Cerca nel web

sabato 17 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 maggio.

Il 17 maggio 1981 gli italiani sono chiamati a votare per cancellare la legge 194 che aveva legalizzato l'aborto. La richiesta viene respinta e l'aborto rimane legale.

In Italia è passato quasi mezzo secolo da quando lo Stato italiano, nel maggio del 1978, riconobbe alle donne il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Con l’approvazione della legge 194, il Parlamento depenalizzò e regolamentò l’aborto, fino ad allora praticato clandestinamente.

Ma il percorso di approvazione della legge, sostenuta soprattutto dal Partito radicale, non fu semplice. Dopo una lungo dibattito politico e culturale negli anni ‘70, la legge dovette passare il vaglio del referendum abrogativo del 1981. E in quell’occasione gli italiani si schierarono nettamente a favore della legge.

A portare per la prima volta il tema dell’aborto nelle aule del Parlamento italiano fu il Partito socialista che, nel 1971, presentò due proposte di legge sul tema.

Ad aprire la strada era stata, nello stesso anno, una sentenza della Corte costituzionale che aveva dichiarato illegittimo l’art.553 del Codice penale, sul reato di propaganda degli anticoncezionali. Il Parlamento, però, non discusse nessuna delle proposte.

Il dibattito si riaprì nel 1975 quando Loris Fortuna, già padre della legge sul divorzio, presentò una nuova proposta legislativa. Quello stesso anno, poi, la Corte costituzionale dichiarò la legittimità dell’aborto terapeutico.

Intanto, fuori dal Parlamento, anche la società civile si confrontava sul tema. Sebbene considerato un tabù, l’aborto veniva praticato clandestinamente dalle cosiddette “mammane”, donne che praticavano l’aborto con metodi empirici e senza le dovute tutele per la salute. Solo le donne più ricche si rivolgevano a cliniche estere o a medici consenzienti.

In questo clima tre animatori del movimento per la legalizzazione dell’aborto, Emma Bonino, Marco Pannella e Gianfranco Spadaccia, si autodenunciarono. In particolar modo la futura leader dei radicali ammise di aver aiutato molte donne ad abortire in maniera sicura e fu arrestata.

Ad interrompere bruscamente il dibattito fu, nel 1976, la decisione del presidente della Repubblica, Giovanni Leone, di sciogliere in anticipo le Camere e andare a nuove elezioni. Il dibattito fu così rimandato e, tra bocciature, scontri e polemiche, solo nel maggio del 1978 il Parlamento riuscirà a varare la norma.

Anche dopo la sua approvazione, lo scontro tra radicali e cattolici non si arrestò. Nel 1981 la legge 194 fu sottoposta a referendum abrogativo, con due quesiti di segno opposto. Da un lato i radicali chiedevano norme meno stringenti, dall’altro i cattolici premevano per abrogare alcune parti della legge. Ma gli italiani votarono no ad entrambe le proposte e la norma superò indenne quello scoglio.

La legge 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, sancisce il diritto della donna all’interruzione volontaria di gravidanza e i limiti entro i quali è possibile ricorrere all’aborto.

Entro 90 giorni la donna che ritiene di non voler portare a termine la gravidanza per motivi legati “alla sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito“, può rivolgersi ad un consultorio pubblico.

Lì i medici, oltre a svolgere i dovuti accertamenti, hanno anche il compito di esaminare insieme alla donna le circostanze che l’hanno spinta a chiedere l’interruzione.

Da questo momento, nei casi in cui non sia accertata un’urgenza, devono obbligatoriamente trascorrere sette giorni, per escludere qualsiasi ripensamento. Trascorso questo termine, se la donna non ha cambiato idea, può recarsi in una delle strutture autorizzate per procedere all’interruzione.

Esistono tuttavia casi in cui la legge 194 prevede la possibilità di ricorrere all’aborto oltre il limite dei 90 giorni. In questo caso si parla di aborto terapeutico ed è previsto quando il parto comporterebbe un grave pericolo per per la vita della donna o quando sono accertate patologie che costituirebbero un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica.

La norma stabilisce anche alcune tutele per il personale sanitario. Medici e infermieri che si sono dichiarati obiettori di coscienza, infatti, non sono tenuti a praticare interruzioni di gravidanza. Questo a meno che la donna non sia in pericolo di vita.

venerdì 16 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 maggio.

Il 16 maggio 1884 Angelo Moriondo deposita il brevetto per la macchina del caffè espresso.

Il caffè espresso italiano, quello che la maggior parte di noi beve almeno uno volta al giorno e conosciuto in tutto il mondo, è nato nella città di Torino. Non parliamo di varietà di caffè o di particolari miscele, ma della macchina che ha dato vita al tanto amato caffè espresso all’italiana.

All’ombra della Mole, nel 1884, il torinese Angelo Moriondo diede vita al primo caffè espresso della storia. Moriondo discendeva da una famiglia di imprenditori che si occupava principalmente di liquori e cioccolato (il padre, Giacomo, fondò insieme al fratello e al cugino la fabbrica di cioccolato “Moriondo & Gariglio” che fu fornitore ufficiale della Real Casa Savoia tanto da trasferirsi nel 1870 a Roma al seguito dei sovrani ).

Angelo Moriondo si occupava anche di ristorazione essendo proprietario del Grand-Hotel Ligure in piazza Carlo Felice e dell’American Bar nella Galleria Nazionale di via Roma. Proprio le esigenze legate alla ristorazione lo spinsero ad ideare una macchina per produrre caffè in modo più rapido per poter rispondere in maniera più efficiente alla fretta della clientela in alcuni momenti della giornata.

Nella macchina per il caffè espresso ideata dall’imprenditore torinese l’acqua veniva fatta bollire e poi, attraverso un sistema di serpentine, raggiungeva il contenitore con il caffè. L’acqua veniva dunque portata in pressione consentendo di preparare la calda bevanda italiana in modo molto più rapido. Come riportano le cronache del tempo, con questa geniale macchina si potevano fare ben 10 tazze di caffè ogni 2 minuti e fino a 300 tazze in un’ora (Gazzetta Piemontese del 24 luglio 1884). Da qui l’appellativo di “espresso”. Il caffè risultava più concentrato e, dunque, conservando meglio gli aromi ed i profumi, ancora più gustoso. Un vero successo al salone che valse a Moriondo la medaglia di bronzo.

Moriondo costruì la prima macchina per il caffè espresso in collaborazione con il meccanico Martina e depositò il primo brevetto il 16 maggio del 1884. Successivamente furono fatte altre migliorie e depositati altri brevetti fino ad ottenere il brevetto internazionale. Moriondo, tuttavia, non sfruttò mai la sua idea per commercializzarla preferendo creare artigianalmente solo alcuni esemplari utilizzati nei suoi esercizi commerciali. Forse per questa ragione il suo nome non è così famoso, ma fu proprio lui ad inventare la macchina che ha rivoluzionato una delle abitudini più diffuse degli italiani.

Successivamente, nei primi anni del XX secolo, il milanese Desiderio Pavoni acquistò tutti i brevetti ed iniziò la produzione in serie di queste macchine fondando la Ditta Pavoni. La diffusione fu rapida ed il successo enorme.

Nel corso degli anni sono state create tantissime macchine per il caffè espresso, sempre più belle e sofisticate, in grado di soddisfare la sempre maggiore richiesta di questa bevanda ormai irrinunciabile per gli italiani (e non solo). Il meccanismo di tutte queste macchine è sempre quello nato a Torino nella seconda metà dell’Ottocento dall’idea di Angelo Moriondo. Insomma, c’è un po’ di Torino in ogni tazzina di caffè espresso che ogni giorno si beve in Italia e nel mondo.

 

giovedì 15 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 maggio.

Il 15 maggio del 1990 un dipinto di Vincent Van Gogh, Il ritratto del Dottor Gachet, viene venduto all'asta per 82,5 milioni di dollari.

È sparito da anni, non sappiamo dove si trovi: nel caveau di una banca, o forse in una casa privata, molto privata, visto che dalla fine del secolo scorso nessuno lo ha più visto. È il Ritratto del dottor Gachet, dipinto da Vincent van Gogh tra la fine di maggio e i primi di giugno del 1890, com’è documentato da una sua lettera al fratello Théo, del 3 giugno 1890:

«Ho fatto il ritratto del dottor Gachet con un’espressione di malinconia che a coloro che guarderanno la tela potrà sembrare una smorfia».

Alcuni giorni dopo Vincent dipinge una seconda versione del ritratto forse meno intensa e priva di alcuni dettagli, ora al Musée d’Orsay (Parigi).

Esiste, poi, un’incisione, che ritrae il dottor Gachet con la pipa in bocca, anche questa attribuita a Van Gogh. Tutte queste immagini hanno una caratteristica in comune, segnalata peraltro da Van Gogh stesso: la malinconia.

Van Gogh ritrae il dottore nei suoi ultimi giorni di vita, a Auvers-sur-Oise, dov’è giunto dalla vicina Parigi il 20 maggio. Ha trentatré anni, è in uno stato di forte disagio. Spera di trar giovamento dall’atmosfera tranquilla del villaggio, e dalla presenza di un medico di fama, studioso di patologie mentali, come Gachet. In 68 giorni Van Gogh dipinge, freneticamente, ottanta capolavori ora nei musei di tutto il mondo. Il 29 luglio si tira un colpo di pistola. Al suo capezzale, il fratello Théo e il dottor Gachet. Molti quadri passano a Théo, che muore qualche mese dopo.

Nel 1911 la versione originale del Ritratto del dottor Gachet (quella oggi scomparsa) giunge, dopo vari passaggi, ai Musei Statali di Francoforte. Nel 1939 il famigerato Göring la confisca subdolamente come “arte degenerata” e la vende al mercante Frank Koenigs, che riesce a portarla a Parigi. Qui l’acquista un banchiere ebreo, Siegfried Kramarsky, che fugge negli Stati Uniti. Con sé ha il dipinto di Van Gogh, che per suo volere nel 1984 viene esposto in prestito al Metropolitan Museum.

A cent’anni dalla nascita del celebre ritratto e dalla morte di Van Gogh, il 15 maggio 1990, Il ritratto del dottor Gachet viene venduto dagli eredi Kramarsky per 85,2 milioni di dollari a un’asta di Christie’s. L’acquirente, il giapponese Ryoei Saito, dichiara che se lo porterà nella tomba. Non lo mostra a nessuno, poi fallisce e lo rivende. Passato ancora di proprietà, molto misteriosamente, da allora non è più ricomparso.

Anche se nessuno lo ha più visto, in questi anni si sono rincorse le interpretazioni del dipinto, considerato un’opera cruciale per la comprensione della psicologia dell’artista. In una lettera (mai spedita) a Gauguin, Vincent aveva scritto:

«Ho un ritratto del dottor Gachet con l’espressione straziata del nostro tempo».

Gachet aveva pubblicato uno Studio sulla malinconia, nel quale osservava:

«Il malinconico sembra che si rannicchi, si rattrappisca, debba occupare il minor spazio possibile[…] Ha le dita contratte, la testa china sul petto, inclinata a destra o a sinistra, i muscoli del corpo in semicontrazione. Quelli facciali raggrinziti, tormentati, danno alla fisionomia una particolare durezza. Le sopracciglia, sempre tese, sembrano nascondere l’occhio e rendere l’orbita più profonda… ».

La malinconia di Gachet, come quella del suo alter ego, Vincent, è una malinconia “essenziale”, come ha spiegato Jean Starobinski (L’inchiostro della  malinconia). Gachet poteva, doveva, ritrovare nel suo ritratto i “caratteri segnaletici” da lui stesso individuati nel tipo malinconico. Fra questi, anche i due romanzi dei fratelli Goncourt posati sul tavolo: Manette Salomon, dedicato alle aspirazioni e delusioni degli artisti, e Germinie Lacerteux, ambientato in una Parigi ambigua, opulenta eppure anche povera. Poi c’è il rametto fiorito di digitale, un fiore simbolico, raramente raffigurato, che Gachet consigliava come medicinale cardiotonico. Insomma, il ritratto doveva produrre, come scrisse Van Gogh, «l’effetto di un’apparizione», affondando il pennello nella rappresentazione della solitudine e dell’angoscia. Che sono quelle del medico e del pittore stesso.


mercoledì 14 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 maggio.

