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giovedì 3 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 luglio.

Il 3 luglio 1985 esce nelle sale Ritorno al Futuro, di Robert Zemeckis.

Il capolavoro per eccellenza di Robert Zemeckis, uno dei film più iconici e rappresentativi della Hollywood degli anni Ottanta, con il mito di Michael J. Fox destinato a imprimersi con forza nella memoria collettiva. 

C’è nessuno in casa?

Hill Valley, California, 25 ottobre 1985. Marty McFly è un diciassettenne studente di liceo, poco disciplinato e spesso ritardatario ma coraggioso, gentile e di buon cuore, fidanzato con Jennifer Parker, sua coetanea e compagna di scuola. Il suo unico amico è il pazzoide inventore Emmett “Doc” Brown. Una notte quest’ultimo mostra al ragazzo la sua ultima invenzione, una macchina per viaggiare nel tempo creata modificando una DeLorean. Per permettere il viaggio è necessaria una gigantesca dose di plutonio, che l’inventore ha rubato a un gruppo di terroristi libici. I libici irrompono in scena, uccidono Doc e si mettono alle calcagna di Marty, che si ritrova a viaggiare indietro nel tempo per trent’anni, fino al 5 novembre del 1955… 

C’è un taglio di montaggio, in Ritorno al futuro (sulla genialità insita nel titolo ci sarà modo di tornare più tardi), che è tra i più brutali, poetici e a suo modo strazianti dell’industria statunitense degli anni Ottanta – e forse non solo, ma una riflessione sul decennio sarà a sua volta opportuna. Si tratta del momento in cui Marty McFly arriva nella piazza principale di Hill Valley e capisce finalmente di essere nella sua città natale, ma allo stesso tempo di non esserci. Lo spazio è rimasto immutato, ma è cambiato il tempo. Robert Zemeckis costruisce un passaggio semplicissimo, quasi naturale, ma al suo interno vi inserisce la più grande aberrazione pensabile per l’umano, trovarsi là dove la natura non ha in nessun modo previsto che potesse esserci. Per farlo, per rendere dolcissimo e terrificante questo balzo indietro nel tempo, Zemeckis punta tutto sull’immaginario. La piazza di Hill Valley è gremita di persone e sul panorama irrompono le note di Mr. Sandman, classico del doo-wop portato al successo commerciale dalle Chordettes (trio canoro che raggiunse i vertici della classifica anche con Lollipop, forse non a caso protagonista di uno dei passaggi più iconici di Stand by me – Ricordo di un’estate di Rob Reiner, altro successo del periodo per il cinema a stelle e strisce ambientato negli anni Cinquanta). Mr. Sandman, bring me a dream, cantano le Chordettes. E l’approdo di Marty alla città in cui è cresciuto, ma in un tempo nel quale la sua nascita non era neanche presa in considerazione – di lì a poco il padre goffo e privo del benché minimo appeal diverrà suo amico, mentre la madre si innamorerà follemente di lui –, è sfumato nell’onirismo. C’è un’inquadratura in totale, che vede il ragazzo incamminarsi nel nulla, tra campagne a perdita d’occhio: un cartello però avverte che di lì a due miglia si troverà Hill Valley. In un piano ravvicinato Marty sbuca quindi da dietro l’angolo di un muro, sospettoso e incuriosito a sua volta. Qui partono le note, qui la realtà/sogno si concretizza. Al cinema, dove i posti costano 50 centesimi di dollaro e si fa sfoggio di uno striscione che annuncia che l’aria è condizionata, proiettano Cattle Queen of Montana di Allan Dwan, vale a dire La regina del Far West, con protagonisti Barbara Stanwyck e Ronald Reagan. I successi musicali sono The Ballad of Davy Crockett di Bill Hayes e le canzoni di Patti Page. L’aria sognata sfuma, sostituita dalle note vagamente più ansiogene di Alan Silvestri, e il rintocco dell’orologio marca non solo il tempo di quella giornata, ma il tempo stesso della storia: Marty è retrocesso indietro nel tempo. La “sua” Hill Valley non esiste più, non lì. Ora c’è un’altra città, uguale e diversa, trent’anni prima.

