garibaldini a cavallo. Re Vittorio montava un cavallo sauro, Garibaldi un cavallo baio. Vittorio Emanuele e Garibaldi si avanzarono, soli, l'uno incontro all'altro, e quando furono un po' vicini, Garibaldi, con la sua voce squillante, alzando la destra senza togliersi il berretto, esclamò - Salute al Re d'Italia - al che il Re rispose con grande enfasi spontanea - Saluto il mio migliore amico!- Quindi messi i cavalli a fianco a fianco, i due personaggi si abbracciarono e si baciarono… il colloquio durò circa venti minuti…".
Il quotidiano Roma del 27 ottobre 1860 nr. 300, nella cronaca di Napoli così riportava: "Uno storico incontro; Vittorio Emanuele stringe la mano al Generale Garibaldi… verso le ore 8 e mezzo antimeridiane, il Re si trovava sulla Strada Caianello-Teano, al bivio della chiesa di Borgo, ivi gli andava incontro il Generale Garibaldi; cui il sovrano stringeva la mano. Vittorio Emanuele e il Dittatore procedevano quindi a fianco a fianco per circa dieci minuti, fino a Teano. A Porta Romana, si separavano". I Due si parlarono da soli per circa 10-20 minuti, cosa si siano detti, sono tutte supposizioni, ma lo si può dedurre dagli avvenimenti che seguirono. Dopo una stretta di mano, si presume, si lasciarono alle porte di Teano, al largo di Porta Romana. Il Re prese alloggio a Teano nel palazzo del principe Santagapito ove fino alle due di notte avevano alloggiato i Borbone: il conte di Trani, i generali Salzano e Ritucci mentre nella piazza bivaccavano i soldati borbonici. Questi, al sopraggiungere dei garibaldini, dopo una breve sparatoria, montarono a cavallo e si ritirarono verso Sessa. Garibaldi con Mario, Missori, Nullo e Canzio, si fermò, per circa un'ora, in una vicina "stalluccia", al largo Muraglione, per far riposare il suo cavallo e consumare un frugale pasto. Per colazione il Dittatore mangiò pane, formaggio e una bottiglia di vino e per frutta tre fichi offertigli da un contadino, che il Generale ripagò con una moneta d'argento. Ai curiosi che erano accorsi a rendergli omaggio disse di andare a salutare il Re. Era lui che ora dovevano ossequiare.
Un'altra fonte parla di Monte Croce, come anticamente si chiamava monte Manzanello, nelle cui vicinanze vi era la Taverna Catena. Il giornale Officiale di Napoli del 27 ottobre 1860 scriveva: "...Ieri mattina Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele si trovava alla testa di quattro divisioni all'inizio si Monte Croce; ivi s'incontro con il Dittatore, e passò in rassegna parte dell'Esercito Meridionale…" Lo stesso luogo è confermato in uno scritto del 1861 di Pasquale Matarazzi, in "Avvenimenti Politici Militari dal settembre al novembre del 27 ottobre 1860", e da P. Giuseppe da Forio, al secolo Erasmo di Lustro, francescano garibaldino (Dopo l'ingresso di Garibaldi a Napoli, formò il Comitato Unitario Ecclesiastico di Napoli, d'ispirazione giobertiana. P. Giuseppe nelle sue celebri prediche sosteneva che l'Unità d'Italia non danneggiava la religione). Per Alberto Mario, testimone oculare (patriota garibaldino e scrittore, prese parte alla spedizione dei Mille e fu vicino a Garibaldi come consigliere e amico), l'incontro avvenne alle sei del mattino e Garibaldi vestiva il suo solito "abito leggendario" e data l'umidità, il Generale si era messo in testa un fazzoletto di seta annodato sotto il mento per proteggersi dal freddo, siamo in ottobre e Garibaldi forse già soffriva di artrite. Non era più giovanissimo, aveva 53 anni.
Continua Alberto Mario: " Di lì a poco le musiche intonando la Marcia Reale annunciarono il Re, il quale arrivò sopra un cavallo arabo stornello, Garibaldi andò incontro a lui, ed egli venne verso Garibaldi fra la strada e la stradella. Garibaldi, cavatosi il cappellino gridò: Salute al Re d'Italia, e il Re rispose: - Grazie.- Il Re soggiunse: - Come state, caro Garibaldi? - E Garibaldi: - Bene, e Vostra Maestà? -E il Re:- Benone - Indi si partì per Teano. Il Re a destra, a sinistra Garibaldi, e, dietro il seguito dell'uno e dell'altro alla rinfusa. E fu allora che Garibaldi, sentendo che una battaglia al Garigliano era imminente, chiese al Re l'onore del primo scontro. Ma il Re: " Voi vi battete da lungo tempo: tocca a me adesso; le vostre truppe sono stanche, le mie fresche; ponetevi alla riserva". Alberto Mario, scrive:  "... Proveniente da Venafro, sfilava verso Teano l'esercito Settentrionale… il sito d'interruzione delle due strade era abbastanza capace, e l'adornavano una casa rustica (Taverna Catena) e una dozzina di pioppi…". Più o meno analoga versione la dà lo scrittore e giornalista Gustavo Sacerdote, aggiungendo di nuovo: "...che cosa si sian detto, nessuno poté udire; ma pare che Vittorio Emanuele abbia cercato di convincere Garibaldi a rinunciare alla marcia su Roma ed abbia discusso con lui la questione dello scioglimento dell'esercito volontario…".