Il 14 maggio 1706 le forze francesi giungono nella pianura a nord di Torino e si schierano sulla Dora dal castello di Lucento al Po sotto il comando del La Feuillade e del generalissimo Vendôme. Da lì a poco inizierà l'assedio di Torino.

La storia del Piemonte è in genere assai poco conosciuta se non per alcuni fatti entrati nella leggenda o nell'iconografia. Dell'assedio di Torino e della battaglia che lo concluse si ricorda per esempio la morte di Pietro Micca in una galleria sotterranea della cittadella o la salita a Superga di Vittorio Amedeo II e del principe Eugenio che guardano dall'alto la città assediata. In realtà questi episodi acquistano un ben maggiore significato se si conosce anche la loro posizione storica e si studia quel periodo molto particolare in cui il Piemonte, che allora si identificava in gran parte con il ducato di Savoia, poté influenzare gli equilibri europei dell'epoca e contribuì a determinare l'assetto politico italiano di quel secolo e del successivo.

All'inizio del 1700 il quadro europeo era dominato da due grandi dinastie: da un lato i Borboni rappresentati dal Re Sole Luigi XIV e dal nipote Filippo d'Angiò, divenuto proprio allora re di Spagna, dall'altro gli Asburgo, imperatori d'Austria e Ungheria. Gli altri paesi si collegavano a seconda delle circostanze con l'una o con l'altra. Sia i Borboni, in particolare il Re Sole, sia gli Asburgo tentavano di estendere la propria influenza e consideravano indispensabile in questo senso il dominio sul Nord Italia.

In tale contesto il ducato di Savoia, piccolo ma militarmente efficiente e retto da una dinastia ben radicata nella popolazione e in grado quindi di garantire stabilità politica ed economica, assumeva un ruolo determinante per mantenere l'equilibrio tra le maggiori potenze o spostarlo in una direzione o nell'altra.

L'ascesa al trono di Filippo d'Angiò che era succeduto a Carlo II di Spagna morto senza eredi colse di sorpresa le potenze europee e radicalizzò i contrasti tra le nazioni perché di fatto comportava l'unificazione dei regni francese e spagnolo e favoriva quindi la Francia e la sua politica espansionistica.

Si poneva inoltre il problema della spartizione dei territori dell'impero spagnolo il cui smembramento era stato deciso molto prima della morte di Carlo II, sui quali molte nazioni tra cui il ducato di Savoia accampavano i propri diritti. La guerra, che fu detta di successione spagnola, divenne inevitabile.

Intorno all'imperatore d'Austria Leopoldo I si formò la Grande Alleanza dell'Aia in cui erano comprese anche l'Inghilterra, l'Olanda e alcuni principi tedeschi. Dall'altra parte erano schierati inizialmente la Francia, la Spagna e il Portogallo insieme con la Baviera e il ducato di Savoia che successivamente cambiarono campo.

La posizione del ducato di Savoia di Vittorio Amedeo II, chiuso tra le due aree borboniche della Francia e del possedimento spagnolo di Milano, lasciava scarsa possibilità di manovra e la scelta iniziale di appoggiare i Borboni era dettata soprattutto dal fatto che i ripetuti tentativi di giungere ad un accordo con l'imperatore sul possesso di alcuni territori, in particolare del Milanese, non avevano avuto alcun esito. In realtà già dal 1686, anno della sua ascesa al trono, il Duca aveva tentato invano di staccarsi dalla pesante tutela del potente vicino che condizionava anche le sue scelte di politica interna e minacciava continuamente di assorbirlo. Comunque l'alleanza con i Borboni fu conclusa, col suggello del matrimonio di Filippo V con Maria Luisa, la figlia minore del duca, e il 6 aprile 1701 fu firmato un trattato di alleanza.

Vittorio Amedeo, nominato capo supremo di tutto l'esercito borbonico in Italia, continuò però a mantenere contatti segreti con Leopoldo d'Austria.

All'inizio i Borboni occuparono i territori spagnoli in Lombardia senza trovare opposizione alcuna.

Alla fine di maggio tuttavia il principe Eugenio di Savoia, generale dell'imperatore, attraversò le Alpi a capo di un esercito di 30.000 uomini e costrinse i nemici a retrocedere. All'inizio di settembre a Chiari si scontrò vittoriosamente con l'esercito avversario e lo costrinse a ritirarsi fino quasi a Milano.

Vittorio Amedeo, che aveva combattuto questa battaglia a capo dell'esercito borbonico, fu accusato di fare il doppio gioco e di essere in contatto con il cugino e fu di fatto sostituito nella sua carica da Filippo V.

Il comandante delle truppe franco-spagnole dell'Italia settentrionale, il generale Catinat, venne sostituito a sua volta dal duca di Vendôme. L'esercito fu riorganizzato e a partire dall'estate del 1702 recuperò una buona parte dei territori perduti. A questo punto si era fatta precaria la posizione dell'imperatore, che in quel periodo doveva anche domare una rivolta che dilagava in Ungheria. Egli si convinse quindi della necessità di staccare dall'alleanza borbonica il duca di Savoia in cambio di concessioni territoriali sull'eredità spagnola. Anche le potenze marittime alleate, l'Inghilterra e l'Olanda, premevano in questa direzione, perché entrambe consideravano l'accordo con il Piemonte il fattore indispensabile per la vittoria in Italia e la conseguente espansione navale nel Mediterraneo.

I colloqui dell'inviato segreto di Leopoldo con Vittorio Amedeo si intensificarono dopo i rovesci dell'estate del 1702 e della successiva campagna del 1703. Nel luglio del 1703 si arrivò a delle trattative per un patto di alleanza in cui al duca di Savoia venivano riconosciute concessioni territoriali come compenso dei suoi diritti all'eredità spagnola. Vittorio Amedeo chiese anche dei sussidi per le spese militari che gli vennero concessi dal governo inglese e da quello olandese. La firma della bozza d'accordo avvenne nel novembre 1703 ma solo nel giugno 1704, dopo lunghe trattative, si giunse alla ratifica dell'accordo definitivo che prevedeva l'acquisizione del Monferrato, dell'area lombarda compresa tra Alessandria e Valenza, della Lomellina e della Valsesia ed eventualmente del Vigevanese. Alla difesa del ducato avrebbe collaborato un esercito di 20.000 soldati imperiali.

Le trattative tra il duca e l'imperatore non erano passate inosservate e Luigi XIV, comprendendo che la rottura con i sabaudi era imminente, dette ordine al Vendôme di agire di conseguenza.

Il 29 settembre 1703 a San Benedetto Po 4.500 dei migliori soldati del duca vennero catturati e disarmati. Venti giorni dopo il generale Vendôme raggiunse Casale e richiese il disarmo totale dei suoi reggimenti e la consegna dei forti di Cuneo e Verrua in pegno di fedeltà alla Francia. Pertanto il 24 ottobre Vittorio Amedeo dichiarò guerra alla Francia. Gli eserciti francesi si prepararono ad invadere il ducato e la guerra di successione dilagò anche in Piemonte.

Il patto garantì a Vittorio Amedeo gli aiuti di cui aveva estremo bisogno ma la situazione era comunque molto rischiosa e metteva in gioco la sopravvivenza stessa del suo stato, poiché l'obiettivo di Luigi XIV era ormai il dominio totale del Piemonte e la distruzione del suo esercito. I francesi cercarono perciò di isolare le forze sabaude da quelle imperiali in Lombardia. Ciononostante un corpo di truppe imperiali comandate dal conte Staremberg riuscì con marce forzate a raggiungere il Piemonte e il 12 gennaio 1704 a Canelli si congiunsero con i piemontesi comandati dal Parrella. L'arrivo dello Staremberg e dei suoi 14.000 soldati permise al duca di aumentare i reparti a sua disposizione e impedì l'immediata occupazione del Piemonte. La maggior parte dei reggimenti perduti fu velocemente ricostituita con le reclute della milizia. Vennero inoltre reclutate delle compagnie di irregolari valdesi, due reggimenti di truppe protestanti (principalmente ugonotti esiliati) ed altri due di mercenari svizzeri e tedeschi, con il che Vittorio Amedeo si trovò a comandare un esercito piuttosto efficiente che con le truppe dello Staremberg arrivava a quasi 35.000 uomini. Si poneva però il problema del suo mantenimento, che non poteva essere sostenuto per molto tempo dalle finanze del duca. I sussidi arrivarono, come era stato stabilito dal trattato con l'imperatore, dall'Inghilterra e dall'Olanda in cambio di garanzie di tolleranza per i valdesi e gli altri gruppi protestanti delle aree sabaude e di alcuni accordi commerciali. Vittorio Amedeo riuscì a mantenere i contatti con gli alleati attraverso la Svizzera e ricevette i loro sussidi con l'aiuto dei banchieri di Ginevra.

A partire dall'estate del 1704 viene messa in atto l'invasione del Piemonte da tutti i fronti.

In giugno l'esercito francese comandato dal duca de la Feuillade dopo aver occupato la Savoia, passò le Alpi dal Moncenisio, conquistò Susa e le vallate circostanti e ottenne la resa di Pinerolo. L'esercito del Vendôme unitosi con altre forze francesi giunte dal Piccolo San Bernardo occupò rapidamente Ivrea e la Valle d'Aosta interrompendo tutte le comunicazioni con la Svizzera, con il che si bloccarono anche le sovvenzioni che il duca riceveva dalle potenze marittime.

All'inizio dell'inverno assediò la fortezza di Verrua che resistette validamente e si arrese solo sei mesi dopo. Per tutto l'inverno il Piemonte occupato subì le scorrerie dei soldati francesi che misero a dura prova la possibilità di sopravvivenza nelle campagne. Nel marzo 1705 il La Feuillade occupò il Nizzardo dove resistette per molti mesi soltanto la cittadella. Nell'estate il Vendôme conquistò le fortezze di Crescentino e di Chivasso e poi si spostò in Lombardia per fronteggiare l'avanzata degli imperiali del principe Eugenio e lo sconfisse a Cassano d'Adda il 16 agosto.

Ritornò quindi in Piemonte per iniziare l'assedio di Torino ricongiungendosi con l'esercito del La Feuillade che già dall'8 agosto era accampato a Venaria Reale e stava bloccando la città. Insieme annunciarono a Versailles l'imminente caduta della piazzaforte. Nel settembre La Feuillade tenne Torino per sei giorni sotto un fuoco continuo di cannoni e di mortai ma non riuscì a scalfire le sue ottime difese e la capacità di resistenza del presidio militare e dei cittadini. Nel mese di ottobre i generali francesi decisero quindi di ritirarsi per procurarsi nuovi mezzi per l'assedio, anche perché il sopraggiungere della stagione invernale rendeva più difficili tutti i movimenti.

Malgrado questa tregua la situazione di Vittorio Amedeo era disperata. Quando nel dicembre caddero le fortezze di Nizza e di Montmélian in Savoia si trovò circondato da ogni lato e nell'impossibilità di ricevere aiuti dagli alleati, con un esercito dimezzato che non riceveva ormai nessuna paga e quindi si autofinanziava con scorrerie e saccheggi. La situazione si sbloccò solo con le vittorie degli inglesi e degli imperiali nelle Fiandre, che costrinsero Luigi XIV ad allentare la pressione sull'Italia e permisero invece agli alleati di potenziare l'esercito di Eugenio di Savoia che dalla Lombardia doveva portare aiuto al Piemonte assediato.

Comunque l'esercito che il 13 maggio arrivò a Torino sotto il comando del duca de La Feuillade e del generalissimo Vendôme era formidabile e munito di un gran numero di cannoni, mortai e pezzi d'artiglieria. Contro il parere del generale Vauban, che l'anno precedente aveva fatto un piano per un'azione dalla parte della collina, i due comandanti francesi preferirono attaccare dalla parte della cittadella e cominciarono dei massicci lavori di scavo per passare sotto le mura fortificate attraverso gallerie e giungere direttamente al cuore della piazzaforte. Le fortificazioni di Torino però, iniziate già nel 1564 per volere del duca Emanuele Filiberto e potenziate nel corso dei due secoli, erano state costruite proprio in vista di attacchi di questo genere. Sotto la superficie della città e per un buon tratto anche fuori delle mura, si svolgeva su due piani sovrapposti una fitta rete di gallerie e camminamenti sotterranei che dovevano permettere ai difensori li intercettare i lavori di scavo nemici e far saltare le batterie di breccia piazzate in superficie. Secondo la ricostruzione fatta dal generale Amoretti, al momento dell'assedio la rete di gallerie raggiungeva un'estensione di ventuno chilometri e la profondità di quattordici metri, la massima possibile, il che rendeva la piazzaforte inespugnabile dal basso. In questo labirinto vigilavano giorno e notte i minatori pronti ad intervenire al primo segno di irruzione nemica, come fece Pietro Micca che nella notte tra il 29 e il 30 agosto rimase sepolto nel crollo di un fornello di mina fatto esplodere per bloccare il passaggio di una pattuglia francese. Fu per questo che gli assedianti, benché raggiungessero spesso delle posizioni avanzate in superficie, in realtà non poterono mai trarne un reale vantaggio e subirono gravissime perdite.