Si potrebbero scrivere saggi solo analizzando il senso, il ritmo, la messa in scena – prima del rintocco dell’orologio l’inquadratura si fa di nuovo totale, ma ora Marty non è più solo, ma cammina spaesato nel cuore della piazza, mentre intorno a sé si muovono i suoi concittadini che concittadini non sono – di questa breve sequenza. Zemeckis tornerà a mettere in scena orologi dai rintocchi sempre più spaventosi nel suo adattamento in performance capture di A Christmas Carol, altro racconto in cui il tempo viene violato. Se però Dickens vede nell’opportunità di riscoprire il proprio passato il modo per correggere la morale, e ritrovare il senso dell’etica e del viver comune, questo aspetto è inevitabilmente assente nel personaggio dell’adolescente McFly. Non potrebbe essere altrimenti: Marty non va a incontrare il proprio passato – sarà nei capitoli successivi della saga che avrà modo di incrociare se stesso, per quei ghiribizzi spazio-temporali che renderanno sempre più difficile muoversi tra i diversi livelli – e il suo viaggio a ritroso non parte da necessità etiche, ma puramente legate all’istinto di sopravvivenza. Se non fuggisse raggiungendo le novantotto miglia orarie a bordo della DeLorean trasformata da Doc Brown in una macchina del tempo i terroristi libici che hanno già mitragliato il petto del pazzoide ma geniale inventore farebbero fare la stessa fine anche a lui.

Se c’è una morale da poter imparare, nel film di Zemeckis, occorre impararla in corso d’opera, non ha alla base una strategia o un’ideologia di riferimento. Marty è perfettamente intessuto nel proprio tempo, è un adolescente come tutti gli altri, che si lamenta di una famiglia che trova smorta, viene ripreso dal preside della scuola – l’immarcescibile Strickland, perennemente calvo: “Ma non ce li ha mai avuti i capelli?” si domanda fuor di retorica Marty quando lo rincontra nel 1955 –, scorrazza in lungo e in largo con lo skateboard ed è innamorato della sua fidanzata, Jennifer Parker (nel primo capitolo la interpreta Claudia Wells, nei successivi costretta a lasciare per gravi problemi familiari il posto a Elisabeth Shue). È semmai il suo viaggio nel tempo a metterlo di fronte a una serie di problematiche che non aveva neanche preso in considerazione: da dove nasce il rapporto così poco attrattivo tra i suoi genitori? Perché l’arcibullo Biff Tannen fa il bello e il cattivo tempo da sempre? E perché, più di ogni altra cosa, non si può evitare che Doc venga falcidiato dai proiettili libici? Un vero e proprio percorso di formazione a ritroso per ritrovarsi, e qui si torna al titolo, nel futuro.

Il “ritorno al futuro” infatti non è solo quello di Marty, che spera di riuscire a sfruttare la potenza del fulmine che mandò in riparazione a data da destinarsi l’orologio del comune per ritornare nel 1985. È il ritorno al futuro di un’intera nazione. Con sublime e sardonica intelligenza Zemeckis e il sodale in fase di sceneggiatura Bob Gale (i due avevano già lavorato insieme su alcuni dei precedenti film di Zemeckis, 1964: allarme a New York, arrivano i Beatles e La fantastica sfida, e avevano scritto per Steven Spielberg l’incompreso e sottostimato gioiello comico 1941: Allarme a Hollywood) teorizzano con solide basi gli anni Ottanta come la replica in versione plastificata degli anni Cinquanta. La paura dei rossi, l’incubo atomico, la passione per le storie spaziali – Marty per spaventare e convincere il padre a chiedere alla madre di uscire si presenta da lui vestito come un alieno, alla moda dei fumetti che il genitore legge avidamente, ma per rendere credibile la propria interpretazione fa il saluto vulcaniano desunto da Star Trek e si presenta come Darth Vader, il jedi passato al lato oscuro della Forza nella prima trilogia di Star Wars –, tutto fa coincidere le due epoche storiche, la prima sopravvissuta a una guerra mondiale, la seconda alle giungle vietnamite. Una nazione in (finta) pace, e tesa dunque all’opulenza totale.

