Buongiorno, oggi è il 31 marzo.
Il 31 marzo 1991 viene chiuso il Patto di Varsavia.
Il Patto di Varsavia o Trattato di Varsavia fu un'alleanza militare tra i paesi del Blocco Sovietico intesa a organizzarsi contro la presunta minaccia da parte dell'Alleanza Atlantica NATO, fondata nel 1949. Il trattato fu elaborato da Khrushchev nel 1955 e sottoscritto a Varsavia il 14 maggio dello stesso anno; i paesi membri erano: Unione Sovietica, Albania, Bulgaria, Romania, Germania Est, Ungheria, Polonia, e Cecoslovacchia. Ovvero tutti i paesi comunisti dell' Europa Orientale ad eccezione della Jugoslavia. I membri dell'alleanza promettevano di difendersi l'un l'altro in caso di aggressione. Il patto giunse a termine il 31 marzo 1991 e fu ufficialmente sciolto durante un incontro tenutosi a Praga il 1 luglio.
Il Patto di Varsavia era dominato dall'Unione Sovietica. Tentativi di abbandonare il patto da parte di altri membri furono schiacciati con la forza, ad esempio durante la Rivoluzione Ungherese del 1956. L'Ungheria progettò di lasciare il patto e dichiararsi neutrale durante la guerra fredda, ma nell'ottobre 1956, l'Armata Rossa invase la nazione e eliminò la resistenza in due settimane.
Le forze del Patto di Varsavia furono utilizzate occasionalmente, come durante la Primavera di Praga del 1968, quando invasero la Cecoslovacchia per affossare le riforme democratiche che il governo stava implementando. Questo portò alla luce la politica sovietica che governava il patto. La Dottrina Brezhnev, che sentenziava "Quando forze ostili al socialismo cercano di deviare lo sviluppo dei paesi socialisti verso il capitalismo, questo diventa un problema, non solo della nazione interessata, ma un problema comune a tutti gli stati socialisti." Dopo l'invasione della Cecoslovacchia, l'Albania si ritirò formalmente dal patto, anche se aveva cessato di supportarlo fin dal 1962.
Le nazioni appartenenti alla NATO e al Patto di Varsavia non si affrontarono mai in un conflitto armato, ma combatterono la Guerra Fredda per più di 35 anni. Nel dicembre 1988, Mikhail Gorbachev, capo dell'Unione Sovietica, annunciò la cosidetta Dottrina Sinatra che sanciva l'abbandono della Dottrina Brezhnev e la libertà di scelta per le nazioni est-europee. Quando fu chiaro che l'Unione Sovietica non avrebbe usato la forza per controllare le nazioni del Patto di Varsavia, si avviarono una serie di rapidi cambiamenti politici. I nuovi governi dell'Europa orientale non erano più sostenitori del patto e nel gennaio 1991, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia annunciarono il loro ritiro entro il primo di luglio. La Bulgaria seguì in febbraio e fu evidente che il patto era definitivamente morto. L'Unione Sovietica riconobbe il fatto e il patto fu ufficialmente dissolto durante un incontro a Praga l'1 luglio 1991.
Il 12 marzo 1999 gli ex membri del Patto di Warsavia: Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia si unirono alla NATO. La Romania è stata invitata a entrare nella NATO nel 2004.
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mercoledì 31 marzo 2021
martedì 30 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 30 marzo.
Il 30 marzo 1856 si chiude, col trattato di Parigi, la guerra di Crimea.
Verso la metà del XIX sec. Francia e Inghilterra avevano quasi completamente soppiantato la Russia sui mercati del Vicino Oriente.
Lo zar Nicola I cercava ripetutamente di proporre alle due potenze europee dei piani di spartizione dell'impero ottomano, gravemente in crisi, ma non incontrava mai dei consensi espliciti, poiché si temeva un ingresso dei russi nel Mediterraneo e nei Balcani.
Il pretesto che fece scoppiare la guerra fu trovato in una disputa che divideva il clero cattolico da quello ortodosso nell'amministrazione dei cosiddetti "luoghi santi" di Gerusalemme, a quel tempo sotto il controllo politico turco.
Luigi Napoleone, divenuto nel 1851 imperatore di Francia col nome di Napoleone III, ardeva dal desiderio di rafforzare il proprio trono con una piccola guerra vittoriosa in oriente, e per questa ragione concluse un patto militare con gli inglesi.
Riguardo alla suddetta controversia egli intervenne per primo, andando a rispolverare la Capitolazione del 1740, che poneva sotto tutela francese gli interessi dei cattolici in Palestina.
La Russia, che dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, si sentiva legittima erede della civiltà bizantina, chiese al sultano di poter fare altrettanto coi cristiani di religione ortodossa dell'impero turco, ponendoli sotto la propria protezione.
Questa richiesta, interpretata dai turchi come un tentativo d'ingerenza nei loro affari interni, venne rifiutata, sicché i russi, per tutta risposta, occuparono la Moldavia e la Valacchia, sotto la sovranità ottomana, ma di religione ortodossa.
Lo zar Nicola I era convinto che i turchi non avrebbero scatenato una guerra per due regioni non islamiche, di scarsa importanza e col rischio, peraltro, di perdere ulteriori e più significativi territori. Era altresì convinto che non sarebbero intervenuti i sovrani d'Austria e di Prussia, suoi stretti alleati nel blocco reazionario (l'Austria di Francesco Giuseppe, peraltro, era stata aiutata in maniera decisiva proprio dalla Russia nel 1849, durante la rivolta d'Ungheria). Inoltre pensava che il primo ministro inglese Aberdeen, convinto assertore dei buoni rapporti con la Russia, avrebbe lasciato correre. Infine era convinto, per quanto riguarda i francesi, che con la fine della repubblica il nuovo imperatore Luigi Bonaparte (Napoleone III) non avrebbe ostacolato un impero conservatore come il suo.
Insomma lo zar sognava una grande alleanza europea contro i turchi, ai quali si potevano lasciare al massimo alcune terre asiatiche e africane. Gli inglesi si potevano prendere l'Egitto, Cipro o Rodi, i francesi Creta, i greci le isole dell'Egeo, i due stretti del Bosforo e dei Dardanelli sarebbero stati gestiti da Austria e Russia e Costantinopoli sarebbe divenuta una città libera.
Non aveva tuttavia considerato che verso l'inizio degli anni '50 Francia e Inghilterra tendevano a coalizzarsi contro l'espansionismo russo e volevano anch'esse egemonizzare i traffici commerciali con l'oriente. Il regime francese non era dinastico-aristocratico come quello russo, ma borghese, e non aveva alcun interesse a difendere lo status quo del Congresso di Vienna. Quanto agli inglesi, la loro volontà di penetrare nel Vicino Oriente temeva d'incontrare ostacoli insormontabili da parte dei russi. E l'Austria molto difficilmente avrebbe accettato un'egemonia russa nei Balcani. La diplomazia negli anni 1852-53 non sortì alcun effetto concreto.
Sicché l'esercito zarista nel luglio 1853 occupò i principati danubiani di Moldavia e Valacchia, intenzionata a entrare anche nella parte settentrionale della Bulgaria. Lo zar chiese agli austriaci di occupare l'Erzegovina e la Serbia ma non lo fecero.
Appena scoppiò il conflitto russo-turco e i russi cominciarono ad avere la meglio (dal 3 luglio al 30 novembre 1853), la flotta anglo-francese entrò nel mar di Marmara (gennaio 1854), pronta a dar man forte ai turchi. Nello stesso tempo venivano intraprese trattative fra i governi inglese, francese, austriaco, prussiano e svedese per realizzare una coalizione antirussa, con l'obiettivo non tanto di por fine allo zarismo, ch'era un solido bastione contro la democrazia, quanto piuttosto di limitarne l'influenza nei commerci con l'oriente e più in generale sui mari.
Le pressioni austriache infatti sortirono l'effetto di indurre i russi a lasciare i Balcani e a concentrare le operazioni belliche nella sola Crimea. La Moldavia e la Valacchia furono occupate dagli stessi austriaci col consenso turco, i quali intervennero soltanto dopo che inglesi e francesi avevano loro assicurato che durante la guerra gli italiani non ne avrebbero approfittato per cacciarli dal Lombardo-Veneto.
L'atteggiamento dei francesi mise in difficoltà il governo sabaudo, perché contava proprio su loro per liberarsi degli austriaci nella penisola. Cavour si trovava a dover dare ragione ai mazziniani, che non nutrivano alcuna fiducia in Napoleone III.
I primi contingenti del corpo di spedizione alleato (circa 50.000 effettivi) sbarcarono tra aprile e maggio sulle coste della Crimea, dove c'era un deposito di materiale bellico di una certa importanza (da lì erano poi convinti di poter distruggere la flotta russa), ma il 30% di loro fu subito colpito da un'epidemia di colera. Le truppe anglo-francesi alla fine del conflitto arriveranno a circa 405.000 effettivi.
Durante l'estate la flotta anglo-francese attaccò alcune città costiere russe del Baltico, del mar Bianco e dell'oceano Pacifico: erano forme diversive per impedire allo zar di concentrare il grosso delle proprie truppe in Crimea.
L'esercito russo infatti, che disponeva di circa 700.000 uomini, era frantumato su più fronti: Polonia, Austria, Mar Nero, Mar di Azov e Caucaso. In Crimea, nel settembre 1865, i soldati dello zar erano circa 51.000, contro i 60.000 delle forze europee.
I russi non erano in grado di fronteggiare le forze anglo-francesi, per una serie di ragioni tecniche:
i vascelli che usavano erano ancora a vela, mentre il nemico li aveva a vapore, per di più protetti da piastre di ferro prodotte dalla nuova siderurgia;
non avevano cannoni a canna rigata ma liscia, con una gittata tre volte inferiore;
i fucili non avevano l'efficienza (cioè la precisione e la gittata) di quelli del "sistema Minié", con capsula, cartuccia e pallottola;
non usavano la ferrovia per il trasporto delle truppe, dei viveri, delle armi;
non usavano il telegrafo per le comunicazioni;
non disponevano di riserve addestrate per il completamento dell'esercito operante;
di rilievo, sul piano tecnico, fu soltanto, da parte russa, l'uso delle prime mine marittime.
La ritirata dell'esercito russo convinse le forze alleate ad attaccare Sebastopoli, una base navale militare molto importante.
La città, con un esercito di circa 10.000 uomini al massimo, resistette 349 giorni ai 60.000 che l'avevano posta inizialmente sotto assedio e che arriveranno a raggiungere le 170.000 unità (anche in forza del nuovo alleato: il regno di Sardegna, le cui truppe giunsero a Balaclava nel maggio 1855). La difesa della città, da parte di semplici soldati e marinai, che suscitò ammirazione in tutta la Russia, fu immortalata dai Racconti di Sebastopoli di Tolstoj.
L'incapacità dell'esercito russo di passare alla controffensiva portò lo zar Nicola I alla disperazione e probabilmente al suicidio: le trattative dell'armistizio furono prese dal figlio Alessandro II, il quale comunque era riuscito a bloccare le forze alleate sul Caucaso.
A dir il vero lo zar avrebbe voluto continuare la guerra, ma ne fu dissuaso dalle rivolte dei contadini che mal sopportavano il servaggio ancora imperante e che rifiutavano decisamente la coscrizione obbligatoria. Se l'avesse continuata probabilmente avrebbe avuto la meglio, in quanto l'amministrazione bellica anglo-francese lasciava molto a desiderare: il colera, le infezioni, il freddo, gli stenti fecero molte più vittime delle stesse battaglie (quasi dieci volte di più), e l'organizzazione relativa alla logistica e ai rifornimenti era totalmente inadeguata.
Praticamente i piemontesi intervennero su richiesta degli inglesi, i quali volevano impedire ai francesi di sostenere quasi da soli tutto il peso della guerra (in Inghilterra non esisteva la coscrizione obbligatoria e non era facile trovare truppe fresche da mandare in Crimea). E le truppe austriache non arriveranno mai in Crimea.
Cavour aveva deciso di entrare in guerra solo ad alcune condizioni anti-austriache, ma gli anglo-francesi erano disposti al massimo a prestare ai Savoia un certo importo per coprire le spese della spedizione militare. Di fronte alle sue perplessità reagì con vigore il re Vittorio Emanuele II, che voleva assolutamente la guerra, anche a costo di far dimettere Cavour, il quale peraltro proprio nel 1853 aveva rischiato di essere ucciso a causa della sua politica di abbassamento dei dazi che, in quel periodo di carestia, aveva soltanto favorito la concorrenza straniera. Fu così che Cavour, per non essere estromesso dal governo, si decise a entrare in guerra senza condizioni.
I partiti liberal-democratici disapprovarono nettamente questa decisione, proprio perché in questa maniera l'Italia si trovava alleata col suo peggior nemico: l'Austria. Tutti erano convinti che l'Italia non avesse alcunché da guadagnarci in oriente, essendo quello un territorio su cui volevano esercitare mire imperialistiche delle nazioni e degli imperi ben più potenti di una penisola che non era neppure unificata. Cavour quindi si giocava il suo futuro e la possibilità, in caso di vittoria, di poter ottenere qualcosa, sul tavolo delle trattative, a favore dell'Italia.
Il contingente italiano era di 18.000 uomini, poco meno di quello inglese, mentre i turchi non superavano le 60.000 unità: la somma di questi contingenti non superava comunque quello francese, che arrivava a 150.000 militari.
Nel febbraio 1856 fu concluso l'armistizio, nonostante che inglesi e piemontesi volessero continuare la guerra (quest'ultimi erano stati impegnati solo nella battaglia della Cernaia). I delegati di Russia, Austria, Francia, Inghilterra, Turchia, Sardegna si riunirono a Parigi per elaborare il trattato di pace.
L'Inghilterra chiedeva il distacco della Russia dal Caucaso e il divieto di tenere una flotta sia sul mar Nero che sul Baltico. L'Austria invece pretendeva la Moldavia, la Valacchia e la Bessarabia meridionale.
Alla fine prevalsero le proposte della Francia: la Russia garantiva l'indipendenza e l'integrità dell'impero ottomano; su Moldavia e Valacchia, tornate al sultano, si stabiliva un protettorato delle grandi potenze europee; la navigazione delle navi mercantili sul Danubio fu dichiarata libera e a tale scopo si pretese il distacco della Bessarabia meridionale dalla Russia; il mar Nero veniva dichiarato "neutrale", nel senso che alla Russia e alla Turchia si vietava di tenervi una flotta da guerra e basi navali, e in tempo di pace solo le navi da guerra turche potevano attraversare gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo; furono restituiti i restanti territori tolti, durante la guerra, alla Russia; quest'ultima ovviamente doveva rinunciare a qualunque pretesa sui cristiani ortodossi dell'impero turco.
L'Italia ottenne soltanto una vittoria morale, in quanto poté dimostrare che la situazione catastrofica in cui essa si trovava era dovuta essenzialmente alla presenza ingombrante dell'impero austriaco.
In sintesi si può dire che l'influenza internazionale dello zarismo, quale baluardo della reazione europea, fu notevolmente scossa dalla sconfitta in Crimea. Ormai i nuovi gendarmi internazionali della reazione erano diventati Francia, Inghilterra e Austria.
In Russia la sconfitta dello zarismo aggravò la crisi del servaggio e accelerò la maturazione di una situazione favorevole allo sviluppo del capitalismo.
Nei Balcani la guerra aveva suscitato una nuova ondata di lotte per l'indipendenza dal giogo turco. Negli anni 1856-61, proprio con l'appoggio della Russia, avvenne l'unificazione dei principati danubiani di Moldavia e Valacchia nello Stato unitario rumeno, che solo nominalmente riconosceva la sovranità turca.
Con la guerra di Crimea Cavour realizzò il suo programma di portare il Piemonte al rango di Stato-guida nel processo di unificazione nazionale con una politica estera abile e diplomatica.
Cavour, che non aveva previsto la neutralità austriaca, si era adoperato per stringere accordi con Francia e Inghilterra in vista di una comune azione contro Austria e Russia; e si trovò costretto a prendere parte al conflitto sollecitato dagli alleati che avevano anche l'interesse di garantire all'Austria che, se fosse intervenuta al loro fianco, nulla sarebbe accaduto alle sue spalle, cioè in Italia. Tuttavia Cavour ritenne che l'intervento piemontese, pur nella mutata situazione, fosse opportuno, ed i fatti successivi gli diedero ragione.
Così i 18.000 uomini al comando del generale Alfonso La Marmora partirono, verso la metà del 1855, per la Crimea e presero parte alla battaglia della Cernaia ed all'assedio di Sebastopoli, la potente piazzaforte russa che resistette circa un anno all'assedio delle truppe anglo-franco-piemontesi.
L'obiettivo che Cavour si prefiggeva era la partecipazione del Piemonte alle trattative di pace e la conseguente possibilità di porre le condizioni dell'Italia sul tappeto degli interessi generali delle potenze europee. Ciò avvenne al Congresso di Parigi dove, caduta Sebastopoli, i rappresentanti delle potenze europee si riunirono per le trattative di pace (1856).
Il gioco di Cavour era perfettamente riuscito: come rappresentante del piccolo Stato piemontese egli sedeva, a parità di rango, accanto a quelli di Francia, Inghilterra, Austria, Russia, e poteva illustrare, in una seduta suppletiva chiesta ed ottenuta, nonostante le proteste austriache, le penose condizioni di soggezione e vassallaggio in cui le popolazioni del Lombardo-Veneto e dell'Italia meridionale erano tenute dagli Asburgo e dai Borboni. La questione italiana era posta come qualcosa di cui l'Europa progressista doveva in qualche modo occuparsi. Oltre a ciò, con la partecipazione al Congresso di Parigi, il Piemonte si guadagnò definitivamente, agli occhi del movimento liberale italiano, il ruolo di protagonista della lotta contro l'Austria.
La guerra di Crimea aveva peraltro reso Napoleone III arbitro della politica europea. L'isolamento dell'Austria, la sconfitta dell'iniziativa russa, l'alleanza con l'Inghilterra, davano all'imperatore dei Francesi la possibilità di portare a compimento l'influenza francese sull'Europa appoggiandosi ai movimenti nazionali.
In questo quadro Francia e Piemonte firmarono a Plombières, nel luglio 1858, un trattato segreto di alleanza antiaustriaca. L'alleanza fu resa possibile dal fatto che la politica di Cavour aveva dato ampie garanzie alla Francia di muoversi su un piano antidemocratico (vedi le dure polemiche del Cavour contro Mazzini e i suoi metodi insurrezionali).
Gli accordi segreti di Plombières riguardavano l'assetto da dare al territorio italiano dopo una eventuale vittoria sull'Austria, contro la quale l'imperatore si impegnava a scendere in campo accanto al Piemonte soltanto se quella avesse dichiarato per prima la guerra. Si prevedeva una confederazione di Stati italiani comprendente il regno dell'Italia settentrionale (Piemonte, Lombardo-Veneto, Romagna, Emilia) su cui avrebbe regnato la dinastia sabauda, un regno dell'Italia centrale, da assegnare ad un principe francese ma che al proprio interno avrebbe consentito il mantenimento dell'autorità pontificia sulla città di Roma, ed il regno dell'Italia meridionale dove, ai Borboni spodestati, sarebbe succeduto un discendente di Gioacchino Murat.
Nizza e la Savoia, due province del Regno di Sardegna confinanti con la Francia, costituirono il compenso chiesto al Piemonte dall'imperatore in cambio del suo intervento.
Queste condizioni, dettate da Napoleone III, vennero accettate da Cavour, convinto che il processo di unificazione nazionale avrebbe avuto tempi più lunghi di quanto pensassero i democratici e tutto il movimento unitario, e che al Piemonte fosse possibile assumere un ruolo dominante nella confederazione italiana. Da parte francese vi era tutta l'intenzione di porre sotto la propria egemonia gli Stati italiani confederati. Ma questa intenzione si scontrerà molto presto con l'iniziativa garibaldina.
Il 30 marzo 1856 si chiude, col trattato di Parigi, la guerra di Crimea.
Verso la metà del XIX sec. Francia e Inghilterra avevano quasi completamente soppiantato la Russia sui mercati del Vicino Oriente.
Lo zar Nicola I cercava ripetutamente di proporre alle due potenze europee dei piani di spartizione dell'impero ottomano, gravemente in crisi, ma non incontrava mai dei consensi espliciti, poiché si temeva un ingresso dei russi nel Mediterraneo e nei Balcani.
Il pretesto che fece scoppiare la guerra fu trovato in una disputa che divideva il clero cattolico da quello ortodosso nell'amministrazione dei cosiddetti "luoghi santi" di Gerusalemme, a quel tempo sotto il controllo politico turco.
Luigi Napoleone, divenuto nel 1851 imperatore di Francia col nome di Napoleone III, ardeva dal desiderio di rafforzare il proprio trono con una piccola guerra vittoriosa in oriente, e per questa ragione concluse un patto militare con gli inglesi.
Riguardo alla suddetta controversia egli intervenne per primo, andando a rispolverare la Capitolazione del 1740, che poneva sotto tutela francese gli interessi dei cattolici in Palestina.
La Russia, che dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, si sentiva legittima erede della civiltà bizantina, chiese al sultano di poter fare altrettanto coi cristiani di religione ortodossa dell'impero turco, ponendoli sotto la propria protezione.
Questa richiesta, interpretata dai turchi come un tentativo d'ingerenza nei loro affari interni, venne rifiutata, sicché i russi, per tutta risposta, occuparono la Moldavia e la Valacchia, sotto la sovranità ottomana, ma di religione ortodossa.
Lo zar Nicola I era convinto che i turchi non avrebbero scatenato una guerra per due regioni non islamiche, di scarsa importanza e col rischio, peraltro, di perdere ulteriori e più significativi territori. Era altresì convinto che non sarebbero intervenuti i sovrani d'Austria e di Prussia, suoi stretti alleati nel blocco reazionario (l'Austria di Francesco Giuseppe, peraltro, era stata aiutata in maniera decisiva proprio dalla Russia nel 1849, durante la rivolta d'Ungheria). Inoltre pensava che il primo ministro inglese Aberdeen, convinto assertore dei buoni rapporti con la Russia, avrebbe lasciato correre. Infine era convinto, per quanto riguarda i francesi, che con la fine della repubblica il nuovo imperatore Luigi Bonaparte (Napoleone III) non avrebbe ostacolato un impero conservatore come il suo.
Insomma lo zar sognava una grande alleanza europea contro i turchi, ai quali si potevano lasciare al massimo alcune terre asiatiche e africane. Gli inglesi si potevano prendere l'Egitto, Cipro o Rodi, i francesi Creta, i greci le isole dell'Egeo, i due stretti del Bosforo e dei Dardanelli sarebbero stati gestiti da Austria e Russia e Costantinopoli sarebbe divenuta una città libera.