Nei due mesi successivi Torino subì un assedio durissimo in una condizione di assoluto isolamento che rendeva molto problematica la sua possibilità di resistenza soprattutto per la difficoltà del rifornimento di polvere e munizioni. Il duca ne era uscito alla metà di giugno, quando aveva avuto notizia che il cerchio nemico era stato chiuso e le strade stavano per essere bloccate. Lasciò in città un presidio di circa 10.500 soldati al comando del generale Daun, oltre alla milizia urbana formata da 5.000 uomini e partì per raggiungere la sua cavalleria e compiere azioni dall'esterno con cui alleggerire la pressione sugli assediati in attesa dei rinforzi del principe Eugenio. Per tutto il mese di luglio compì continue irruzioni sulla città e sulle linee francesi di rifornimento eludendo i tentativi del La Feuillade di catturarlo e tentò anche vanamente di far giungere rifornimenti di polvere al generale Daun. Nel frattempo il Vendôme era stato inviato in Fiandra ed era stato sostituito con il duca di Orléans. Questi giunse alla fine di agosto e insieme al La Feuillade intensificò gli assalti per conquistare Torino prima dell'arrivo dell'esercito imperiale. Ma la città non cadde e finalmente il 29 agosto, quando ormai gli abitanti erano alle fame e le polveriere vuote, le truppe di Eugenio di Savoia arrivarono a Carmagnola e si congiunsero con quelle di Vittorio Amedeo.

Insieme salirono sulla collina di Superga e decisero il piano d'attacco che teneva conto della loro inferiorità numerica (30.000 uomini contro i 41.000 dei francesi). Due giorni dopo condussero l'esercito da Carmagnola verso lo schieramento francese attestandosi tra Venaria e Lucento, nel punto più debole delle linee d'assedio francesi che per un errore inspiegabile li lasciarono passare. Di qui il 7 settembre i corpi prussiani e la cavalleria imperiale di Eugenio andarono all'assalto e dopo diverse ore di duri scontri in cui lo stesso duca d'Orléans rimase ferito riuscirono a conquistare un punto d'appoggio nelle trincee nemiche. Vittorio Amedeo alla testa della sua cavalleria ruppe le linee francesi e contemporaneamente il presidio di Torino uscì dalla città. A questo punto gli assedianti si sbandarono e si dispersero, poi si ritirarono verso ovest, abbandonando tutto il materiale bellico. L'assedio di Torino era terminato, il Piemonte fu liberato da un'invasione e la una guerra che l'avevano ridotto allo stremo non solo per gli scontri militari ma soprattutto per le devastazioni operate per anni nelle campagne dagli eserciti nemici e da quelli alleati.

Nel 1713 ad Utrecht venne firmato un trattato che riconosceva a Vittorio Amedeo gli ampliamenti territoriali già pattuiti, come il Monferrato ed altri territori lombardi, e in più gli concedeva anche la Sicilia e con essa il titolo regio. Con il che il suo stato, pur piccolo, si inseriva di diritto in mezzo alle grandi potenze, con la possibilità di intervenire in maniera autonoma nella gestione della politica europea. Tuttavia la battaglia di Torino e l'esito favorevole ai Savoia della guerra di successione spagnola ebbero conseguenze che andarono oltre i confini del Piemonte, poiché costrinsero definitivamente i Borboni a rinunciare al potere in Lombardia e posero un freno alle mire espansionistiche del Re Sole. Furono invece gli Asburgo a imporre il loro predominio, che avrebbe condizionato la storia europea per un secolo e mezzo.

Intanto il Piemonte oltre al proprio ruolo nella storia aveva ormai conquistato la sua identità di nazione e il suo spirito di popolo. 

martedì 13 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 maggio.

Il 13 maggio 1940 Winston Churchill tenne il suo primo discorso come capo del governo alla Camera dei Comuni.

Il primo discorso tenuto come primo ministro alla Camera dei Comuni da parte di Winston Churchill è un invito agli inglesi a difendere la propria patria. Viene pronunciato nei giorni difficili della Seconda Guerra Mondiale, nei giorni bui dopo la sconfitta britannica a Dunkerque, quando la furia bellica dei nazisti imperversava in Europa.

Segnaliamo due passaggi che sono passati alla storia:

“Dico al Parlamento come ho detto ai ministri di questo governo, che non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalie. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza.”

“Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. E’ la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza.”

Alcuni storici sostengono che l’espressione  “sangue, fatica, lacrime e sudore” sia ispirata a Garibaldi, del quale Churchill era uno studioso: gli rese omaggio nel suo più ispirato discorso al parlamento e alla nazione, «rubando» le parole che Garibaldi aveva pronunciato nel 1849 davanti al Parlamento della Repubblica romana, quando ai suoi «pochi» 4700 uomini – che avrebbero dovuto fronteggiare gli 86 mila delle forze combinate francesi, spagnole, napoletane, toscane e austriache – disse: «Non ho null’altro da offrirvi se non sangue, fatica, lacrime e sudore».

lunedì 12 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 maggio.

Il 12 maggio 1957 durante la Mille Miglia, muoiono il pilota Alfonso De Portago, il copilota e 9 spettatori.

 Che tragedia, alla Mille Miglia quell'anno: in quel di Guidizzolo, la Ferrari 335 S guidata da Alfonso De Portago si abbatté sugli alberi e falciò gli spettatori, uccidendone nove. Morti sul colpo anche il pilota e il copilota Edmund Nelson. Un costo umano spaventosamente alto e fine di una competizione leggendaria che dal 1927 si era interrotta solo negli anni della Guerra. Un macigno anche sulla pur granitica corazza di Enzo Ferrari che, già prostrato dalla morte di Eugenio Castellotti appena due mesi prima, divenne inoltre obiettivo di strali assai velenosi da parte di stampa, politici e opinione pubblica, oltre a dover sopportare una indagine giudiziaria dalla quale uscirà assolto ben quattro anni dopo. Ma cosa successe, quella drammatica mattina?

La Ferrari stava letteralmente dominando. In testa Collins seguito da Taruffi, Von Trips, De Portago e Gendebien. Al rifornimento di Bologna non c’era più l’americano, ritiratosi. C’era invece il Drake in persona che dispose il mantenimento di tali posizioni e un’andatura di conserva. L’intento era quello di “consentire” la vittoria del grande Taruffi ormai a fine carriera. Nel mantovano, all’altezza di Mormirolo, la vettura di De Portago affrontò ad alta velocità una curva strisciando con gli pneumatici sugli occhi di gatto che fungevano da linea di mezzeria. Fu la miccia dell’incidente: pochi chilometri più avanti uno pneumatico Englebert esplose rendendo ingovernabile l’auto che, finita nel fossato a destra, ne fuoriuscì saltando l'intera carreggiata e schiantandosi sul ciglio sinistro ove erano assiepati molti spettatori. L'incidente provocò la morte degli occupanti la vettura e di nove spettatori, tra cui cinque bambini, oltre a numerosi feriti. Sul luogo della strage fu successivamente eretto un monumento commemorativo sulla SS236. Enzo Ferrari, in una sua nota successiva, adombrerà l’ipotesi secondo la quale De Portago, a seguito di una informativa sbagliata fornitagli da un giornalista, avesse continuato a tenere un’andatura sostenuta per guadagnare almeno una posizione.

In seguito a quella tragedia le corse motoristiche di velocità furono pesantemente limitate sull'intero territorio nazionale. La XII Milano-Taranto, che si sarebbe dovuta svolgere dieci giorni dopo, fu annullata.

Alfonso Cabeza de Vaca, marchese di Portago, conte di Mejorada (madre irlandese) aveva appena 29 anni: bello, ricco e nobile era un pilota play boy. Ma attenzione: era molto bravo e veloce nonché  sportivo a tutto tondo: oltre alle auto si era dedicato con successo al nuoto, all’ippica e al bob (fu olimpionico a Cortina). Le foto del tempo lo ritraggono spesso con una sigaretta tra le labbra. Uno Steve Mc Queen degli anni ’50. Le Ferrari lo affascinavano, tanto da competere e vincere nel 1954 a Nassau e a Metz con una Rossa Sport di proprietà. Nel 1955 divenne pilota pagante del Cavallino facendosi rispettare: finì davanti a  Phil Hill a Nassau e si classificò secondo dietro Fangio al GP del Venezuela. Nel 1956 il debutto in F1 al GP di Francia dove colse i primi punti (secondo) condividendo l’auto con Collins al GP di Gran Bretagna; stessa cosa nel fatidico 1957 al GP di Argentina, quinto con Gonzales sempre su Ferrari-Lancia D50. Era il 13 gennaio, era in ascesa. Vinse ancora il Tour de France e il GP del Portogallo a Oporto, poi la Mille Miglia del destino. 

Oggi De Portago riposa nel Cimitero di Arcangues, nell'Aquitania.


 

domenica 11 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 maggio.

L'11 maggio 2016 il Parlamento Italiano approva la legge Cirinnà, Le Unioni Civili diventano una realtà anche in Italia.

Tanto discussa quanto attesa, la Legge Cirinnà - che prende il nome dalla senatrice del Pd Monica Cirinnà, prima firmataria dell'iniziativa parlamentare in questione - è stata approvata nel 2016 ed è entrata in vigore dal mese di giugno dello stesso anno. L'istituto riconosce dal punto di vista giuridico la coppia di fatto formata da persone dello stesso sesso, estendendo anche alle coppie omosessuali gran parte dei diritti e dei doveri previsti per il matrimonio e modificando lo stato civile dei componenti della coppia stessa.

Tuttavia questa legge affonda le sue radici nel 1986, quando in Italia fu proposto un istituto giuridico simile per iniziativa delle parlamentari comuniste e dell'Arcigay: furono, infatti, la senatrice Ersilia Salvato e le deputate Romana Bianchi e Angela Bottari ad aprire, per la prima volta, la discussione sulle unioni civili nelle rispettive Camere di appartenenza.

La prima vera proposta, però, arrivò soltanto due anni dopo, nel 1988, quando Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista, presentò la cosiddetta Disciplina sulla famiglia di fatto, che non fu mai calendarizzata per la discussione perché adombrava in una certa misura il riconoscimento delle coppie omosessuali. Ma non solo: la proposta presentata dalla Cappiello fu ribattezzata sulla stampa come "matrimonio di serie B".

Negli anni Novanta il numero di proposte di legge presentate alla Camera e al Senato si moltiplicò, così come il numero di inviti da parte del Parlamento Europeo a parificare le coppie gay ed eterosessuali, nonché le coppie conviventi e sposate. Tutti questi tentativi, però, si arenarono anche a causa del veto posto dalla Chiesa cattolica, che nel corso degli anni ha continuato a influenzare inevitabilmente le forze politiche in gioco. La storia, purtroppo, si ripete anche alle porte del nuovo millennio.

Siamo nel 2003, precisamente a settembre, quando il Parlamento Europeo approva una risoluzione sui diritti umani in Europa in cui viene ribadita la richiesta agli Stati membri "di abolire qualsiasi forma di discriminazione - legislativa o de facto - di cui sono ancora vittime gli omosessuali, in particolare in materia di diritto al matrimonio e all'adozione". Tuttavia bisognerà aspettare altri tredici anni per poter parlare ufficialmente di diritti e doveri delle coppie di fatto.