In questo gioco di sovrapposizione – che non è certo unico nella storia del cinema, come in quegli anni evidenziano tra gli altri il David Lynch di Velluto blu e la resurrezione/invenzione del teen-movie operata da John Hughes prima in un Compleanno da ricordare e quindi in Bella in rosa, quest’ultimo per la regia di Howard Deutch – Zemeckis si muove sul crinale della commedia a pochi passi dallo slapstick, sia nell’impaccio di Doc, che sembra un incrocio tutto disneyano tra Archimede Pitagorico e Pippo, sia nelle situazioni più rocambolesche, dalla provocazione con fuga dalle grinfie di Biff che terminerà con quest’ultimo sovrastato dal letame fino alla lunga e articolata sequenza durante la festa danzante “Incanto sotto il mare”.

Cinematograficamente colto, ricco di invenzioni visive e soprattutto narrative, Ritorno al futuro è una vera e propria bomba a orologeria, un congegno perfetto, forse l’apice della commedia popolare statunitense degli ultimi quarant’anni. Ma è anche un perfetto compendio della nuova rivoluzione hollywoodiana, la presa definitiva del potere degli studios da parte di Spielberg e Lucas (il cui racconto in forma ovviamente metaforica è rintracciabile nelle pieghe di Ready Player One, uscito qualche anno fa nelle sale), il punto di non ritorno di un immaginario fervido, e di una sorprendente capacità di intercettare voglie e necessità del pubblico americano. “Penso che ancora non siate pronti per questa musica… Ma ai vostri figli piacerà” si giustifica Marty con gli sbalorditi coetanei di trent’anni più vecchi che hanno appena ascoltato una versione devastata di Johnny B. Goode, che Chuck Berry porterà al successo “solo” nel 1958. Forse il senso di Ritorno al futuro, e della Hollywood degli anni Ottanta è tutto in questa frase…

mercoledì 2 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 luglio.

Il 2 luglio 1871 il re Vittorio Emanuele II di Savoia entrava a Roma, accolto festosamente dalla popolazione, capitale del Regno d'Italia.

La Breccia di Porta Pia, del 20 settembre 1870,  sanciva la presa di Roma, sottratta al potere temporale del Papa, e si poteva considerare chiusa il processo del Risorgimento, anche se ancora mancavano a completamento dell'unità nazionale le cosiddette "terre irredente". 

Qualche mese più tardi, nel febbraio 1871, il Parlamento italiano proclamò Roma nuova Capitale del Regno d’Italia.

 Vittorio Emanuele II si era presentato a Roma il 31 dicembre 1870, quando la città era allagata a causa dello straripamento del Tevere, ma si fermò solo dodici ore. 

L’insediamento ufficiale di Vittorio Emanuele II a Roma avviene il 2 luglio del 1871, lo stesso giorno in cui il ministro degli esteri Visconti-Venosta annuncia a tutto il mondo che Roma è la nuova capitale del Regno d’Italia. 

 Il Re Vittorio Emanuele II arriva a Roma alle ore 12,30  e lungo il tragitto che lo porta al Quirinale il Sovrano di Casa Savoia è accolto da un festoso lancio di fiori da parte dei romani accorsi per l’occasione. Entrato nel palazzo del Quirinale il re si affaccia più volte dal balcone per ricevere il saluto dei suoi sudditi e il giorno seguente una grande festa viene organizzata in Campidoglio in suo onore. 

 La sera stessa però Vittorio Emanuele II riparte per Firenze e rientra nella capitale alla fine di novembre per l’inaugurazione del Parlamento.

 Per aver guidato con straordinarie doti di politico e di statista il processo risorgimentale re Vittorio Emanuele II di Savoia è stata proclamato "Padre della Patria" , ed a lui è dedicato il monumento nazionale del Vittoriano che si trova a Roma in piazza Venezia.

Re Vittorio Emanuele II di Savoia è sepolto al Pantheon che da allora è il sepolcreto dei Re e delle Regine d'Italia.

martedì 1 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo luglio.

Il primo luglio 1931 viene ufficialmente inaugurata la Stazione Centrale di Milano.

Le vicende che portarono al progetto ed alla realizzazione della Stazione Centrale di Milano furono piuttosto lunghe e complesse, quanto questo edificio imponente e variegato, nel quale la monumentalità si doveva e si deve tutt’oggi coniugare con la funzione a cui esso è destinato. 