Non aveva tuttavia considerato che verso l'inizio degli anni '50 Francia e Inghilterra tendevano a coalizzarsi contro l'espansionismo russo e volevano anch'esse egemonizzare i traffici commerciali con l'oriente. Il regime francese non era dinastico-aristocratico come quello russo, ma borghese, e non aveva alcun interesse a difendere lo status quo del Congresso di Vienna. Quanto agli inglesi, la loro volontà di penetrare nel Vicino Oriente temeva d'incontrare ostacoli insormontabili da parte dei russi. E l'Austria molto difficilmente avrebbe accettato un'egemonia russa nei Balcani. La diplomazia negli anni 1852-53 non sortì alcun effetto concreto.
Sicché l'esercito zarista nel luglio 1853 occupò i principati danubiani di Moldavia e Valacchia, intenzionata a entrare anche nella parte settentrionale della Bulgaria. Lo zar chiese agli austriaci di occupare l'Erzegovina e la Serbia ma non lo fecero.
Appena scoppiò il conflitto russo-turco e i russi cominciarono ad avere la meglio (dal 3 luglio al 30 novembre 1853), la flotta anglo-francese entrò nel mar di Marmara (gennaio 1854), pronta a dar man forte ai turchi. Nello stesso tempo venivano intraprese trattative fra i governi inglese, francese, austriaco, prussiano e svedese per realizzare una coalizione antirussa, con l'obiettivo non tanto di por fine allo zarismo, ch'era un solido bastione contro la democrazia, quanto piuttosto di limitarne l'influenza nei commerci con l'oriente e più in generale sui mari.
Le pressioni austriache infatti sortirono l'effetto di indurre i russi a lasciare i Balcani e a concentrare le operazioni belliche nella sola Crimea. La Moldavia e la Valacchia furono occupate dagli stessi austriaci col consenso turco, i quali intervennero soltanto dopo che inglesi e francesi avevano loro assicurato che durante la guerra gli italiani non ne avrebbero approfittato per cacciarli dal Lombardo-Veneto.
L'atteggiamento dei francesi mise in difficoltà il governo sabaudo, perché contava proprio su loro per liberarsi degli austriaci nella penisola. Cavour si trovava a dover dare ragione ai mazziniani, che non nutrivano alcuna fiducia in Napoleone III.
I primi contingenti del corpo di spedizione alleato (circa 50.000 effettivi) sbarcarono tra aprile e maggio sulle coste della Crimea, dove c'era un deposito di materiale bellico di una certa importanza (da lì erano poi convinti di poter distruggere la flotta russa), ma il 30% di loro fu subito colpito da un'epidemia di colera. Le truppe anglo-francesi alla fine del conflitto arriveranno a circa 405.000 effettivi.
Durante l'estate la flotta anglo-francese attaccò alcune città costiere russe del Baltico, del mar Bianco e dell'oceano Pacifico: erano forme diversive per impedire allo zar di concentrare il grosso delle proprie truppe in Crimea.
L'esercito russo infatti, che disponeva di circa 700.000 uomini, era frantumato su più fronti: Polonia, Austria, Mar Nero, Mar di Azov e Caucaso. In Crimea, nel settembre 1865, i soldati dello zar erano circa 51.000, contro i 60.000 delle forze europee.
I russi non erano in grado di fronteggiare le forze anglo-francesi, per una serie di ragioni tecniche:
i vascelli che usavano erano ancora a vela, mentre il nemico li aveva a vapore, per di più protetti da piastre di ferro prodotte dalla nuova siderurgia;
non avevano cannoni a canna rigata ma liscia, con una gittata tre volte inferiore;
i fucili non avevano l'efficienza (cioè la precisione e la gittata) di quelli del "sistema Minié", con capsula, cartuccia e pallottola;
non usavano la ferrovia per il trasporto delle truppe, dei viveri, delle armi;
non usavano il telegrafo per le comunicazioni;
non disponevano di riserve addestrate per il completamento dell'esercito operante;
di rilievo, sul piano tecnico, fu soltanto, da parte russa, l'uso delle prime mine marittime.
La ritirata dell'esercito russo convinse le forze alleate ad attaccare Sebastopoli, una base navale militare molto importante.
La città, con un esercito di circa 10.000 uomini al massimo, resistette 349 giorni ai 60.000 che l'avevano posta inizialmente sotto assedio e che arriveranno a raggiungere le 170.000 unità (anche in forza del nuovo alleato: il regno di Sardegna, le cui truppe giunsero a Balaclava nel maggio 1855). La difesa della città, da parte di semplici soldati e marinai, che suscitò ammirazione in tutta la Russia, fu immortalata dai Racconti di Sebastopoli di Tolstoj.
L'incapacità dell'esercito russo di passare alla controffensiva portò lo zar Nicola I alla disperazione e probabilmente al suicidio: le trattative dell'armistizio furono prese dal figlio Alessandro II, il quale comunque era riuscito a bloccare le forze alleate sul Caucaso.
A dir il vero lo zar avrebbe voluto continuare la guerra, ma ne fu dissuaso dalle rivolte dei contadini che mal sopportavano il servaggio ancora imperante e che rifiutavano decisamente la coscrizione obbligatoria. Se l'avesse continuata probabilmente avrebbe avuto la meglio, in quanto l'amministrazione bellica anglo-francese lasciava molto a desiderare: il colera, le infezioni, il freddo, gli stenti fecero molte più vittime delle stesse battaglie (quasi dieci volte di più), e l'organizzazione relativa alla logistica e ai rifornimenti era totalmente inadeguata.
Praticamente i piemontesi intervennero su richiesta degli inglesi, i quali volevano impedire ai francesi di sostenere quasi da soli tutto il peso della guerra (in Inghilterra non esisteva la coscrizione obbligatoria e non era facile trovare truppe fresche da mandare in Crimea). E le truppe austriache non arriveranno mai in Crimea.
Cavour aveva deciso di entrare in guerra solo ad alcune condizioni anti-austriache, ma gli anglo-francesi erano disposti al massimo a prestare ai Savoia un certo importo per coprire le spese della spedizione militare. Di fronte alle sue perplessità reagì con vigore il re Vittorio Emanuele II, che voleva assolutamente la guerra, anche a costo di far dimettere Cavour, il quale peraltro proprio nel 1853 aveva rischiato di essere ucciso a causa della sua politica di abbassamento dei dazi che, in quel periodo di carestia, aveva soltanto favorito la concorrenza straniera. Fu così che Cavour, per non essere estromesso dal governo, si decise a entrare in guerra senza condizioni.
I partiti liberal-democratici disapprovarono nettamente questa decisione, proprio perché in questa maniera l'Italia si trovava alleata col suo peggior nemico: l'Austria. Tutti erano convinti che l'Italia non avesse alcunché da guadagnarci in oriente, essendo quello un territorio su cui volevano esercitare mire imperialistiche delle nazioni e degli imperi ben più potenti di una penisola che non era neppure unificata. Cavour quindi si giocava il suo futuro e la possibilità, in caso di vittoria, di poter ottenere qualcosa, sul tavolo delle trattative, a favore dell'Italia.
Il contingente italiano era di 18.000 uomini, poco meno di quello inglese, mentre i turchi non superavano le 60.000 unità: la somma di questi contingenti non superava comunque quello francese, che arrivava a 150.000 militari.
Nel febbraio 1856 fu concluso l'armistizio, nonostante che inglesi e piemontesi volessero continuare la guerra (quest'ultimi erano stati impegnati solo nella battaglia della Cernaia). I delegati di Russia, Austria, Francia, Inghilterra, Turchia, Sardegna si riunirono a Parigi per elaborare il trattato di pace.
L'Inghilterra chiedeva il distacco della Russia dal Caucaso e il divieto di tenere una flotta sia sul mar Nero che sul Baltico. L'Austria invece pretendeva la Moldavia, la Valacchia e la Bessarabia meridionale.
Alla fine prevalsero le proposte della Francia: la Russia garantiva l'indipendenza e l'integrità dell'impero ottomano; su Moldavia e Valacchia, tornate al sultano, si stabiliva un protettorato delle grandi potenze europee; la navigazione delle navi mercantili sul Danubio fu dichiarata libera e a tale scopo si pretese il distacco della Bessarabia meridionale dalla Russia; il mar Nero veniva dichiarato "neutrale", nel senso che alla Russia e alla Turchia si vietava di tenervi una flotta da guerra e basi navali, e in tempo di pace solo le navi da guerra turche potevano attraversare gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo; furono restituiti i restanti territori tolti, durante la guerra, alla Russia; quest'ultima ovviamente doveva rinunciare a qualunque pretesa sui cristiani ortodossi dell'impero turco.
L'Italia ottenne soltanto una vittoria morale, in quanto poté dimostrare che la situazione catastrofica in cui essa si trovava era dovuta essenzialmente alla presenza ingombrante dell'impero austriaco.
In sintesi si può dire che l'influenza internazionale dello zarismo, quale baluardo della reazione europea, fu notevolmente scossa dalla sconfitta in Crimea. Ormai i nuovi gendarmi internazionali della reazione erano diventati Francia, Inghilterra e Austria.
In Russia la sconfitta dello zarismo aggravò la crisi del servaggio e accelerò la maturazione di una situazione favorevole allo sviluppo del capitalismo.
Nei Balcani la guerra aveva suscitato una nuova ondata di lotte per l'indipendenza dal giogo turco. Negli anni 1856-61, proprio con l'appoggio della Russia, avvenne l'unificazione dei principati danubiani di Moldavia e Valacchia nello Stato unitario rumeno, che solo nominalmente riconosceva la sovranità turca.
Con la guerra di Crimea Cavour realizzò il suo programma di portare il Piemonte al rango di Stato-guida nel processo di unificazione nazionale con una politica estera abile e diplomatica.
Cavour, che non aveva previsto la neutralità austriaca, si era adoperato per stringere accordi con Francia e Inghilterra in vista di una comune azione contro Austria e Russia; e si trovò costretto a prendere parte al conflitto sollecitato dagli alleati che avevano anche l'interesse di garantire all'Austria che, se fosse intervenuta al loro fianco, nulla sarebbe accaduto alle sue spalle, cioè in Italia. Tuttavia Cavour ritenne che l'intervento piemontese, pur nella mutata situazione, fosse opportuno, ed i fatti successivi gli diedero ragione.
Così i 18.000 uomini al comando del generale Alfonso La Marmora partirono, verso la metà del 1855, per la Crimea e presero parte alla battaglia della Cernaia ed all'assedio di Sebastopoli, la potente piazzaforte russa che resistette circa un anno all'assedio delle truppe anglo-franco-piemontesi.
L'obiettivo che Cavour si prefiggeva era la partecipazione del Piemonte alle trattative di pace e la conseguente possibilità di porre le condizioni dell'Italia sul tappeto degli interessi generali delle potenze europee. Ciò avvenne al Congresso di Parigi dove, caduta Sebastopoli, i rappresentanti delle potenze europee si riunirono per le trattative di pace (1856).
Il gioco di Cavour era perfettamente riuscito: come rappresentante del piccolo Stato piemontese egli sedeva, a parità di rango, accanto a quelli di Francia, Inghilterra, Austria, Russia, e poteva illustrare, in una seduta suppletiva chiesta ed ottenuta, nonostante le proteste austriache, le penose condizioni di soggezione e vassallaggio in cui le popolazioni del Lombardo-Veneto e dell'Italia meridionale erano tenute dagli Asburgo e dai Borboni. La questione italiana era posta come qualcosa di cui l'Europa progressista doveva in qualche modo occuparsi. Oltre a ciò, con la partecipazione al Congresso di Parigi, il Piemonte si guadagnò definitivamente, agli occhi del movimento liberale italiano, il ruolo di protagonista della lotta contro l'Austria.
La guerra di Crimea aveva peraltro reso Napoleone III arbitro della politica europea. L'isolamento dell'Austria, la sconfitta dell'iniziativa russa, l'alleanza con l'Inghilterra, davano all'imperatore dei Francesi la possibilità di portare a compimento l'influenza francese sull'Europa appoggiandosi ai movimenti nazionali.
In questo quadro Francia e Piemonte firmarono a Plombières, nel luglio 1858, un trattato segreto di alleanza antiaustriaca. L'alleanza fu resa possibile dal fatto che la politica di Cavour aveva dato ampie garanzie alla Francia di muoversi su un piano antidemocratico (vedi le dure polemiche del Cavour contro Mazzini e i suoi metodi insurrezionali).
Gli accordi segreti di Plombières riguardavano l'assetto da dare al territorio italiano dopo una eventuale vittoria sull'Austria, contro la quale l'imperatore si impegnava a scendere in campo accanto al Piemonte soltanto se quella avesse dichiarato per prima la guerra. Si prevedeva una confederazione di Stati italiani comprendente il regno dell'Italia settentrionale (Piemonte, Lombardo-Veneto, Romagna, Emilia) su cui avrebbe regnato la dinastia sabauda, un regno dell'Italia centrale, da assegnare ad un principe francese ma che al proprio interno avrebbe consentito il mantenimento dell'autorità pontificia sulla città di Roma, ed il regno dell'Italia meridionale dove, ai Borboni spodestati, sarebbe succeduto un discendente di Gioacchino Murat.
Nizza e la Savoia, due province del Regno di Sardegna confinanti con la Francia, costituirono il compenso chiesto al Piemonte dall'imperatore in cambio del suo intervento.
Queste condizioni, dettate da Napoleone III, vennero accettate da Cavour, convinto che il processo di unificazione nazionale avrebbe avuto tempi più lunghi di quanto pensassero i democratici e tutto il movimento unitario, e che al Piemonte fosse possibile assumere un ruolo dominante nella confederazione italiana. Da parte francese vi era tutta l'intenzione di porre sotto la propria egemonia gli Stati italiani confederati. Ma questa intenzione si scontrerà molto presto con l'iniziativa garibaldina.
lunedì 29 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 marzo.
Il 29 marzo 1461 Edoardo di York vince la battaglia di Towton e diventa re Edoardo IV d'Inghilterra, ma ciò non fu sufficiente a decretare la fine della guerra delle due Rose.
La Guerra delle Due Rose per il possesso del trono inglese si combatté infatti tra i sostenitori della Casa di York e quelli della Casa di Lancaster per ben trent'anni, tra il 1455 e il 1485.
La Casa di York aveva come emblema una rosa bianca, probabilmente una rosa alba semiplena, mentre la Casa di Lancaster aveva l’antica rosa damascena rossa, la rosa gallica “Officinalis”, conosciuta anche come rosa del Farmacista e rosa rossa di Lancaster.
Queste rose erano gli emblemi delle due famiglie da molto tempo prima che scoppiasse la Guerra delle Due Rose.
Una rosa bianca era l’emblema di Eleonora di Provenza che nel 1235 sposò Enrico III. In seguito, il suo emblema venne trasmesso in eredità al figlio, Edoardo I. La rosa rossa di Lancaster fu acquisita, invece, nel 1275 da Edmondo, il secondogenito di Enrico III, grazie al suo matrimonio con Bianca, vedova di Enrico I di Francia, conosciuto come Enrico il Grasso.
Si dice che la guerra sia stata provocata da una controversia avvenuta nel 1455 nei Temple Gardens, una zona di Londra tra Fleet Street e il fiume Tamigi. Nel dramma storico Enrico VI (Parte I, Atto II, Scena IV), scritto circa un secolo e mezzo dopo, William Shakespeare include una scena riguardante la disputa tra Riccardo Plantageneto e Somerset.
L’avvio della Guerra delle Due Rose si può far risalire a molti anni prima dell’inizio delle ostilità. Riccardo II, che succedette al trono a suo nonno Edoardo III nel 1377, venne deposto nel 1399; gli subentrò suo cugino Lancaster, Enrico IV altro nipote di Edoardo III.
Per quattro generazioni le fazioni della famiglia reale e i nobili del loro seguito amarono, discussero e lottarono per la supremazia, molti tra di loro cambiarono parte più di una volta, basti pensare al Conte di Warwick, il “Kingmaker” (creatore di re).
Alla metà del XV secolo tutti i tentativi di giungere ad un compromesso erano falliti e nel 1455 la guerra ebbe inizio. Le battaglie che seguirono, St Albans, Towton, Hexham, Tewkesbury, furono tutte feroci e sanguinose. Si ritiene che durante la guerra siano morti dodici principi di sangue reale, duecento nobili e 100.000 tra appartenenti alla piccola nobiltà e gente comune.
Con l’ascesa al trono di Edoardo IV nel 1460, sembrò che i sostenitori della Casa di York avessero ottenuto la vittoria finale; ma dieci anni più tardi il suo trono fu ancora una volta minacciato e Enrico VI di Lancaster ritornò brevemente al potere prima di essere di nuovo sconfitto da Edoardo IV a Barnet, a nord di Londra.
A quest’ultimo succedette il fratello Riccardo III, e la lunga contesa terminò il 22 agosto 1485, con la sconfitta e la morte dello stesso a Bosworth Field.
Dalla guerra la nobiltà inglese uscì decimata e politicamente indebolita, mentre si rafforzarono l’assolutismo del sovrano e la borghesia rurale ed imprenditoriale che non era stata coinvolta nella guerra.
La borghesia, rafforzatasi economicamente e politicamente, fu più tardi favorita dallo scisma della Chiesa d’Inghilterra decretato nel 1534 da Enrico VIII Tudor (1509–1547) che limitò la potenza economica e politica della Chiesa cattolica romana e dalla politica marinara imposta dalla Corona dopo la sconfitta con la quale si era conclusa la guerra dei cent’anni.
Il vincitore della battaglia, ergo, Enrico Tudor, proclamato nuovo sovrano con il nome di Enrico VII, in relazione segretamente con ambedue le fazioni, ma con una tenue rivendicazione del trono, impose una pace che venne suggellata l’anno seguente (1486) dal suo matrimonio politico con Elisabetta di York, figlia di Edoardo IV. Ebbe così inizio la forte monarchia dei Tudor.
La rosa Tudor, adottata poi dal figlio di Enrico, Enrico VIII, abbinando i petali della rosa rossa di Lancaster e della rosa bianca di York, simboleggiò l’unione delle due Case. Enrico VIII incorporò questa rosa bianca e rossa nel suo stemma.
Il 29 marzo 1461 Edoardo di York vince la battaglia di Towton e diventa re Edoardo IV d'Inghilterra, ma ciò non fu sufficiente a decretare la fine della guerra delle due Rose.
La Guerra delle Due Rose per il possesso del trono inglese si combatté infatti tra i sostenitori della Casa di York e quelli della Casa di Lancaster per ben trent'anni, tra il 1455 e il 1485.
La Casa di York aveva come emblema una rosa bianca, probabilmente una rosa alba semiplena, mentre la Casa di Lancaster aveva l’antica rosa damascena rossa, la rosa gallica “Officinalis”, conosciuta anche come rosa del Farmacista e rosa rossa di Lancaster.
Queste rose erano gli emblemi delle due famiglie da molto tempo prima che scoppiasse la Guerra delle Due Rose.
Una rosa bianca era l’emblema di Eleonora di Provenza che nel 1235 sposò Enrico III. In seguito, il suo emblema venne trasmesso in eredità al figlio, Edoardo I. La rosa rossa di Lancaster fu acquisita, invece, nel 1275 da Edmondo, il secondogenito di Enrico III, grazie al suo matrimonio con Bianca, vedova di Enrico I di Francia, conosciuto come Enrico il Grasso.
Si dice che la guerra sia stata provocata da una controversia avvenuta nel 1455 nei Temple Gardens, una zona di Londra tra Fleet Street e il fiume Tamigi. Nel dramma storico Enrico VI (Parte I, Atto II, Scena IV), scritto circa un secolo e mezzo dopo, William Shakespeare include una scena riguardante la disputa tra Riccardo Plantageneto e Somerset.
L’avvio della Guerra delle Due Rose si può far risalire a molti anni prima dell’inizio delle ostilità. Riccardo II, che succedette al trono a suo nonno Edoardo III nel 1377, venne deposto nel 1399; gli subentrò suo cugino Lancaster, Enrico IV altro nipote di Edoardo III.
Per quattro generazioni le fazioni della famiglia reale e i nobili del loro seguito amarono, discussero e lottarono per la supremazia, molti tra di loro cambiarono parte più di una volta, basti pensare al Conte di Warwick, il “Kingmaker” (creatore di re).
Alla metà del XV secolo tutti i tentativi di giungere ad un compromesso erano falliti e nel 1455 la guerra ebbe inizio. Le battaglie che seguirono, St Albans, Towton, Hexham, Tewkesbury, furono tutte feroci e sanguinose. Si ritiene che durante la guerra siano morti dodici principi di sangue reale, duecento nobili e 100.000 tra appartenenti alla piccola nobiltà e gente comune.
Con l’ascesa al trono di Edoardo IV nel 1460, sembrò che i sostenitori della Casa di York avessero ottenuto la vittoria finale; ma dieci anni più tardi il suo trono fu ancora una volta minacciato e Enrico VI di Lancaster ritornò brevemente al potere prima di essere di nuovo sconfitto da Edoardo IV a Barnet, a nord di Londra.
A quest’ultimo succedette il fratello Riccardo III, e la lunga contesa terminò il 22 agosto 1485, con la sconfitta e la morte dello stesso a Bosworth Field.
Dalla guerra la nobiltà inglese uscì decimata e politicamente indebolita, mentre si rafforzarono l’assolutismo del sovrano e la borghesia rurale ed imprenditoriale che non era stata coinvolta nella guerra.
La borghesia, rafforzatasi economicamente e politicamente, fu più tardi favorita dallo scisma della Chiesa d’Inghilterra decretato nel 1534 da Enrico VIII Tudor (1509–1547) che limitò la potenza economica e politica della Chiesa cattolica romana e dalla politica marinara imposta dalla Corona dopo la sconfitta con la quale si era conclusa la guerra dei cent’anni.
Il vincitore della battaglia, ergo, Enrico Tudor, proclamato nuovo sovrano con il nome di Enrico VII, in relazione segretamente con ambedue le fazioni, ma con una tenue rivendicazione del trono, impose una pace che venne suggellata l’anno seguente (1486) dal suo matrimonio politico con Elisabetta di York, figlia di Edoardo IV. Ebbe così inizio la forte monarchia dei Tudor.
La rosa Tudor, adottata poi dal figlio di Enrico, Enrico VIII, abbinando i petali della rosa rossa di Lancaster e della rosa bianca di York, simboleggiò l’unione delle due Case. Enrico VIII incorporò questa rosa bianca e rossa nel suo stemma.
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domenica 28 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 marzo.
Il 28 marzo 1990 Jesse Owens viene insignito della Medaglia d'Oro del Congresso Americano.