Un altro testimone oculare, Cesare Abba, ci dà un'ampia descrizione premettendo che quella giornata iniziò male perché era caduto da cavallo il generale Nino Bixio riportando una frattura ad una gamba e delle escoriazioni alla testa: "...Chi dice che siam qui per dare l'ultima battaglia, e che mentre combatteremo contro i cinquantamila borbonici che ancora tengono per Francesco secondo, arriveranno i soldati di Vittorio Emanuele con lui in persona, discendendo dall'Abruzzo per la via di Venafro...Una casa bianca a un gran bivio, dei cavalieri rossi e dei neri mescolati insieme, il Dittatore a piedi; delle pioppe già pallide che lasciavano venir giù le foglie morte, sopra i reggimenti regolari che marciavano verso Teano...A un tratto, non da lontano, un rullo di tamburi, poi la fanfara reale del Piemonte, e tutti a cavallo! In quel momento, un contadino, mezzo vestito di pelli, si volse ai monti di Venafro...Ed ecco un rimescolio nel polverone che si alzava laggiù, poi un galoppo, dei comandi, e poi:- Viva! Viva! Il Re! Il Re! Mi venne quasi buio per un istante; ma potei vedere Garibaldi e Vittorio darsi la mano, e udire il saluto immortale: - Salute al re d'Italia! - Eravamo a mezza mattinata. Il Dittatore parlava a fronte scoperta, il Re stazzonava il collo del suo bellissimo storno, che si piegava a quelle carezze come una sultana. Forse nella mente del Generale passava un pensiero mesto. E mesto davvero mi pareva quando il Re spronò via, ed Egli si mise alla sinistra di lui e dietro di loro la diversa e numerosa cavalcata". Abba interpretò subito ciò che di vero era stato detto fra i Due e si domanda:. "...Re Vittorio fu freddo nell'incontro con Garibaldi?...Dunque certo contegno di Vittorio Emanuele nell'incontrarsi col Dittatore sarebbe stato un delicato riserbo?...Non si sente che la grandezza di Garibaldi, sinora! Non si conosce che vi sia chi mira il sole nascente". Lo scrittore continua: " Ieri il Dittatore non andò a colazione col Re. Disse d'averla già fatta. Ma poi mangiò pane e cacio conversando nel portico d'una chiesetta, circondato dai suoi amici, mesto, raccolto, rassegnato. A che rassegnato? Ora si ripasserà il Volturno, si ritornerà nei nostri campi o chi sa dove; certo non saremo più alla testa, ci metteranno alla coda…".
Il Diario Storico dell'Archivio del Ministero della Difesa, nel rapporto giornaliero del 26 ottobre 1860 recita: "... A Taverna della Catena, S.M. il Re, che col suo quartier generale marcia colle truppe del quarto Corpo, è incontrato dal gen. Garibaldi…". Per Indro Montanelli, nella sua "Storia d'Italia" l'incontro avvenne a Taverna di Catena: "...Garibaldi...si riposava sotto un albero insieme a Missori, Canzio, Alberto Mario e pochi altri, fra cui Abba, testimone e non imparziale memorialista della scena, udì la fanfara reale e salì a cavallo. Era vestito al solito suo modo, camicia rossa e poncho. Ma il fazzoletto, invece di portarlo al collo come sempre, gli scendeva di sotto il cappelluccio di feltro in due bande annodate sotto la gola. Nel piccolo seguito del Re figuravano Farini e Fanti, cioè due fra gli uomini che più odiavano Garibaldi e che Garibaldi più odiava. Garibaldi dié di sprone togliendosi il cappello e restando con la pezzola come una vecchia massaia. "Saluto il primo Re d'Italia!" gridò. "Saluto il mio migliore amico!" avrebbe risposto il Re. Ma secondo certuni invece rispose soltanto: Grazie! Il Generale si mise alla sinistra del Sovrano e, cavalcando al suo fianco...".
Andando a spulciare nella cronaca del tempo, sul giornale L'indipendente,  diretto dall'amico di Garibaldi, A. Dumas, suo gran sostenitore e simpatizzante, confinata nell'ultima pagina si trova un anonimo Dispaccio Telegrafico: " Il Generale Milbetz al Generale Tùrr Napoli - Ieri mattina Sua Maestà il Re Vittorio Emmanuele si trovava alla testa di quattro divisioni a Monte Croce, ivi s'incontrò col Dittatore e passò in rassegna parte dell'Esercito Meridionale. La sera Sua Maestà era a Teano, e il Dittatore trovasi a Calvi. S. Maria 27 ottobre 1860 - Napoli ottobre 1860" Qualche particolare in più lo troviamo ancora sull'Indipendente di martedì 30 ottobre 1860, fra la "Corrispondenza Particolare del Campo" del giorno 29: "Il Re Vittorio Emmanuele, ed il Dittatore si sono incontrati il 27 andante a Sant'Agata, entrambi a cavallo. Il Re Vittorio Emmanuele portava il costume di Generale dell'armata piemontese; Garibaldi aveva la camicia rossa, ed il puncis bornous indiano di sopra. Senza scendere da cavallo il Dittatore diede la mano al Re, e gli disse: Sire, io vi do oggi tutto il paese che ho conquistato in vostro nome; ma non voglio rimetterlo realmente che quando Capua sarà vostra. Dopo una pari conquista andrò durante l'inverno a fare con l'aiuto di Dio il romita a Caprara. Se però fino allora una palla non viene a togliermi la vita in primavera io andrò in Ungheria, e con le vostre forze e la mia cooperazione l'Italia sarà UNA. - Vi ringrazio, rispose il Re: e spero di essere sempre così d'accordo con voi. Io credo che voi siate non solo il migliore dei miei amici, ma anche il solo. Dopo queste parole il Re ed il Dittatore hanno visitato il campo e si sono divisi fra Sant'Angelo e S. Maria, essendo tornato il Re a Teano ed il Dittatore a Caserta. Il Generale Sirtore accompagnava il Re".