La decisione di costruire la stazione scaturì dalla necessità tecnica di un complesso riordino delle ferrovie milanesi, ma l’importanza simbolica dell’opera non sfuggì a chi ne aveva progettato la funzione, così che fin dagli inizi fu chiaro lo sforzo di trovare, tramite un concorso pubblico, una soluzione anche esteticamente degna dell’opera stessa.

Nel dicembre del 1906 fu pertanto lanciato il primo “Concorso per la facciata della nuova stazione viaggiatori”. Al programma del concorso erano allegati dei dettagliati progetti dimensionali e funzionali della nuova stazione, predisposti dai tecnici delle FF.SS., che già definivano gli spazi per gli arrivi e le partenze, l’atrio centrale della biglietteria, ecc., ed anche la presenza di un grande albergo: questi piani non lasciavano quindi ai concorrenti molti spazi, salvo per la parte architettonica/decorativa.

Dopo sette mesi si riunì la commissione designata a giudicare i progetti, presieduta dall’architetto milanese Camillo Boito, preside della locale Accademia di Belle Arti; la commissione scartò ben dieci dei diciassette progetti presentati perché “non soddisfano alle condizioni del programma… o non rispondono nel loro insieme alle esigenze dell’arte applicata allo speciale soggetto”, e non aggiudicò né il primo né il secondo premio, pur segnalandone due progetti come i più meritevoli.

Passarono più di quattro anni prima che fosse bandito, nel settembre del 1911, un nuovo concorso, e nel frattempo il progetto di base delle FF.SS. fu rivisto in diverse parti (fu per esempio eliminato l’albergo incluso nella stazione), anche se rimase una forte definizione degli spazi e delle dimensioni. Questa volta al bando partecipò anche il Comune di Milano, che col suo contributo elevò notevolmente il livello dei premi destinati ai vincitori.

I progetti presentati al secondo concorso furono ben quarantatré, ed a giudicarli fu una commissione ancora presieduta da Boito; anche questa volta ne furono selezionati sette, dai quali estrarre i quattro da premiare. Alla fine degli esami la commissione fu unanime nell’assegnare il primo premio al progetto intitolato “In motu vita” di Ulisse Stacchini, ed il secondo al progetto “Per non dormire” di Boni e Redaelli. L’anno dopo (agosto 1912) il consiglio di amministrazione delle FF.SS. fece suo definitivamente il progetto di Stacchini, ma già da subito i timori che il tumultuoso sviluppo in atto per il traffico ferroviario portasse alla costruzione di un manufatto insufficiente fecero scattare una serie di richieste di varianti ed adeguamenti. Stacchini presentò una prima variante ai vertici delle ferrovie nel marzo del 1913; in essa era degno di particolare nota il fatto che veniva eliminata la galleria anteriore per i tram, inizialmente prevista, e che la facciata, nel primo progetto essenzialmente a sviluppo orizzontale, acquistava ora anche degli elementi verticali. La variante ottenne, come previsto, anche l’approvazione del Consiglio Comunale di Milano, ma nel passaggio alla successiva fase di valutazione dei costi di costruzione e dei compensi per il progettista, cominciarono a manifestarsi pesanti divergenze di opinione fra Stacchini e la direzione delle FF.SS, tanto che nel febbraio del 1914 essa deliberò di abbandonare il progetto di variante, e di troncare ogni rapporto con il progettista, dando però nel contempo il via all’esecuzione del fabbricato interno dei servizi tecnici della stazione, con l’intenzione che essa potesse così entrare in funzione nel 1917. Per quanto riguardava la parte architettonica, le FF.SS. sostenevano che: “si potrà provvedere studiando con maggior agio e d’accordo col Comune la forma e la decorazione del fabbricato esterno… occorrendo mediante un nuovo concorso”. Ma il Comune non era propenso a questa soluzione riduttiva; dopo una serie di batti e ribatti e nuove trattative, svolte sia a Milano che a Roma, si arrivò ad una convenzione definitiva con l’architetto, ed alla redazione di un terzo progetto (inizi del 1915).

Pochi mesi dopo, l’entrata in guerra dell’Italia provvide a bloccare l’inizio di concreti lavori di costruzione, dando per altro tempo a Stacchini di perfezionare il progetto ed i disegni, e di presentare nell’agosto del 1917 un grande modello in gesso (scala 1:50) dell’intera facciata.