Per qualcuno è stato il più grande personaggio sportivo del XX secolo. Per altri è un'icona, il simbolo stesso dei Giochi Olimpici. James Cleveland Owens, chiamato Jesse dalle iniziali J.C., prima di diventare un vero e proprio mito dell'atletica leggera, ha modo di compiere diversi umili lavori, dal lustrascarpe al fattorino, dal giardiniere al gelataio.
Nato il 12 settembre 1913 a Oakville, Alabama, all'età di otto anni si trasferisce con la famiglia a Cleveland, nello stato dell'Ohio. All'inizio della sua storia Jesse conosce miseria e povertà, e vive secondo la filosofia di "arrangiarsi per vivere", come altri milioni di ragazzi neri nel periodo della depressione americana.
Jesse Owens mostra fin da giovane un evidente talento per le discipline sportive. Non possiede i soldi necessari a comprare costose attrezzature per praticare altri sport diversi dall'atletica leggera, così si dedica alle discipline della corsa. Negli USA è il periodo caldo della segregazione razziale quando nel 1933 Owens è costretto ad alcune difficili esperienze: vive all'esterno del campus universitario con altri atleti afro-americani, nei viaggi con la squadra sportiva pranza in ristoranti per soli neri. Nel periodo degli studi continua a lavorare per pagarsi l'università.
Nell'anno che precede le Olimpiadi che lo faranno assurgere a re dell'atletica, il 25 maggio 1935 ai campionati del Middle West presso l'Università del Michigan, Owens sbalordisce l'intero paese e fa conoscere il suo nome oltreoceano. In quello che nella sua autobiografia, "The Jesse Owens Story", lui definisce day of days, Jesse Owens (scende in pista all'ultimo momento perché reduce da un infortunio alla schiena) in un lasso di tempo inferiore ad un'ora eguaglia il record mondiale nei 100 metri, stabilisce quello nel salto in lungo (con 8,13 metri è il primo uomo a superare la misura degli 8 metri), vince la gara dei 200 metri e quella dei 200 metri a ostacoli.
Il suo nome è legato a doppio filo con la storia per le circostanze che lo hanno visto campione e atleta-simbolo delle Olimpiadi di Berlino del 1936, e protagonista insieme a Hitler di un famoso episodio.
Ai Giochi Olimpici Owens vince ben 4 medaglie d'oro: nei 100 metri (stabilisce il record mondiale: 10,3''), nei 200 metri (record olimpico: 20,7''), nel salto in lungo (record olimpico: 806 cm) e nella staffetta 4 x 100 (record mondiale: 39,8''). Bisognerà attendere 48 anni, alle Olimpiadi di Los Angeles 1984, per vedere un altro uomo, l'americano Carl Lewis, capace di ripetere l'impresa di Owens.
Per Hitler i Giochi furono l'occasione per propagandare gli ideali del "Terzo Reich" e per dare valore e risalto alla superiorità della razza ariana. Lo stesso fuhrer fu presente sulle tribune dell'Olympiastadion, gioiello architettonico con una capienza di 100 mila posti, quando Owens vinse le sue gare, ma narra la leggenda che si rifiutò di stringere la mano ad Owens.
In questo contesto vi è un altro episodio che ha delle caratteristiche commoventi per il suo tragico epilogo: Luz Long è l'atleta tedesco per cui Hitler stravede e su cui la Germania conta per la vittoria nella gara del salto in lungo. Nel periodo che precede la gara, sul campo, vengono gettate le basi di quella che sarà una sincera amicizia tra l'atleta americano e il tedesco Long. Owens sbaglia due dei tre salti di qualificazione. Prima del terzo salto è proprio Luz Long, che conosce bene la pedana, a suggerire a Owens di anticipare la battuta e permettergli così di superare la misura di qualifica. Dopo la conquista della medaglia d'oro di Owens, Long è il primo a congratularsi.
Negli anni seguenti i due si manterrano in contatto scrivendosi più volte. Negli anni della guerra Long è ufficiale dell'esercito tedesco: si trova in Italia, a Cassino, quando riceve la notizia che la moglie ha dato alla luce suo figlio. Nell'occasione scrive a Owens una lettera nella quale chiede all'amico di far sapere a suo figlio, in futuro, semmai la guerra fosse finita, di quanto sia importante l'amicizia nella vita e di come essa sia possibile nonostante gli orrori e le divisioni che la guerra comporta. Luz Long morirà il 14 luglio 1943 dopo essere stato gravemente ferito nella famigerata battaglia di Cassino. A guerra finita Owens impiegherà diverso tempo a rintracciare la famiglia dell'amico. Trascorsi diversi anni, Owens sarà presente al matrimonio del figlio di Long in qualità di ospite d'onore.
Jesse Owens, il lampo d'ebano, come molti giornali l'avevano ribattezzato, è morto di cancro ai polmoni all'età di 66 anni a Tucson (Arizona) il 31 marzo 1980. Nel 1984 alla sua memoria è stata dedicata una strada di Berlino.
Il 28 marzo 1990 Jesse Owens viene insignito della Medaglia d'Oro del Congresso Americano.
Per qualcuno è stato il più grande personaggio sportivo del XX secolo. Per altri è un'icona, il simbolo stesso dei Giochi Olimpici. James Cleveland Owens, chiamato Jesse dalle iniziali J.C., prima di diventare un vero e proprio mito dell'atletica leggera, ha modo di compiere diversi umili lavori, dal lustrascarpe al fattorino, dal giardiniere al gelataio.
Nato il 12 settembre 1913 a Oakville, Alabama, all'età di otto anni si trasferisce con la famiglia a Cleveland, nello stato dell'Ohio. All'inizio della sua storia Jesse conosce miseria e povertà, e vive secondo la filosofia di "arrangiarsi per vivere", come altri milioni di ragazzi neri nel periodo della depressione americana.
Jesse Owens mostra fin da giovane un evidente talento per le discipline sportive. Non possiede i soldi necessari a comprare costose attrezzature per praticare altri sport diversi dall'atletica leggera, così si dedica alle discipline della corsa. Negli USA è il periodo caldo della segregazione razziale quando nel 1933 Owens è costretto ad alcune difficili esperienze: vive all'esterno del campus universitario con altri atleti afro-americani, nei viaggi con la squadra sportiva pranza in ristoranti per soli neri. Nel periodo degli studi continua a lavorare per pagarsi l'università.
Nell'anno che precede le Olimpiadi che lo faranno assurgere a re dell'atletica, il 25 maggio 1935 ai campionati del Middle West presso l'Università del Michigan, Owens sbalordisce l'intero paese e fa conoscere il suo nome oltreoceano. In quello che nella sua autobiografia, "The Jesse Owens Story", lui definisce day of days, Jesse Owens (scende in pista all'ultimo momento perché reduce da un infortunio alla schiena) in un lasso di tempo inferiore ad un'ora eguaglia il record mondiale nei 100 metri, stabilisce quello nel salto in lungo (con 8,13 metri è il primo uomo a superare la misura degli 8 metri), vince la gara dei 200 metri e quella dei 200 metri a ostacoli.
Il suo nome è legato a doppio filo con la storia per le circostanze che lo hanno visto campione e atleta-simbolo delle Olimpiadi di Berlino del 1936, e protagonista insieme a Hitler di un famoso episodio.
Ai Giochi Olimpici Owens vince ben 4 medaglie d'oro: nei 100 metri (stabilisce il record mondiale: 10,3''), nei 200 metri (record olimpico: 20,7''), nel salto in lungo (record olimpico: 806 cm) e nella staffetta 4 x 100 (record mondiale: 39,8''). Bisognerà attendere 48 anni, alle Olimpiadi di Los Angeles 1984, per vedere un altro uomo, l'americano Carl Lewis, capace di ripetere l'impresa di Owens.
Per Hitler i Giochi furono l'occasione per propagandare gli ideali del "Terzo Reich" e per dare valore e risalto alla superiorità della razza ariana. Lo stesso fuhrer fu presente sulle tribune dell'Olympiastadion, gioiello architettonico con una capienza di 100 mila posti, quando Owens vinse le sue gare, ma narra la leggenda che si rifiutò di stringere la mano ad Owens.
In questo contesto vi è un altro episodio che ha delle caratteristiche commoventi per il suo tragico epilogo: Luz Long è l'atleta tedesco per cui Hitler stravede e su cui la Germania conta per la vittoria nella gara del salto in lungo. Nel periodo che precede la gara, sul campo, vengono gettate le basi di quella che sarà una sincera amicizia tra l'atleta americano e il tedesco Long. Owens sbaglia due dei tre salti di qualificazione. Prima del terzo salto è proprio Luz Long, che conosce bene la pedana, a suggerire a Owens di anticipare la battuta e permettergli così di superare la misura di qualifica. Dopo la conquista della medaglia d'oro di Owens, Long è il primo a congratularsi.
Negli anni seguenti i due si manterrano in contatto scrivendosi più volte. Negli anni della guerra Long è ufficiale dell'esercito tedesco: si trova in Italia, a Cassino, quando riceve la notizia che la moglie ha dato alla luce suo figlio. Nell'occasione scrive a Owens una lettera nella quale chiede all'amico di far sapere a suo figlio, in futuro, semmai la guerra fosse finita, di quanto sia importante l'amicizia nella vita e di come essa sia possibile nonostante gli orrori e le divisioni che la guerra comporta. Luz Long morirà il 14 luglio 1943 dopo essere stato gravemente ferito nella famigerata battaglia di Cassino. A guerra finita Owens impiegherà diverso tempo a rintracciare la famiglia dell'amico. Trascorsi diversi anni, Owens sarà presente al matrimonio del figlio di Long in qualità di ospite d'onore.
Jesse Owens, il lampo d'ebano, come molti giornali l'avevano ribattezzato, è morto di cancro ai polmoni all'età di 66 anni a Tucson (Arizona) il 31 marzo 1980. Nel 1984 alla sua memoria è stata dedicata una strada di Berlino.
sabato 27 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 marzo.
Il 27 marzo 1898 è la più probabile data di nascita di Titina De Filippo.
Titina era la prima dei tre figli nati dalla relazione di Luisa De Filippo con Eduardo Scarpetta, che erano definiti ‘figli del bottone’, in quanto la madre era la sarta della compagnia del grande commediografo napoletano, nonché nipote di sua moglie Rosa De Filippo, che conosceva e tollerava questa famiglia parallela del proprio marito.
Titina De Filippo, il cui nome era Annunziata, nacque nel 1898; sul giorno esatto di nascita ci sono notizie discordanti, che riportano il 23 e il 27 marzo, l’8 agosto ed anche, più genericamente, il mese di luglio.
Essendo la primogenita e quindi prediletta, Titina da piccola studiò musica, frequentò una scuola gestita da monache ed imparò il francese.
Sin da piccola sentì fortissimo l’amore per il teatro, improvvisando brevi spettacoli davanti allo specchio e a suo fratello Eduardo, fin quando, a tredici anni scoprì anche di essere figlia d'arte, e quindi maggiormente invogliata a continuare su questa strada.
Il suo debutto fu nel 1905, a soli sette anni, quando al Teatro Valle di Roma partecipò alla commedia ‘Miseria e Nobiltà’ nella parte di Peppeniello; a questa prima esperienza seguirono altri ruoli maschili, nel 1908 in ‘Signorine’, di Ernesto Murolo e nel 1909 in ‘L’ommo che vola’, dove interpreta Paolino.
Nel 1921 le fu assegnato il ruolo di prima donna nella nuova "Compagnia d'arte napoletana" che, diretta da Francesco Corbinci, debuttò con "A' Nanassa" il 3 settembre di quell’anno nella piccola sala del napoletano Teatro Cavour. Successivamente si dedicò alla rivista con Nino Taranto e, dal 1937, anche al cinema, partecipando al film di R.Matarazzo ‘Sono stato io!’, assieme ai suoi fratelli, Isa Pola, ed Alida Valli.
Nel 1940 interpretò il ruolo della moglie di Totò in ‘San Giovanni decollato’, pellicola di Amleto Palermi, a cui seguirono numerosi altri film, per un totale di 37, tra i quali: ‘Napoli milionaria’ accanto a Totò, Dante Maggio e Delia Scala e ‘Cameriera bella presenza offresi...’, con i suoi fratelli, Elsa Merlini, Aldo Fabrizi, De Sica e Sordi.
Nello stesso anno, 1951, Titina fu protagonista eccezionale, come lo era stata in teatro, di "Filumena Marturano", film di cui il fratello Eduardo fu regista e anche produttore, interpretando il ruolo di Filumena, a cui aveva aspirato la grande Anna Magnani.
Nel 1952 e 1953 recitò nei film: "Cani e gatti", "I morti non pagano le tasse", "Ragazze da marito", "Il tallone d'Achille", "Marito e moglie", "Non è vero....ma ci credo", ‘Cinque poveri in automobile", "La vena dell'oro" e "Martin Toccaferro".
Dello stesso anno è anche il film di De Felice "Cent'anni d'amore", ove nell’episodio intitolato "Purificazione" Titina, ormai alla fine della sua carriera, per un curioso gioco del destino interpreta "Ester Fiorelli", personaggio che ha lo stesso cognome con il quale Scarpetta avrebbe voluto farla debuttare in teatro molti anni prima.
Nei film girati negli anni successivi Titina De Filippo interpretò, come sempre in maniera straordinaria, il ruolo della moglie possessiva e avara in ‘Totò, Peppino e i fuorilegge’, del 1955, ed anche della madre autoritaria in ‘Totò, Vittorio e la dottoressa’ del 1958, pur avendo soltanto tre anni in più di Vittorio De Sica, nella parte di suo figlio.
Va ricordato che Titina De Filippo, oltre ad essere impareggiabile attrice, fu anche autrice di soggetti cinematografici, di commedie, alcune delle quali scritte con Peppino, e sceneggiatrice cinematografica. Nel 1953 inoltre, cedendo alle pressioni dell’allora Segretario della DC on. Gonella, si candidò come indipendente alla Camera dei Deputati, facendosi promotrice, in campagna elettorale, di significativi progetti a favore del teatro, del cinema e della categoria degli artisti.
L’ultimo suo film fu ‘Ferdinando I Re di Napoli’, del 1959 poi, dal 1961, frequenti e forti attacchi d'asma la obbligarono a ritirarsi dalle scene. Si dedicò allora, con sempre maggiore impegno, alla pittura di quadri-collage di carta ed alla poesia, e trovò conforto nella fede e nelle opere di beneficenza, fin quando, il 24 ottobre 1965, sentendo che le forze le venivano ormai a mancare chiese che le fosse somministrata l'Estrema Unzione ed espresse il desiderio di essere sepolta con l’abito di Terziaria Domenicana. Morì due mesi dopo, alle ore 18.30, del 26 dicembre 1965; la sua salma fu sistemata per breve tempo nella cappella di famiglia a Roma e nel 1966 traslata a Manziana, paesino della provincia.
Il figlio Augusto, nato dal matrimonio con Pietro Carloni, che sposò nel 1922, ne scrisse una biografia, il comune di Roma, ove l’attrice viveva in via Archimede, le ha intitolato una strada, mentre Vittorio De Sica le dedicò il film ‘Matrimonio all’italiana’, ispirato proprio a ‘Filumena Marturano’.
Il 27 marzo 1898 è la più probabile data di nascita di Titina De Filippo.
Titina era la prima dei tre figli nati dalla relazione di Luisa De Filippo con Eduardo Scarpetta, che erano definiti ‘figli del bottone’, in quanto la madre era la sarta della compagnia del grande commediografo napoletano, nonché nipote di sua moglie Rosa De Filippo, che conosceva e tollerava questa famiglia parallela del proprio marito.
Titina De Filippo, il cui nome era Annunziata, nacque nel 1898; sul giorno esatto di nascita ci sono notizie discordanti, che riportano il 23 e il 27 marzo, l’8 agosto ed anche, più genericamente, il mese di luglio.
Essendo la primogenita e quindi prediletta, Titina da piccola studiò musica, frequentò una scuola gestita da monache ed imparò il francese.
Sin da piccola sentì fortissimo l’amore per il teatro, improvvisando brevi spettacoli davanti allo specchio e a suo fratello Eduardo, fin quando, a tredici anni scoprì anche di essere figlia d'arte, e quindi maggiormente invogliata a continuare su questa strada.
Il suo debutto fu nel 1905, a soli sette anni, quando al Teatro Valle di Roma partecipò alla commedia ‘Miseria e Nobiltà’ nella parte di Peppeniello; a questa prima esperienza seguirono altri ruoli maschili, nel 1908 in ‘Signorine’, di Ernesto Murolo e nel 1909 in ‘L’ommo che vola’, dove interpreta Paolino.
Nel 1921 le fu assegnato il ruolo di prima donna nella nuova "Compagnia d'arte napoletana" che, diretta da Francesco Corbinci, debuttò con "A' Nanassa" il 3 settembre di quell’anno nella piccola sala del napoletano Teatro Cavour. Successivamente si dedicò alla rivista con Nino Taranto e, dal 1937, anche al cinema, partecipando al film di R.Matarazzo ‘Sono stato io!’, assieme ai suoi fratelli, Isa Pola, ed Alida Valli.
Nel 1940 interpretò il ruolo della moglie di Totò in ‘San Giovanni decollato’, pellicola di Amleto Palermi, a cui seguirono numerosi altri film, per un totale di 37, tra i quali: ‘Napoli milionaria’ accanto a Totò, Dante Maggio e Delia Scala e ‘Cameriera bella presenza offresi...’, con i suoi fratelli, Elsa Merlini, Aldo Fabrizi, De Sica e Sordi.
Nello stesso anno, 1951, Titina fu protagonista eccezionale, come lo era stata in teatro, di "Filumena Marturano", film di cui il fratello Eduardo fu regista e anche produttore, interpretando il ruolo di Filumena, a cui aveva aspirato la grande Anna Magnani.
Nel 1952 e 1953 recitò nei film: "Cani e gatti", "I morti non pagano le tasse", "Ragazze da marito", "Il tallone d'Achille", "Marito e moglie", "Non è vero....ma ci credo", ‘Cinque poveri in automobile", "La vena dell'oro" e "Martin Toccaferro".
Dello stesso anno è anche il film di De Felice "Cent'anni d'amore", ove nell’episodio intitolato "Purificazione" Titina, ormai alla fine della sua carriera, per un curioso gioco del destino interpreta "Ester Fiorelli", personaggio che ha lo stesso cognome con il quale Scarpetta avrebbe voluto farla debuttare in teatro molti anni prima.
Nei film girati negli anni successivi Titina De Filippo interpretò, come sempre in maniera straordinaria, il ruolo della moglie possessiva e avara in ‘Totò, Peppino e i fuorilegge’, del 1955, ed anche della madre autoritaria in ‘Totò, Vittorio e la dottoressa’ del 1958, pur avendo soltanto tre anni in più di Vittorio De Sica, nella parte di suo figlio.
Va ricordato che Titina De Filippo, oltre ad essere impareggiabile attrice, fu anche autrice di soggetti cinematografici, di commedie, alcune delle quali scritte con Peppino, e sceneggiatrice cinematografica. Nel 1953 inoltre, cedendo alle pressioni dell’allora Segretario della DC on. Gonella, si candidò come indipendente alla Camera dei Deputati, facendosi promotrice, in campagna elettorale, di significativi progetti a favore del teatro, del cinema e della categoria degli artisti.
L’ultimo suo film fu ‘Ferdinando I Re di Napoli’, del 1959 poi, dal 1961, frequenti e forti attacchi d'asma la obbligarono a ritirarsi dalle scene. Si dedicò allora, con sempre maggiore impegno, alla pittura di quadri-collage di carta ed alla poesia, e trovò conforto nella fede e nelle opere di beneficenza, fin quando, il 24 ottobre 1965, sentendo che le forze le venivano ormai a mancare chiese che le fosse somministrata l'Estrema Unzione ed espresse il desiderio di essere sepolta con l’abito di Terziaria Domenicana. Morì due mesi dopo, alle ore 18.30, del 26 dicembre 1965; la sua salma fu sistemata per breve tempo nella cappella di famiglia a Roma e nel 1966 traslata a Manziana, paesino della provincia.
Il figlio Augusto, nato dal matrimonio con Pietro Carloni, che sposò nel 1922, ne scrisse una biografia, il comune di Roma, ove l’attrice viveva in via Archimede, le ha intitolato una strada, mentre Vittorio De Sica le dedicò il film ‘Matrimonio all’italiana’, ispirato proprio a ‘Filumena Marturano’.
venerdì 26 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 marzo.
Il 26 marzo 1842 Giuseppe Garibaldi sposa a Montevideo Anita.
Anita Garibaldi (il cui vero nome completo è Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva) nasce il 30 agosto 1821 a Morrinhos, nello Stato brasiliano di Santa Catarina. Il padre è il mandriano Bento Ribeiro da Silva, la madre è Maria Antonia de Jesus Antunes. I genitori hanno dieci figli e Ana Maria è la terzogenita. Riceve un'istruzione elementare, è molto acuta e intelligente. Il padre Bento muore presto così come tre dei suoi fratelli, per cui la madre Maria Antonia deve occuparsi della famiglia molto numerosa, che è precipitata in una situazione di estrema indigenza, da sola. Le figlie maggiori si sposano in giovane età.
Ana sposa Manuel Giuseppe Duarte alla giovane età di quattordici anni nella città brasiliana di Laguna. Il marito svolge più professioni, il calzolaio, il pescatore, avendo degli ideali conservatori. Nel 1839 Giuseppe Garibaldi giunge nella città di Laguna con l'obiettivo di conquistarla in modo tale da fondare la Repubblica Juliana. Si è rifugiato nell'America meridionale, poiché condannato a morte in Italia per avere partecipato ai moti risorgimentali e per essersi iscritto all'organizzazione di Giuseppe Mazzini, la Giovine Italia.
Nel momento in cui giunge in Brasile, lo Stato di Santa Catarina vuole rendersi indipendente dal governo centrale brasiliano guidato dall'imperatore Pedro I. In Brasile la situazione politica quindi non è cambiata rispetto all'epoca coloniale. Dopo essere arrivato nella città, nel mese di luglio, la sera stessa Garibaldi conosce Ana, rimanendo molto affascinato dalla sua bellezza e dal suo carattere. Presto deve lasciare la città di Laguna e Ana, dopo avere abbandonato il marito, decide di partire con lui, seguendolo nelle sue avventure.
Combatte accanto al compagno Giuseppe e ai suoi uomini, difendendo le armi in occasione delle battaglie via terra e via mare. Nel 1840 partecipa con gli uomini di Garibaldi alla battaglia di Curitibanos, in Brasile, contro l'esercito imperiale. In quest'occasione diventa prigioniera delle Forze nemiche. Crede però che il compagno sia morto in battaglia, per cui chiede ai suoi nemici di poter cercare nel campo di battaglia le spoglie dell'uomo.