Arriviamo a giugno 2014 quando, con la XVII legislatura, viene depositata una prima proposta di legge sulle unioni civili da parte dell'onorevole Monica Cirinnà (Pd), nominata relatrice. Il Governo Renzi, a questo punto, interviene con forza nel dibattito e decide di accelerare i tempi cercando l'accordo politico all'interno della maggioranza. Pertanto il 23 febbraio 2016 viene presentato un maxi emendamento che raccoglie, quasi integralmente, il disegno di legge Cirinnà per l'istituzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Il nuovo testo prevede, dunque, diritti e doveri sostanzialmente identici a quelli previsti per il matrimonio, ad eccezione della cosiddetta stepchild adoption: sulla possibilità di adottare il figlio naturale del partner, infatti, viene posto un veto da parte dell'ala cattolica e conservatrice della maggioranza, cruciale dopo il voltafaccia del Movimento 5 Stelle. Il testo modificato viene quindi approvato in prima lettura dal Senato nella seduta del 25 febbraio 2016 e il disegno di legge passa all'esame della Camera il 9 maggio dello stesso anno. Infine, la legge sulle unioni civili viene approvata in via definitiva l'11 maggio 2016.

La Legge Cirinnà stabilisce che due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituire un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni, scegliendo se vogliono di assumere un cognome comune per la durata stessa dell'unione. L'atto di costituzione di quest'ultima viene registrato nell'archivio dello stato civile del Comune e porta con sé diritti e doveri specifici, come l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale, e alla coabitazione.

Inoltre entrambe le parti, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, sono tenute a contribuire ai bisogni comuni e a concordare l'indirizzo della vita familiare. Infine, se le parti non optano per la separazione dei beni, il regime patrimoniale dell'unione civile tra persone dello stesso sesso è quello della comunione dei beni.

I decreti attuativi della legge 76/2016 sono stati approvati dal Governo Renzi nel novembre 2016 e, dopo aver ottenuto il parere favorevole da parte delle Commissioni Affari Costituzionali e Bilancio di Camera e Senato, sono stati confermati in via definitiva da parte del Governo Gentiloni.

Nei tempi successivi all'approvazione della legge sono stati raccolti numeri significativi, che parlano da sé: come testimoniato dalla stessa Monica Cirinnà, infatti, a soli due anni dall'entrata in vigore della 76/2016 sono state celebrate ben 1.514 unioni civili in Lombardia, di cui 799 solo a Milano. Al secondo posto troviamo il Lazio, con 915 unioni, di cui 845 a Roma.

sabato 10 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 maggio.

Il 10 maggio 2007 Tony Blair, primo capo di un governo laburista in Regno Unito, annuncia le sue dimissioni.

Il 27 giugno del 2007 Tony Blair si dimise da tutti gli incarichi politici che ricopriva: leader del Partito Laburista, primo ministro del Regno Unito e deputato. Da dieci anni guidava il governo britannico e da tredici il Partito Laburista. Nella sua carriera era riuscito a cambiare radicalmente la sinistra britannica e influenzare quella di tutto il resto d’Europa. Aveva ottenuto alcune delle vittorie elettorali più sonanti della storia del Regno Unito, nonostante il suo partito venisse da decenni di umilianti sconfitte, lasciandosi alle spalle un’eredità politica ancora oggi molto discussa. A farlo cadere furono soprattutto la scelta di affiancare il presidente americano George W. Bush nella guerra in Iraq e un patto vecchio di 13 anni sottoscritto con Gordon Brown, il suo più grande alleato e rivale insieme, che lo avrebbe sostituito alla guida del Regno Unito.

Blair e Brown, all’epoca i due politici emergenti più forti del Partito Laburista, si erano incontrati nel 1994 nel ristorante Granita di Islington, un quartiere a nord di Londra. Pochi giorni prima era morto il leader del partito John Smith e i due stavano discutendo di come organizzare la sua successione. Dall’incontro uscì un accordo per evitare di farsi la guerra e spartirsi il potere all’interno del partito. Blair sarebbe diventato il nuovo leader e quindi il candidato primo ministro, perché giudicato quello che aveva più possibilità di vincere. In caso di vittoria Brown sarebbe divenuto cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro dell’Economia, e avrebbe avuto ampi poteri sulla politica interna. I dettagli dell’accordo non vennero mai resi pubblici, ma a quanto sembra Blair accettò di cedere la leadership a Brown in qualche momento del futuro.

Le cose però andarono diversamente. Alle elezioni del 1997 Blair stravinse, ottenendo 13,5 milioni di voti, il 43 per cento del totale. Per la prima volta dopo 18 anni, i Laburisti tornarono al potere e lo fecero con una delle maggioranza più ampie che si fossero mai viste. Durante la campagna elettorale, Blair si era rivelato un leader estremamente abile e popolare. Approfittò delle divisioni nel Partito Conservatore per portare avanti un programma centrista (disse che i Laburisti erano un partito di “centro radicale”). Cercò di recuperare voti dai conservatori delusi e ci riuscì benissimo. Terminati i conteggi, il Partito conservatore si ritrovò con meno di metà dei seggi che aveva fino al giorno prima.

Negli anni successivi, Blair continuò a diventare sempre più popolare. Mantenne la promessa di spostare il partito verso il centro, soprattutto sui temi economici. Criticò i sindacati, che in certi momenti storici erano arrivati a dominare il partito, e mantenne in vigore la riforma del settore di Margaret Thatcher, che molti volevano abolire. Introdusse le “tuition fee”, le rette universitarie piuttosto care che sono in vigore ancora oggi, ma cercò comunque di non scontentare l’elettorato tradizionale del partito e investire molto nella sanità e nella scuola pubblica. Introdusse per la prima volta il salario minimo e portò avanti numerose politiche ambientaliste. Con una serie di successi alle spalle e una popolarità che nessun politico aveva dai tempi di Margaret Thatcher, Blair si candidò nuovamente alle elezioni del 2001 e vinse ancora una volta.

Non è chiaro quando, ma sembra evidente che a un certo punto di questa serie di successi Brown abbia ritenuto che il suo patto con Blair – il “Granita Pact”, nel gergo della politica britannica – fosse stato tradito. Blair non sembrava avere intenzione di lasciare il suo incarico e di rispettare il misterioso accordo di Islington. Le riunioni dei ministri iniziarono a diventare uno scontro continuo tra i sostenitori di Brown e quelli di Blair. Diversi politici che parteciparono a quelle riunioni hanno raccontato che era come se ci fosse una «frattura» dentro il governo laburista e che per i ministri del partito «era come essere figli di due genitori che litigano». Raramente però l’opinione pubblica assistette a manifestazioni plateali di questo dissenso: Brown e Blair si mostravano sempre vicini e solidali, anche se “dietro le quinte” lo scontro diventava sempre più profondo.

Nel 2004, all’epoca del decimo anniversario del patto che Brown riteneva essere stato tradito, Blair commise quello che molti hanno ritenuto il suo più grave errore politico, almeno sul piano del consenso personale. All’epoca era sotto pesanti pressioni politiche per aver coinvolto il Regno Unito nella guerra in Iraq voluta da George W. Bush, sulla base di prove che apparivano inconsistenti sulla presenza di armi di distruzione di massa e sulla volontà del regime di Saddam Hussein di utilizzarle ancora come in passato. Molti elettori erano scontenti anche delle difficoltà che stavano incontrando le truppe di occupazione, dei soldati morti e feriti e del disordine che continuava a perdurare in Iraq.

In calo di popolarità e sotto la pressione dei sostenitori di Brown, Blair annunciò che avrebbe partecipato alle successive elezioni del 2005, che in caso di vittoria avrebbe governato per un intero mandato e che poi avrebbe ceduto il posto al suo successore. Come scrisse l’allora giornalista politico di BBC Nick Assinder, la mossa gli permise di prendere tempo – molti immaginavano che Blair si sarebbe ritirato prima delle elezioni del 2005 – ma lo rese anche politicamente più debole: un leader che promette di ritirarsi in cinque anni, infatti, perde potere contrattuale e politico ogni giorno che passa e può essere spinto a ritirarsi anche prima. Blair riuscì a ottenere una terza storica vittoria, nel 2005, ma perse più di 60 deputati rispetto al 2001; i sostenitori di Brown iniziarono da subito a chiedergli di accelerare le sue dimissioni.

Blair cercò di resistere, ma non ci riuscì a lungo. Al ritorno dalle ferie estive del 2006 durante un’intervista fece intendere che sarebbe rimasto primo ministro per almeno un altro paio d’anni, forse di più. I sostenitori di Brown nel governo si dimisero, Blair ricevette una lettera di critiche firmata da numerosi parlamentari ed ebbe un burrascoso incontro con Brown. Non si dimise subito ma a settembre disse che avrebbe lasciato il suo incarico entro un anno. Otto mesi dopo si dimise, tra le polemiche sempre più forti per la sua decisione di combattere in Iraq e sotto la pressione di Brown e dei suoi sostenitori, impazienti di prendere la guida del partito.

Il 10 maggio del 2007 Blair annunciò che il mese successivo si sarebbe dimesso. Nel suo discorso finale, tenuto al sede del partito di Trimdon, Blair parlò per 17 minuti. Chiese scusa per le sue mancanze da leader e per le speranze e le promesse suscitate e non mantenute. Disse che il popolo britannico era speciale e che il Regno Unito è il più grande paese del mondo. Alla fine del discorso disse: «Con la mano sul cuore, vi dico che ho sempre fatto quello che pensavo fosse giusto. Posso aver sbagliato, sarete voi a giudicarmi. Ma ho sempre fatto quello che ho ritenuto fosse il meglio per il nostro paese».

Brown fu tra i primi a congratularsi con lui: «Penso di parlare per milioni di persone quando dico che ciò che ha ottenuto Tony Blair è senza precedenti, unico e che durerà a lungo», disse. Come previsto, il giorno stesso, il 27 giugno, divenne leader del partito e quindi primo ministro: nel sistema britannico il primo ministro è il leader del partito di maggioranza parlamentare. Brown rimase in carica poco meno di tre anni; alle elezioni del 2010, infatti, i laburisti persero la maggioranza a vantaggio dei Conservatori. Cercarono di allearsi con i Libdem per formare una maggioranza, ma senza successo perché questi si allearono con i Conservatori di Cameron. Il giorno stesso Brown diede le sue dimissioni da tutti i suoi incarichi. Alla guida del partito gli successe Ed Miliband. Da allora, i laburisti sono riusciti a vincere le elezioni solo nel 2024, con Keir Starmer; Brown, come Blair, si è ritirato dalla vita politica britannica.

venerdì 9 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 maggio.

Il 9 maggio 1941 la Royal Navy riesce a catturare un sommergile tedesco e al suo interno viene trovato un modello della macchina Enigma. Ciò consentirà agli Alleati di decodificare i messaggi in codice inviati dalle forze tedesche, e ciò probabilmente contribuirà in modo schiacciante alla vittoria finale nella seconda guerra mondiale.

Nel maggio 1929 morì l’ingegnere tedesco Arthur Scherbius, inventore della macchina Enigma.

Il suo brevetto, del 1918, che riprende l’invenzione del disco cifrante di Leon Battista Alberti del 1465, farà nascere una serie di modelli simili a quello iniziale, venduti perlopiù a banche ed aziende, fino a quello portatile, che verrà adottato dall’esercito nel 1924 e che avrà un grande successo durante tutta la seconda guerra mondiale rappresentando la prima vera versione di una macchina elettromeccanica di tipo cifrante in Europa.

Questa invenzione non solo rappresenta di per sé una grande conquista intellettuale, ma stimola gli Alleati a mettere in campo una grande organizzazione in Inghilterra, a Bletchley Park, con il reclutamento delle migliori menti matematiche dell’epoca, fra cui Alan Turing. Dalla sua altrettanto famosa “bomba”, ovvero un congegno inventato per automatizzare la ricerca delle possibili combinazioni della macchina Enigma a partire dai messaggi cifrati ricevuti, prende vita, grazie ad un ingegnere inglese dell’ufficio postale, Tommy Flowers, quello che per molti storici è considerato il primo vero calcolatore della storia informatica, realizzato a valvole termoioniche, noto come il “Colossus”.

Ripercorrendo i momenti salienti di questa avventura, all’ombra della Seconda Guerra Mondiale, cercheremo di mettere in luce tutti gli aspetti che la macchina Enigma ha anticipato e che ancora ritroviamo come elementi alla base della moderna sicurezza informatica.