Fra tante discordanze e fantasie, tutti però sono concordi nel fatto che nella mattinata del 26 ottobre, fra Caianello e Teano, Garibaldi consegnò l'Italia Meridionale a Vittorio Emanuele ricevendone in cambio solo una stretta di mano, il diniego di far continuare a combattere i suoi Garibaldini a fianco delle truppe piemontesi nell'assedio definitivo di Capua e Gaeta e il disprezzo degli ufficiali del nuovo esercito per i volontari. Quella stessa mattina il generale piemontese Della Rocca, assicurava la moglie del principe Santagapito di stare tranquilla: "...non tema signora marchesa, noi non abbiamo che fare con quella gente, e veniamo appunto per ristabilire l'ordine". I garibaldini erano considerati con disprezzo "feccia e canaglia" dal re, dal suo stato maggiore e dagli ufficiali, mentre i gradi bassi dell'esercito erano coscienti del valore della camice rosse. In dicembre a Napoli avvennero diversi tafferugli fra i volontari e l'esercito regolare! Alla freddezza di quest'incontro, rimediarono in seguito gli storiografi della corona, esaltando e ricamandoci sopra, per la pace di tutti e per l'Unità d'Italia. Garibaldi ne uscì distrutto e umiliato, e come lui i suoi "volontari". Da quel momento fu messo in "forse" tutto quello che aveva fatto. La realtà di quel momento storico fu magnificamente interpretata da Cesare Abba: "... certo non saremo più alla testa, ci metteranno alla coda…", e noi aggiungiamo, vi manderanno a casa, la maggior parte chiederanno l'elemosina per le strade di Napoli, altri torneranno al paesello a lavorare nei campi, i più fortunati, e altri ancora entreranno nelle bande dei briganti o pentiti riprenderanno le armi per combattere i piemontesi e sperare nel ritorno di Francesco II. "...Noi abbiam veduto la banda garibaldina, la cui posizione, probabilmente, non era regolare, andare, di porta in porta, suonando l'inno patriottico, che sarà la marsigliese dell'Italia, e domandando l'elemosina per mangiare…".

mercoledì 25 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 ottobre.
Il 25 ottobre 1825 nasce Johann Strauss figlio.
Johann Strauss nasce a Vienna, una delle più importanti città europee di fine 800, famosa per la sua vivace vita culturale e che, proprio in quegli anni ospitava la bellissima imperatrice Sissi. Padre di Johann Strauss jr. è Johann Strauss, famosissimo musicista e compositore. Il padre però, pur amando enormemente la musica, non desiderava che il figlio, nato nel 1825 e chiamato come lui, studiasse musica e divenisse un professionista, preferendo avviarlo a studi diversi. Tuttavia, il richiamo del violino è troppo forte e, il giovane Johann jr. corona il suo sogno, divenendo già in giovane età un violinista molto conosciuto e apprezzato. Oltre che esecutore musicale egli si dedica però anche alla composizione, arrivando a superare il padre. Già a diciannove anni Strauss jr. dirige un'orchestra, nonostante il padre avversi la sua scelta e cerchi di boicottarlo pubblicamente. Ma ciò non serve e il ragazzo è ormai lanciato verso una brillante carriera.
Negli anni seguenti nascono le sue più grandi composizioni. Suo è il famosissimo valzer "Sul bel Danubio blu". Da ricordare che il valzer era il ballo più in voga all'epoca e suo assiduo praticante era persino l'imperatore Francesco Giuseppe. Nessuno osa dare un ballo per l'imperatore se non si può permettere di invitare Johann Strauss jr. a dirigere l'orchestra e per Strauss jr. era tale la fama che fu nominato anche Maestro di Cappella e successivamente direttore dei balli di corte. A lavorare con lui, furono i due fratelli minori Eduard e Josef, insieme all'attiva collaborazione della madre e delle sorelle. Il rapporto con il padre, invece, rimane sempre conflittuale, anche in seguito all'abbandono del tetto coniugale e dell'unione con una giovane compagna.
Gli anni della maturità sono per Strauss jr.  estremamente fecondi.  Oltre che acclamato compositore di musica orchestrale, negli anni 70 del diciannovesimo secolo, dal 1871 Strauss jr.  trova feconda attività nel campo dell'operetta, un tipo di opera brillante molto amata a quei tempi.  La più famosa è sicuramente Lo zingaro barone del 1874. 
Strauss jr.  muore nel 1899, lasciando un ricco testamento, in gran parte destinato alla moglie e ai familiari.
Alla sua figura e a quella degli altri membri della sua famiglia è dedicato l'annuale Concerto di Capodanno, offerto dai Wiener Philharmoniker, in diretta mondovisione dalla sala dorata del Musikverein di Vienna.

martedì 24 ottobre 2023

Wunderkammer 11

La meraviglia del teatro nella Napoli profonda 

 C'è un fenomeno nel panorama culturale di Napoli che è giunto all'undicesimo anno di vita. Lo conosciamo da un po' di tempo e l'unica cosa che ci duole è aver deciso di iniziare a parlarne solo adesso.
 Wunderkammer è una rassegna teatrale e musicale itinerante che organizza spettacoli in luoghi di elevato pregio artistico e storico di Napoli. In 10 edizioni ha allestito oltre 200 rappresentazioni teatrali e musicali, coinvolgendo 42 registi, oltre 120 attori, 105 musicisti e 30 drammaturghi. Tra i luoghi frequentati il museo Cappella Sansevero, il MANN, il MADRE, il Museo del Tessile, il Museo Diocesano, Villa Pignatelli, San Martino, le Gallerie d'Italia, la stazione Darwin-Dohrn. Oltre 30 chiese, 10 gallerie d'arte, due sedi universitarie, numerosi alberghi, giardini, siti archeologici, chiostri e illustri residenze private, ville, studi professionali, case editrici e perfino un cimitero e un ospedale.
 Spesso ha avuto occasione di valorizzare siti meno noti al grande pubblico, grazie al patrocinio morale di importanti enti come il Fondo Ambiente Italiano, l'Accademia di Belle Arti di Napoli e l'Ordine degli Architetti di Napoli e Provincia, oltre che del Comune di Napoli e della Città Metropolitana.

 Il 23 ottobre è stata presentata l'undicesima stagione, ricca di teatro e musica, promessa da artisti fedeli dalla nascita del progetto e esordienti nella rassegna: 14 rappresentazioni e 7 concerti che si terranno rigorosamente di venerdì sera, da fine ottobre a fine maggio.
 Wunderkammer va però oltre l'impegno concreto di venerdì. Ancora è aperta la raccolta fondi per l'edizione di due dischi ottici per due concerti dal vivo cui invitiamo a partecipare: sono la registrazione di due appuntamenti della scorsa stagione, New York Stories e The song book: chapter two.

 Il progetto si distingue per l'attenzione al benessere sociale: rinnova l'impegno a riservare il 10% dei posti disponibili per assegnarli gratuitamente ai minori di 28 anni e ancora adotta una politica plastic free. Inoltre da questa stagione simbolicamente riserva un posto per manifestare contro la violenza alle donne.