Non trovando il cadavere, riesce con grande astuzia a fuggire a cavallo per poi ritrovare Giuseppe Garibaldi nella fazenda di San Simon, vicino al Rio Grande do Sul. Nel momento in cui scappa a cavallo tra l'altro è incinta di sette mesi. A Mostardas, vicino a San Simon, il 16 settembre dello stesso anno nasce il loro primo figlio che viene chiamato Menotti per ricordare l'eroe italiano Ciro Menotti. Dodici giorni dopo la nascita del figlio, Ana detta Anita, riesce a salvarsi nuovamente dal tentativo di cattura da parte delle truppe imperiali che hanno circondato la sua casa. Fortunatamente riesce nuovamente a fuggire a cavallo con in braccio il piccolo Menotti.
Dopo quattro giorni passati nel bosco, viene ritrovata insieme al figlio da Garibaldi e i suoi uomini. La famiglia Garibaldi vive momenti difficili anche dal punto di vista economico, poiché Giuseppe rifiuta i soldi che gli vengono offerti dalle persone che sta aiutando. L'anno dopo i due coniugi lasciano il Brasile, ancora colpito dalla guerra, per trasferirsi a Montevideo, in Uruguay.
Nella città la famiglia prende una casa in affitto. In quegli anni hanno altri tre figli: Rosita che muore alla tenera età di due anni, Teresita e Ricciotti. Nel 1842 la donna e Garibaldi si sposano a Montevideo.
Cinque anni dopo Anita, insieme ai piccoli, segue il compagno in Italia. A Nizza i due sono accolti dalla mamma di Giuseppe, Rosa. In Italia diventa la moglie del Generale Giuseppe Garibaldi, che deve guidare il Paese verso un sogno, l'Unità nazionale. Nonostante le difficoltà ad adattarsi al nuovo contesto sociale, per amore del marito soffre in silenzio, mostrando sempre un atteggiamento garbato e cordiale. Quattro mesi dopo l'arrivo in Italia, Giuseppe Garibaldi deve partire alla volta di Milano in occasione dello scoppio dei moti risorgimentali ("Le Cinque giornate di Milano"). Nel 1849 è nominato deputato della Repubblica Romana che è guidata da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini.
Anita, in quest'occasione, lascia Nizza per partire verso Roma, avendo l'obiettivo di vedere il marito con cui condivide gli stessi ideali rivoluzionari. Quindi torna sul terreno di battaglia molto presto, perché il Papa Pio IX, avendo il sostegno degli eserciti spagnolo, borbonico e francese, mira alla riconquista di Roma.
I garibaldini tentano di difendere eroicamente Roma con tutte le loro forze, ma la superiorità degli eserciti che aiutano il Papa è devastante. La Repubblica Romana cade in mano nemica dopo quattro settimane dalla sua nascita.
Anita in quel momento si trova al fianco del marito e, dopo essersi tagliata i capelli e vestita da uomo, decide di combattere insieme a lui. I garibaldini hanno come obiettivo quello di lasciare Roma e di raggiungere la Repubblica di Venezia fondata da Mazzini. Il generale italiano e sua moglie attraversano con i loro uomini l'area appenninica, trovando sempre l'aiuto delle popolazioni locali.
Durante il viaggio la donna contrae la malaria e nonostante potesse essere anche aiutata dalle popolazioni che le offrono la loro ospitalità, è decisa a continuare il viaggio. I due coniugi e gli altri volontari arrivano a Cesenatico, si imbarcano, ma al loro arrivo a Grado trovano una situazione difficile, poiché iniziano dei cannoneggiamenti.
Dopo essere arrivati a Magnavacca, continuano il tragitto a piedi aiutati sempre dalla gente del posto. Dopo tanta fatica, giungono a Mandriole, dove vengono ospitati da Stefano Ravaglia, un fattore. Dopo essere stata stesa su un letto, Anita Garibaldi muore a causa della malaria il 4 agosto 1849.
Il corpo della donna viene sepolto dal Ravaglia nel campo chiamato Pastorara. Trovato pochi giorni dopo da tre piccoli pastori, è sepolto senza nome nel cimitero di Mandriole. Dopo dieci anni, Garibaldi si reca a Mandriole per avere le spoglie dell'amata moglie e portarle nel cimitero di Nizza.
Nel 1931 il corpo di Anita viene trasferito per volontà del governo italiano nel Gianicolo, a Roma. Accanto a questo è stato eretto in suo nome anche un monumento che la rappresenta a cavallo con il figlio in braccio.
Il 26 marzo 1842 Giuseppe Garibaldi sposa a Montevideo Anita.
Anita Garibaldi (il cui vero nome completo è Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva) nasce il 30 agosto 1821 a Morrinhos, nello Stato brasiliano di Santa Catarina. Il padre è il mandriano Bento Ribeiro da Silva, la madre è Maria Antonia de Jesus Antunes. I genitori hanno dieci figli e Ana Maria è la terzogenita. Riceve un'istruzione elementare, è molto acuta e intelligente. Il padre Bento muore presto così come tre dei suoi fratelli, per cui la madre Maria Antonia deve occuparsi della famiglia molto numerosa, che è precipitata in una situazione di estrema indigenza, da sola. Le figlie maggiori si sposano in giovane età.
Ana sposa Manuel Giuseppe Duarte alla giovane età di quattordici anni nella città brasiliana di Laguna. Il marito svolge più professioni, il calzolaio, il pescatore, avendo degli ideali conservatori. Nel 1839 Giuseppe Garibaldi giunge nella città di Laguna con l'obiettivo di conquistarla in modo tale da fondare la Repubblica Juliana. Si è rifugiato nell'America meridionale, poiché condannato a morte in Italia per avere partecipato ai moti risorgimentali e per essersi iscritto all'organizzazione di Giuseppe Mazzini, la Giovine Italia.
Nel momento in cui giunge in Brasile, lo Stato di Santa Catarina vuole rendersi indipendente dal governo centrale brasiliano guidato dall'imperatore Pedro I. In Brasile la situazione politica quindi non è cambiata rispetto all'epoca coloniale. Dopo essere arrivato nella città, nel mese di luglio, la sera stessa Garibaldi conosce Ana, rimanendo molto affascinato dalla sua bellezza e dal suo carattere. Presto deve lasciare la città di Laguna e Ana, dopo avere abbandonato il marito, decide di partire con lui, seguendolo nelle sue avventure.
Combatte accanto al compagno Giuseppe e ai suoi uomini, difendendo le armi in occasione delle battaglie via terra e via mare. Nel 1840 partecipa con gli uomini di Garibaldi alla battaglia di Curitibanos, in Brasile, contro l'esercito imperiale. In quest'occasione diventa prigioniera delle Forze nemiche. Crede però che il compagno sia morto in battaglia, per cui chiede ai suoi nemici di poter cercare nel campo di battaglia le spoglie dell'uomo.
Non trovando il cadavere, riesce con grande astuzia a fuggire a cavallo per poi ritrovare Giuseppe Garibaldi nella fazenda di San Simon, vicino al Rio Grande do Sul. Nel momento in cui scappa a cavallo tra l'altro è incinta di sette mesi. A Mostardas, vicino a San Simon, il 16 settembre dello stesso anno nasce il loro primo figlio che viene chiamato Menotti per ricordare l'eroe italiano Ciro Menotti. Dodici giorni dopo la nascita del figlio, Ana detta Anita, riesce a salvarsi nuovamente dal tentativo di cattura da parte delle truppe imperiali che hanno circondato la sua casa. Fortunatamente riesce nuovamente a fuggire a cavallo con in braccio il piccolo Menotti.
Dopo quattro giorni passati nel bosco, viene ritrovata insieme al figlio da Garibaldi e i suoi uomini. La famiglia Garibaldi vive momenti difficili anche dal punto di vista economico, poiché Giuseppe rifiuta i soldi che gli vengono offerti dalle persone che sta aiutando. L'anno dopo i due coniugi lasciano il Brasile, ancora colpito dalla guerra, per trasferirsi a Montevideo, in Uruguay.
Nella città la famiglia prende una casa in affitto. In quegli anni hanno altri tre figli: Rosita che muore alla tenera età di due anni, Teresita e Ricciotti. Nel 1842 la donna e Garibaldi si sposano a Montevideo.
Cinque anni dopo Anita, insieme ai piccoli, segue il compagno in Italia. A Nizza i due sono accolti dalla mamma di Giuseppe, Rosa. In Italia diventa la moglie del Generale Giuseppe Garibaldi, che deve guidare il Paese verso un sogno, l'Unità nazionale. Nonostante le difficoltà ad adattarsi al nuovo contesto sociale, per amore del marito soffre in silenzio, mostrando sempre un atteggiamento garbato e cordiale. Quattro mesi dopo l'arrivo in Italia, Giuseppe Garibaldi deve partire alla volta di Milano in occasione dello scoppio dei moti risorgimentali ("Le Cinque giornate di Milano"). Nel 1849 è nominato deputato della Repubblica Romana che è guidata da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini.
Anita, in quest'occasione, lascia Nizza per partire verso Roma, avendo l'obiettivo di vedere il marito con cui condivide gli stessi ideali rivoluzionari. Quindi torna sul terreno di battaglia molto presto, perché il Papa Pio IX, avendo il sostegno degli eserciti spagnolo, borbonico e francese, mira alla riconquista di Roma.
I garibaldini tentano di difendere eroicamente Roma con tutte le loro forze, ma la superiorità degli eserciti che aiutano il Papa è devastante. La Repubblica Romana cade in mano nemica dopo quattro settimane dalla sua nascita.
Anita in quel momento si trova al fianco del marito e, dopo essersi tagliata i capelli e vestita da uomo, decide di combattere insieme a lui. I garibaldini hanno come obiettivo quello di lasciare Roma e di raggiungere la Repubblica di Venezia fondata da Mazzini. Il generale italiano e sua moglie attraversano con i loro uomini l'area appenninica, trovando sempre l'aiuto delle popolazioni locali.
Durante il viaggio la donna contrae la malaria e nonostante potesse essere anche aiutata dalle popolazioni che le offrono la loro ospitalità, è decisa a continuare il viaggio. I due coniugi e gli altri volontari arrivano a Cesenatico, si imbarcano, ma al loro arrivo a Grado trovano una situazione difficile, poiché iniziano dei cannoneggiamenti.
Dopo essere arrivati a Magnavacca, continuano il tragitto a piedi aiutati sempre dalla gente del posto. Dopo tanta fatica, giungono a Mandriole, dove vengono ospitati da Stefano Ravaglia, un fattore. Dopo essere stata stesa su un letto, Anita Garibaldi muore a causa della malaria il 4 agosto 1849.
Il corpo della donna viene sepolto dal Ravaglia nel campo chiamato Pastorara. Trovato pochi giorni dopo da tre piccoli pastori, è sepolto senza nome nel cimitero di Mandriole. Dopo dieci anni, Garibaldi si reca a Mandriole per avere le spoglie dell'amata moglie e portarle nel cimitero di Nizza.
Nel 1931 il corpo di Anita viene trasferito per volontà del governo italiano nel Gianicolo, a Roma. Accanto a questo è stato eretto in suo nome anche un monumento che la rappresenta a cavallo con il figlio in braccio.
giovedì 25 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 marzo.
Il 25 marzo 1842 nasce a Vicenza Antonio Fogazzaro.
Nell'ambiente famigliare agiato e patriottico - la famiglia è impegnata nella lotta antiaustriaca - riceve un'educazione di stretta osservanza cattolica. Sulla sua formazione influisce profondamente Giacomo Zanella, suo insegnante al Liceo di Vicenza; questi non solo stimola in Fogazzaro la vocazione alla letteratura, ma gli trasmette anche l'interesse per il problema del rapporto tra fede religiosa e progresso scientifico, tema che diventerà centrale nella ideologia del futuro scrittore e poeta.
Sugli interessi letterari nonché sulla intima sensibilità, influiranno anche gli scrittori e i poeti del secondo romanticismo, assieme ad alcuni fra i più noti scrittori stranieri, tra i quali Victor Hugo.
Dopo un periodo trascorso tra Padova e Torino, dove Fogazzaro consegue la laurea in Legge nel 1864, pratica per un breve periodo la professione di avvocato, prima a Torino, poi a Milano.
Sposa nel 1866 la contessa Margherita di Valmarana e successivamente si trasferisce a Milano dove la propria vocazione letteraria e la decisione di cambiare percorso professionale, trovano una decisiva maturazione. Torna a Vicenza dopo tre anni e si dedica completamente all'attività letteraria.
L'esordio letterario avviene nel 1874 con il poemetto "Miranda"; del 1876 è la raccolta di liriche "Valsolda": queste anticipano vari temi della sua produzione successiva. Il primo romanzo, "Malombra", viene pubblicato nel 1881; poi è la volta di "Daniele Cortis" (1885), "Il mistero del poeta" (1888), "Piccolo mondo antico" (1895).
Fogazzaro intanto allarga i suoi interessi culturali, affrontando i temi della filosofia positivista e dell'evoluzionismo darwiniano.
E' dopo il grande successo di "Piccolo mondo antico" che si intensifica la sua produzione letteraria. Escono "Poesie scelte" (1897), "Sonatine bizzarre" (1899), "Minime" (1901). Il 1901 è l'anno del suo primo lavoro teatrale dal titolo "El garofolo rosso", che confluirà - insieme ad altri due bozzetti teatrali - nel volume "Scene" (1903). Autore oramai affermato Antonio Fogazzaro diviene sempre più personaggio impegnato nella vita pubblica; il suo nome si impone anche in ambito internazionale, non solo grazie al successo dei suoi romanzi, ma anche e soprattutto all'eco delle sue conferenze di carattere ideologico-religioso. Nel 1898 tiene a Parigi un'importante conferenza su "Le grand poète de l'avenir", cui seguono i discorsi "La douleur dans l'art" (1899) e "Les idées réligieuses de Giovanni Selva" (1907). Il prestigio nazionale e internazionale cresce tanto che nel 1896 è nominato senatore.
Nel frattempo si intensificano i suoi rapporti con il movimento modernista, un movimento cattolico riformatore che ha l'obiettivo di avvicinare la religione alla cultura moderna. Attraverso i suoi romanzi "Piccolo mondo moderno" (1901) e soprattutto "Il Santo" (1905), Fogazzaro intraprende una battaglia ambiziosa, quella di rinnovare il cattolicesimo. "Il Santo" però viene posto all'Indice: Fogazzaro viene infatti sospettato di sostenere le tesi del modernismo, movimento che intanto papa Pio X aveva messo al bando dall'ortodossia.
Da buon cattolico quale è, lo scrittore fa atto di sottomissione, senza rinunciare però alle proprie convinzioni: così il suo ultimo romanzo, "Leila" (1910), sebbene avesse l'obiettivo di ritrattare la propria posizione, viene comunque condannato dal Sant'Uffizio.
Prima ancora di venire a conoscenza di quest'ultima condanna, Antonio Fogazzaro muore all'Ospedale di Vicenza, il 7 marzo 1911, durante un'operazione chirurgica.
Il 25 marzo 1842 nasce a Vicenza Antonio Fogazzaro.
Nell'ambiente famigliare agiato e patriottico - la famiglia è impegnata nella lotta antiaustriaca - riceve un'educazione di stretta osservanza cattolica. Sulla sua formazione influisce profondamente Giacomo Zanella, suo insegnante al Liceo di Vicenza; questi non solo stimola in Fogazzaro la vocazione alla letteratura, ma gli trasmette anche l'interesse per il problema del rapporto tra fede religiosa e progresso scientifico, tema che diventerà centrale nella ideologia del futuro scrittore e poeta.
Sugli interessi letterari nonché sulla intima sensibilità, influiranno anche gli scrittori e i poeti del secondo romanticismo, assieme ad alcuni fra i più noti scrittori stranieri, tra i quali Victor Hugo.
Dopo un periodo trascorso tra Padova e Torino, dove Fogazzaro consegue la laurea in Legge nel 1864, pratica per un breve periodo la professione di avvocato, prima a Torino, poi a Milano.
Sposa nel 1866 la contessa Margherita di Valmarana e successivamente si trasferisce a Milano dove la propria vocazione letteraria e la decisione di cambiare percorso professionale, trovano una decisiva maturazione. Torna a Vicenza dopo tre anni e si dedica completamente all'attività letteraria.
L'esordio letterario avviene nel 1874 con il poemetto "Miranda"; del 1876 è la raccolta di liriche "Valsolda": queste anticipano vari temi della sua produzione successiva. Il primo romanzo, "Malombra", viene pubblicato nel 1881; poi è la volta di "Daniele Cortis" (1885), "Il mistero del poeta" (1888), "Piccolo mondo antico" (1895).
Fogazzaro intanto allarga i suoi interessi culturali, affrontando i temi della filosofia positivista e dell'evoluzionismo darwiniano.
E' dopo il grande successo di "Piccolo mondo antico" che si intensifica la sua produzione letteraria. Escono "Poesie scelte" (1897), "Sonatine bizzarre" (1899), "Minime" (1901). Il 1901 è l'anno del suo primo lavoro teatrale dal titolo "El garofolo rosso", che confluirà - insieme ad altri due bozzetti teatrali - nel volume "Scene" (1903). Autore oramai affermato Antonio Fogazzaro diviene sempre più personaggio impegnato nella vita pubblica; il suo nome si impone anche in ambito internazionale, non solo grazie al successo dei suoi romanzi, ma anche e soprattutto all'eco delle sue conferenze di carattere ideologico-religioso. Nel 1898 tiene a Parigi un'importante conferenza su "Le grand poète de l'avenir", cui seguono i discorsi "La douleur dans l'art" (1899) e "Les idées réligieuses de Giovanni Selva" (1907). Il prestigio nazionale e internazionale cresce tanto che nel 1896 è nominato senatore.
Nel frattempo si intensificano i suoi rapporti con il movimento modernista, un movimento cattolico riformatore che ha l'obiettivo di avvicinare la religione alla cultura moderna. Attraverso i suoi romanzi "Piccolo mondo moderno" (1901) e soprattutto "Il Santo" (1905), Fogazzaro intraprende una battaglia ambiziosa, quella di rinnovare il cattolicesimo. "Il Santo" però viene posto all'Indice: Fogazzaro viene infatti sospettato di sostenere le tesi del modernismo, movimento che intanto papa Pio X aveva messo al bando dall'ortodossia.
Da buon cattolico quale è, lo scrittore fa atto di sottomissione, senza rinunciare però alle proprie convinzioni: così il suo ultimo romanzo, "Leila" (1910), sebbene avesse l'obiettivo di ritrattare la propria posizione, viene comunque condannato dal Sant'Uffizio.
Prima ancora di venire a conoscenza di quest'ultima condanna, Antonio Fogazzaro muore all'Ospedale di Vicenza, il 7 marzo 1911, durante un'operazione chirurgica.
mercoledì 24 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 marzo.
Il 24 marzo 1944 avvenne a Roma l'eccidio delle fosse ardeatine, come rappresaglia dell'attentato partigiano avvenuto il giorno precedente.
ll 23 Marzo 1944 – giorno del 25° anniversario della fondazione del Partito Fascista di Mussolini – 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, proprio mentre passava una colonna di militari tedeschi.
I partigiani, che erano legati al movimento clandestino comunista italiano, riuscirono poi ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla che si era radunata sul luogo dell’attentato. L’unità militare che era stata presa di mira - un battaglione appartenente all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di Polizia Bozen - era composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dalla zona del Sud Tirolo, precedentemente appartenuta all’Austria, poi annessa all’Italia con il trattato di St. Germain nel 1919 e infine passata sotto il controllo della Germania quando i Tedeschi avevano occupato l’Italia, nel 1943.
Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni seguenti. Il bilancio finale fu poi di 42 militari uccisi e di alcuni feriti tra i civili presenti al momento dell’attentato.
La sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata - la cui giurisdizione comprendeva anche Roma - approvò la proposta.
Si racconta che quando a Hitler venne comunicata la notizia dell’uccisione dei militari, quella sera, egli reagì ordinando la distruzione totale di Roma. Successivamente, gli imputati accusati del massacro, dopo la guerra, testimoniarono come Hitler avesse perlomeno espresso parere pienamente favorevole al piano di Kappler e Mälzer. Tuttavia, altre prove storiche portano a pensare che Hitler abbia perso presto interesse per tutta la questione, lasciando la decisione finale al Colonnello Generale Alfred Jodl, in quel momento Comandante del Personale Operativo degli Alti Comandi delle Forze Armate (Oberkommando der Wehrmacht, or OKW).
Qualunque fosse il livello di coinvolgimento da parte di Hitler, il Maresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo dell’Esercito schierato a Sud, presumibilmente interpretò la reazione iniziale di Hitler come segno del suo appoggio e della sua autorizzazione alla rappresaglia proposta subito dopo l’attentato.
Il giorno seguente, 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Le Fosse Ardeatine, che originariamente facevano parte del sistema di catacombe cristiane, vennero scelte per poter eseguire la rappresaglia in segreto e per occultare i cadaveri delle vittime.
Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia.
Per questa ragione, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I Tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 57 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici.
Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri.
I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.
Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi per non sprecare spazio.
Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.
Dopo la fine della guerra le autorità alleate processarono alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine.
Nel 1945, un tribunale inglese processò il Generale von Mackensen e il generale Mälzer per la parte avuta nel massacro e li condannò a morte. Entrambi fecero appello per ridurre la pena e vinsero. Von Mackensen venne rilasciato nel 1952. Mälzer invece morì in prigione quello stesso anno.
Nel 1947, un tribunale britannico riunito a Venezia condannò a morte il Maresciallo Kesselring sia per l’eccidio, sia per aver incoraggiato l’uccisione di civili. Nel 1952, tuttavia, Kesselring fu graziato.
Nel 1948, un tribunale militare italiano condannò anche Herbert Kappler all’ergastolo per il ruolo avuto nell’eccidio. Nel 1977, la moglie di Kappler riuscì a far fuggire il marito, malato terminale di cancro, da un ospedale prigione a Roma e a farlo tornare in Germania. Le autorità dell’allora Repubblica Federale Tedesca si rifiutarono di estradare Kappler a causa della sua salute ed egli morì l’anno seguente.
Erich Priebke trascorse i mesi immediatamente successivi alla fine della guerra prigioniero degli Inglesi, ma riuscì poi a fuggire e a rifugiarsi in Argentina, dove visse per quasi cinquant’anni da uomo libero. Nel 1994, durante un’intervista con il giornalista dell’ABC, Sam Donaldson, Priebke parlò apertamente del proprio coinvolgimento nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, dimostrando scarso rimorso per le proprie azioni. La trasmissione diede nuovo impeto all’azione di alcuni funzionari, sia in Argentina che in Italia, affinché il caso contro di lui e contro il suo collega e ufficiale delle SS Karl Hass venisse riaperto. Nel 1995 le autorità giudiziarie italiane e tedesche collaborarono per facilitare l’estradizione di Priebke in Italia.