Finita la guerra, superato un lungo periodo di crisi del paese e delle Ferrovie dello Stato, si arrivò nell'agosto del 1924 all’approvazione del progetto definitivo, non prima di aver tardivamente inserito una ulteriore, importante variante, cioè la realizzazione delle grandi coperture a tettoia che oggi caratterizzano la stazione, al posto delle pensiline che fino a quel momento erano state previste.

I lavori poterono finalmente riprendere nel dicembre del 1924, con la perentoria volontà di concluderli nel giro di cinque anni, per dimostrare, dopo tanto tempo perduto, “…ciò che possono le virtù del nostro popolo e dei nostri governanti… uniti in uno sforzo tecnico-finanziario senza precedenti, degno della tradizione di Roma”.

La costruzione della Stazione Centrale iniziò dagli edifici laterali, prima l’ala ovest e poco dopo l’ala est. Nel 1926, quando partirono gli scavi delle fondamenta dell’edificio centrale, le ali erano a buon punto e ben percepibili nella loro struttura.

I materiali di scavo delle fondamenta servirono in parte a formare il rilevato su cui sarebbero stati posati i binari, contenuto da due grandi muraglioni che erano già stati costruiti da diversi anni. La struttura portante dell’edificio, che sarà poi ricoperta da un imponente apparato decorativo, era tutta in cemento armato, come si percepisce nelle fotografie del cantiere, ma anche l’acciaio fu abbondantemente utilizzato, per le coperture delle gallerie e fu l’elemento dominante, assieme al vetro, nella costruzione delle tettoie di protezione dei binari.

La prima centina reticolare di questa enorme struttura, la più grande d’Italia, progettata dall’ingegnere delle ferrovie Alberto Fava, fu montata nel febbraio del 1929. Le pesanti strutture in acciaio, realizzate tutte per chiodatura a caldo, furono costruite dalle Officine di Savigliano, vennero messe abbastanza facilmente in opera con gru e paranchi, anche grazie alle cerniere di cui erano dotate, al culmine ed alla base.

Oltre al più appariscente complesso degli edifici furono ovviamente costruiti tutti gli impianti primari (binari, scambi, cabine di controllo, ecc) e secondari (ascensori, montacarichi, impianti termici, ecc.) che costituivano il cuore tecnologico della stazione. A metà maggio del 1931 iniziò il trasferimento dei servizi dalla vecchia alla nuova centrale, e l’imponente edificio fu inaugurato ufficialmente il 1° luglio del 1931.

L’opera “di una vita” di Ulisse Stacchini era finalmente terminata.

All’esterno è ricca di statue, ognuna delle quali nasconde una propria simbologia: dalle aquile che rappresentano la conquista di Trento e Trieste, ai cavalli alati dei bassorilievi raffiguranti lavoro, agricoltura, scienza e commercio fino ai quattro mascheroni di Mercurio, simboli del progresso delle ferrovie.

I diversi restauri avvenuti negli anni hanno portato alla luce luoghi come il Padiglione Reale, formato dalla Sala Reale e la Sala delle Armi, concepito in origine per accogliere i Savoia, e che oggi è visitabile e affittabile per eventi, e il Binario 21, tristemente noto per essere il luogo di partenza di centinaia di deportati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il cuore pulsante delle stazioni sono i numeri: delle partenze dei treni, degli arrivi, dei binari. Questi ultimi nella stazione Centrale di Milano sono 24 e, in totale l’area dei binari occupa circa 66mila metri quadrati. Sormontata da arcate di vetro e ferro, la struttura raggiunge i 72 metri di altezza, mentre il Salone della Biglietteria arriva a 42 metri. Per i materiali interni invece, pochi sanno che i marmi di cui pare rivestita altro non sono se non un’illusione ottica data da altri materiali come la scagliola, gesso, selenite, acqua e colore.

La Cattedrale del Movimento, come venne definita dallo stesso architetto, prende ispirazione della Union Station di Washington ed è forse il più importante e conosciuto esempio italiano di architettura che unisce eclettismo, liberty e razionalismo fascista.

lunedì 30 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 giugno.