 Auguriamo altri decenni felici ad una iniziativa che rende lustro a Napoli, alla cultura, all'arte, alla bellezza goduta in buona compagnia.

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 ottobre.
Il 24 ottobre 1861 viene ultimata la linea telegrafica che collega le due coste oceaniche americane, decretando così la fine del servizio dei Pony Express, che verrà ufficializzato due giorni dopo.
Eccolo che arriva! “In fondo alla piatta e sterminata distesa della prateria si materializza contro il cielo un puntino che avanza verso di noi ad andatura travolgente. Si levano grida, acclamazioni e poi cavallo e cavaliere sfrecciano davanti ai nostri volti eccitati e si allontanano come una sorta di uragano in miniatura”. Così lo scrittore Mark Twain, in viaggio nel West, descrive il passaggio di un corriere del Pony Express.
E cosi oggi se lo immaginano tutti, ventre a terra, Ia tesa del cappello rialzata all’indietro dal vento, lanciato a briglia sciolta verso l’orizzonte.
Dal Missouri alla California, passando per il Kansas, il Wyoming, un pezzetto del Colorado, il Nebraska, lo Utah e il Nevada, in dieci giorni (indiani, banditi, bufere e altri incidenti di percorso permettendo), lungo 3.050 chilometri e 157 stazioni di posta.
Dura poco più di 18 mesi, il servizio postale a cavallo del West, poi diventa leggenda.
L’avventura inizia il tre aprile 1860, alle cinque della sera, a St. Joseph, al confine tra Missouri e Kansas. Un cannone piazzato accanto all’ufficio della compagnia del Pony Express spara una salva dando il via al corriere in camicia rossa, pantaloni blu e stivali, che inizia la sua galoppata verso la California.
Secondo alcune versioni si chiamava Billy Richardson, secondo altre Johnny Fry, il primo Pony Express diretto verso l’Ovest. E' uno degli 80 giovani scelti tra i candidati che hanno risposto all’annuncio pubblicato dagli organizzatori della Compagnia su tutti i giornali della frontiera: “Cerchiamo giovani magri e resistenti, al massimo diciottenni. Devono saper cavalcare benissimo ed essere disposti a rischiare la vita ogni giorno. Preferiamo orfani”.
Non c’é che dire: l’inserzione non nasconde affatto la pericolosità di quel lavoro.
Tra gli 80 prescelti c’è un ragazzo quindicenne orfano di padre, William Frederick Cody, che pochi anni dopo diventerà il famoso Buffalo Bill. C’é chi dice che anche James Butler Hickok, il futuro pistolero Wild Bill Hickok, abbia fatto il corriere, ma in realtà lui si deve accontentare di fare l’impiegato in una delle stazioni di posta perché supera il peso limite di 55 chili.
Ogni corriere deve giurare di non bestemmiare, non ubriacarsi, non giocare d’azzardo, non maltrattare i cavalli, non violare i diritti dei cittadini e degli indiani (bontà loro). Alla Compagnia dovevano avere a cuore l’integrità morale e religiosa dei cavalieri perché ognuno di loro riceve in dono una Bibbia “per difendersi dall’immoralità”. Senz’altro più graditi un paio di pistole Colt e un fucile “per difendersi dagli indiani bellicosi”. Ma i fucili sono poco maneggevoli, ingombrano sui veloci ponies e alla fine vengono messi da parte.
A organizzare il servizio postale del Pony Express è un intraprendente uomo d’affari, William Hepburn Russell. E’ della stessa razza di uomini come John Butterfield che con le sue diligenze trasporta passeggeri e posta dall’est alla California e viceversa. O come Henry Wells e William Fargo che hanno fatto soldi a palate con i servizi postali espressi e che nel 1850 hanno fuso le loro società con quella di Butterfield dando vita all’American Express Company. Assieme ai suoi soci, Alexander Majors e William Waddel, William Russell cerca da anni di ampliare il suo campo d’azione con il trasporto di posta e passeggeri, dopo essersi arricchito con quello di merci per il West. Il debutto, però, non è dei più felici. Mette in piedi una Compagnia di cinquanta diligenze Concord, che diventerà poi la Central Overland California & Pike’s Peak Express Company, per soddisfare le esigenze dei cercatori affluiti nel Colorado dopo la scoperta di giacimenti d’oro e d’argento.
Ma s’indebita fino al collo. Da buon affarista qual è mette gli occhi su un altro affare. Nel 1860 vive a occidente delle Montagne Rocciose quasi mezzo milione di americani, in gran parte in California. Da tempo i californiani chiedono un servizio postale, soprattutto perché mancano notizie dall’Est. Una nave da New York o da Boston impiega sei settimane per arrivare a San Francisco mentre le diligenze di Butterfield, via El Paso (Texas), New Mexico e Arizona, ce ne mettono tre. Russell va a Washington, vuole ottenere un contratto per un servizio postale rapido. Nella capitale trova un alleato nel senatore William Gwin della California.
Nel gennaio 1860 l’accordo è fatto e il senatore promette finanziamenti per il progetto. Di sicuro il ministro della guerra, John Floyd, firma per Russell fidi bancari: alla luce dei fatti successivi niente altro che promesse di pagare in base a eventuali contratti tra il ministero della guerra e le società di Russell.
In tre mesi il progetto diviene realtà. In meno di 60 giorni vengono acquistati oltre 400 cavalli di razza, sono allestite 157 stazioni di posta distanti da otto a 40 chilometri l’una dall’altra. Sono reclutati corrieri e gli uomini addetti alle stazioni.
Nella prima corsa per l’Ovest vengono impiegati 75 cavalli. In quell’occasione il corriere trasporta 25 lettere, tariffa di cinque dollari ogni mezza oncia.
All’inizio le partenze da e per la California avvengono una volta alla settimana poi diventano bisettimanali. Quando si sparge la notizia della regolarità e della speditezza del servizio, le lettere aumentano. Per risparmiare, la gente comincia a scrivere le proprie missive su fogli di carta velina. I giornali pubblicano edizioni speciali con carta più sottile e più leggera del solito.