Nonostante alcune udienze preliminari avessero giudicato il reato prescritto, Priebke e Hass vennero alla fine processati in Italia, nel 1997. Il tribunale italiano condannò entrambi, Priebke a quindici anni e Hass a dieci, ma a causa degli anni già trascorsi in prigione, Hass venne liberato subito e la condanna a Priebke fu ridotta. Priebke e il suo avvocato si appellarono e, come risultato, la corte d’appello militare italiana iniziò un nuovo processo nel 1998, al termine del quale Priebke venne condannato all’ergastolo.
Priebke è morto a Roma nel 2013 all'età di 100 anni. Il luogo di sepoltura è attualmente segreto di Stato.
Il luogo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, alla periferia di Roma, è oggi monumento nazionale in ricordo delle vittime.
Il 24 marzo 1944 avvenne a Roma l'eccidio delle fosse ardeatine, come rappresaglia dell'attentato partigiano avvenuto il giorno precedente.
ll 23 Marzo 1944 – giorno del 25° anniversario della fondazione del Partito Fascista di Mussolini – 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, proprio mentre passava una colonna di militari tedeschi.
I partigiani, che erano legati al movimento clandestino comunista italiano, riuscirono poi ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla che si era radunata sul luogo dell’attentato. L’unità militare che era stata presa di mira - un battaglione appartenente all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di Polizia Bozen - era composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dalla zona del Sud Tirolo, precedentemente appartenuta all’Austria, poi annessa all’Italia con il trattato di St. Germain nel 1919 e infine passata sotto il controllo della Germania quando i Tedeschi avevano occupato l’Italia, nel 1943.
Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni seguenti. Il bilancio finale fu poi di 42 militari uccisi e di alcuni feriti tra i civili presenti al momento dell’attentato.
La sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata - la cui giurisdizione comprendeva anche Roma - approvò la proposta.
Si racconta che quando a Hitler venne comunicata la notizia dell’uccisione dei militari, quella sera, egli reagì ordinando la distruzione totale di Roma. Successivamente, gli imputati accusati del massacro, dopo la guerra, testimoniarono come Hitler avesse perlomeno espresso parere pienamente favorevole al piano di Kappler e Mälzer. Tuttavia, altre prove storiche portano a pensare che Hitler abbia perso presto interesse per tutta la questione, lasciando la decisione finale al Colonnello Generale Alfred Jodl, in quel momento Comandante del Personale Operativo degli Alti Comandi delle Forze Armate (Oberkommando der Wehrmacht, or OKW).
Qualunque fosse il livello di coinvolgimento da parte di Hitler, il Maresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo dell’Esercito schierato a Sud, presumibilmente interpretò la reazione iniziale di Hitler come segno del suo appoggio e della sua autorizzazione alla rappresaglia proposta subito dopo l’attentato.
Il giorno seguente, 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Le Fosse Ardeatine, che originariamente facevano parte del sistema di catacombe cristiane, vennero scelte per poter eseguire la rappresaglia in segreto e per occultare i cadaveri delle vittime.
Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia.
Per questa ragione, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I Tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 57 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici.
Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri.
I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.
Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi per non sprecare spazio.
Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.
Dopo la fine della guerra le autorità alleate processarono alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine.
Nel 1945, un tribunale inglese processò il Generale von Mackensen e il generale Mälzer per la parte avuta nel massacro e li condannò a morte. Entrambi fecero appello per ridurre la pena e vinsero. Von Mackensen venne rilasciato nel 1952. Mälzer invece morì in prigione quello stesso anno.
Nel 1947, un tribunale britannico riunito a Venezia condannò a morte il Maresciallo Kesselring sia per l’eccidio, sia per aver incoraggiato l’uccisione di civili. Nel 1952, tuttavia, Kesselring fu graziato.
Nel 1948, un tribunale militare italiano condannò anche Herbert Kappler all’ergastolo per il ruolo avuto nell’eccidio. Nel 1977, la moglie di Kappler riuscì a far fuggire il marito, malato terminale di cancro, da un ospedale prigione a Roma e a farlo tornare in Germania. Le autorità dell’allora Repubblica Federale Tedesca si rifiutarono di estradare Kappler a causa della sua salute ed egli morì l’anno seguente.
Erich Priebke trascorse i mesi immediatamente successivi alla fine della guerra prigioniero degli Inglesi, ma riuscì poi a fuggire e a rifugiarsi in Argentina, dove visse per quasi cinquant’anni da uomo libero. Nel 1994, durante un’intervista con il giornalista dell’ABC, Sam Donaldson, Priebke parlò apertamente del proprio coinvolgimento nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, dimostrando scarso rimorso per le proprie azioni. La trasmissione diede nuovo impeto all’azione di alcuni funzionari, sia in Argentina che in Italia, affinché il caso contro di lui e contro il suo collega e ufficiale delle SS Karl Hass venisse riaperto. Nel 1995 le autorità giudiziarie italiane e tedesche collaborarono per facilitare l’estradizione di Priebke in Italia.
Nonostante alcune udienze preliminari avessero giudicato il reato prescritto, Priebke e Hass vennero alla fine processati in Italia, nel 1997. Il tribunale italiano condannò entrambi, Priebke a quindici anni e Hass a dieci, ma a causa degli anni già trascorsi in prigione, Hass venne liberato subito e la condanna a Priebke fu ridotta. Priebke e il suo avvocato si appellarono e, come risultato, la corte d’appello militare italiana iniziò un nuovo processo nel 1998, al termine del quale Priebke venne condannato all’ergastolo.
Priebke è morto a Roma nel 2013 all'età di 100 anni. Il luogo di sepoltura è attualmente segreto di Stato.
Il luogo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, alla periferia di Roma, è oggi monumento nazionale in ricordo delle vittime.
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martedì 23 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 marzo.
Il 23 marzo 1853 Elisha Otis installa il primo ascensore della storia all'interno di un palazzo.
L’ascensore è oggi, dopo l’automobile, il mezzo di trasporto più diffuso al mondo. Un dispositivo sicuro ed efficiente che consideriamo moderno. Ma la storia dei dispositivi di sollevamento risale addirittura al terzo secolo a.c.
I primi ascensori rudimentali si trovavano nel Foro romano, dove un sistema di gallerie era servito da dodici elevatori e ciascuno veniva mosso da un argano ad asse verticale azionato da quattro uomini. Anche nel Colosseo, per sollevare i gladiatori e gli animali nell’arena, furono realizzati diversi montacarichi. In seguito gli ascensori furono usati anche nel palazzo di Versailles, in particolare da Luigi XV che ne fece costruire uno per consentire le mosse furtive della sua amante. Chiamato “chaise volante”, sedia volante, questo ascensore è stato rimosso dal suo successore, il Marchese di Pompidour nel 1751.
Ma la vera storia degli elevatori a noi nota risale all’inizio del XIX secolo, quando in Europa si diffuse l’uso di ascensori idraulici per impiego industriale. In questi impianti la cabina era montata su uno stantuffo in acciaio che terminava in un cilindro incassato al suolo. L’acqua veniva spinta nel cilindro in condizioni di pressione elevata e raggiungeva lo stantuffo, provocando il sollevamento della cabina, che poi scendeva per effetto della gravità. Nei primi impianti la valvola principale, che regolava il flusso d’acqua, veniva attivata manualmente attraverso delle funi che attraversavano la cabina. Successivamente furono introdotti il comando a leva e le valvole pilota che regolavano l’accelerazione e la decelerazione.
La vera svolta nella storia dell’elevatore avvenne nel 1853, quando l’inventore statunitense Elisha Otis presentò al Crystal Palace di New York un ascensore dotato di un sistema di sicurezza in grado di bloccare la caduta della cabina in caso di rottura della fune di sollevamento. In questi primi impianti un motore a vapore era collegato mediante cinghia e ingranaggi a un tamburo rotante sul quale era avvolta la fune di sollevamento.
Con Wener Von Siemens nasce l’ascensore elettrico, in cui un motore azionato elettricamente faceva ruotare un tamburo dove si avvolgeva la fune di trazione. Verso la fine dell’ottocento gli elevatori elettrici dotati di trasmissione con vite elicoidale tra motore e argano divennero di largo uso, tranne che per gli edifici alti. Infatti nell’ascensore ad argano la lunghezza della fune di sollevamento e di conseguenza l’altezza che la cabina poteva raggiungere erano limitate dalle dimensioni dell’argano stesso. Tuttavia i vantaggi dell’ascensore elettrico spinsero gli inventori a cercare una soluzione che consentisse di utilizzare gli ascensori anche nei grattacieli. Questa necessità era dovuta all’improvviso aumento di concentrazione degli abitanti nei grandi agglomerati urbani nella costa orientale degli Stati Uniti, che determinò un’impennata dei costi dei terreni edificabili. Di conseguenza, aumentando l’altezza degli edifici, i costruttori avrebbero avuto a disposizione una maggiore quantità di superficie abitativa vendibile. La soluzione che rese possibili l’impiego dell’elevatore in edifici alti si rivelò essere la presenza di contrappesi in grado di generare trazione sulle funi in senso opposto rispetto alla cabina.
L’ascensore gearless, nato nei primissimi anni del novecento, permise la proliferazione di costruzioni d’altezza elevata. Questo elevatore differisce dagli altri in quanto usa un motore a bassa velocità direttamente collegato alla puleggia di trazione senza la necessità di usare un sistema d’ingranaggi per ridurre la velocità del motore. Il risultato è una macchina di grande semplicità, ideale per l’utilizzo ad alte velocità. La dimostrazione di come l’ascensore sia penetrato sin dall’inizio nella società è data da Albert Einstein, che nella sua opera intitolata “I fondamenti della relatività generale” usa l’esempio dell’ascensore per descrivere concetti di fisica.
Le tappe più importanti nell'evoluzione dell'ascensore possono essere considerate quelle dell'abolizione del manovratore nel 1924, e successivamente l'introduzione delle porte ad apertura automatica al posto di quelle manuali. Notevoli progressi si sono registrati anche nel campo dei "quadri di manovra", deputati al controllo e alla gestione dell'impianto. Superati gli obsoleti pannelli elettromeccanici senza particolare flessibilità di funzionamento, i moderni sistemi elettronici con microprocessori consentono un esercizio adattabile ad ogni genere di edificio ed utilizzo.
Fra le ultime evoluzioni citiamo:
la regolazione elettronica della velocità: oltre a rendere estremamente dolci le fasi di avvio e fermata della cabina, permettono l'arresto della stessa esattamente in corrispondenza del piano. Questa è inoltre una condizione necessaria al soddisfacimento delle ultime norme in materia di sicurezza;
l'eliminazione del "vano o locale macchina" mediante lo spostamento di motore, argano e apparecchiature di comando - realizzati in forma molto compatta - all'interno del vano di corsa per risparmiare spazio all'interno dell'edificio;
la riduzione degli spazi verticali di sicurezza nel vano ascensore, in alto e/o in basso, in modo da ridurre gli ingombri verticali dell'ascensore nell'edificio, specie se preesistente.
Il 23 marzo 1853 Elisha Otis installa il primo ascensore della storia all'interno di un palazzo.
L’ascensore è oggi, dopo l’automobile, il mezzo di trasporto più diffuso al mondo. Un dispositivo sicuro ed efficiente che consideriamo moderno. Ma la storia dei dispositivi di sollevamento risale addirittura al terzo secolo a.c.
I primi ascensori rudimentali si trovavano nel Foro romano, dove un sistema di gallerie era servito da dodici elevatori e ciascuno veniva mosso da un argano ad asse verticale azionato da quattro uomini. Anche nel Colosseo, per sollevare i gladiatori e gli animali nell’arena, furono realizzati diversi montacarichi. In seguito gli ascensori furono usati anche nel palazzo di Versailles, in particolare da Luigi XV che ne fece costruire uno per consentire le mosse furtive della sua amante. Chiamato “chaise volante”, sedia volante, questo ascensore è stato rimosso dal suo successore, il Marchese di Pompidour nel 1751.
Ma la vera storia degli elevatori a noi nota risale all’inizio del XIX secolo, quando in Europa si diffuse l’uso di ascensori idraulici per impiego industriale. In questi impianti la cabina era montata su uno stantuffo in acciaio che terminava in un cilindro incassato al suolo. L’acqua veniva spinta nel cilindro in condizioni di pressione elevata e raggiungeva lo stantuffo, provocando il sollevamento della cabina, che poi scendeva per effetto della gravità. Nei primi impianti la valvola principale, che regolava il flusso d’acqua, veniva attivata manualmente attraverso delle funi che attraversavano la cabina. Successivamente furono introdotti il comando a leva e le valvole pilota che regolavano l’accelerazione e la decelerazione.
La vera svolta nella storia dell’elevatore avvenne nel 1853, quando l’inventore statunitense Elisha Otis presentò al Crystal Palace di New York un ascensore dotato di un sistema di sicurezza in grado di bloccare la caduta della cabina in caso di rottura della fune di sollevamento. In questi primi impianti un motore a vapore era collegato mediante cinghia e ingranaggi a un tamburo rotante sul quale era avvolta la fune di sollevamento.
Con Wener Von Siemens nasce l’ascensore elettrico, in cui un motore azionato elettricamente faceva ruotare un tamburo dove si avvolgeva la fune di trazione. Verso la fine dell’ottocento gli elevatori elettrici dotati di trasmissione con vite elicoidale tra motore e argano divennero di largo uso, tranne che per gli edifici alti. Infatti nell’ascensore ad argano la lunghezza della fune di sollevamento e di conseguenza l’altezza che la cabina poteva raggiungere erano limitate dalle dimensioni dell’argano stesso. Tuttavia i vantaggi dell’ascensore elettrico spinsero gli inventori a cercare una soluzione che consentisse di utilizzare gli ascensori anche nei grattacieli. Questa necessità era dovuta all’improvviso aumento di concentrazione degli abitanti nei grandi agglomerati urbani nella costa orientale degli Stati Uniti, che determinò un’impennata dei costi dei terreni edificabili. Di conseguenza, aumentando l’altezza degli edifici, i costruttori avrebbero avuto a disposizione una maggiore quantità di superficie abitativa vendibile. La soluzione che rese possibili l’impiego dell’elevatore in edifici alti si rivelò essere la presenza di contrappesi in grado di generare trazione sulle funi in senso opposto rispetto alla cabina.
L’ascensore gearless, nato nei primissimi anni del novecento, permise la proliferazione di costruzioni d’altezza elevata. Questo elevatore differisce dagli altri in quanto usa un motore a bassa velocità direttamente collegato alla puleggia di trazione senza la necessità di usare un sistema d’ingranaggi per ridurre la velocità del motore. Il risultato è una macchina di grande semplicità, ideale per l’utilizzo ad alte velocità. La dimostrazione di come l’ascensore sia penetrato sin dall’inizio nella società è data da Albert Einstein, che nella sua opera intitolata “I fondamenti della relatività generale” usa l’esempio dell’ascensore per descrivere concetti di fisica.
Le tappe più importanti nell'evoluzione dell'ascensore possono essere considerate quelle dell'abolizione del manovratore nel 1924, e successivamente l'introduzione delle porte ad apertura automatica al posto di quelle manuali. Notevoli progressi si sono registrati anche nel campo dei "quadri di manovra", deputati al controllo e alla gestione dell'impianto. Superati gli obsoleti pannelli elettromeccanici senza particolare flessibilità di funzionamento, i moderni sistemi elettronici con microprocessori consentono un esercizio adattabile ad ogni genere di edificio ed utilizzo.
Fra le ultime evoluzioni citiamo:
la regolazione elettronica della velocità: oltre a rendere estremamente dolci le fasi di avvio e fermata della cabina, permettono l'arresto della stessa esattamente in corrispondenza del piano. Questa è inoltre una condizione necessaria al soddisfacimento delle ultime norme in materia di sicurezza;
l'eliminazione del "vano o locale macchina" mediante lo spostamento di motore, argano e apparecchiature di comando - realizzati in forma molto compatta - all'interno del vano di corsa per risparmiare spazio all'interno dell'edificio;
la riduzione degli spazi verticali di sicurezza nel vano ascensore, in alto e/o in basso, in modo da ridurre gli ingombri verticali dell'ascensore nell'edificio, specie se preesistente.
lunedì 22 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 marzo.
Il 22 marzo 1944 si consumò l’“eccidio di Montalto”. Ventisette uomini tra partigiani di vecchia data e giovani giunti in montagna da meno di un mese persero la vita per mano di un reparto del battaglione M – IX Settembre, inquadrato nella divisione tedesca Brandenburg.
Ancora oggi è opinione diffusa che si sia trattato di una rappresaglia, volta a vendicare l’episodio di violenza avvenuto a Muccia un mese prima, il 23 febbraio. In realtà, per comprendere la natura e le ragioni di questa strage, è necessario inserirla nel contesto politico-militare delle Marche.
Essa avvenne nel corso dell’offensiva nazifascista che tra il mese di marzo e quello di aprile si dispiegò nelle provincie meridionali: dopo Rovetino, Pozza e Umito, le operazioni di rastrellamento continuarono nel territorio maceratese tra Caldarola e Sarnano. Dal punto di vista militare si trattava di una zona strategica, importante al fine dei collegamenti con il fronte di Anzio. Per questo appariva necessario stroncare le formazioni partigiane che vi operavano, spesso compiendo azioni di disturbo e di sabotaggio ai danni dei convogli tedeschi. Oltre a rientrare tra le cosiddette operazioni militari preventive, l’eccidio di Montalto aveva anche l’obbiettivo di impressionare e terrorizzare la popolazione locale, minando le basi d’appoggio per i partigiani e costringere i giovani a presentarsi ai bandi di leva o come forza lavoro da inviare in Germania.
Proprio nei primi giorni di marzo e a ridosso della scadenza del bando Graziani, un gruppo di ragazzi intorno ai vent’anni e, nella maggior parte, originari di Tolentino, decisero di partire per la montagna. Indirizzati dal parroco tolentinate don Luciano Piergentili e dal CLN di Tolentino, si stabilirono a Montalto di Cessapalombo, alcuni alla “casa della comunità” e altri alla scuola. Nelle poche settimane che passarono tra le fila della resistenza, dovettero affrontare non pochi problemi organizzativi e logistici, come la ricerca di vitto sufficiente per tutti, spesso raggiunto grazie all’aiuto della popolazione locale, e la mancanza quasi totale di armi, purtroppo mai colmata. Al momento della strage, si trattava ancora di un gruppo in formazione.
Dal 19 marzo, in seguito allo scontro di Caldarola e alla conseguente cattura di una dozzina di partigiani, tra cui alcuni dei giovani di Montalto, la situazione si fece sempre più critica. Nelle ore seguenti si diffuse la notizia dell’accaduto e si susseguirono gli allarmi di un prossimo rastrellamento della zona. In una catena di ordini e contrordini impartiti dal CLN di Macerata e dal Comando di Vestignano, alla fine il gruppo di Montalto non venne trasferito e non furono prese neppure misure precauzionali aggiuntive. Così, in un clima di attesa e speranza, si arrivò all’alba del 22 marzo quando un’ottantina di soldati tra fascisti e tedeschi, guidati dal comandante Giulio Grassano e dal tenente Fischer, si mossero davvero verso la zona interessata. Con loro erano anche i sei partigiani che, catturati a Caldarola, erano stati condannati a morte, e don Antonio Salvatori che, incontrato lungo la strada e apostrofato come il prete dei ribelli, venne fatto salire sul camion e fu costretto ad assistere all’esecuzione.
Intorno alle 7 iniziò il rastrellamento. I giovani partigiani furono allertati dagli spari della sentinella e, in tutta fretta, cominciarono a correre verso Vestignano, secondo gli ordini ricevuti dal Comando. Ma proprio lì, c’erano ad attenderli due camion pieni di soldati. Lungo il tragitto caddero Nicola Peramezza, Mario Ramundo, Guidobaldo Orizi e Lauro Cappellacci. Alcuni riuscirono a sfuggire alla cattura nascondendosi nei luoghi più disparati, ma tutti gli altri furono radunati e ricondotti verso la mulattiera sotto Montalto. Fu preso anche il comandante Achille Barilatti, da qualche giorno posto alla loro guida. Cominciò la fucilazione e di quattro in quattro, anche i catturati a Caldarola, si trovarono sotto il plotone di esecuzione. Verso la fine il tenente Fischer la sospese, probabilmente non per uno slancio di umanità, ma per ragioni pratiche: la strada era ingombra di cadaveri e i camion che dovevano muoversi erano impossibilitati a farlo, quindi si doveva procedere immediatamente con lo spostamento dei corpi. In questo modo furono risparmiati Marcello Muscolini, Aroldo Ragaini, Alberto Pretese, Carlo Manente ed Elvio Verdinelli. Si salvò anche uno dei fucilati, Nello Salvatori, che gravemente ferito si finse morto e attese per tre ore che i soldati se ne andassero: ≪Si saranno forse accorti di me che sono vivo? Mi daranno il colpo di grazia? Riconcentro tutto me stesso a comparire morto. Altri fucilati mi cadono bruscamente sopra, e sento di qualcuno l’ultimo respiro…≫ (La tragedia di Montalto 1945, p.17-18). Le salme dei caduti furono trasferite nella cappella del cimitero di Montalto per poi essere lì tumulate. Solo dopo la Liberazione, vennero riportati a Tolentino nel corso di una solenne cerimonia cui partecipò l’intera cittadinanza.
Nella giornata del 22 marzo morirono tra Vestignano e Montalto trenta giovani. Il comandante Barilatti sarà ucciso il giorno successivo presso le mura del cimitero di Muccia.
Al Comune di Cessapalombo è stata concessa la Croce al valor militare con la seguente motivazione: ≪Durante l’occupazione tedesca il Comune di Cessapalombo dimostrava in difficili circostanze, ferma patriottica decisione. Particolarmente meritevole di elogio il contegno tenuto dalle popolazioni di Montalto e Monastero che rifornivano di viveri, armi e munizioni i partigiani e partecipavano anche, con i loro uomini, ai combattimenti del marzo e del maggio. Settembre 1943 – Giugno 1944≫. Per volontà del Comitato dei genitori dei caduti e delle amministrazioni comunali di Tolentino, Caldarola e Cessapalombo sul luogo della strage fu costruito un monumento che onorasse la loro memoria, inaugurato nel terzo anniversario della morte. Dal 2003 si tiene ogni anno una marcia commemorativa attraverso cui si ripercorrono i luoghi della tragedia da Caldarola a Montalto.