Il 30 giugno 1908 una esplosione di energia stimata tra i 15 e i 50 Megatoni abbatte 80 milioni di alberi in una sperduta regione della Siberia Centrale. L’area viene esplorata solo vent’anni più tardi da L. Kulik, un mineralista dell'Università di San Pietroburgo, che riesce, in mezzo a grandi difficoltà, a trovare la zona devastata. Con le spedizioni tra il 1927 e il 1938, Kulik raccoglie numerosi indizi del fatto che la devastazione è accaduta a causa dell’esplosione in cielo di un asteroide, ma non riesce a trovare meteoriti o tracce inequivocabili di materiale di origine extraterrestre. Il mistero di Tunguska diventa lo spunto per romanzi di fantascienza, alimentati da una serie di ipotesi tra il suggestivo e lo strampalato, come l’esplosione di una astronave aliena o la disintegrazione di un piccolo buco nero.

Nel 1999, una spedizione scientifica italiana riesce a esplorare la zona dell’esplosione e in particolare un piccolo lago, il Lago Cheko, a circa 10 chilometri dall’epicentro dell’esplosione, che viene interpretato come un cratere da impatto. Si apre a questo punto un dibattito tra geologi da un lato, e i cosiddetti impattologi dall’altro. I primi hanno raccolto evidenze molto convincenti che il lago si è formato nel 1908 per l’impatto di un grosso frammento di un corpo cosmico (asteroide o cometa) sopravvissuto all’entrata nell’atmosfera. I modelli teorici degli impattologi, invece, negano la possibilità che un frammento cosmico roccioso in quelle condizioni possa giungere fino al suolo. I dubbi sollevati frenano l’impegno dei finanziamenti necessari per la perforazione del lago e bloccano in qualche modo la ricerca del grosso frammento del meteorite di Tunguska in fondo al Lago Cheko.

Sulla rivista scientifica 'Terra Nova', è stato pubblicato il lavoro di un gruppo di ricercatori italiani dell'Ismar-Cnr e delle Università di Bologna e Trieste - Luca Gasperini, Francesca Alvisi, Gianni Biasini, Enrico Bonatti, Giuseppe Longo, Michele Pipan e Romano Serra - che hanno condotto sul luogo una spedizione scientifica. Dagli studi risulta che il lago Cheko, un piccolo specchio d'acqua, circa 500 metri di diametro, situato ad una decina di chilometri dall'epicentro dell'esplosione del 1908, può essere il cratere causato dall'impatto di un 'frammento' di circa cinque metri, sopravvissuto all'esplosione principale, che si è schiantato a 'bassa velocità', ovvero a circa un chilometro al secondo.

"L'esplosione si sarebbe verificata nell'atmosfera, 5-10 chilometri al di sopra della regione di Tunguska - spiega Luca Gasperini dell'Ismar-Cnr di Bologna -. Si è trattato della deflagrazione di un asteroide o di una cometa, (la prima ipotesi sostenuta in particolare da scienziati americani, mentre la seconda è sostenuta da ricercatori russi, ndr), di circa 50-80 metri di diametro. La zona di devastazione se centrata su Bologna - sottolinea il ricercatore - raggiungerebbe Ferrara, Forlì e Modena".

"Abbiamo effettuato uno studio geofisico e sedimentologico del lago per verificare se la sua formazione potesse essere correlata all'evento, e per rilevare nella sequenza sedimentaria del lago evidenze geofisiche e geochimiche dalle quali trarre informazioni sulla natura dell'oggetto cosmico", ha spiegato Luca Gasperini dell'Ismar-Cnr. "Varie spedizioni di studiosi avevano già esplorato la zona dell'esplosione senza trovare segni d'impatto o frammenti, e formulando ipotesi, anche molto diverse fra loro, per far luce su quello che è ormai considerato a tutti gli effetti un 'mistero'. Il nostro studio sul campo è stato effettuato principalmente utilizzando rilievi di acustica subacquea, con un obiettivo dunque più ambizioso di quello della prima spedizione italiana, avvenuta nel 1991, anch'essa organizzata dal professor Giuseppe Longo dell'Università di Bologna, e limitata alla ricerca di microparticelle dell'oggetto cosmico nella resina degli alberi".