La macchina Enigma aveva l’aspetto di una macchina per scrivere: possedeva una tastiera inferiore e una parte nella quale delle lampadine si accendevano ogniqualvolta veniva premuto un tasto sulla prima tastiera: la sequenza delle lettere che si illuminavano dava il messaggio cifrato (oppure quello in chiaro, se si batteva il testo cifrato, usando la stessa configurazione del mittente).

Nello schema seguente è riassunta la composizione fondamentale della macchina Enigma:

– abbiamo innanzitutto i rotori, cioè i dischi riportanti le 26 lettere dell’alfabeto, con fili incrociati all’interno, cosi che le lettere su una faccia risultino scambiate sull’altra. La loro posizione reciproca era segreta e costituiva una vera e propria chiave di cifratura. L’elenco delle chiavi di decriptazione ovvero le posizioni di partenza dei rotori, che doveva cambiare ogni giorno, era contenuto in volumi distribuiti mensilmente a tutte le unità coinvolte;

– la batteria di 4.5v;

– il pannello delle lampadine;

– il plugboard, ovvero il pannello a spine multiple al quale venivano collegati cavi che permettevano di incrociare alcune lettere (fino ad un massimo di 13), aumentando quindi il numero di combinazioni da analizzare da parte di un eventuale crittanalista nemico.

Nella versione originale della macchina Enigma ci sono nell’ordine da destra a sinistra: un rotore di ingresso E con ventisei contatti elettrici corrispondenti alle 26 lettere dell’alfabeto ordinate in un ordine prefissato, tre rotori N, M, L forniti di 26 contatti elettrici su ogni faccia che in modo segreto connettono ogni contatto sulla faccia destra con un contatto sulla faccia sinistra; all’estrema sinistra, un riflettore R con 26 contatti elettrici solo sulla faccia destra, accoppiati a due a due secondo un altro schema segreto. Quando l’operatore preme un tasto, un segnale elettrico parte dal rotore E e passa successivamente per i rotori N, M, L fino al riflettore e quindi ritorna indietro passando di nuovo per i tre rotori fino a illuminare una lettera che è il carattere cifrato da trasmettere.

Ad ogni nuovo carattere il rotore N ruota di una posizione; ad ogni giro completo di N, il rotore M ruota a sua volta di una posizione, e infine ad ogni giro di M, ruota di una posizione il rotore L; il funzionamento è quindi simile a quello dei moderni contachilometri ma l’inizio del giro di ogni rotore è segreto. Si tratta quindi di un codice a sostituzione polialfabetica.

Ad esempio la lettera A viene codificata nella D, e un’altra lettera A successiva, grazie al movimento dei rotori, verrà codificata in una lettera differente. Il rotore ultimo, il riflettore, è quello che permetterà di usare la macchina Enigma sia per cifrare un messaggio sia per decifrarlo. Infatti, utilizzando la macchina Enigma con lo stesso “setting” di quella usata per cifrare, la lettera D verrà decodificata nella lettera A di partenza, così tutto il messaggio potrà essere decriptato.

Dal punto di vista matematico tutto questo equivale a un sistema di permutazioni; ogni rotore effettua una permutazione delle 26 lettere, e così pure il riflettore e il dispositivo di ingresso.

Le disposizioni operative per le unità dotate della macchina Enigma prescrivevano che ogni giorno, per motivi di sicurezza, venisse modificato l’assetto della macchina, disponendo collegamenti differenti per gli spinotti del pannello, posizionamenti reciproci diversi per i tre rotori, assetto iniziale diverso, cioè la lettera da cui partire per la prima codifica, di ciascuno di essi. Come detto in precedenza, le informazioni relative erano contenute in un cifrario distribuito mensilmente ad ogni unità militare dotata di macchina Enigma.

I primi ad intuire i principi di funzionamento della macchina Enigma furono 3 matematici polacchi, che applicando la teoria delle permutazioni, riuscirono a decifrare i messaggi.

Tra il 1938 e il 1939 i Tedeschi cambiarono però le regole di cifratura e aumentarono il numero di rotori da 3 a 5 così che il metodo dei matematici polacchi perse buona parte della sua efficacia. In quel periodo la decrittazione dei messaggi Enigma da parte dell’ufficio cifra polacco fu occasionale. Il lavoro dei matematici polacchi fu quindi ripreso durante la seconda guerra mondiale dall’ufficio cifra inglese che perfezionò e migliorò i metodi di decrittazione di Enigma.

Essi riuscirono a sfruttare tecniche di spionaggio tradizionale, grazie infatti a un emissario tedesco fu possibile avere le foto dei manuali originali, e altri fattori che via via scoprirono spesso a prezzo di vite umane. Insieme a qualche “piccolo” errore di progettazione (una lettera non poteva mai essere codificata su sé stessa), alla pigrizia degli operatori tedeschi che spesso partivano con i rotori sempre nella stessa posizione (es, QQQ), corrispondenti ad iniziali di fidanzate o altre parole di uso comune dei soldati, cioè i cosiddetti cillies, e alla capacità di trovare i famosi cribs ovvero parole comuni a tutti i messaggi ricevuti (per fare un esempio, molti messaggi finivano spesso con il ben noto saluto “Heil Hitler!”), i crittanalisti riuscirono nell’impresa di decifrare gran parte dei messaggi quasi in tempo reale. Fu grazie alla vittoria della collaborazione delle menti di Bletchley Park che la Guerra dei Codici fu vinta dagli Alleati e ridusse sia la durata del conflitto mondiale che il numero totale delle vittime.

I rotori potevano essere estratti ed inseriti nella macchina secondo un ben preciso ordinamento. Con 3 rotori abbiamo 3*2 possibilità di muoverli nei 3 diversi alloggiamenti, ma con 5 rotori ne avremo ben 5*4*3=60, di fatto aggiungendo un primo ostacolo alla interpretazione corretta dei messaggi.

Il plugboard che poteva fornire fino a 13 scambi di lettere grazie a 13 cavi, contribuiva per un totale di 26!/(26-p)!*p!*2^p combinazioni dove p corrisponde al numero di cavi effettivamente usato. Con 6 cavi si totalizzavano già 100 miliardi di combinazioni possibili.

Il numero totale di combinazioni date dai 3 rotori era 26*26*26=17576, dato che ciascuno di essi aveva appunto 26 lettere che si incrociavano con altrettante sui rotori successivi.

La posizione di partenza dei rotori introduceva altre combinazioni possibili, ad esempio dati 3 rotori solo i primi 2 avevano effetto uno sull’altro, cioè il primo sul secondo ed il secondo sul terzo, quindi si devono calcolare 26*26 ulteriori combinazioni (626).

Le possibili combinazioni interne del rotore finale (riflettore) potevano aggiungere infine ulteriori possibilità di codifica diversa, fino ad arrivare a 8000 miliardi di combinazioni possibili.

Moltiplicando tutti i numeri tra di loro ne nascono 3*10^114 combinazioni, più o meno equivalenti a 2^77.

Se si considera la versione di Enigma con 5 rotori, quella usata nella Marina, il numero di combinazioni aumenta vertiginosamente ed una decodifica manuale sarebbe stata inconcepibile. Fu quindi necessario tutto il genio di Alan Turing per concepire prima e costruire dopo una macchina elettromeccanica in grado di riprodurre un numero elevatissimo di combinazioni alla ricerca di quella giusta per poter decifrare il messaggio segreto ricevuto.

Come i moderni algoritmi di crittografia, il segreto principale risiedeva nella chiave usata (ovvero la configurazione completa della macchina) che ogni operatore doveva in teoria cambiare alla mezzanotte di ogni giorno seguendo il manuale mensile di configurazione. Anche se gli alleati riuscirono a procurarsi esemplari di macchine Enigma, la decifrazione dei messaggi richiedeva la conoscenza della chiave usata per quel giorno. Ma proprio la fiducia totale riposta nella certezza di inviolabilità del codice Enigma, grazie al numero enorme di combinazioni possibili, si rivelerà il tallone d’Achille dell’Intelligence tedesca.

Riassumiamo dunque le principali caratteristiche della macchina Enigma, in termini moderni:

L’algoritmo di cifratura era uguale all’algoritmo di decifratura e l’algoritmo alla base del DES (Data Encryption Standard) del 1976, il primo degno di nota nella storia informatica aveva ad esempio questa stessa caratteristica.

La cifratura usata era una sostituzione polialfabetica come quella inventata nel 1465 da Leon battista Alberti. Si basava su sostituzione e permutazione delle lettere, come suggerito dai principi di “confusione” e “diffusione” definiti in un articolo di C.Shannon (matematico ed ingegnere statunitense, considerato il padre della teoria dell’informazione) nel 1949.

La matematica ci fornisce un calcolo della equivalente lunghezza della chiave dei moderni algoritmi di cifratura simmetrica, vale a dire di circa 77 bit; l’algoritmo DES ne usa una da 56 bit, mentre il nuovo standard AES (Advanced Encryption Standard), oggi universalmente utilizzato in vari ambiti, parte da 128.

La tastiera della macchina Enigma presentava la sequenza QWERTZU in prima fila, molto simile all’attuale sequenza QWERTY delle comuni tastiere di computer.

Era una macchina portatile con alimentazione di 4.5v, un peso di circa 9kg.

Presentava un manuale di configurazione abbastanza semplice.

Poteva essere programmata in vari modelli, uno per la Marina, uno per l’esercito, uno per l’aviazione, tutti differenti ma conservando la compatibilità tra di loro.

Era facile da riparare.

Aveva anche l’opzione per stampare i messaggi in modo “remoto”, tramite una piccola stampante che poteva imprimere i messaggi su un piccolo nastro di carta. Ciò rendeva inutile la presenza di un secondo operatore che leggesse le lampadine e ne scrivesse le lettere. La stampante si collocava sulla parte alta della macchina Enigma ed era connessa al pannello di lampadine; per installarla il coperchio e tutte le lampadine dovevano essere rimosse.

La macchina Enigma ha anticipato, come si può notare, in tanti aspetti, le caratteristiche sia dei computer di oggi che della parte di codice, potremmo dire sia lato hardware che software, riferiti ovviamente alla crittografia.

giovedì 8 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 maggio.

L'8 maggio 1987 Eric Lis fonda la micronazione denominata "Impero Aericano".

L’Impero aericano, comunemente chiamato anche Aerica, è stato fondato nel maggio del 1987. Il nome è un gioco di parole dell’Impero americano (così come il soprannome, avente origine dall’America).I suoi membri rivendicano il controllo di un’area molto scollegata, che include un territorio paragonabile a 1 km² in Australia, un terreno esteso quanto una casa a Montreal, in Canada (dove è presente la loro ambasciata: l’Embassy to Everything Else, ovvero l’Ambasciata di Tutto il Resto) e altre aree sparse nel mondo. Invece, per quanto riguarda i possedimenti spaziali, Aerica dispone di una colonia su Marte, l’emisfero settentrionale di Plutone e un pianeta immaginario denominato Verden.

Sebbene i membri dell’Impero aericano la dichiarino essere una micronazione autonoma, Aerica in realtà non è ufficialmente riconosciuta come Stato sovrano o indipendente da nessuna nazione del mondo.

Per i primi dieci anni l’Impero era totalmente immaginario, rivendicando porzioni di pianeti e dichiarando guerra alle altre micronazioni. Tuttavia dopo l’avvento di Internet, grazie al quale i fondatori scoprirono l’esistenza di altri microstati, l’Impero ha lentamente abbandonato tutti gli elementi di fantasia e iniziò a lavorare per essere un’entità politica. Nel 1997, l’Impero ha creato il proprio sito web (http://www.aericanempire.com/)

Nel 2000 per la prima volta la nazione venne citata in un giornale, il New York Times, che così descrisse il microstato: “Uno dei luoghi più fantasiosi che esistano”

L’Impero afferma di avere un sistema repubblicano parlamentare, con organi e uffici, sotto il comando di un Imperatore (attualmente il fondatore, Eric Lis). Hanno creato per la prima volta la loro moneta nel novembre del 2009, chiamata Mu o Solari.

L’Aerica non possiede dei passaporti veri e propri, infatti la stessa è munita di “passaporti novità” (novelty passport) scaricabili da Internet; uno di questi passaporti è stato mostrato ad un’esibizione di Tokyo. I cittadini condividono un grande senso dell’umorismo e un grande amore per il fantasy, con continui riferimenti a Star Wars e simili. Ogni anno Aerica tiene dei concorsi ed eventi come il Dog-Biscuit Appreciation Day Scavenger Hunt (Giorno dell’apprezzamento dei croccantini per cani). Hanno anche sviluppato una religione, il Silinismo (Silinism) che in origine era uno scherzo, ma l’Aerica afferma che vi sono trenta praticanti in tutto il mondo. Il Dio che loro venerano è un pinguino gigante.