Il 22 marzo 1944 si consumò l’“eccidio di Montalto”. Ventisette uomini tra partigiani di vecchia data e giovani giunti in montagna da meno di un mese persero la vita per mano di un reparto del battaglione M – IX Settembre, inquadrato nella divisione tedesca Brandenburg.
Ancora oggi è opinione diffusa che si sia trattato di una rappresaglia, volta a vendicare l’episodio di violenza avvenuto a Muccia un mese prima, il 23 febbraio. In realtà, per comprendere la natura e le ragioni di questa strage, è necessario inserirla nel contesto politico-militare delle Marche.
Essa avvenne nel corso dell’offensiva nazifascista che tra il mese di marzo e quello di aprile si dispiegò nelle provincie meridionali: dopo Rovetino, Pozza e Umito, le operazioni di rastrellamento continuarono nel territorio maceratese tra Caldarola e Sarnano. Dal punto di vista militare si trattava di una zona strategica, importante al fine dei collegamenti con il fronte di Anzio. Per questo appariva necessario stroncare le formazioni partigiane che vi operavano, spesso compiendo azioni di disturbo e di sabotaggio ai danni dei convogli tedeschi. Oltre a rientrare tra le cosiddette operazioni militari preventive, l’eccidio di Montalto aveva anche l’obbiettivo di impressionare e terrorizzare la popolazione locale, minando le basi d’appoggio per i partigiani e costringere i giovani a presentarsi ai bandi di leva o come forza lavoro da inviare in Germania.
Proprio nei primi giorni di marzo e a ridosso della scadenza del bando Graziani, un gruppo di ragazzi intorno ai vent’anni e, nella maggior parte, originari di Tolentino, decisero di partire per la montagna. Indirizzati dal parroco tolentinate don Luciano Piergentili e dal CLN di Tolentino, si stabilirono a Montalto di Cessapalombo, alcuni alla “casa della comunità” e altri alla scuola. Nelle poche settimane che passarono tra le fila della resistenza, dovettero affrontare non pochi problemi organizzativi e logistici, come la ricerca di vitto sufficiente per tutti, spesso raggiunto grazie all’aiuto della popolazione locale, e la mancanza quasi totale di armi, purtroppo mai colmata. Al momento della strage, si trattava ancora di un gruppo in formazione.
Dal 19 marzo, in seguito allo scontro di Caldarola e alla conseguente cattura di una dozzina di partigiani, tra cui alcuni dei giovani di Montalto, la situazione si fece sempre più critica. Nelle ore seguenti si diffuse la notizia dell’accaduto e si susseguirono gli allarmi di un prossimo rastrellamento della zona. In una catena di ordini e contrordini impartiti dal CLN di Macerata e dal Comando di Vestignano, alla fine il gruppo di Montalto non venne trasferito e non furono prese neppure misure precauzionali aggiuntive. Così, in un clima di attesa e speranza, si arrivò all’alba del 22 marzo quando un’ottantina di soldati tra fascisti e tedeschi, guidati dal comandante Giulio Grassano e dal tenente Fischer, si mossero davvero verso la zona interessata. Con loro erano anche i sei partigiani che, catturati a Caldarola, erano stati condannati a morte, e don Antonio Salvatori che, incontrato lungo la strada e apostrofato come il prete dei ribelli, venne fatto salire sul camion e fu costretto ad assistere all’esecuzione.
Intorno alle 7 iniziò il rastrellamento. I giovani partigiani furono allertati dagli spari della sentinella e, in tutta fretta, cominciarono a correre verso Vestignano, secondo gli ordini ricevuti dal Comando. Ma proprio lì, c’erano ad attenderli due camion pieni di soldati. Lungo il tragitto caddero Nicola Peramezza, Mario Ramundo, Guidobaldo Orizi e Lauro Cappellacci. Alcuni riuscirono a sfuggire alla cattura nascondendosi nei luoghi più disparati, ma tutti gli altri furono radunati e ricondotti verso la mulattiera sotto Montalto. Fu preso anche il comandante Achille Barilatti, da qualche giorno posto alla loro guida. Cominciò la fucilazione e di quattro in quattro, anche i catturati a Caldarola, si trovarono sotto il plotone di esecuzione. Verso la fine il tenente Fischer la sospese, probabilmente non per uno slancio di umanità, ma per ragioni pratiche: la strada era ingombra di cadaveri e i camion che dovevano muoversi erano impossibilitati a farlo, quindi si doveva procedere immediatamente con lo spostamento dei corpi. In questo modo furono risparmiati Marcello Muscolini, Aroldo Ragaini, Alberto Pretese, Carlo Manente ed Elvio Verdinelli. Si salvò anche uno dei fucilati, Nello Salvatori, che gravemente ferito si finse morto e attese per tre ore che i soldati se ne andassero: ≪Si saranno forse accorti di me che sono vivo? Mi daranno il colpo di grazia? Riconcentro tutto me stesso a comparire morto. Altri fucilati mi cadono bruscamente sopra, e sento di qualcuno l’ultimo respiro…≫ (La tragedia di Montalto 1945, p.17-18). Le salme dei caduti furono trasferite nella cappella del cimitero di Montalto per poi essere lì tumulate. Solo dopo la Liberazione, vennero riportati a Tolentino nel corso di una solenne cerimonia cui partecipò l’intera cittadinanza.
Nella giornata del 22 marzo morirono tra Vestignano e Montalto trenta giovani. Il comandante Barilatti sarà ucciso il giorno successivo presso le mura del cimitero di Muccia.
Al Comune di Cessapalombo è stata concessa la Croce al valor militare con la seguente motivazione: ≪Durante l’occupazione tedesca il Comune di Cessapalombo dimostrava in difficili circostanze, ferma patriottica decisione. Particolarmente meritevole di elogio il contegno tenuto dalle popolazioni di Montalto e Monastero che rifornivano di viveri, armi e munizioni i partigiani e partecipavano anche, con i loro uomini, ai combattimenti del marzo e del maggio. Settembre 1943 – Giugno 1944≫. Per volontà del Comitato dei genitori dei caduti e delle amministrazioni comunali di Tolentino, Caldarola e Cessapalombo sul luogo della strage fu costruito un monumento che onorasse la loro memoria, inaugurato nel terzo anniversario della morte. Dal 2003 si tiene ogni anno una marcia commemorativa attraverso cui si ripercorrono i luoghi della tragedia da Caldarola a Montalto.
domenica 21 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 marzo.
Il 21 marzo è convenzionalmente considerato il primo giorno di primavera; nella notte tra il 20 e il marzo infatti ha luogo l'equinozio.
L’Equinozio di primavera, come quello d’autunno, è uno dei due momenti dell’anno in cui giorno e notte sono in perfetto equilibrio (la parola equinozio deriva dal latino “aequus nox”, notte uguale).
Astronomicamente l’equinozio di primavera (chiamato anche Vernale) è il momento in cui il sole si trova al di sopra dell’equatore celeste.
L’Equinozio d’autunno segna l’inizio della metà oscura dell’anno e quello di primavera l’esatto opposto: è l’inizio della metà luminosa, quando le ore di luce superano le ore di buio. E’ il primo giorno della primavera, la stagione della rinascita, associata presso varie culture a concetti come fertilità, resurrezione, inizio.
Le antiche tradizioni ci offrono infatti tutta una serie di miti legati alla primavera, che hanno al loro centro l'idea di un sacrificio a cui succede una rinascita.
Un mito che mostra bene l'idea di un sacrificio e di una successiva rinascita è quello frigio di Attis e Cibele: Attis, bellissimo giovane nato dal sangue della dea Cibele e da questa amato, voleva abbandonarla per sposare una donna mortale. Cibele lo fece impazzire ed egli si evirò morendo dissanguato. Dal suo sangue nacquero viole e mammole. Gli dei, non potendolo resuscitare, lo trasformarono in un pino sempreverde.
Dopo l'Equinozio, si svolgevano nel mondo ellenico le Adonìe, feste della resurrezione di Adone, bellissimo giovane amato dalla dea Afrodite che venne ucciso da un cinghiale (forse il dio Ares ingelosito).
Adone era in realtà il dio assiro-babilonese Tammuz, a cui i fedeli si rivolgevano chiamandolo "Adon" (Signore). Egli dimorava sei mesi all'anno negli inferi, come il sole quando si trova al di sotto dell'equatore celeste (autunno e inverno). Si festeggiava a primavera la sua risalita alla luce quando si ricongiungeva alla dea Ishtar, l'equivalente dell'Afrodite greca. Allo stesso modo si festeggiava Persefone che ritorna nel mondo dopo aver trascorso sei mesi nel regno dei morti.
Tutti questi miti ci mostrano l'unione di un simbolismo celeste (il cammino del sole nel cielo) e un simbolismo terrestre (il risveglio della Natura) in cui riecheggia il tema del matrimonio fra una divinità maschile, celeste o solare, ed una femminile, legata alla terra o alla luna. La primavera era infatti la stagione degli accoppiamenti rituali, delle nozze sacre in cui il Dio e la Dea (personificati spesso da un sacerdote e da una sacerdotessa) si accoppiavano per propiziare la fertilità.
Venivano accesi dei fuochi rituali sulle colline e, secondo la tradizione, che peraltro è rimasta ancora oggi nel folklore europeo, più a lungo rimanevano accesi, più fruttifera sarebbe stata la terra.
Questi riti avevano un particolare valore soprattutto nel paganesimo dell’area mediterranea dove già all’equinozio il ritorno della bella stagione e il rinnovarsi della natura è evidente. Per i popoli nordici, come i Celti,la ricorrenza primaverile più importante era Beltane che si celebrava nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio.
Come molte delle antiche festività pagane, anche l’Equinozio di Primavera fu cristianizzato: la prima domenica dopo la prima luna piena che segue l’Equinozio (data fissata nel IV°secolo D.C.), i cristiani celebrano la Pasqua commemorando la resurrezione di Cristo avvenuta proprio durante la festività ebraica così denominata che ricorda l'esodo del popolo di Israele dall'Egitto.
Ma nei simboli e nelle tradizioni collegate a questa festa sono evidenti i ricordi di altre e ben più antiche festività poi cancellate dal Cristianesimo con una vera e propria opera di sincretismo.
Il termine "Easter" con cui in inglese si designa la Pasqua ci riporta ad una antica divinità pagana dei popoli nordici, la dea Eostre, assimilabile a Venere, Afrodite e Ishtar, la quale presiedeva ad antichi culti legati al sopraggiungere della primavera e alla fertilità dei campi.
I popoli Celti denominavano l’equinozio di Primavera “Eostur-Monath” e successivamente “Ostara”.
Il nome sembrerebbe provenire da aus o aes e cioè Est, e infatti si tratta di una divinità legata al sole nascente e al suo calore. E del resto il tema dei fuochi e del ritorno dell’astro sarà un tema ricorrente nel prosieguo delle tradizioni pasquali.
A Eostre era sacra la lepre, simbolo di fertilità e animale sacro in molte tradizioni. I Britanni associavano la lepre alle divinità della luna e della caccia e i Celti la consideravano un animale divinatorio.
Si dice che i disegni sulla superficie della luna piena raffigurino una lepre, ricordo questo dell'associazione dell'animale con divinità lunari. Questa raffigurazione della "lepre nella luna" appare nelle tradizioni cinesi, europee, africane e indiane. Nella tradizione buddhista le leggende narrano di come una lepre si sacrificasse per nutrire il Buddha affamato, balzando nel fuoco. In segno di gratitudine il Buddha impresse l'immagine dell'animale sulla luna. In Cina la lepre lunare ha un pestello ed un mortaio con cui prepara un elisir di immortalità. Gli Indiani Algonchini adoravano la Grande Lepre che si diceva avesse creato la Terra. Nell'antica Europa i Norvegesi rappresentavano le Divinità lunari accompagnate da una processione di lepri che portano lanterne. Anche la Dea Freya aveva come inservienti delle lepri e la stessa Dea Eostre era raffigurata con una testa di lepre.
La lepre di Eostre, che deponeva l'uovo della nuova vita per annunciare la rinascita dell'anno, è diventata l'odierno coniglio di Pasqua che porta in dono le uova, altro simbolo di fertilità.
Così le uova pasquali si ricollegano alle tradizioni pagane in cui si celebrava il ritorno della dea andando a scambiarsi uova “sacre” sotto l’albero ritenuto “magico” del villaggio, usanza che collega Eostre alle divinità arboree della fertilità.
E l'uovo non è scelto a caso ma è da sempre simbolo di vita, di creazione, di rinascita.
Per il primitivo raccoglitore e cacciatore la primavera portava gli uccelli a deporre le proprie uova e dunque ad avere un nuovo sostentamento dopo l’austerità dell’inverno.
E la nascita del mondo da un uovo cosmico è un'idea universalmente diffusa che veniva celebrata presso molte civiltà alla festa equinoziale di primavera, quando la natura risorge.
Infatti in numerose mitologie un uovo primordiale, embrione e germe di vita, è il primo essere ad emergere dal Caos: è l'"Uovo del mondo" covato da una Grande Dea e dischiuso dal Dio Sole. Un mito dell'India narra che nella notte dei tempi tutto era immerso nelle tenebre e sepolto in un sonno profondo. L'Assoluto volle creare il cosmo dalla propria sostanza, così creò le acque e vi depose a galleggiare un uovo splendente il quale generò al proprio interno Brahma, il Creatore, che divise poi l'uovo stesso in due parti, formando la terra e il cielo.
Il 21 marzo è convenzionalmente considerato il primo giorno di primavera; nella notte tra il 20 e il marzo infatti ha luogo l'equinozio.
L’Equinozio di primavera, come quello d’autunno, è uno dei due momenti dell’anno in cui giorno e notte sono in perfetto equilibrio (la parola equinozio deriva dal latino “aequus nox”, notte uguale).
Astronomicamente l’equinozio di primavera (chiamato anche Vernale) è il momento in cui il sole si trova al di sopra dell’equatore celeste.
L’Equinozio d’autunno segna l’inizio della metà oscura dell’anno e quello di primavera l’esatto opposto: è l’inizio della metà luminosa, quando le ore di luce superano le ore di buio. E’ il primo giorno della primavera, la stagione della rinascita, associata presso varie culture a concetti come fertilità, resurrezione, inizio.
Le antiche tradizioni ci offrono infatti tutta una serie di miti legati alla primavera, che hanno al loro centro l'idea di un sacrificio a cui succede una rinascita.
Un mito che mostra bene l'idea di un sacrificio e di una successiva rinascita è quello frigio di Attis e Cibele: Attis, bellissimo giovane nato dal sangue della dea Cibele e da questa amato, voleva abbandonarla per sposare una donna mortale. Cibele lo fece impazzire ed egli si evirò morendo dissanguato. Dal suo sangue nacquero viole e mammole. Gli dei, non potendolo resuscitare, lo trasformarono in un pino sempreverde.
Dopo l'Equinozio, si svolgevano nel mondo ellenico le Adonìe, feste della resurrezione di Adone, bellissimo giovane amato dalla dea Afrodite che venne ucciso da un cinghiale (forse il dio Ares ingelosito).
Adone era in realtà il dio assiro-babilonese Tammuz, a cui i fedeli si rivolgevano chiamandolo "Adon" (Signore). Egli dimorava sei mesi all'anno negli inferi, come il sole quando si trova al di sotto dell'equatore celeste (autunno e inverno). Si festeggiava a primavera la sua risalita alla luce quando si ricongiungeva alla dea Ishtar, l'equivalente dell'Afrodite greca. Allo stesso modo si festeggiava Persefone che ritorna nel mondo dopo aver trascorso sei mesi nel regno dei morti.
Tutti questi miti ci mostrano l'unione di un simbolismo celeste (il cammino del sole nel cielo) e un simbolismo terrestre (il risveglio della Natura) in cui riecheggia il tema del matrimonio fra una divinità maschile, celeste o solare, ed una femminile, legata alla terra o alla luna. La primavera era infatti la stagione degli accoppiamenti rituali, delle nozze sacre in cui il Dio e la Dea (personificati spesso da un sacerdote e da una sacerdotessa) si accoppiavano per propiziare la fertilità.
Venivano accesi dei fuochi rituali sulle colline e, secondo la tradizione, che peraltro è rimasta ancora oggi nel folklore europeo, più a lungo rimanevano accesi, più fruttifera sarebbe stata la terra.
Questi riti avevano un particolare valore soprattutto nel paganesimo dell’area mediterranea dove già all’equinozio il ritorno della bella stagione e il rinnovarsi della natura è evidente. Per i popoli nordici, come i Celti,la ricorrenza primaverile più importante era Beltane che si celebrava nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio.
Come molte delle antiche festività pagane, anche l’Equinozio di Primavera fu cristianizzato: la prima domenica dopo la prima luna piena che segue l’Equinozio (data fissata nel IV°secolo D.C.), i cristiani celebrano la Pasqua commemorando la resurrezione di Cristo avvenuta proprio durante la festività ebraica così denominata che ricorda l'esodo del popolo di Israele dall'Egitto.
Ma nei simboli e nelle tradizioni collegate a questa festa sono evidenti i ricordi di altre e ben più antiche festività poi cancellate dal Cristianesimo con una vera e propria opera di sincretismo.
Il termine "Easter" con cui in inglese si designa la Pasqua ci riporta ad una antica divinità pagana dei popoli nordici, la dea Eostre, assimilabile a Venere, Afrodite e Ishtar, la quale presiedeva ad antichi culti legati al sopraggiungere della primavera e alla fertilità dei campi.
I popoli Celti denominavano l’equinozio di Primavera “Eostur-Monath” e successivamente “Ostara”.
Il nome sembrerebbe provenire da aus o aes e cioè Est, e infatti si tratta di una divinità legata al sole nascente e al suo calore. E del resto il tema dei fuochi e del ritorno dell’astro sarà un tema ricorrente nel prosieguo delle tradizioni pasquali.
A Eostre era sacra la lepre, simbolo di fertilità e animale sacro in molte tradizioni. I Britanni associavano la lepre alle divinità della luna e della caccia e i Celti la consideravano un animale divinatorio.
Si dice che i disegni sulla superficie della luna piena raffigurino una lepre, ricordo questo dell'associazione dell'animale con divinità lunari. Questa raffigurazione della "lepre nella luna" appare nelle tradizioni cinesi, europee, africane e indiane. Nella tradizione buddhista le leggende narrano di come una lepre si sacrificasse per nutrire il Buddha affamato, balzando nel fuoco. In segno di gratitudine il Buddha impresse l'immagine dell'animale sulla luna. In Cina la lepre lunare ha un pestello ed un mortaio con cui prepara un elisir di immortalità. Gli Indiani Algonchini adoravano la Grande Lepre che si diceva avesse creato la Terra. Nell'antica Europa i Norvegesi rappresentavano le Divinità lunari accompagnate da una processione di lepri che portano lanterne. Anche la Dea Freya aveva come inservienti delle lepri e la stessa Dea Eostre era raffigurata con una testa di lepre.
La lepre di Eostre, che deponeva l'uovo della nuova vita per annunciare la rinascita dell'anno, è diventata l'odierno coniglio di Pasqua che porta in dono le uova, altro simbolo di fertilità.
Così le uova pasquali si ricollegano alle tradizioni pagane in cui si celebrava il ritorno della dea andando a scambiarsi uova “sacre” sotto l’albero ritenuto “magico” del villaggio, usanza che collega Eostre alle divinità arboree della fertilità.
E l'uovo non è scelto a caso ma è da sempre simbolo di vita, di creazione, di rinascita.
Per il primitivo raccoglitore e cacciatore la primavera portava gli uccelli a deporre le proprie uova e dunque ad avere un nuovo sostentamento dopo l’austerità dell’inverno.
E la nascita del mondo da un uovo cosmico è un'idea universalmente diffusa che veniva celebrata presso molte civiltà alla festa equinoziale di primavera, quando la natura risorge.
Infatti in numerose mitologie un uovo primordiale, embrione e germe di vita, è il primo essere ad emergere dal Caos: è l'"Uovo del mondo" covato da una Grande Dea e dischiuso dal Dio Sole. Un mito dell'India narra che nella notte dei tempi tutto era immerso nelle tenebre e sepolto in un sonno profondo. L'Assoluto volle creare il cosmo dalla propria sostanza, così creò le acque e vi depose a galleggiare un uovo splendente il quale generò al proprio interno Brahma, il Creatore, che divise poi l'uovo stesso in due parti, formando la terra e il cielo.
sabato 20 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 marzo.
Il 20 marzo 1916 Albert Einstein pubblica la sua teoria della relatività generale, un'estensione della relatività ristretta con cui nel 1905 aveva minato i concetti base del pensiero comune fino ad allora considerato immodificabile.
Per poter dare un’occhiata a questa teoria ed a come essa ha rivoluzionato il mondo della fisica occorre tornare un po’ indietro nel tempo e risalire fino a Newton ed al suo problema della ricerca del sistema di riferimento assoluto. Per poter descrivere qualsiasi fenomeno fisico sotto forma di legge è necessario avere un sistema di riferimento ed occorre che tale sistema di riferimento non alteri in alcun modo la nostra descrizione del fenomeno. Nella nostra vita quotidiana siamo portati spontaneamente a fare riferimenti quando facciamo delle misure, o quando diamo delle indicazioni. Per descrivere le leggi della fisica dobbiamo definire una categoria di sistemi di riferimento, detti inerziali. Nei sistemi di riferimento inerziali vale il principio di inerzia o prima legge della dinamica che afferma che se un corpo non è soggetto a forze fisiche esso rimane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Questa definizione del principio di inerzia è dovuta a Galileo Galilei.
Un sistema non inerziale è quindi un sistema associato ad un corpo sottoposto a forze e quindi ad una accelerazione. Trovato un sistema inerziale, se ne possono definire infiniti altri purché il moto relativo di ognuno di questi sistemi sia rettilineo uniforme.
Un esempio di situazione in cui vale il principio di inerzia è il volo delle sonde spaziali nel cosmo. Una volta che queste sonde sono sfuggite alla forza di gravità della Terra, esse continuano il loro viaggio con velocità costante, la velocità che avevano nel momento in cui non subivano più la forza di gravità. Se tutti i sistemi di riferimento inerziali hanno moti relativi, ci si chiede quale è, fra tutti questi, quello che è in quiete assoluta, cioè fermo.
Il problema di Newton consisteva nel trovare un sistema inerziale in quiete assoluta e si pensò di trovare tale sistema introducendo l’esistenza dell’etere, una sorta di quasi-vuoto, trasparente, impalpabile e legato alle stelle fisse. Tutti i sistemi inerziali hanno quindi un moto rispetto all’etere anche se tale moto è costante, cioè rettilineo uniforme.