La posta viene messa nella mochila messicana, una borsa di pelle con quattro sacche distinte. Un foro al centro permette di assicurarla al perno della sella in modo che quando il corriere è a cavallo ha una tasca davanti e una dietro per ogni gamba.
Quando si effettua il cambio dei cavalli bastano pochi secondi per trasferire la mochila da una sella all’altra. Tre delle tasche sono generalmente chiuse ai punti di partenza e soltanto in cinque stazioni lungo il percorso possono venire aperte per aggiungere o togliere lettere. Nella quarta tasca c’é posta locale e può essere aperta da ogni capostazione.
E’ possibile inviare a St. Joseph, che già è stata raggiunta da una linea telegrafica, messaggi provenienti da qualsiasi città degli stati orientali che poi saranno portati a destinazione dal Pony Express.
Nel maggio 1860 i Paiute scendono sul sentiero di guerra contro gli uomini bianchi che hanno invaso le loro terre. Un vasto territorio che comprende parte del Nevada e una fetta dello Utah diventa insicuro per i corrieri che lì hanno le loro stazioni, da Spring Valley (nello Utah) a Carson City (Nevada), vicino al Lago Tahoe. Molte stazioni sono assalite, assediate, alcune vengono bruciate e 20 impiegati e stallieri sono uccisi.
E’ in questa poco rassicurante cornice che nel maggio del 1860 si svolge la famosa cavalcata di Pony Bob Haslam. Partito dalla Friday’s station, nei pressi del Lago Tahoe, arriva a Carson City e scopre che non ci sono cavalli freschi. Haslam prosegue, allora, fino a Buckland, dove finisce il tratto di percorso che gli è stato assegnato. Ma qui il collega che deve dargli il cambio si rifiuta di partire a causa delle scorrerie indiane. Per 50 dollari di premio, Pony Bob accetta di fare anche il percorso del suo compagno e, dopo una sosta di dieci minuti, è di nuovo in sella, percorrendo 305 chilometri in 18 ore e stabilendo un primato. Ma l’avventura di Pony Bob non è finita. Ritornando con la posta per l’Ovest scopre che una delle stazioni in cui deve cambiare il cavallo, Cold Springs, è stata assalita dagli indiani e bruciata, il gestore ucciso e i cavalli razziati. Haslam fa quindi tappa per Sand Springs, malgrado il suo pony sia ormai stanco, e poi prosegue per Buckland. Qui non c’è nessuno che può sostituirlo e allora, spinto da un ulteriore premio, raggiunge Friday’s station, dove la sua cavalcata termina. Haslam ha galoppato per 610 chilometri e il ritardo sull’orario previsto è solo di qualche ora.
La storia del Pony Express si sviluppa tra mito e realtà e spesso le vicende acquistano il sapore della leggenda. E’ un fatto, comunque, che adesso le notizie dall’Est giungono in dieci giorni a Sacramento e da lì arrivano a San Francisco, sette ore dopo con un battello a vapore. I californiani si sentono più vicini alla nazione.
Ma per il Pony Express i giorni sono contati. Il cavaliere più resistente e audace, il cavallo più veloce e forte possono fare ben poco con il nuovo rivale entrato in lizza. Qualche mese dopo la nascita della creatura di Russell, infatti, squadre di operai cominciano a piantare i pali della prima linea telegrafica transcontinentale.
Il Congresso degli Stati Uniti ha deciso la costruzione di una linea telegrafica attraverso il West. Il 16 giugno 1860 sono stanziati i fondi per il completamento della linea tra Omaha e la California. Il 22 settembre è stipulato il contratto con due compagnie concorrenti che, in una specie di gara per accaparrarsi introiti più cospicui, avanzeranno rispettivamente a Est dalla California e a Ovest dal Missouri.
William Russell è nei guai. Ha investito 700 mila dollari nell’impresa. Sa perfettamente che il suo servizio postale non può competere con il telegrafo. E’ indebitato fino al collo, si profila la bancarotta. Corre a Washington perché le cambiali del suo amico Floyd, il ministro della guerra, stanno per andare in protesto e si profila un grande scandalo. Tanto briga e complotta che alla fine trova un funzionario del ministero degli Interni, Godard Bailey, parente di Floyd, che gli cede un cospicuo pacchetto di azioni dell’lndian Trust Fund (le annualità non pagate agli indiani). Con quelle azioni Russell paga in extremis le cambiali di Floyd, ma è di nuovo con l’acqua alla gola e ricorre nuovamente a Bailey. II giochetto dura fino a dicembre: complessivamente i due malversatori si appropriano di azioni dell’Indian Trust Fund per un milione di dollari destinati alle tribù indiane, una cifra da capogiro, nel 1860. Russell è arrestato, il ministro Floyd si dimette e la primavera successiva diventerà generale dell’esercito confederato. Quanto a Bailey, sparisce dalla circolazione.
Intanto i lavori per il telegrafo vanno avanti speditamente. Il 18 ottobre 1861 Ia squadra proveniente dall’Est arriva con il suo cavo alla Città dei Santi, Salt Lake City (Utah), la capitale dei Mormoni, e si aggiudica così il denaro del premio. Sei giorni dopo giunge la squadra della California.
E’ il 24 ottobre: il tasto ticchettante del telegrafo invia dalla California il messaggio del governatore, dall’altra parte risponde il presidente Abraham Lincoln. Pochi istanti per arrivare a destinazione, percorrendo lo spazio che i cavalieri del Pony Express impiegano giorni per coprire.
Il 26 ottobre compaiono brevi articoli sui giornali: “Da oggi cessa il servizio del Pony Express”. C’é la guerra civile in corso, ci sono notizie più importanti. Il Pony Express ha finito le sue corse, ucciso dall’invenzione di Samuel Morse.

lunedì 23 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 23 ottobre.
Il 23 ottobre 1942 ha inizio la battaglia di El Alamein.
La battaglia di El Alamein è probabilmente la più famosa e conosciuta alla quale ha partecipato l’esercito italiano, rimasta nella memoria di molte generazioni per i racconti dei genitori o nonni che vi hanno partecipato.