Nella stessa, inoltre, sono presenti festività, come il What the Heck is That Day (19 marzo), Oops Day (27 febbraio) o il Procrastinator’s Day (2 gennaio).

La nazione ha come bandiera la stessa base di quella canadese, solo che a differenza della classica foglia rossa troviamo uno smile.

“Ogni bambino produce terre, storie, amici ed avventure immaginarie. Io non sono mai cresciuto, così come qualche paio di centinaia di persone”

Questa è la frase più celebre del fondatore Eric Lis. Un micropaese basato sul genere fantasy, su tante festività no sense e su controlli immaginari della galassia… e questa è solo una delle micronazione presenti sul nostro pianeta…

mercoledì 7 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 maggio.

Il 7 maggio 1898 si inaspriscono i moti di Milano in seguito agli aumenti di prezzo del pane. L'escalation della violenza troverà il culmine il giorno dopo.

L’8 maggio infatti, i soldati del generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono contro le donne, gli uomini, i vecchi e i bambini che avevano preso parte ai moti di Milano del 1898, una sollevazione popolare contro l’aumento del costo del grano – e quindi del pane – decisa dal Regno d’Italia. La strage di Bava Beccaris è considerata uno dei momenti peggiori della storia italiana ed ebbe già all’epoca una risonanza tale da motivare nel 1900 l’assassinio a Monza di re Umberto I, ucciso con tre colpi di pistola dall’anarchico Gaetano Bresci.

Milano, alla fine dell’Ottocento, aveva circa mezzo milione di abitanti ed era la seconda città più popolata del Regno d’Italia, dopo Napoli. Era considerata la capitale finanziaria della nazione, la città in cui cominciavano a essere sperimentati nuovi modelli di industrializzazione e a prendere forza nuovi movimenti di massa per l’emancipazione del ceto popolare. La situazione nazionale era problematica: la diffusione dell’analfabetismo, i bassi salari e l’alto tasso di disoccupazione avevano preparato il terreno al malcontento, che esplose quando a causa degli scarsi raccolti il costo del grano aumentò da 35 a 60 centesimi di lira al chilo.

Dopo un primo tentativo di organizzare la protesta in modo pacifico, il malessere popolare confluì spontaneamente, senza organizzazione e per contagio in varie città: prima in Romagna e Puglia e poi anche altrove. Il 2 maggio a Firenze fu dichiarato lo stato d’assedio e due giorni dopo lo stesso accadde a Napoli. Sempre il 2 maggio il ministero dell’Interno autorizzò i prefetti locali ad affidare, se ve ne fosse stato bisogno, poteri speciali di intervento alle autorità militari territorialmente competenti. A Milano questa autorità era il generale Fiorenzo Bava Beccaris, capo del Terzo Corpo d’Armata.

I moti – che furono chiamati poi moti del pane, rivolta dello stomaco, quattro giornate di Milano o massacro di Bava Beccaris – iniziarono il 6 maggio del 1898 fra gli operai della Pirelli che accusavano il governo di essere responsabile della carestia che colpiva il popolo. Tra loro si infiltrarono alcuni agenti che durante la pausa pranzo approfittarono della distribuzione di alcuni volantini di protesta per arrestare operai e sindacalisti. Molti di loro vennero rimessi in libertà solo dopo l’intervento del deputato socialista Filippo Turati, ma la tensione era ormai salita: altri lavoratori scesero in strada in solidarietà con gli operai della Pirelli e assaltarono la caserma di via Napo Torriani. Ci furono scontri, sassaiole e spari sulla folla da parte dei soldati: due manifestanti morirono subito e quell’episodio fu la causa di ciò che avvenne nei giorni successivi.

Il giorno dopo era un sabato. Venne proclamato uno sciopero generale che ottenne un’adesione di massa: c’erano gli operai degli stabilimenti della periferia, quelli delle attività presenti in città, c’erano le tabacchine, i macchinisti dei tram, molti giovani e attivisti anarchici, repubblicani e socialisti. I manifestanti costruirono barricate in diverse zone della città – a Porta Venezia, Porta Vittoria, Porta Romana, Porta Ticinese e Porta Garibaldi – e Bava Beccaris ottenne il mandato di ristabilire l’ordine. Il governo decretò lo stato di assedio e Bava Beccaris, che aveva disposto il suo quartier generale in Piazza del Duomo, richiamò in città anche altri reparti dell’esercito.

La sua idea era far muovere le truppe a raggiera nella città, in modo da rendere più efficiente il loro intervento e riguadagnare presto il controllo di Milano. Il gran numero di manifestanti – si parla di decine di migliaia di persone – e la presenza delle barricate complicarono però i piani di Bava Beccaris e iniziarono lunghi confronti tra i manifestanti e i soldati. Le cose non miglioravano e Bava Beccaris ordinò infine di sparare contro la folla che si era radunata intorno alle barricate nella zona di Porta Ticinese, per disperderla. Le cariche e gli spari continuarono anche il giorno successivo, quando l’esercito usò un cannone per fare breccia nel muro di un convento dove si sospettava fossero nascosti dei rivoltosi. In tutto in quei giorni morirono più di 80 persone e centinaia furono ferite. Ci furono migliaia di arresti e la repressione – che continuò per alcuni giorni, anche dopo che tutte le barricate erano state abbattute – portò alla chiusura temporanea di molti giornali considerati pericolosi o sovversivi.

Per come aveva gestito la situazione, Bava Beccaris fu insignito con la Croce di Grande Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia, ottenne un telegramma di congratulazioni da parte del re e diventò senatore. Per le grandi masse di lavoratori, Bava Beccaris diventò invece noto come “il macellaio di Milano”. «Alle grida strazianti e dolenti/Di una folla che pan domandava/Il feroce monarchico Bava/Gli affamati col piombo sfamò», dice un canto di protesta composto pochi anni dopo i moti. Due anni dopo l’anarchico italiano Gaetano Bresci sparò contro re Umberto I: disse di averlo fatto per vendicare i morti di Milano.

martedì 6 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 maggio.

Il 6 maggio 1962 Antonio Segni viene eletto IV Presidente della Repubblica Italiana.

Antonio Segni nasce a Sassari il 2 febbraio del 1891. Politico importante della storia italiana, docente universitario, è stato il quarto Presidente della Repubblica e il suo mandato è stato il più breve in assoluto. La sua discendenza è nobile, come testimonia il patriziato da cui discende sin dal 1752 la sua famiglia. Il giovane Antonio cresce in una ricca famiglia di latifondisti e frequenta con successo il liceo "Azuni", per poi laurearsi nel 1913 in giurisprudenza. Più che la pratica forense, al neolaureato Antonio Segni interessa maggiormente la carriera accademica, come testimonia la cattedra ottenuta in diritto processuale civile presso l'ateneo di Perugia, nel 1920.

Contemporaneamente sposa la passione politica e segue sin dagli albori la nascita e l'evoluzione del Partito Popolare Italiano, a cui si iscrive subito, divenendone consigliere nazionale dal 1923 al 1924. Similmente ad altri suoi colleghi e futuri Capi di Stato, proprio come De Nicola, fa seguire all'avvento del fascismo un'eclisse delle sue attività politiche, riservando le proprie uscite a quelle accademiche e al lavoro autonomo. Durante il ventennio, si registrano da parte di Segni soltanto alcuni interventi i quali, stando a cronache non certe, sarebbero di impronta non simpatizzante nei confronti di Mussolini e del suo operato.

Nel 1943, con la caduta del Duce, Antonio Segni è in prima linea per la formazione e istituzione di uno dei partiti più longevi della storia italiana: la Democrazia Cristiana. È lui, in questo momento e in futuro, il punto di riferimento sardo di questo partito, oltre che uno dei più importanti dirigenti a livello nazionale. Viene, infatti, eletto deputato all'Assemblea Costituente ed entra di diritto a Palazzo Montecitorio. Già l'anno dopo, nel 1944, è sottosegretario di indicazione democristiana al Ministero dell'Agricoltura e Foreste retto dal comunista Gullo all'interno del terzo governo Bonomi, per poi conservare la carica anche con i governi Parri e De Gasperi. Inoltre, non rinuncia mai alla sua carriera accademica e nel 1946 diventa Rettore di Sassari, la sua città.

Antonio Segni è con Alcide De Gasperi che instaura forse il suo miglior rapporto dal punto di vista politico. Nel terzo e nel quarto governo guidato dal leader democristiano, nel 1947, Segni viene nominato Ministro dell'Agricoltura, riconfermandosi nel 1948 e nel 1950, sempre sotto la guida di De Gasperi. L'anno dopo, nel 1951, al governo numero sette del leader della Dc, Antonio Segni diventa ministro della Pubblica Istruzione, anche a causa delle politiche contraddittorie impiegate durante gli anni del dicastero all'Agricoltura, le quali avrebbero scontentato alcuni latifondisti italiani per via della sua discussa riforma agraria.

Nel 1953 Segni viene riconfermato all'Istruzione, con il beneplacito del capo del Governo, Pella. Successivamente, anche grazie alle sue tendenze conservatrici e antisocialiste, durante uno dei più forti rimpasti del governo democristiano, si ritrova Presidente del Consiglio, esattamente dal 6 luglio del 1955. Il suo mandato, corrispondente al cosiddetto "primo governo Segni", dura fino al 18 maggio del 1957, e mette insieme oltre alla Dc, anche i socialdemocratici e i liberali.

Ciononostante, si ritrova a capo della Difesa del secondo governo Fanfani, di cui è anche vicepresidente, nel 1958. Il 15 febbraio del 1959 poi, Antonio Segni viene nuovamente eletto Capo di Governo, oltre che Ministro dell'interno. Questa carica dura fino al 25 marzo 1960 e vede Segni guidare un governo ad appannaggio della Dc e orientato, volente o nolente, ad aprirsi ai socialisti, almeno nel futuro prossimo. Passa poi dal turbolento Governo Tambroni all'opposto e altrettanto turbolento terzo governo Fanfani, sempre in qualità di Ministro degli Esteri, mantenendo il posto anche nel 1962, durante il IV governo del socialista.

Grazie all'influenza di Aldo Moro poi, allora segretario nazionale della Dc, Segni viene eletto per la prima volta nella sua carriera politica Presidente della Repubblica italiana, il 6 maggio del 1962, con 443 voti su 854. Una mossa politica e diplomatica quella di Moro, la quale se da un lato apriva ai socialisti, almeno nelle cariche di Governo, dall'altra poneva Segni, un conservatore, a Capo dello Stato, per giunta anche grazie ai voti dei movimenti politici di destra ed estrema destra.

I due anni di presidenza però risentono fortemente del clima di scontri parlamentari di quei tempi, i quali vedevano il politico sardo opporre la propria disapprovazione e resistenza, quando non proprio un vero ostruzionismo, alle riforme strutturali desiderate dai socialisti. È il cosiddetto periodo del "Piano solo", stando almeno ad un'attendibile inchiesta giornalistica, e per ammissione di alcuni politici, in cui viene ricevuto al Quirinale, per la prima volta durante un periodo di Consultazioni di Governo, anche un membro dell'esercito, il generale Giovanni De Lorenzo. Aldo Moro ed i socialisti allora, posti di fronte alla scelta preparata da Segni e che sembrava ammiccare anche ad un presunto colpo di stato da parte di militari e contro i politici dirigenti della sinistra italiana, pongono fine alla spinta propulsiva e riformatrice, optando per una politica più moderata.

Il 7 agosto del 1964, Segni viene colpito da un ictus cerebrale. Gli succede, come vuole la Costituzione, il Presidente del Senato, in qualità di supplente. Il decimo giorno infatti, Cesare Merzagora assume la carica di Segni, che mantiene fino al 28 dicembre del 1964. Qualche giorno prima, il 6 dicembre, dopo due anni di presidenza, Antonio Segni deve dare le proprie dimissioni, sempre a causa della malattia. Diventa Senatore a vita, comunque, come recita la Carta Fondamentale, in quanto ex Capo dello stato.