Il bisogno della ricerca dell’etere si fa più pressante quando si ha l’unificazione delle forze elettriche e magnetiche ad opera di James Clerk Maxwell. Una carica elettrica (ad esempio un elettrone) che oscilla nello spazio genera un campo elettromagnetico che si propaga sotto forma di onda piana. Il problema sta nell’individuare il mezzo di propagazione delle onde elettromagnetiche.
Le conoscenze che si avevano alla fine del secolo scorso dei fenomeni ondulatori mostravano che era necessario averne uno: le onde sonore si propagano nell’aria, mentre l’acqua propaga le perturbazioni. Per le onde elettromagnetiche il mezzo di propagazione non poteva essere il vuoto e quindi venne riesumato l’etere.
Un esperimento, molto noto, fatto nel 1887 da Michelson e Morley, eseguito proprio per misurare la velocità della Terra nell’etere, mostra inconfutabilmente che tale velocità è nulla. Sulla base di tale esperimento Einstein ipotizza che l’etere non esista e di conseguenza non esiste un sistema di riferimento assoluto: i moti sono tutti relativi. All’epoca di Einstein già si sapeva che la luce e più precisamente la radiazione elettromagnetica, si propagava con velocità finita pari a circa 300.000 km/sec.
Già verso la fine del 1600 l’astronomo danese Roemer constata che la luce ha una velocità finita. Osservando le eclissi dei satelliti di Giove nota che c’è un ritardo tra la posizione dei satelliti e la previsione. Giustamente Roemer imputa il ritardo al fatto che la luce non si propaghi istantaneamente e dà una prima valutazione della velocità della luce: circa 220.000 km/sec. Considerando l’epoca di questa misura, è un’ottima approssimazione.
Da questi presupposti Einstein enuncia i suoi postulati di relatività:
Le leggi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali;
La luce ha una velocità finita sempre uguale in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
Il secondo postulato quindi pone un limite invalicabile alle velocità in natura. Se in qualsiasi sistema di riferimento inerziale un segnale luminoso ha la stessa velocità, sarà impossibile superare tale limite. Supponiamo di trovarci su un’astronave in moto ad una velocità sostenuta. Se dall’astronave viene inviato un segnale luminoso nel verso di percorrenza dell’astronave, un osservatore fermo rispetto all’astronave dovrebbe vedere quel segnale muoversi ad una velocità pari alla somma della velocità della luce più quella dell’astronave. Il secondo postulato di relatività afferma che ciò non è vero: il segnale luminoso per l’osservatore fermo si muoverà sempre alla velocità della luce.
All’epoca di Einstein fare simili ipotesi era senz’altro azzardato, ma nel seguito i due postulati si sono dimostrati corretti tutte le volte che se n’è cercata la verifica. Da questi due postulati apparentemente semplici si deve edificare nuovamente tutta la fisica, migliorandone quelle parti che sono in contrasto coi postulati di relatività. Ciò significa che la fisica newtoniana ha una sua validità limitata al campo delle velocità molto basse rispetto alla velocità della luce. Il solo fatto di considerare la luce come una velocità limite della natura porta come immediata conseguenza l’eliminazione del concetto di tempo assoluto.
Nella fisica di Galileo e Newton il tempo scorre in modo assoluto in tutti i sistemi di riferimento; infatti un intervallo di tempo tra due eventi in un sistema di riferimento inerziale è lo stesso se misurato in un altro sistema in moto rispetto al primo. Nella relatività ristretta la situazione non è più la stessa. Per un osservatore che viaggia a velocità prossime a quelle della luce il tempo scorre più lentamente che per l’osservatore fermo. Per l’osservatore in moto l’intervallo di tempo è sempre lo stesso, cambia la sua misura quando si passa da un sistema all’altro.
Questo è dovuto al fatto che nella teoria della relatività la luce impiega tempo per collegare due punti dello spazio. Tale fenomeno è noto col nome di dilatazione del tempo. È chiaro però che nel momento in cui consideriamo eventi che si muovono a velocità molto basse rispetto a quella della luce vale la fisica classica così come la si impara a scuola.
Altra conseguenza della teoria della relatività ristretta è che un oggetto che si muove a velocità prossima a quella della luce appare ad un osservatore in quiete, più corto rispetto alla dimensione dell’oggetto medesimo in quiete. Quest’effetto noto come la contrazione delle lunghezze è un effetto che non può essere misurato direttamente, cioè non può essere verificato, a differenza del primo effetto relativistico, la dilatazione del tempo, che può essere quantificato sperimentalmente in vari modi. La dilatazione del tempo e la contrazione delle lunghezze sono le conseguenze più vistose della relatività ristretta.
Anche nel caso della teoria della relatività ristretta, come per tutte le teorie è sempre necessario che ci siano delle verifiche sperimentali. Dato che la contrazione delle lunghezze non può essere verificata, l’unico effetto realmente misurabile è la dilatazione del tempo. Tali misure vengono eseguite nei laboratori di fisica atomica dove studiando il tempo di vita delle particelle subatomiche, in quiete ed in moto, è possibile verificare appunto che le particelle in moto relativistico vivono più a lungo di quelle in quiete o comunque in moto newtoniano.
Unitamente a queste verifiche sulla dilatazione del tempo, quando una particella viene accelerata sempre più affinché raggiunga una velocità prossima a quella della luce, l’energia spesa per tale accelerazione si trasforma in massa, cioè aumenta la massa della particella in questione. Al limite, una particella che raggiunga la velocità della luce (e non sia un fotone, cioè un quanto di luce), dovrebbe avere una massa infinita.
La relazione che lega queste grandezze è la ben nota:
E = mc2
dove E è l’energia, m è la massa e c è la velocità della luce moltiplicata per se stessa due volte.
Molti altri esperimenti simili hanno sempre dimostrato la totale validità di questa teoria. Altro concetto di grande importanza nella relatività ristretta è lo “spaziotempo”: in relatività ristretta, dato che il tempo non è più assoluto, non è possibile slegare il concetto di spazio da quello di tempo. Il tempo diventa quindi un’altra coordinata da aggiungere alle tre spaziali che già conosciamo.
D’altronde anche noi in pratica usiamo quattro coordinate o quattro dimensioni nella vita di tutti i giorni. Quando fissiamo un appuntamento con una persona indichiamo un posto (tre coordinate per lo spazio) e l’ora (una coordinata per il tempo). La differenza sta nel fatto che in questa teoria si stabilisce un legame geometrico tra lo spazio e il tempo.
Dal concetto di tempo relativo si passa poi alla conseguenza che la simultaneità degli eventi viene a cadere quando abbiamo sistemi di riferimento in moto relativo. Due eventi si dicono simultanei quando accadono nel medesimo istante. Nella relatività ristretta, eventi che sono simultanei se misurati in un determinato sistema di riferimento inerziale senz’altro non lo saranno più se osservati da un altro sistema di riferimento inerziale in moto uniforme.
La relatività ristretta ed ancor di più la relatività generale, che è il miglioramento di questa teoria, hanno cambiato completamente il modo di porsi davanti alla natura.
Accettare che esiste una velocità limite, invalicabile, ha posto dei confini a ciò che noi possiamo fare. Ad esempio questa velocità rende di fatto impossibile i viaggi interstellari perché, pur essendo elevata la velocità della luce rimane sempre piccolissima rispetto alle distanze tra le stelle, inoltre per accelerare una astronave a velocità prossime a quella della luce occorre una quantità di energia talmente elevata da prosciugare tutte le riserve della Terra per secoli. Inoltre osservare oggetti celesti, come le galassie, che sono a distanze dell’ordine delle decine di milioni di anni luce (un anno luce è la distanza che compie la luce in un anno pari a circa 10.000 miliardi di chilometri) significa vedere tali oggetti come erano quando la luce è partita, cioè milioni di anni fa. Di fatto è come viaggiare indietro nel tempo.
Il fenomeno della dilatazione del tempo implica che un astronauta che viaggiasse alla velocità della luce per andare, ad esempio, alla stella più vicina, distante circa 4 anni luce, al suo ritorno sulla Terra, troverebbe non più la gente invecchiata di 8 anni, ma di secoli. Molto probabilmente si perderebbe il ricordo della sua partenza. Per lui sono passati fisicamente 8 anni, per chi è rimasto sulla Terra, col tempo relativisticamente dilatato, sono passati dei secoli. I concetti nuovi della relatività oltre a rivoluzionare la fisica ci costringono a confrontarci con situazioni che richiedono tempo e pazienza per essere accettate ed in seguito comprese.
Il 20 marzo 1916 Albert Einstein pubblica la sua teoria della relatività generale, un'estensione della relatività ristretta con cui nel 1905 aveva minato i concetti base del pensiero comune fino ad allora considerato immodificabile.
Per poter dare un’occhiata a questa teoria ed a come essa ha rivoluzionato il mondo della fisica occorre tornare un po’ indietro nel tempo e risalire fino a Newton ed al suo problema della ricerca del sistema di riferimento assoluto. Per poter descrivere qualsiasi fenomeno fisico sotto forma di legge è necessario avere un sistema di riferimento ed occorre che tale sistema di riferimento non alteri in alcun modo la nostra descrizione del fenomeno. Nella nostra vita quotidiana siamo portati spontaneamente a fare riferimenti quando facciamo delle misure, o quando diamo delle indicazioni. Per descrivere le leggi della fisica dobbiamo definire una categoria di sistemi di riferimento, detti inerziali. Nei sistemi di riferimento inerziali vale il principio di inerzia o prima legge della dinamica che afferma che se un corpo non è soggetto a forze fisiche esso rimane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Questa definizione del principio di inerzia è dovuta a Galileo Galilei.
Un sistema non inerziale è quindi un sistema associato ad un corpo sottoposto a forze e quindi ad una accelerazione. Trovato un sistema inerziale, se ne possono definire infiniti altri purché il moto relativo di ognuno di questi sistemi sia rettilineo uniforme.
Un esempio di situazione in cui vale il principio di inerzia è il volo delle sonde spaziali nel cosmo. Una volta che queste sonde sono sfuggite alla forza di gravità della Terra, esse continuano il loro viaggio con velocità costante, la velocità che avevano nel momento in cui non subivano più la forza di gravità. Se tutti i sistemi di riferimento inerziali hanno moti relativi, ci si chiede quale è, fra tutti questi, quello che è in quiete assoluta, cioè fermo.
Il problema di Newton consisteva nel trovare un sistema inerziale in quiete assoluta e si pensò di trovare tale sistema introducendo l’esistenza dell’etere, una sorta di quasi-vuoto, trasparente, impalpabile e legato alle stelle fisse. Tutti i sistemi inerziali hanno quindi un moto rispetto all’etere anche se tale moto è costante, cioè rettilineo uniforme.
Il bisogno della ricerca dell’etere si fa più pressante quando si ha l’unificazione delle forze elettriche e magnetiche ad opera di James Clerk Maxwell. Una carica elettrica (ad esempio un elettrone) che oscilla nello spazio genera un campo elettromagnetico che si propaga sotto forma di onda piana. Il problema sta nell’individuare il mezzo di propagazione delle onde elettromagnetiche.
Le conoscenze che si avevano alla fine del secolo scorso dei fenomeni ondulatori mostravano che era necessario averne uno: le onde sonore si propagano nell’aria, mentre l’acqua propaga le perturbazioni. Per le onde elettromagnetiche il mezzo di propagazione non poteva essere il vuoto e quindi venne riesumato l’etere.
Un esperimento, molto noto, fatto nel 1887 da Michelson e Morley, eseguito proprio per misurare la velocità della Terra nell’etere, mostra inconfutabilmente che tale velocità è nulla. Sulla base di tale esperimento Einstein ipotizza che l’etere non esista e di conseguenza non esiste un sistema di riferimento assoluto: i moti sono tutti relativi. All’epoca di Einstein già si sapeva che la luce e più precisamente la radiazione elettromagnetica, si propagava con velocità finita pari a circa 300.000 km/sec.
Già verso la fine del 1600 l’astronomo danese Roemer constata che la luce ha una velocità finita. Osservando le eclissi dei satelliti di Giove nota che c’è un ritardo tra la posizione dei satelliti e la previsione. Giustamente Roemer imputa il ritardo al fatto che la luce non si propaghi istantaneamente e dà una prima valutazione della velocità della luce: circa 220.000 km/sec. Considerando l’epoca di questa misura, è un’ottima approssimazione.
Da questi presupposti Einstein enuncia i suoi postulati di relatività:
Le leggi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali;
La luce ha una velocità finita sempre uguale in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
Il secondo postulato quindi pone un limite invalicabile alle velocità in natura. Se in qualsiasi sistema di riferimento inerziale un segnale luminoso ha la stessa velocità, sarà impossibile superare tale limite. Supponiamo di trovarci su un’astronave in moto ad una velocità sostenuta. Se dall’astronave viene inviato un segnale luminoso nel verso di percorrenza dell’astronave, un osservatore fermo rispetto all’astronave dovrebbe vedere quel segnale muoversi ad una velocità pari alla somma della velocità della luce più quella dell’astronave. Il secondo postulato di relatività afferma che ciò non è vero: il segnale luminoso per l’osservatore fermo si muoverà sempre alla velocità della luce.
All’epoca di Einstein fare simili ipotesi era senz’altro azzardato, ma nel seguito i due postulati si sono dimostrati corretti tutte le volte che se n’è cercata la verifica. Da questi due postulati apparentemente semplici si deve edificare nuovamente tutta la fisica, migliorandone quelle parti che sono in contrasto coi postulati di relatività. Ciò significa che la fisica newtoniana ha una sua validità limitata al campo delle velocità molto basse rispetto alla velocità della luce. Il solo fatto di considerare la luce come una velocità limite della natura porta come immediata conseguenza l’eliminazione del concetto di tempo assoluto.
Nella fisica di Galileo e Newton il tempo scorre in modo assoluto in tutti i sistemi di riferimento; infatti un intervallo di tempo tra due eventi in un sistema di riferimento inerziale è lo stesso se misurato in un altro sistema in moto rispetto al primo. Nella relatività ristretta la situazione non è più la stessa. Per un osservatore che viaggia a velocità prossime a quelle della luce il tempo scorre più lentamente che per l’osservatore fermo. Per l’osservatore in moto l’intervallo di tempo è sempre lo stesso, cambia la sua misura quando si passa da un sistema all’altro.
Questo è dovuto al fatto che nella teoria della relatività la luce impiega tempo per collegare due punti dello spazio. Tale fenomeno è noto col nome di dilatazione del tempo. È chiaro però che nel momento in cui consideriamo eventi che si muovono a velocità molto basse rispetto a quella della luce vale la fisica classica così come la si impara a scuola.
Altra conseguenza della teoria della relatività ristretta è che un oggetto che si muove a velocità prossima a quella della luce appare ad un osservatore in quiete, più corto rispetto alla dimensione dell’oggetto medesimo in quiete. Quest’effetto noto come la contrazione delle lunghezze è un effetto che non può essere misurato direttamente, cioè non può essere verificato, a differenza del primo effetto relativistico, la dilatazione del tempo, che può essere quantificato sperimentalmente in vari modi. La dilatazione del tempo e la contrazione delle lunghezze sono le conseguenze più vistose della relatività ristretta.
Anche nel caso della teoria della relatività ristretta, come per tutte le teorie è sempre necessario che ci siano delle verifiche sperimentali. Dato che la contrazione delle lunghezze non può essere verificata, l’unico effetto realmente misurabile è la dilatazione del tempo. Tali misure vengono eseguite nei laboratori di fisica atomica dove studiando il tempo di vita delle particelle subatomiche, in quiete ed in moto, è possibile verificare appunto che le particelle in moto relativistico vivono più a lungo di quelle in quiete o comunque in moto newtoniano.
Unitamente a queste verifiche sulla dilatazione del tempo, quando una particella viene accelerata sempre più affinché raggiunga una velocità prossima a quella della luce, l’energia spesa per tale accelerazione si trasforma in massa, cioè aumenta la massa della particella in questione. Al limite, una particella che raggiunga la velocità della luce (e non sia un fotone, cioè un quanto di luce), dovrebbe avere una massa infinita.
La relazione che lega queste grandezze è la ben nota:
E = mc2
dove E è l’energia, m è la massa e c è la velocità della luce moltiplicata per se stessa due volte.
Molti altri esperimenti simili hanno sempre dimostrato la totale validità di questa teoria. Altro concetto di grande importanza nella relatività ristretta è lo “spaziotempo”: in relatività ristretta, dato che il tempo non è più assoluto, non è possibile slegare il concetto di spazio da quello di tempo. Il tempo diventa quindi un’altra coordinata da aggiungere alle tre spaziali che già conosciamo.
D’altronde anche noi in pratica usiamo quattro coordinate o quattro dimensioni nella vita di tutti i giorni. Quando fissiamo un appuntamento con una persona indichiamo un posto (tre coordinate per lo spazio) e l’ora (una coordinata per il tempo). La differenza sta nel fatto che in questa teoria si stabilisce un legame geometrico tra lo spazio e il tempo.
Dal concetto di tempo relativo si passa poi alla conseguenza che la simultaneità degli eventi viene a cadere quando abbiamo sistemi di riferimento in moto relativo. Due eventi si dicono simultanei quando accadono nel medesimo istante. Nella relatività ristretta, eventi che sono simultanei se misurati in un determinato sistema di riferimento inerziale senz’altro non lo saranno più se osservati da un altro sistema di riferimento inerziale in moto uniforme.
La relatività ristretta ed ancor di più la relatività generale, che è il miglioramento di questa teoria, hanno cambiato completamente il modo di porsi davanti alla natura.
Accettare che esiste una velocità limite, invalicabile, ha posto dei confini a ciò che noi possiamo fare. Ad esempio questa velocità rende di fatto impossibile i viaggi interstellari perché, pur essendo elevata la velocità della luce rimane sempre piccolissima rispetto alle distanze tra le stelle, inoltre per accelerare una astronave a velocità prossime a quella della luce occorre una quantità di energia talmente elevata da prosciugare tutte le riserve della Terra per secoli. Inoltre osservare oggetti celesti, come le galassie, che sono a distanze dell’ordine delle decine di milioni di anni luce (un anno luce è la distanza che compie la luce in un anno pari a circa 10.000 miliardi di chilometri) significa vedere tali oggetti come erano quando la luce è partita, cioè milioni di anni fa. Di fatto è come viaggiare indietro nel tempo.
Il fenomeno della dilatazione del tempo implica che un astronauta che viaggiasse alla velocità della luce per andare, ad esempio, alla stella più vicina, distante circa 4 anni luce, al suo ritorno sulla Terra, troverebbe non più la gente invecchiata di 8 anni, ma di secoli. Molto probabilmente si perderebbe il ricordo della sua partenza. Per lui sono passati fisicamente 8 anni, per chi è rimasto sulla Terra, col tempo relativisticamente dilatato, sono passati dei secoli. I concetti nuovi della relatività oltre a rivoluzionare la fisica ci costringono a confrontarci con situazioni che richiedono tempo e pazienza per essere accettate ed in seguito comprese.
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venerdì 19 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 marzo.
Il 19 marzo 1687 gli uomini di De la Salle si ammutinarono e lo uccisero.
René De La Salle era un esploratore che si imbarcò per il Canada nel 1666. Durante questi anni di vita selvaggia fu folgorato dalle leggende che circolavano tra indiani e cacciatori sull'esistenza nel continente di un intricato sistema fluviale che, debitamente utilizzato, permetteva al Canada un facile accesso al Golfo del Messico e al Pacifico. Elaborò allora un ambizioso progetto che prevedeva la fondazione di una serie di stazioni di posta fortificate lungo il corso dell' Illinois e lungo tutto il Mississippi, se il primo era affluente del secondo come si diceva, che avrebbero fatto capo ad una prospera cittadina che sarebbe sorta alla foce del Mississippi e che avrebbe catalizzato tutti gli scambi tra il Nord America e l' America Spagnola. Così deciso rientrò in Francia nel 1674 e nel 1677 ottenne un titolo nobiliare, la signoria su Fort Frontenac e una licenza di monopolio per il commercio delle pelli di bufalo. Tornò in Canada e cominciò a mettere in atto il suo progetto dopo aver consolidato l'alleanza e l'amicizia con i nativi. Reclamò per la Francia tutte le terre lambite dal Mississippi (1683) e chiamò questa regione Louisiana in onore del re Luigi XIV. Portò in Francia la notizia della scoperta e ottenne dal re l'autorizzazione ad organizzare una spedizione che prendesse effettivamente il possesso della Louisiana e della foce del Mississippi e ne cominciasse la colonizzazione. Il 24 Luglio del 1684 De La Salle partì da Rochefort con quattro navi e 280 coloni alla volta del Golfo del Messico. Per di più il momento pareva particolarmente favorevole alla riuscita dei piani di De La Salle dato che la Francia era in guerra con la Spagna. Di conseguenza dalla cittadina che aveva intenzione di fondare poteva tranquillamente attaccare il Messico via terra. Senza contare che, una volta ultimata, la sua catena di stazioni di posta avrebbe bloccato l'avanzata inglese verso Ovest aprendo così quella dei coloni francesi del Canada, ed inoltre lo avrebbe reso il re del commercio di pelli e di pellicce. Ma la sorte da subito non irrise alla spedizione. Una serie di tempeste danneggiò la navi e parte del carico; i pirati abbordarono il convoglio, uccisero alcuni coloni e derubarono gli altri e oltretutto, causa la difettosità degli strumenti di bordo e l'approssimatività delle carte, la spedizione mancò la foce del Mississippi di circa 400 miglia e prese terra nella Matagorda Bay (Texas) nel Febbraio del 1685. Qui fu fondato un forte provvisorio, Fort St. Louis, che avrebbe dovuto fungere da base e da riparo momentaneo per i coloni. Nel frattempo De La Salle si impegnò in una serie di esplorazioni che dovevano portarlo a ritrovare la foce del Mississippi. Ma durante la sua assenza, durata fino al marzo 1686, i lavori di edificazione del villaggio e il dissodamento delle terre procedevano a rilento. Erano arrivati anche per questa colonia malattie e malnutrizione. In molti morirono, qualcuno si rifugiò presso gli indiani dell'East Texas, qualcun altro tentò la fuga ma fu massacrato dagli indiani delle praterie. De La Salle morì nel 1687 durante una ricognizione e Fort St. Louis e i suoi occupanti si trovarono in balía di se stessi. Ci pensarono gli indiani Karawankas, attorno al Natale del 1688, a porre fine all'agonia del forte massacrando tutti, escluso i bambini che presero con sè, e distruggendo e bruciando tutte le costruzioni.
Il 19 marzo 1687 gli uomini di De la Salle si ammutinarono e lo uccisero.