L’Asse (Germania, Italia, Giappone) è al massimo dell’espansione territoriale. In Europa resiste solo la Gran Bretagna, l’Unione Sovietica indietreggia fino a Stalingrado, sul Volga e in Africa le truppe italo-tedesche arrivano in pieno Egitto travolgendo le armate inglesi. L’obiettivo dell’Asse è raggiungere il canale di Suez (bloccando una via fondamentale di rifornimento dall’India per i britannici), raggiungere i pozzi petroliferi del Medio Oriente e congiungersi con le armate tedesche che stanno per raggiungere le montagne del Caucaso in Russia. Se così fosse, la guerra sarebbe praticamente vinta.
Tuttavia l’avanzata in Africa subisce un arresto nei pressi di una piccola stazione ferroviaria, a El Alamein. Le armate italo-tedesche guidate dal feldmresciallo Erwin Rommel hanno scarsità di uomini (80.000 contro 230.000), mezzi (rapporto di aerei, cannoni e carri armati è di 1:3 per gli inglesi), gli Alleati possono disporre di quantità pressoché illimitate di carburante e rinforzi grazie all’afflusso di soldati coloniali (sudafricani, indiani, neozelandesi e australiani), greci e francesi.
Trincerati nel deserto, i soldati attendono l’assalto decisivo. Il 23 ottobre 1942 i mille cannoni inglesi contemporaneamente iniziano a fare fuoco sulle linee italiane, considerate l’anello debole. La battaglia è più dura del previsto, ma il 3 novembre il comandante tedesco Erwin Rommel ordina la ritirata. Ritirata che si concluderà sette mesi dopo, nel maggio nel 1943 in Tunisia: l’Africa a quel punto sarebbe stata tutta in mano inglese.
Tenendo conto della schiacciante inferiorità numerica e dell’irrisoria potenza dei carri armati italiani M13/40 contro i carri inglesi, degno di memoria è l’eroismo della divisione corazzata italiana Ariete, interamente distrutta e i cui uomini rifiutarono di arrendersi; e memorabile anche lo sforzo dei paracadutisti della Folgore, il fiore all’occhiello del Regio Esercito. Posizionata nella zona più interna del deserto, la Folgore resistette senza mai indietreggiare, salvo poi arrendersi dopo aver finito le munizioni: di 5.000 uomini ne restavano 304.  In totale l’Asse ebbe 10.000 morti e 34.000 prigionieri, gli Alleati 13.500 tra morti, feriti e prigionieri.
Attualmente, nei pressi dei luoghi della battaglia, si trova il sacrario militare italiano di El Alamein, con i resti di circa 5.200 soldati italiani caduti in Egitto.

domenica 22 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 ottobre.
Il 22 ottobre 1966 per la prima volta in USA un gruppo musicale femminile raggiunge la vetta delle classifiche di vendita con un proprio album: si tratta delle Supremes.
Le Supremes — Diana Ross, Mary Wilson e Florence Ballard — si formano nel 1960 a Detroit. Inizialmente conosciute come Primettes e come quartetto (con Barbara Martin), debuttano per la Motown l’anno successivo.
Inizialmente è Flo Ballard la cantante solista, ma Diana Ross si rivela essere più adatta a cantare il pop. Berry Gordy, manager del gruppo nonché fondatore della Motown, ritiene che infatti quest’ultima possa dare delle chance migliori al gruppo, che infatti nel 1964 arriva in testa alle classifiche con "Where did our love go", mentre l’anno successivo raggiunge la vetta con "You keep me hangin' on", premiato con il Grammy nel 1966 come miglior brano pop.
Al di fuori delle scene, però, incominciano a nascere dei problemi tra Gordy e altre cantanti della casa discografica, infastidite per la troppa attenzione dedicate alla Ross; anche le altre due Supremes soffrono il fatto di essere relegate in secondo piano. Per questo motivo nel 1967 la Ballard viene sostituita da Cindy Birdsong, già nel gruppo di Patti LaBelle and the Bluebelles.
Dopo l’abbandono della Ballard il trio viene ribattezzato Diana Ross & the Supremes, alimentando le speculazioni di una carriera solista. Nello stesso periodo il team di autori Holland-Dozier-Holland – già artefice di diversi successi del gruppo – lascia la Motown e sebbene le Supremes continuino a essere molto famose, i dissensi interni continuano a lacerare il gruppo. Nel 1969 viene annunciata la partenza di Diana Ross; al suo posto arriva Jean Terrel che rimane nel trio – che ha diversi cambi - fino al 1977, anno in cui il gruppo si scioglie.
Attrice, cantante e donna d'affari (sposò il suo boss Gordy), Diana continuò a sfornare un hit all'anno, permettendosi persino nel 1981 di metter su ditta in proprio, piantando in asso Motown, marito e soul. I suoi nuovi successi, arrangiati con tanto di orchestra, fra cui la classica Ain't No Mountain High Enough (1970, di Ashford/Simpson), suo tour de force vocale, la patetica Do You Know Where Are You Going To (1975), il suo ritornello più tenero e melodrammatico (scritta da Gerry Goffin), i sette sensuali minuti di Love Hangover (1976, di Pam Sawyer-Marilyn McLeod), uno dei dischi che crearono la disco-music, e la novelty da ballo Upside Down (1980), testimoniano l'inalterata fedeltà al cliché sentimentale dell'high-school e, sommati ai precedenti, le conferiscono il primato assoluto di n. 1 in America (diciotto). Nel 1983 il Central Park di New York si riempì a dismisura (oltre il mezzo milione di persone) per un suo concerto gratuito.
Nel 2012 è uscito un film, "sparkle", che ripercorre la storia, romanzandola, della nascita del gruppo musicale, che ha visto la partecipazione di Whitney Houston (che mancava dal grande schermo dal film del 96 con Denzel Washington "Uno sguardo dal cielo"), poco prima della tragica morte.

sabato 21 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 ottobre.
Il 21 ottobre 1998 nasce il primo storico governo D'Alema, primo governo della Repubblica guidato da un appartenente all'ex partito comunista italiano.