Ad aver causato l'ictus, secondo alcuni, è il duro scontro che Antonio Segni avrebbe avuto con gli onorevoli Giuseppe Saragat e Aldo Moro, colpevoli forse di aver paventato di riferire all'Alta Corte la connivenza, o presunta tale, dell'allora Capo dello Stato nei confronti del generale De Lorenzo e del suo cosiddetto "Piano Solo", il quale avrebbe avuto l'effetto di un vero e proprio golpe.

Antonio Segni muore a Roma, il giorno 1 dicembre del 1972, all'età di ottantuno anni.

Segni oggi riposa nel Cimitero comunale di Sassari.

lunedì 5 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 maggio.

Il 5 maggio 1860 Garibaldi parte da Quarto alla testa dei Mille.

Il 1859 era stato il grande anno dell’azione dei “moderati”: la Seconda guerra d’indipendenza aveva innescato una serie di cambiamenti che avevano, di fatto, dato origine al Regno del Nord.

Ma quella campagna si era bruscamente interrotta a Villafranca di Verona, e non per volontà di Cavour o di Vittorio Emanuele II. La scelta fu unilateralmente compiuta da un sovrano straniero, Napoleone III. Storia già vista in Italia.

Ora toccava ai democratici tentare la riscossa. Dai tempi della Repubblica romana, il mazzinianesimo politico era in crisi, gravato dai numerosi fallimenti e oscurato dai successi della politica di Cavour e dei Savoia. Restava la carta di Garibaldi. Il nizzardo, tuttavia, mazziniano di vecchia data, tentennava: solo l’esplicito appoggio del Regno di Sardegna lo avrebbe convinto infatti a tentare un’impresa che, agli occhi di molti, era destinata a sicuro fallimento: rovesciare il Regno delle Due Sicilie.

Cavour prendeva tempo, preoccupato di poter irritare l’alleato francese con un colpo di mano. I mazziniani, Rosolino Pilo e Francesco Crispi in testa, organizzarono la sollevazione popolare in Sicilia. Garibaldi, sottoposto a sempre più pressanti richieste, accettò d’intervenire. Cavour, sotto traccia, acconsentì.

Due piroscafi, il Piemonte e il Lombardo, salparono da Quarto, presso Genova, il 5 maggio 1860. Garibaldi aveva raccolto un migliaio di volontari, metà dei quali lombardi. Alcune soste, e l’11 maggio i Mille sbarcarono, non senza sfruttare abilmente la “copertura” assicurata da vascelli inglesi, a Marsala. Pochi giorni dopo, i garibaldini, cui si aggiunsero subito alcune centinaia di “picciotti”, incontrarono l’esercito borbonico a Calatafimi. Nonostante la loro inferiorità numerica, la vittoria arrise alle “camicie rosse”. La strada per Palermo era spianata. Garibaldi, già autoproclamatosi “dittatore della Sicilia per conto di Vittorio Emanuele re d’Italia”, entrò nel capoluogo siciliano. L’isola intera, nel volgere di poche settimane, cadde nelle sue mani.

Garibaldi si preparava nel frattempo a sbarcare sul continente. Quando mise piede in Calabria, alla testa di circa 20.000 uomini, si era lasciato alle spalle un governo in cui si distinguevano personalità del calibro di Agostino Depretis e Francesco Crispi ed enormi aspettative di riforma economica e sociale.

La risalita del continente fu più facile del previsto e, dopo essere entrati trionfalmente in una Napoli festosa e ormai abbandonata da Francesco II di Borbone, ritiratosi a Gaeta, i volontari garibaldini, sempre più numerosi, attaccarono l’esercito delle Due Sicilie sul Volturno. Fu l’ultima battaglia dell’impresa dei Mille. E fu, nuovamente, un successo per Garibaldi.

Cavour, intanto, aveva rotto gli indugi. Il Regno del Nord aveva invaso gli Stati pontifici e affrontato l’esercito papale a Castelfidardo. Dopo la vittoria, l’esercito sabaudo andò a sud, verso Garibaldi vittorioso. L’incontro tra il generale e re Vittorio Emanuele II avvenne nei pressi di Teano il 26 ottobre. Di fatto, a partire da quel momento, il Savoia avrebbe potuto fregiarsi del titolo di “re d’Italia”.

Il rapporto tra i due grandi personaggi del Risorgimento aveva in serbo ancora una pagina, l’ennesima, di incomprensione. Il 6 novembre i garibaldini, schierati alla Reggia di Caserta, aspettavano il re, ma questi non si fece vedere. Il 7 novembre Vittorio Emanuele II faceva la sua entrata trionfale a Napoli. Garibaldi decideva, invece, di ritirarsi in esilio volontario a Caprera.

Finiva così l’avventura dei Mille.

domenica 4 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 maggio.

Il 4 maggio 1861 viene istituito l'Esercito Italiano.

L'esercito italiano nacque il 4 maggio 1861 quando una nota ministeriale stabilì che l'armata sarda lasciasse la sua antica denominazione per assumere quella di esercito italiano. Questo sorgeva dal ceppo dell'esercito piemontese, con tutti quegli ampliamenti e adattamenti necessari perché potesse far fronte a tutte le nuove esigenze istituzionali. Si può dire che appena sorto questo esercito dovette affrontare problemi molto gravi, come quello del brigantaggio, che lo impegnò duramente. 

In mezzo a difficoltà svariate e ad accese polemiche, l'esercito italiano negli anni seguenti la sua costituzione cercò di darsi un'organizzazione e un'efficienza moderne. Furono così adottate armi rigate per la fanteria, cannoni di bronzo a retrocarica, furono create le prime batterie da montagna, oltre al potenziamento di arsenali e fortezze. Un progetto di mobilitazione del 1863 prevedeva un complesso di ca. 300.000 uomini, 43.000 cavalli e 588 cannoni, ripartiti in sette corpi d'armata. 

L'opera di costituzione era tuttavia gravemente ostacolata dalle difficoltà di bilancio che il nuovo Stato doveva affrontare. Il problema finanziario condizionava tutti gli altri e il settore militare appariva quello più idoneo per realizzare economie che furono largamente applicate. La politica dei tagli sulle spese militari era però in contrasto con le aspirazioni nazionali (che potevano realizzarsi solo con una guerra) e solo le circostanze internazionali resero possibile nel 1866 la terza guerra di indipendenza. La campagna del 1866 aggravò ulteriormente le condizioni del bilancio. Erano infatti state sopportate spese di guerra per oltre 300 milioni e il settore nel quale pareva più facile realizzare le necessarie economie era ancora quello militare e pertanto il problema del momento era quello di riuscire a conciliare le esigenze del bilancio con un minimo di organizzazione militare in funzione puramente difensiva. 

Ma accanto a questo problema esisteva quello pur grave della revisione dell'intero ordinamento dell'esercito, poiché la guerra aveva rivelato non poche lacune nel reclutamento degli uomini, nel funzionamento dei servizi, nella formazione degli ufficiali. Si imponevano sostanziali riforme e come modello fu scelto quello prussiano, che destava unanime ammirazione per i progressi tecnici, la perfezione delle sue istituzioni militari, il grado di addestramento della truppa e l'elevata preparazione culturale e professionale degli ufficiali. Un avvio all'ammodernamento venne con l'istituzione della Scuola di Guerra nel 1867 per la preparazione professionale degli ufficiali. Alla vigilia del 1870, sempre nel rispetto del programma di economie, il contingente di leva fu portato da 40 a 30.000 uomini. Gli anni che seguirono il 1870 furono di grande importanza per gli eserciti europei. Sull'esempio dei grandi risultati conseguiti dai Prussiani, tutti gli eserciti cercarono di riplasmare e ammodernare le loro strutture. 

In Italia promotore della riforma dell'esercito fu il generale Ricotti Magnani, ministro della Guerra dal 1870 al 1876. Il nuovo esercito venne stabilito in 7 corpi d'armata e 16 divisioni con un totale di 220.000 uomini fra ufficiali, sottufficiali e truppa. Venne dato notevole impulso alle scuole militari e venne creato l'Istituto Geografico Militare. Fu rinnovato l'armamento della fanteria e dei bersaglieri mediante l'adozione, per la fanteria, del fucile a retrocarica rigato mod. 1870 e, per i bersaglieri, del fucile Remington. Un'ulteriore fase di ampliamento e irrobustimento dell'esercito, che dal 1879 aveva preso la denominazione di Regio Esercito Italiano, si ebbe a cominciare dal 1882 quando i corpi d'armata vennero portati a 12 e venne istituito il capo di Stato Maggiore dell'esercito con precise attribuzioni di pace e di guerra. 

Fu questo l'esercito che affrontò nel decennio 1885-96 le prime guerre coloniali. La situazione politica europea venuta a crearsi nel primo decennio del Novecento imponeva una solida e sollecita preparazione dell'esercito in vista di quelle complicazioni internazionali che non lasciavano dubbi circa la soluzione bellica dei gravi e inconciliabili dissensi esistenti fra le grandi potenze. Nel 1908 il nuovo capo di Stato Maggiore generale Pollio diede avvio all'aumento del contingente bellico e alle fortificazioni sul Tagliamento, in Carnia e in Cadore e alla revisione dell'intera dottrina tattica alla luce delle evoluzioni avvenute in Europa negli ultimi tempi. L'armamento della fanteria venne integrato con la mitragliatrice, venne introdotto il traino meccanico delle artiglierie e costituito il primo reparto aereo. La prima guerra mondiale costituì una dura prova per l'esercito italiano che entrò in campagna nel 1915 al comando del generale Cadorna, divenuto capo di Stato Maggiore nel 1914.

Dopo il conflitto l'esercito ebbe vari ordinamenti di breve durata fino all'ordinamento del 1926, dove la novità fu l'adozione della divisione ternaria, ossia su tre invece che su quattro reggimenti di fanteria, e uno di artiglieria. Il successivo ordinamento del 1934 apportò alcune innovazioni, come l'inizio della motorizzazione della cavalleria, mentre i carri armati, anziché essere costituiti in Arma autonoma, continuavano a far parte della fanteria. Vennero anche emanati nuovi criteri per l'impiego in combattimento delle varie Armi. 

Alla vigilia della seconda guerra mondiale l'esercito italiano subì una nuova riforma organica con l'adozione della divisione binaria (due reggimenti di fanteria e uno di artiglieria). La dottrina elaborata sulla base delle esperienze della campagna etiopica, ispirata all'aggressività e alla manovra, rendeva infatti necessario uno strumento più agile e manovrabile con funzioni di comando molto semplificate. Lo scoppio della guerra trovò l'esercito in piena crisi di preparazione. Il nuovo ordinamento non era stato ancora raggiunto, l'armamento era in genere antiquato, le scorte insufficienti. La forza alle armi era di ca. 1.700.000 uomini su 75 divisioni; tuttavia soltanto un quarto di esse erano al completo di personale, materiali e dotazioni e nel complesso si trattava di grandi unità poco potenti e poco mobili: le divisioni di fanteria, in particolare, erano infatti insufficientemente o per nulla dotate di automezzi. 

Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 l'esercito si ricostituì faticosamente. Da un primo nucleo che si affiancò agli Alleati il 28 settembre 1943 si sviluppò un complesso di 22.000 uomini denominato Corpo Italiano di Liberazione e da questo trassero origine i “Gruppi di combattimento” che furono sei con ca. 60.000 effettivi. Conclusasi la seconda guerra mondiale, dai “Gruppi di combattimento” trasformati in divisioni crebbe l'esercito italiano, organizzato con criteri moderni. 

Sono rimasti inalterati il carattere dell'esercito, che è sempre basato sulla ripartizione fra le Armi, cui è devoluta l'attività addestrativa e operativa, e i Servizi, i quali provvedono al rifornimento dei materiali che interessano la vita, il movimento e le operazioni delle truppe. Rilevante rispetto al passato è l'ampliamento degli istituti di istruzione per attribuire al personale di ogni grado la preparazione richiesta dall'adozione di nuove armi e nuovi mezzi. 