René De La Salle era un esploratore che si imbarcò per il Canada nel 1666. Durante questi anni di vita selvaggia fu folgorato dalle leggende che circolavano tra indiani e cacciatori sull'esistenza nel continente di un intricato sistema fluviale che, debitamente utilizzato, permetteva al Canada un facile accesso al Golfo del Messico e al Pacifico. Elaborò allora un ambizioso progetto che prevedeva la fondazione di una serie di stazioni di posta fortificate lungo il corso dell' Illinois e lungo tutto il Mississippi, se il primo era affluente del secondo come si diceva, che avrebbero fatto capo ad una prospera cittadina che sarebbe sorta alla foce del Mississippi e che avrebbe catalizzato tutti gli scambi tra il Nord America e l' America Spagnola. Così deciso rientrò in Francia nel 1674 e nel 1677 ottenne un titolo nobiliare, la signoria su Fort Frontenac e una licenza di monopolio per il commercio delle pelli di bufalo. Tornò in Canada e cominciò a mettere in atto il suo progetto dopo aver consolidato l'alleanza e l'amicizia con i nativi. Reclamò per la Francia tutte le terre lambite dal Mississippi (1683) e chiamò questa regione Louisiana in onore del re Luigi XIV. Portò in Francia la notizia della scoperta e ottenne dal re l'autorizzazione ad organizzare una spedizione che prendesse effettivamente il possesso della Louisiana e della foce del Mississippi e ne cominciasse la colonizzazione. Il 24 Luglio del 1684 De La Salle partì da Rochefort con quattro navi e 280 coloni alla volta del Golfo del Messico. Per di più il momento pareva particolarmente favorevole alla riuscita dei piani di De La Salle dato che la Francia era in guerra con la Spagna. Di conseguenza dalla cittadina che aveva intenzione di fondare poteva tranquillamente attaccare il Messico via terra. Senza contare che, una volta ultimata, la sua catena di stazioni di posta avrebbe bloccato l'avanzata inglese verso Ovest aprendo così quella dei coloni francesi del Canada, ed inoltre lo avrebbe reso il re del commercio di pelli e di pellicce. Ma la sorte da subito non irrise alla spedizione. Una serie di tempeste danneggiò la navi e parte del carico; i pirati abbordarono il convoglio, uccisero alcuni coloni e derubarono gli altri e oltretutto, causa la difettosità degli strumenti di bordo e l'approssimatività delle carte, la spedizione mancò la foce del Mississippi di circa 400 miglia e prese terra nella Matagorda Bay (Texas) nel Febbraio del 1685. Qui fu fondato un forte provvisorio, Fort St. Louis, che avrebbe dovuto fungere da base e da riparo momentaneo per i coloni. Nel frattempo De La Salle si impegnò in una serie di esplorazioni che dovevano portarlo a ritrovare la foce del Mississippi. Ma durante la sua assenza, durata fino al marzo 1686, i lavori di edificazione del villaggio e il dissodamento delle terre procedevano a rilento. Erano arrivati anche per questa colonia malattie e malnutrizione. In molti morirono, qualcuno si rifugiò presso gli indiani dell'East Texas, qualcun altro tentò la fuga ma fu massacrato dagli indiani delle praterie. De La Salle morì nel 1687 durante una ricognizione e Fort St. Louis e i suoi occupanti si trovarono in balía di se stessi. Ci pensarono gli indiani Karawankas, attorno al Natale del 1688, a porre fine all'agonia del forte massacrando tutti, escluso i bambini che presero con sè, e distruggendo e bruciando tutte le costruzioni.
giovedì 18 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 marzo.
Il 18 marzo del 37 d.C. Caligola viene proclamato imperatore di Roma, il terzo dopo Ottaviano.
La morte di Tiberio il 13 marzo del 37 d.C. fu occasione di sollievo per il popolo romano. Morto alla età di sessantotto anni, Tiberio aveva regnato per gli ultimi ventitre della sua vita, e venne ai suoi tempi considerato un tiranno, per via dei cattivi rapporti instaurati con il popolo, il senato e i militari. Pare infatti che la sua morte non fu accidentale.
Quando gli succedette il pronipote Caligola il mondo apparve più roseo. Nato ad Anzio il 31 agosto dell'anno 12, Gaio Giulio Cesare Germanico - meglio conosciuto come Gaio Cesare o Caligola - allora venticinquenne, protendeva infatti verso la repubblica, e iniziò ben presto una efficace collaborazione con i Pater Conscriptis della città.
Tutti lo giudicavano con favore. Caligola promosse amnistie, diminuì le tasse, organizzò giochi e feste, rese di nuovo legali i comizi. Questo periodo felice non durò in eterno. Dopo soli sette mesi da Imperatore Caligola venne colto da una improvvisa e strana malattia. Ne uscì sconvolto nel fisico ma soprattutto nella mente.
Divenne rapidamente cinico, megalomane, sanguinario e assolutamente folle. Condannava a morte per i motivi più futili, e spesso condannava due volte la stessa persona, non ricordando di averla già fatta uccidere.
I senatori, visto il pericolo che era diventato, tentarono di farlo assassinare, ma inutilmente. Quando poi morì la sorella di Caligola, Drusilla, con la quale pare avesse avuto rapporti incestuosi, la salute mentale dell'imperatore ne risentì ancora di più. Divenne rapidamente un autentico despota, facendosi chiamare Imperatore, oltre che padre della patria.
Davanti a lui tutti dovevano genuflettersi, e aveva stabilito che il 18 marzo di ogni anno doveva diventare festa in suo onore. Si faceva chiamare come gli dei: Giove, Nettuno, Mercurio, e Venere. Spesso infatti si vestiva con abiti femminili, e portava braccialetti e gioielli vistosi.
Il suo regno durò solo quattro anni (dal 37 al 41). Fu infatti ucciso il 24 gennaio del 41, quando stava lasciando un'arena durante i Ludi Palatini. Lo pugnalarono trenta volte. Assieme a lui vennero giustiziati tutti i parenti prossimi. Neppure la sua giovane bambina Giulia Drusilla venne risparmiata: fu scaraventata contro un muro.
Come il padre, anche Caligola verrà ricordato come un tiranno. Il regno passerà in mano allo zio Claudio Germanico, cinquantenne, e unico parente superstite.
Studi recenti fanno risalire le strane manifestazioni di Caligola e di altri imperatori, nonché la misteriosa malattia che lo colpì nel 37, a una intossicazione da piombo, che in termini tecnici si chiama saturnismo. Il saturnismo di Caligola sarebbe causato dall'usanza antico-romana di bere il vino leggermente addolcito tenendolo in otri di piombo. Riguardo alle condutture romane di piombo, di cui si fa menzione in qualche articolo, esse non provocavano saturnismo, perché l'acqua formava un leggero strato di ossido di piombo biancastro, insolubile nell'acqua, mentre la leggera acidità del vino faceva sciogliere questo sale, che è appunto dolciastro. Caligola presentava inoltre - a detta degli storici, comunque a lui ostili - un comportamento che oggi definiremmo sociopatico, ovvero privo di rimorso e rispetto per le regole della società e i sentimenti altrui, che potrebbe essersi sviluppato per lo shock di aver visto sterminata la propria famiglia, e da ultimo, in seguito alla morte per malattia dell'amatissima sorella Giulia Drusilla; alcuni affermano inoltre che soffrisse di epilessia o ipertiroidismo. È anche possibile che le sue stranezze fossero solamente una mossa politica per esplicitare il proprio disprezzo per il Senato.
Il 18 marzo del 37 d.C. Caligola viene proclamato imperatore di Roma, il terzo dopo Ottaviano.
La morte di Tiberio il 13 marzo del 37 d.C. fu occasione di sollievo per il popolo romano. Morto alla età di sessantotto anni, Tiberio aveva regnato per gli ultimi ventitre della sua vita, e venne ai suoi tempi considerato un tiranno, per via dei cattivi rapporti instaurati con il popolo, il senato e i militari. Pare infatti che la sua morte non fu accidentale.
Quando gli succedette il pronipote Caligola il mondo apparve più roseo. Nato ad Anzio il 31 agosto dell'anno 12, Gaio Giulio Cesare Germanico - meglio conosciuto come Gaio Cesare o Caligola - allora venticinquenne, protendeva infatti verso la repubblica, e iniziò ben presto una efficace collaborazione con i Pater Conscriptis della città.
Tutti lo giudicavano con favore. Caligola promosse amnistie, diminuì le tasse, organizzò giochi e feste, rese di nuovo legali i comizi. Questo periodo felice non durò in eterno. Dopo soli sette mesi da Imperatore Caligola venne colto da una improvvisa e strana malattia. Ne uscì sconvolto nel fisico ma soprattutto nella mente.
Divenne rapidamente cinico, megalomane, sanguinario e assolutamente folle. Condannava a morte per i motivi più futili, e spesso condannava due volte la stessa persona, non ricordando di averla già fatta uccidere.
I senatori, visto il pericolo che era diventato, tentarono di farlo assassinare, ma inutilmente. Quando poi morì la sorella di Caligola, Drusilla, con la quale pare avesse avuto rapporti incestuosi, la salute mentale dell'imperatore ne risentì ancora di più. Divenne rapidamente un autentico despota, facendosi chiamare Imperatore, oltre che padre della patria.
Davanti a lui tutti dovevano genuflettersi, e aveva stabilito che il 18 marzo di ogni anno doveva diventare festa in suo onore. Si faceva chiamare come gli dei: Giove, Nettuno, Mercurio, e Venere. Spesso infatti si vestiva con abiti femminili, e portava braccialetti e gioielli vistosi.
Il suo regno durò solo quattro anni (dal 37 al 41). Fu infatti ucciso il 24 gennaio del 41, quando stava lasciando un'arena durante i Ludi Palatini. Lo pugnalarono trenta volte. Assieme a lui vennero giustiziati tutti i parenti prossimi. Neppure la sua giovane bambina Giulia Drusilla venne risparmiata: fu scaraventata contro un muro.
Come il padre, anche Caligola verrà ricordato come un tiranno. Il regno passerà in mano allo zio Claudio Germanico, cinquantenne, e unico parente superstite.
Studi recenti fanno risalire le strane manifestazioni di Caligola e di altri imperatori, nonché la misteriosa malattia che lo colpì nel 37, a una intossicazione da piombo, che in termini tecnici si chiama saturnismo. Il saturnismo di Caligola sarebbe causato dall'usanza antico-romana di bere il vino leggermente addolcito tenendolo in otri di piombo. Riguardo alle condutture romane di piombo, di cui si fa menzione in qualche articolo, esse non provocavano saturnismo, perché l'acqua formava un leggero strato di ossido di piombo biancastro, insolubile nell'acqua, mentre la leggera acidità del vino faceva sciogliere questo sale, che è appunto dolciastro. Caligola presentava inoltre - a detta degli storici, comunque a lui ostili - un comportamento che oggi definiremmo sociopatico, ovvero privo di rimorso e rispetto per le regole della società e i sentimenti altrui, che potrebbe essersi sviluppato per lo shock di aver visto sterminata la propria famiglia, e da ultimo, in seguito alla morte per malattia dell'amatissima sorella Giulia Drusilla; alcuni affermano inoltre che soffrisse di epilessia o ipertiroidismo. È anche possibile che le sue stranezze fossero solamente una mossa politica per esplicitare il proprio disprezzo per il Senato.
mercoledì 17 marzo 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 17 marzo.
Il 17 marzo 1981 viene trovata in una fabbrica appartenente a Licio Gelli, nei pressi di Arezzo, una lista di affiliati alla loggia massonica P2.
La data di fondazione della loggia massonica Propaganda Due si perde nel tempo, come spesso accade per simili consorterie. E' noto, comunque, che era un antico sodalizio che accoglieva gli elementi più importanti e prestigiosi, fin da quando, nel secolo scorso, la massoneria, aveva avuto un ruolo centrale nelle vicende italiane. Dopo la seconda guerra mondiale era stata riorganizzata anche la loggia P2, con l'aiuto della massoneria USA, trasferendovi i massoni più in vista o che dovevano restare "coperti". Nel Dicembre 1965 il Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli presenta l'apprendista Licio Gelli al Gran Maestro Gamberini, il quale lo eleva immediatamente di grado nella gerarchia massonica e lo inserisce nella loggia P2. Nel 1969 Ascarelli e Gamberini affidano a Gelli un non meglio precisato incarico speciale nella loggia. Nel 1971 Gelli diviene segretario organizzativo e ha il totale controllo della loggia. Nel frattempo molti personaggi eccellenti, soprattutto militari e finanzieri si sono iscritti, tra questi il generale Allavena che porterà in dote le copie dei fascicoli delle schedature del SIFAR. Nel '69 capi massonici diranno che grazie a Gelli 400 alti ufficiali dell'esercito sono stati iniziati alla massoneria al fine di predisporre un "governo di colonnelli", sempre preferibile ad un governo comunista. Nel 1972 il nuovo segretario organizzativo cambia nome alla loggia in "Raggruppamento Gelli-P2" accentuandone le caratteristiche di segretezza evitando qualsiasi tipo di controllo. Nel 1973 la loggia segreta "Giustizia e Libertà" si fonde con la P2. Alla Gran Loggia di Napoli del Dicembre 1974, qualcosa di simile a un conclave massonico, alcuni tentarono di sciogliere la P2 e di abrogarne i regolamenti particolari, ma senza successo; Gelli aveva acquisito troppo potere nel frattempo. Lino Salvini, maestro del Grande Oriente d'Italia, quindi, nonostante non vedesse di buon occhio tanto potere concentrato in quella loggia, il 12 Maggio 1975 decretò ufficialmente la ricostituzione della loggia P2 elevando Gelli al grado di maestro venerabile. La loggia P2 valicherà presto i confini nazionali e conterà affiliati in diversi paesi dove non si limiterà a fare proselitismo, ma parteciperà, nei modi che la caratterizzano, alla vita politica, economica e finanziaria di tali paesi. In Argentina, per esempio, favorirà il golpe militare, per poi perorare la causa del ritorno di Peron, così come risulterà implicata nello scoppio del conflitto delle isole Malvinas. La loggia P2 risulterà attiva in Uruguay, Brasile, Venezuela, negli Stati Uniti, in diversi paesi europei e non ultima in Romania, dove Gelli avrà importanti rapporti con il regime "socialista" di Ceausescu, nonostante l'anticomunismo viscerale di tutti gli aderenti alla P2. Evidentemente a Ceausescu non era rimasto niente di comunista e Gelli lo sapeva. Analizzare gli intrighi, la partecipazione a tentativi di colpo di stato o a colpi di stato riusciti, a stragi, attentati, omicidi, depistamenti, operazioni finanziarie sporche e' praticamente impossibile. Basti pensare che dopo il ritrovamento di una parte dei documenti relativi alle attività della loggia ad Arezzo il 17 Marzo 1981 e di altri a Montevideo in Uruguay e' stata costituita una commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi, i cui atti sono raccolti in 76 volumi di dimensioni consistenti e che la documentazione raccolta occupa diverse scaffalature anch'esse di dimensioni consistenti. Anche l'elenco degli iscritti che fu trovato è parziale, purtroppo però è l'unico conosciuto; si calcola comunque che gli iscritti alla loggia fossero 2500/3000 e non 963 come risulta dalle liste sequestrate ad Arezzo.
Il 10 Dicembre 1981 il Parlamento ha ufficialmente sciolto la P2. Si tratta però solo di un atto formale, in realtà Gelli, nonostante i molti anni di carcere a cui e' stato condannato, e' rimasto a piede libero fino alla morte avvenuta nel dicembre 2015, e ha avuto a disposizione un enorme patrimonio per continuare a tessere i suoi intrighi. Il "piano di rinascita democratica" sequestrato a Maria Grazia Gelli nel Luglio 1982, che rappresenta la "carta programmatica per l'Italia" della P2, e' divenuto il programma di Silvio Berlusconi, in gran parte attuato. Ma ciò che più preoccupa e' che non può essere un semplice decreto a sciogliere un simile agglomerato di "veri criminali". Finché esisteranno enormi gruppi finanziari, potentati economici, multinazionali che dominano i popoli, continueranno ad esistere cosche mafiose e massoniche come la P2.
Tra le 962 persone inserite nell'elenco vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell'allora governo, un segretario di partito, 12 generali dei Carabinieri, 5 generali della Guardia di Finanza, 22 generali dell'esercito italiano, 4 dell'aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, diversi giornalisti ed imprenditori.
Tra i nomi spiccano Antonio Amato, Silvio Berlusconi, Roberto Calvi, Massimiliano Cencelli, Fabrizio Cicchitto, Francesco Cosentino, Maurizio Costanzo, Ferruccio De Lorenzo, Publio Fiori, Artemio Franchi, Licio Gelli, Roberto Gervaso, Gino Latilla, Pietro Longo, Enrico Manca, Alighiero Noschese, Claudio Pica (in arte Claudio Villa), Duilio Poggiolini, Angelo Rizzoli, Vittorio Emanuele di Savoia, Gustavo Selva, Michele Sindona, Bruno Tassan Din.
Il 17 marzo 1981 viene trovata in una fabbrica appartenente a Licio Gelli, nei pressi di Arezzo, una lista di affiliati alla loggia massonica P2.
La data di fondazione della loggia massonica Propaganda Due si perde nel tempo, come spesso accade per simili consorterie. E' noto, comunque, che era un antico sodalizio che accoglieva gli elementi più importanti e prestigiosi, fin da quando, nel secolo scorso, la massoneria, aveva avuto un ruolo centrale nelle vicende italiane. Dopo la seconda guerra mondiale era stata riorganizzata anche la loggia P2, con l'aiuto della massoneria USA, trasferendovi i massoni più in vista o che dovevano restare "coperti". Nel Dicembre 1965 il Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli presenta l'apprendista Licio Gelli al Gran Maestro Gamberini, il quale lo eleva immediatamente di grado nella gerarchia massonica e lo inserisce nella loggia P2. Nel 1969 Ascarelli e Gamberini affidano a Gelli un non meglio precisato incarico speciale nella loggia. Nel 1971 Gelli diviene segretario organizzativo e ha il totale controllo della loggia. Nel frattempo molti personaggi eccellenti, soprattutto militari e finanzieri si sono iscritti, tra questi il generale Allavena che porterà in dote le copie dei fascicoli delle schedature del SIFAR. Nel '69 capi massonici diranno che grazie a Gelli 400 alti ufficiali dell'esercito sono stati iniziati alla massoneria al fine di predisporre un "governo di colonnelli", sempre preferibile ad un governo comunista. Nel 1972 il nuovo segretario organizzativo cambia nome alla loggia in "Raggruppamento Gelli-P2" accentuandone le caratteristiche di segretezza evitando qualsiasi tipo di controllo. Nel 1973 la loggia segreta "Giustizia e Libertà" si fonde con la P2. Alla Gran Loggia di Napoli del Dicembre 1974, qualcosa di simile a un conclave massonico, alcuni tentarono di sciogliere la P2 e di abrogarne i regolamenti particolari, ma senza successo; Gelli aveva acquisito troppo potere nel frattempo. Lino Salvini, maestro del Grande Oriente d'Italia, quindi, nonostante non vedesse di buon occhio tanto potere concentrato in quella loggia, il 12 Maggio 1975 decretò ufficialmente la ricostituzione della loggia P2 elevando Gelli al grado di maestro venerabile. La loggia P2 valicherà presto i confini nazionali e conterà affiliati in diversi paesi dove non si limiterà a fare proselitismo, ma parteciperà, nei modi che la caratterizzano, alla vita politica, economica e finanziaria di tali paesi. In Argentina, per esempio, favorirà il golpe militare, per poi perorare la causa del ritorno di Peron, così come risulterà implicata nello scoppio del conflitto delle isole Malvinas. La loggia P2 risulterà attiva in Uruguay, Brasile, Venezuela, negli Stati Uniti, in diversi paesi europei e non ultima in Romania, dove Gelli avrà importanti rapporti con il regime "socialista" di Ceausescu, nonostante l'anticomunismo viscerale di tutti gli aderenti alla P2. Evidentemente a Ceausescu non era rimasto niente di comunista e Gelli lo sapeva. Analizzare gli intrighi, la partecipazione a tentativi di colpo di stato o a colpi di stato riusciti, a stragi, attentati, omicidi, depistamenti, operazioni finanziarie sporche e' praticamente impossibile. Basti pensare che dopo il ritrovamento di una parte dei documenti relativi alle attività della loggia ad Arezzo il 17 Marzo 1981 e di altri a Montevideo in Uruguay e' stata costituita una commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi, i cui atti sono raccolti in 76 volumi di dimensioni consistenti e che la documentazione raccolta occupa diverse scaffalature anch'esse di dimensioni consistenti. Anche l'elenco degli iscritti che fu trovato è parziale, purtroppo però è l'unico conosciuto; si calcola comunque che gli iscritti alla loggia fossero 2500/3000 e non 963 come risulta dalle liste sequestrate ad Arezzo.
Il 10 Dicembre 1981 il Parlamento ha ufficialmente sciolto la P2. Si tratta però solo di un atto formale, in realtà Gelli, nonostante i molti anni di carcere a cui e' stato condannato, e' rimasto a piede libero fino alla morte avvenuta nel dicembre 2015, e ha avuto a disposizione un enorme patrimonio per continuare a tessere i suoi intrighi. Il "piano di rinascita democratica" sequestrato a Maria Grazia Gelli nel Luglio 1982, che rappresenta la "carta programmatica per l'Italia" della P2, e' divenuto il programma di Silvio Berlusconi, in gran parte attuato. Ma ciò che più preoccupa e' che non può essere un semplice decreto a sciogliere un simile agglomerato di "veri criminali". Finché esisteranno enormi gruppi finanziari, potentati economici, multinazionali che dominano i popoli, continueranno ad esistere cosche mafiose e massoniche come la P2.
Tra le 962 persone inserite nell'elenco vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell'allora governo, un segretario di partito, 12 generali dei Carabinieri, 5 generali della Guardia di Finanza, 22 generali dell'esercito italiano, 4 dell'aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, diversi giornalisti ed imprenditori.
Tra i nomi spiccano Antonio Amato, Silvio Berlusconi, Roberto Calvi, Massimiliano Cencelli, Fabrizio Cicchitto, Francesco Cosentino, Maurizio Costanzo, Ferruccio De Lorenzo, Publio Fiori, Artemio Franchi, Licio Gelli, Roberto Gervaso, Gino Latilla, Pietro Longo, Enrico Manca, Alighiero Noschese, Claudio Pica (in arte Claudio Villa), Duilio Poggiolini, Angelo Rizzoli, Vittorio Emanuele di Savoia, Gustavo Selva, Michele Sindona, Bruno Tassan Din.
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