Il 21 aprile 1996 l'Ulivo vince le elezioni politiche con il 42,1% dei voti alla Camera contro il 40,3% del Polo. Romano Prodi forma il nuovo governo e al suo fianco, come vicepresidente del Consiglio, c'è il numero due del Pds, Walter Veltroni: per la prima volta dal 1947, il maggiore partito della sinistra, direttamente discendente dal vecchio partito comunista, è al governo in Italia. La maggioranza, ampia al Senato, è invece risicata alla Camera, dove per governare sono indispensabili i voti di Rifondazione comunista. La sfida più importante affrontata nei due anni e mezzo del governo Prodi è quella del risanamento finanziario richiesto dai parametri di Maastricht per l'ingresso dell'Italia nella moneta unica europea.
Ma pochi mesi dopo la felice conclusione di questo percorso, il 9 ottobre 1998, l'opposizione di Rifondazione comunista alla Legge finanziaria fa cadere il governo: per un solo voto (312 voti favorevoli e 313 contrari) il governo Prodi manca la fiducia e deve dunque dimettersi. Nei mesi precedenti il leader del Pds, Massimo D'Alema, aveva tentato senza fortuna, come presidente della Commissione bicamerale per le riforme, di raggiungere un accordo fra maggioranza e opposizione per una grande riforma della Costituzione e delle regole della competizione politica in Italia, ivi compreso il sistema elettorale. Nel luglio del 1998, in un clima di polemica sempre più forte fra i due schieramenti, il tentativo finì nel nulla.
Al governo Prodi subentra il governo D'Alema , formato il 21 ottobre 1998 grazie ai voti dei dell'Udr di Francesco Cossiga e del Partito dei comunisti italiani di Armando Cossutta , separatosi da Rifondazione comunista proprio perché in dissenso sul voto contrario con cui il partito ha fatto cadere il governo di Romano Prodi. A pochi mesi dalla sua formazione, il governo D'Alema deve affrontare una prova estremamente delicata e impegnativa sul fronte internazionale: l'appoggio italiano alla missione della Nato in Kossovo, nella primavera del 1999. Uno scoglio superato con successo, nonostante le divisioni laceranti causate nella sinistra dall'intervento dell'Alleanza contro la Serbia di Slobodan Milosevic.
Il 18 dicembre 1999 il presidente del Consiglio rassegna le dimissioni per una crisi lampo dopo aver perduto l'appoggio della piccola pattuglia dei socialisti.
Pochi giorni dopo, il 22 dicembre, nasce il secondo governo D'Alema, appoggiato anche dai Democratici, neonata formazione di centro vicina all'ex presidente del Consiglio Prodi, con l'obiettivo di rilanciare la capacità d'azione dell'esecutivo nell'ultima parte della legislatura. Ma la secca sconfitta del centrosinistra alle elezioni regionali della primavera 2000 (che segue il risultato negativo già registrato alle europee dell'anno precedente e la traumatica perdita del sindaco di Bologna), provoca, il 19 aprile, le dimissioni di D'Alema, che si era speso con grande decisione e ottimismo per l'Ulivo durante la campagna elettorale.
A guidare il governo viene chiamato Giuliano Amato, già scelto da D'Alema a sostituire Carlo Azeglio Ciampi al ministero del Tesoro dopo l'elezione di quest'ultimo alla presidenza della Repubblica. Il suo governo ottiene la fiducia il 28 aprile 2000. Fra i suoi risultati più importanti, l'approvazione della legge di riforma costituzionale per il trasferimento di poteri dallo Stato alle Regioni. Legge poi approvata il 7 ottobre 2001 da un referendum confermativo. Amato governa un anno, fino alla fine della legislatura. Nel frattempo, il centrosinistra ha deciso di affidarsi a un diverso candidato premier per la battaglia elettorale. Non sarà lui ma Francesco Rutelli a guidare la coalizione dell'Ulivo il 13 maggio del 2001. Coalizione che verrà sconfitta dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi.

venerdì 20 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 ottobre.
Il 20 ottobre 1910 venne varata a Belfast la Olympic, la prima delle tre navi gemelle della White Star, insieme al Titanic e al Britannic.
Il varo dell'Olympic rappresentò un enorme passo in avanti nella storia della Harland and Wolff.  Come osservò un partecipante all'evento nel 1910, “c'è qualcosa che ispira un certo timore reverenziale nelle proporzioni dell'Olympic...si resta piuttosto sbalorditi dalla sua stazza straordinaria, dalle dimensioni generali e dallo sfarzo degli interni nonché dalla completezza degli incarichi”. L'Olympic fu il più grande oggetto semovente mai costruito dall'uomo fino alla comparsa della sorella, quel Titanic che le avrebbe sottratto tale onore al varo compiuto sette mesi più tardi.  Al varo dell'Olympic erano presenti la sorella del Primo ministro, miss Asquith, il sindaco di Belfast e sua moglie, il presidente del cantiere navale, lord Pirrie, e il presidente della White Star, Bruce Ismay.
Compì il suo viaggio inaugurale il 14 giugno 1911 al comando del capitano Edward Smith, lo stesso che avrebbe condotto il Titanic nel suo unico viaggio. Il transatlantico stupì tutti arrivando a New York dopo 5 giorni, 16 ore e 42 minuti (non era il record assoluto, detenuto dal Mauretania), senza neanche accendere tutte le caldaie, cosa che sarà fatta, invece, sul Titanic). Anche questa prima traversata, però, non fu del tutto indenne da problemi: la Olympic infatti stava per affondare un rimorchiatore durante le manovre nel porto di New York.
Il 20 settembre 1911, alla partenza da Southampton dopo un pesante ritardo, la Olympic venne speronato a dritta da parte del vecchio incrociatore Hawke della Royal Navy nelle acque del Solent, causando uno squarcio nella poppa, con conseguente danneggiamento di due compartimenti stagni e la perdita di una pala dell'elica. La Olympic fu riparata nel bacino di carenaggio di Belfast, che era l'unico bacino, al tempo, capace di ospitare una nave di tali dimensioni. Lì, curiosamente, affiancherà (come durante la costruzione) il Titanic che stava per essere completato.
Dopo il disastro del Titanic, la Olympic fu richiamata immediatamente dalla compagnia. Si decise subito di intervenire aumentando la sicurezza della nave: fu così portata nel bacino di carenaggio dove passò oltre sei mesi. Subì un importante riallestimento: il doppio scafo venne esteso anche alle fiancate e fu aumentato il numero delle scialuppe di salvataggio. Con queste modifiche, inoltre, raggiunse la stazza di 46.359 tonnellate, il che significò la riconquista del titolo di nave più grande del mondo strappandolo al Titanic (46.328 t), mantenuto fino al varo, nello stesso anno, della SS Imperator.