Alla fine del XX secolo si avviava una riforma dell'esercito italiano: con la legge del 20 ottobre 1999 n. 380 si estendeva il reclutamento a entrambi i sessi. Nell'ambito di questa riforma, alcuni mesi più tardi, nel febbraio 2000, il Consiglio dei ministri, con alcuni emendamenti, programmava entro sette anni l'abolizione del servizio di leva obbligatorio, sostituendolo con quello volontario. Con la legge 14 novembre 2000, n. 331 veniva quindi prevista l'istituzione di una ferma esclusivamente volontaria e il decreto legislativo 8 maggio 2001, n. 215, stabiliva che il servizio obbligatorio di leva fosse sospeso a decorrere dal 1° gennaio 2007, poi anticipato al 1° gennaio 2005 con la legge votata dal Parlamento il 29 luglio 2004. Venivano anche ristrutturati i vertici delle Forze Armate e dell'Amministrazione della Difesa e, di conseguenza, si registravano sensibili cambiamenti anche nello Stato Maggiore dell'esercito e dell'intera Forza Armata. 

Nel marzo 2000, inoltre, a seguito di una riorganizzazione dell'Arma dei Carabinieri, questa passava dalle dipendenze dello Stato Maggiore dell'esercito a quelle dello Stato Maggiore della Difesa, assumendo il rango di quarta forza armata, godendo così di maggiore autonomia, maggiori poteri ed equiparando le carriere a quelle di tutti gli altri ufficiali dell'esercito.

sabato 3 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 maggio.

Il 3 maggio 1916 a Dublino vengono giustiziati i leader della cosiddetta "rivolta di Pasqua".

Mentre l’attenzione degli Europei è puntata sull’immensa battaglia che si sta sviluppando a Verdun, la morte inizia a colpire anche in Irlanda. Il mattino del 3 maggio 1916, il giovane Patrick Pearse (1879-1916) era stato passato per le armi. Il suo corpo era stato avvolto in un semplice drappo militare e posto in una fossa comune, dove non vi resterà a lungo solo. Nello stesso giorno, i corpi di Thomas Clarke (1858-1916) e di Thomas MacDonagh (1878-1916) lo raggiungono, prima che la calce viva abbia compiuto la sua opera. Il giorno dopo vengono fucilati Edward Ned Daly (1891-1916), Michel O’Hanrahan (1877-1916) e di Joseph Plunkett (1887-1916). Ma il vero rosario mortuario continua a sgranarsi col passare dei giorni. John MacBride (1868-1916) cade il 5 maggio; Eamonn Ceannt (1881-1916), Con Colbert (1888-1916), Michel Mallin (1874-1916) e Sean Heuston (1801-1916) l’8 maggio e Thomas Kent (1865-1916) il giorno 9. Il 12 maggio viene fucilato un ferito, James Connolly (1868-1916), il fondatore dell’Irish Socialist Repubblican Party quindi dell’Irish Citizen Army, che viene posto a forza su una sedia e giustiziato. Lo stesso giorno anche Sean MacDiarmada (1833-1916) è passato per le armi.

Il crimine attribuito a tutti questi uomini è quello di aver sognato l’indipendenza del loro paese e tentato di instaurare una Repubblica irlandese, vera sfida pubblica lanciata nei confronti della corona britannica.

A dire il vero, tutto ha inizio nel… XII secolo quando l’irlandese Dermot MacMurrough si rifugia in Inghilterra per sfuggire ai suoi avversari, prima di ritornare nell’isola, otto anni più tardi, accompagnato da un esercito di baroni inglesi. Nel 1175 la sorte dell’Irlanda viene decisa: il Trattato di Windsor la pone sotto la sovranità del re d’Inghilterra. Fino al XX secolo la situazione dell’isola verde è quella di un Paese sottomesso e occupato. I periodi di violenza si alternano con periodi di pace e tranquillità relative. Questa sottomissione, principalmente politica e militare, ha comportato la negazione della cultura nazionale irlandese, basata su radici gaeliche, e di un modo di vita spesso lontano da quello inglese. Lo scisma religioso che Enrico VIII Tudor scatena nel XVI secolo e la protestantizzazione della chiesa d’Inghilterra operata da sua figlia Elisabetta I amplificano il fossato, essendo l’Irlanda fedele al Papato. In diverse riprese, nel corso dei secoli, si ripetono tentativi di ribellione contro il potere britannico, che vengono sistematicamente repressi. In questo contesto, la proclamazione dell’indipendenza e della Repubblica irlandese dell’aprile 1916, appare a prima vista, come un supplementare accesso di febbre nel corso della storia.

L’indipendenza irlandese, proclamata solennemente da Patrick Pearse il lunedì di Pasqua, 24 aprile 1916, davanti al General Post Office di Dublino, costituisce il primo atto di una sommossa armata, destinato a liberare il Paese dal giogo britannico. Questa solenne dichiarazione viene controfirmata da Thomas Clarke, Thomas MacDonagh, Sean MacDiarmada, Eamon Ceannt, James Connolly e Joseph Plunkett. I nazionalisti irlandesi, all’origine di questo atto di forza, vogliono approfittare della guerra, che si svolge sul continente e che impegna la maggioranza delle forze armate di Sua Maestà britannica, per ottenere una completa indipendenza. Poco prima dello scoppio delle ostilità con la Germania, era stato votato lo stato di autonomia (Home Rule) per l’Irlanda, nonostante una forte opposizione della maggioranza dei protestanti dell’Ulster. La dichiarazione di guerra purtroppo ne sospenderà la pratica applicazione.

Per i nazionalisti questa è la prova che Londra vuole guadagnare tempo e che è arrivato il momento di prendere in mano il proprio destino. Gli sviluppi politici internazionali forniscono una motivazione supplementare. Gli alleati pretendono di battersi sul continente per la libertà delle piccole nazioni europee, specialmente quelle sottoposte all’Impero austro-ungarico. L’Irlanda è giustamente convinta di far parte del novero di queste nazioni, ma di essere sottomessa al giogo imperiale britannico.

A dire il vero, dall’agosto 1914, l’inizio della rivolta viene congelato, senza rimandare l’evento a una data precisa. All’origine di questa decisione: l’Irish Repubblican Brotherhood (IRB), un’organizzazione clandestina che conduce una lotta violenta a favore dell’indipendenza. Mentre il Parlamento e la stampa discutono della possibilità di uno statuto d’autonomia, i protestanti dell’Ulster avevano reagito, creando una milizia di autodifesa, l’Ulster Volunteers Force. Come reazione a questa decisione, vengono fondati nel sud dell’isola gli “Irish Volunteers”, in una regione dove si aspetta con impazienza l’applicazione della Home Rule. L’epoca si presta, d’altronde, alla creazione di milizie. Sul fronte sociale, che ha visto nel novembre 1913 uno sciopero generale di notevole violenza, due sindacalisti marxisti, James Larkin e James Connolly hanno costituito una piccola “Armata Rossa” sotto il nome di Irish Citizen Army”(ICA), al fine di proteggere gli scioperanti.

L’interesse delle milizie si collega al fatto che esse mobilitano e organizzano uomini in armi con il consenso tacito delle autorità. Molto rapidamente, l’IRB riesce a infiltrarsi negli “Irish Volunteers” per avere a disposizione un vero piccolo esercito e, nello stesso tempo, vengono presi contatti con i capi dell’ICA. A differenza degli “Irish Volunteers”, divisi in fautori dell’autonomia o dell’indipendenza, l’”armata rossa” irlandese (ICA) è fortemente disciplinata e animata da una stessa fede rivoluzionaria. Malgrado una serie di ordini e di contrordini, derivati principalmente da Eoin MacNeill, capo dei volontari irlandesi, lo scoppio dell’insurrezione viene decisa per il lunedì 24 aprile 1916 dalla giunzione delle due milizie irlandesi, che formano ormai un solo esercito: “Irish Repubblican Army” o IRA.

Il giorno convenuto viene occupata il General Post Office di Dublino che diviene la sede dello stato maggiore dell’insurrezione. Due bandiere sventolano sul suo frontone: quella dell’“An Bhratach Naisiunta”, dell’Irlanda repubblicana, con i colori verde, bianco e arancione, e quella blu degli operai irlandesi. Un doppio simbolo che indica la matrice nazionale e sociale di questa rivoluzione. Il quadro è completato da una larga banderuola, attaccata alla facciata, sulla quale sta scritto: “Quartier generale del governo provvisorio della Repubblica irlandese”.

Le autorità britanniche, non appena appresa la notizia, inviano un piccolo distaccamento di lancieri per verificare la situazione intorno all’ufficio postale. Accolti da un nutrito fuoco, quattro lancieri vengono uccisi, insieme a numerosi cavalli. Immediatamente, viene mobilitato l’insieme delle forze britanniche presenti sul posto e il maresciallo John French, comandante in capo delle truppe britanniche, emana l’ordine di trasferire in Irlanda quattro divisioni, per un totale di più di 50 mila uomini. Dopo aver minimizzato il carattere dell’insurrezione, i Britannici, presi dal panico, tendono ad amplificarlo e rispondono all’azione con estrema violenza.

Passato il primo momento di sorpresa, l’esercito si schiera a Dublino e si lancia all’assalto delle posizioni repubblicane nel parco di Stephen’s Green, alle Four Courts e alla South Dublin, dando inizio a una vera e propria battaglia per le strade. Dal fiume Liffey, una cannoniera tira sistematicamente sula città, distruggendo la Liberty Hall, la sede dei sindacati, e tentando di distruggere il General Post Office, ma questo, coperto da altri edifici, è irraggiungibile; perlomeno questo è quello che credono i Repubblicani.

I Britannici bombardano Dublino, scatenando in tal modo una serie di incendi che provocano terribili devastazioni. Si combatte in tutta la città: uomini e donne, come la celebre contessa Costanza Markievicz a Stephen’s Green, le militanti del “Cumann na mBan” (una organizzazione paramilitare femminile) o il corpo ausiliario femminile degli “Irish Volunteers”. Giovani scout del “Fianna na Eireann” agiscono da staffette.

Giorno dopo giorno la morsa si stringe sui nazionalisti, agevolata dal fatto che i collegamenti fra le diverse zone occupate vengono a poco a poco interrotti. Inizia quindi la repressione. Mercoledì 26 aprile tre giornalisti irlandesi vengono arrestati e passati per le armi. Il generale John Grenfell Maxwell riceve carta bianca per domare al più presto l’insurrezione.

Venerdì 28 aprile, la Posta viene evacuata. Gli insorti sono in fuga. Sabato 29 aprile, alle ore 03,45, il governo provvisorio della Repubblica d’Irlanda capitola. Il quartier generale emette l’ordine di resa generale. I ribelli obbediscono agli ordini dei loro capi.

Eamon de Valera, futuro capo di stato irlandese, continua il combattimento fino al mercoledì seguente. Arrestato, condannato a morte, viene risparmiato perché cittadino americano grazie all’intervento dell’ambasciatore degli Stati Uniti. Secondo i dati dell’esercito britannico, il numero totale delle vittime, di entrambe le parti, risulta di 300 persone, di cui 180 insorti e civili. La repressione britannica è terribile. Oltre alle 15 esecuzioni, le prigioni vengono riempite di sospetti. Scrittori come George Bernard Shaw e Gilbert Keith Chesterton denunciano la violenza della repressione.

Ma il generale Maxwell, a causa della sua brutalità e ferocia, perde la battaglia della guerra psicologica.

Dall’inizio dell’insurrezione, i cittadini di Dublino si sono mostrati contrari agli insorti, deludendo i nazionalisti che speravano in una loro adesione. La provincia, con qualche eccezione, non si è schierata con il movimento. Ma è la violenza dei Britannici a capovolgere l’atteggiamento. Sorpresa e scossa, la popolazione irlandese pende posizione a favore degli insorti. Questo rovesciamento spiega la vittoria del Sinn Fein, partito di riferimento dell’IRA, alle elezioni del 1918, l’elezione di un parlamento irlandese (Dail Eireann), il cui presidente eletto è De Valera, quindi l’entrata nella guerra d’indipendenza, che riuscirà grazie all’azione di Michael Collins alla testa dell’IRA, alla creazione dello Stato libero d’Irlanda, anche se al prezzo della partizione dell’isola. Ciò darà luogo a una vera guerra civile fra vecchi fratelli di combattimento.

Il 18 aprile 1949, lo Stato irlandese, che si è definitivamente e unilateralmente staccato dalla corona britannica, uscendo dal Commonwealth, assume il nome di Repubblica d’Irlanda. L’evento viene sancito proprio il 18 aprile, che, in quell’anno, era ancora il lunedì di Pasqua.

Cerca nel blog

Archivio blog