Durante la spedizione 'Tunguska99' è stata quindi per la prima volta investigata con tecniche molto sofisticate la morfologia del fondo e la natura dei depositi del sottofondo lacustre, e raccolti campioni di sedimento. "Grazie a tali indagini - ha aggiunto il ricercatore - è stato possibile scoprire che la morfologia del lago è diversa da quella dei comuni laghi siberiani di origine termo-carsica: la natura dei sedimenti recuperati dal fondo sono invece compatibili con l'ipotesi dell'impatto, che sarebbe avvenuto in una foresta acquitrinosa con uno strato sottostante di permafrost (suolo permanentemente ghiacciato) spesso oltre 30 metri".

E' stato proprio lo scioglimento del permafrost avvenuto subito dopo l'impatto a modellare la forma e le dimensioni attuali del lago, e a nasconderne la vera natura di cratere da impatto per tutto questo tempo. Questa scoperta, se confermata, contribuirà, cento anni dopo a svelare il mistero di Tunguska, dando forti contributi, e nuove paure, sulla comprensione degli effetti dell'impatto di un asteroide o una cometa con la Terra. Ipotesi tutt'altro che remota e non infrequente nella storia del nostro pianeta.

domenica 29 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 29 giugno.

Il 29 giugno 1976 le Isole Seychelles raggiungono l'indipendenza dal Regno Unito.

Le Seychelles hanno una storia umana molto breve: i primi coloni si stabilirono sulle isole solo alla fine del 18° secolo; prima di allora l’intero arcipelago era completamente disabitato. Diventate una colonia prima francese poi inglese, le Seychelles videro arrivare, assieme ai coloni, anche numerosi schiavi provenienti da varie parti dell’Africa. Questo mix di nazionalità ha dato vita a una nazione multiculturale e multietnica, mentre il lungo isolamento prima dell’arrivo dell’uomo ha fatto sì che le isole oggi ospitino un ecosistema incontaminato e un'incredibile varietà di specie vegetali ed animali.

Sebbene il primo insediamento alle Seychelles risalga al 1770, le isole erano già state avvistate molto tempo prima. Si pensa che furono scoperte nel 7° secolo da alcuni marinai arabi, delle cui visite rimangono oggi vaghe testimonianze. Nel 1602 Vasco da Gama avvistò l’arcipelago e lo indicò nelle sue mappe con il nome di “Tres Irmãos”, i tre fratelli. Oggi questa denominazione viene invece usata, in lingua francese, per indicare tre iconiche cime montuose di Mahé (Trois Fréres). I primi europei che misero piede alle Seychelles furono però gli inglesi: la Compagnia Britannica delle Indie Orientali vi sbarcò nel 1609, tuttavia senza stabilirvisi.

Fu ben 140 anni più tardi che la Francia rivolse la propria attenzione verso le Seychelles, con lo scopo di trovare un passaggio strategico da Mauritius all'India. L’amministratore francese di Mauritius, Bertrand-François Mahé de La Bourdonnais, inviò l’esploratore Lazare Picault alla scoperta dell’arcipelago. Nel 1742 Picault sbarcò sull’isola che oggi porta il nome dell’amministratore: Mahé.

Quando l’esploratore francese Lazare Picault nel 1742 sbarcò sull’attuale Mahé, rimase colpito dal suo aspetto fertile e rigoglioso, e la chiamò Ile de l’Abondance. Quando due anni dopo vi tornò per mapparla meglio, la rinominò Mahé in onore di Mahé de la Bourdonnais, suo patrono e amministratore di Mauritius. Successivamente Mahé prese il nome di Isle de Séchelles in onore del Visconte Jean Moreau de Séchelles, Ministro delle Finanze durante il regno di Luigi XV. In seguito, questo nome (anglicizzato Seychelles) passò ad indicare l’intero arcipelago, mentre Mahé tornò ad essere usato per l'isola principale.

I francesi decisero di stabilirsi alle Seychelles sia per approfittare della loro posizione strategica rispetto all’India, sia per iniziare una coltivazione di spezie, nel tentativo di fare concorrenza agli olandesi. Nel 1770, 15 coloni, insieme a una dozzina di schiavi, si stabilirono alle Seychelles. Successivamente furono portate grandi quantità di schiavi da Mauritius, dal Madagascar, dal Mozambico e in misura minore anche dall’India. Nel primo secolo di insediamento, le Seychelles ebbero pochi abitanti, ma dalla provenienza molto varia. Questo portò a una forte mescolanza di etnie e determinò il carattere multietnico e multiculturale della popolazione, ben visibile ancora oggi.