Diversamente dalla Olympic, sulla gemella rinominata Britannic (il nome originario era Gigantic), dato che era ancora in costruzione, vennero fermati i lavori e modificato, fin dal principio, il progetto della nave. Terminati i lavori nella primavera del 1913, la Olympic riprese il mare, sempre sulle rotte del Nord Atlantico.
Durante la prima guerra mondiale la Olympic fu requisita come Nave Trasporto Truppe, con una capacità di 6000-7000 uomini: pertanto, una volta terminato il Britannic (questa invece fu reclutata come nave ospedale), fu riportata in bacino per poter essere adattata al nuovo ruolo di guerra.
Durante questa funzione, la Olympic riuscì a sfuggire ad un sottomarino nel novembre del 1915, schivò due siluri e passò indenne un bombardamento da parte di un aereo bulgaro nel gennaio del 1916. Non fu altrettanto fortunata la Britannic, affondata da una mina navale nei pressi dell'isola di Ceo.
La nave ritornò sulle rotte oceaniche nel 1920 e nei successivi quindici anni effettuò centinaia di traversate senza alcun problema. Charlie Chaplin se ne servì ogni volta che fece ritorno in Inghilterra, nel '21 e nel '31.
Il 15 maggio 1934 la Olympic sperona ed affonda la piccola nave americana Nantucket Lightship LV-117 ed uccide tutto il suo equipaggio: alcuni membri sul colpo, altri deceduti successivamente in ospedale.
Pochi mesi dopo la nave fu posta in disarmo e nel marzo del 1935 fece il suo ultimo viaggio a New York prima di essere venduta, privata degli eleganti interni che erano del tutto simili a quelli del Titanic e demolita, insieme alla nave della compagnia rivale Mauretania.

giovedì 19 ottobre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 ottobre.
Il 19 ottobre 1900 Max Planck, a casa sua, scopre la legge delle emissioni di un corpo nero, oggi detta legge di Planck.
La comprensione della meccanica quantistica sembra, a prima vista, una questione parecchio complicata. Anche ad un secondo sguardo, tuttavia, le cose non sembrano cambiare di molto.
Di certo si può dire che la meccanica quantistica riguarda il comportamento della materia a livello atomico e subatomico. Possiamo dire, in via preliminare, che con essa l’atomo perde molto della sua certezza matematica a favore di una maggiore incertezza statistica.
Pare che tutto sia cominciato con la scoperta di uno studente di fisica di nome Max Planck, il quale scoprì nel 1900 che le radiazioni emesse da un corpo caldo non sono emesse in modo continuo ma in pacchetti, ovvero in quanti (è bene sapere che scaldare la materia equivale ad agitarne gli atomi e provocare il desiderio di fuggire in alcune particelle).
Questa scoperta aprì un mondo del tutto nuovo, almeno nell’ambito della fisica. Fino a Planck si credeva che le radiazioni fossero un fenomeno costante e frazionabile a piacere, come una normale grandezza numerica, dopo Planck si dovette tener conto che l’energia (la radiazione) non viene emessa costantemente ma quantizzata in pacchetti.
In sostanza l’energia non è solamente un onda che si propaga in modo continuo e in tutte le direzioni, l’energia viene emanata a proiettili, ovvero in quanti predefiniti dello stesso valore. Per usare un altro esempio, il quanto assomiglia molto al vagone di un treno, dove il treno rappresenta la quantità di energia complessiva e ciascun vagone il quanto costante in cui è suddivisa.
La costante di Planck esprime il valore fisso e non frazionabile in cui l’energia di una radiazione è divisa. L’onda della radiazione si esprime in frequenza, maggiore è la frequenza (più corta è la lunghezza dell’onda) maggiore è l’energia racchiusa in un quanto.
L’energia cambia in quantità, ma per essere emessa viene racchiusa sempre nel medesimo quanto, della stessa dimensione (non importa quante persone vi siano in un vagone, il vagone resterà sempre della stessa lunghezza).
Molti furono gli ostacoli ad una effettiva comprensione della scoperta di Planck (ed Einstein dette una mano a Planck nel chiarirne le conseguenze), la teoria si impose molto lentamente nell’ambito scientifico e molto lentamente diede i suoi primi frutti nelle applicazioni successive.
Una prima conseguenza derivante dalla formulazione del quanto fu la scoperta che la luce, oltre a comportarsi come onda, e quindi essere soggetta a fenomeni di rifrazione (le onde di luce si intrecciano e si sovrappongono come onde nel mare), si comporta anche come particella (la particella di luce viene chiamata fotone).
Questa scoperta non mancò di suscitare perplessità e resistenze. Malgrado la sua evidenza, provata da innumerevoli esperimenti, vi sono ancora oggi fisici che non si sentono troppo sicuri di ciò.
Il punto sta nel fatto che onde e particelle, nella visione comune, sembrerebbero due entità contrapposte: le prime si irradiano a piacere e non sembrano avere problemi di frazionabilità, in quanto fenomeno costante e uniforme; le seconde sono per eccellenza entità quantizzate, nel senso che l’energia è costretta solamente in certi intervalli (non è possibile dividere un elettrone in due, l’energia emessa in modo particellare ha come valore minimo sempre e comunque quella di una particella).
Il problema del dualismo sembra in realtà non sussistere, il dualismo apparente è un problema di interpretazione: la luce, in sostanza, a seconda del tipo di esperimento, soddisfa sia la dimostrazione ondulatoria (dell’onda) sia quella particellare (della particella): quando i fisici domandano alla luce se essa sia un’onda, la luce risponde di si, quando le chiedono se essa sia una particella, anche questa volta la luce risponde di si.
Una soluzione definitiva la fornirebbe un esperimento che interroghi la luce su entrambe le questioni contemporaneamente, il problema è che a tutt’oggi sembrano sussistere limiti fisici ineludibili all’esecuzione di tale esperimento.

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