Le Seychelles rimasero alla Francia fino al 1814, quando passarono agli inglesi. È possibile osservare ancora oggi forti influenze francesi nella realtà delle Seychelles, non solo nei cognomi e nei nomi geografici, ma anche nella cucina e nella lingua. Infatti il francese è una delle lingue ufficiali del paese e rappresenta la base del creolo seychellese. Nella musica e nelle danze tradizionali è invece più forte l’impronta africana, conferita dagli schiavi dell’epoca.

Dopo le guerre napoleoniche, con il Trattato di Parigi (1814), le Seychelles furono cedute agli inglesi, seppur con le abituali pratiche francesi ancora in vigore. Diventate inglesi sulla carta, nella pratica le isole mantennero la cultura che era nata dagli schiavi e dai coloni originari; anche la lingua francese rimase dominante. La schiavitù si occupava ancora delle attività di coltivazione di palme da cocco, cotone, e spezie.

Quando nel 1835 la schiavitù fu abolita in tutti i territori britannici, alle Seychelles approdarono diverse centinaia di schiavi africani liberati, che andarono a lavorare nelle piantagioni rimaste, in cambio di razioni di cibo e salari. Anch’essi contribuirono a rendere la popolazione delle Seychelles estremamente variegata. Un altro fattore che ha contribuito alla multiculturalità delle Seychelles fu il ruolo che le isole ricoprirono, durante il controllo britannico, come luogo di esilio per prigionieri politici. Nel corso degli anni, le Seychelles videro arrivare prigionieri provenienti da luoghi come Zanzibar, Egitto, Cipro e Palestina, per citarne solo alcuni.

Nel 20° secolo si iniziò a sviluppare all’interno della popolazione una maggiore consapevolezza politica, che si rifletté nella graduale formazione di partiti politici. Nonostante ciò, forti differenze sociali ed economiche continuarono ad esistere. Nel 1976 le Seychelles raggiunsero l’indipendenza, divenendo una repubblica indipendente all'interno del Commonwealth. Con il graduale declino delle piantagioni, si svilupparono le industrie della pesca e del turismo, oggi le principali fonti di reddito delle isole.

È anche grazie alla loro storia se le Seychelles sono oggi considerate una destinazione da sogno. Non solo l'enorme varietà naturale, ma anche la diversità culturale ed etnica rendono queste isole un luogo unico al mondo.

È innegabile che l'insediamento umano delle Seychelles abbia danneggiato l'ecosistema delle isole: diverse specie animali sono scomparse e parte della vegetazione originaria fu distrutta in favore della produzione di legname e di piantagioni. Oggi il turismo sostenibile e rigorosi progetti di conservazione naturale e di salvaguardia degli ecosistemi marini svolgono un ruolo importante alle Seychelles e fanno sì che questo paradiso sia preservato.

Circa 90.000 persone vivono stabilmente sulle otto isole permanentemente abitabili dello stato, il 90% sull'isola più grande, Mahé. Inoltre il 90% della popolazione è creola (per la maggior parte discendente dai colonizzatori provenienti dalle colonie francesi ed i loro schiavi africani), mentre il 10% degli abitanti è di origine europea.

Da tempo immemorabile le isole esercitano un forte fascino su persone provenienti da tutto il mondo. Le radici multietniche degli abitanti provengono da Francia, Africa, India, Regno Unito, Cina ed il mondo arabo, solo per citare alcuni esempi. Quasi ogni nazione del mondo può essere ritrovata nel melting pot culturale delle Seychelles, dove ha lasciato un'impronta individuale e ha formato così una vibrante società pacifica.

Tutti sono in condizioni di parità, indipendentemente dal fatto che i loro antenati fossero schiavi, avventurieri, esiliati, pirati, o semplicemente "emarginati". Oltre alla presenza di tutte le possibili sfumature di colore della pelle, è da notare la presenza abbastanza frequente di occhi azzurri o chiari - questo può essere un'indicazione del fatto che gli ex coloni francesi provenivano principalmente dalla costa atlantica settentrionale.

Molte famiglie contemporanee delle Seychelles vivono senza sposarsi, ed i bambini spesso crescono con i nonni, dal momento che una percentuale significativa di donne al giorno d'oggi lavora fuori casa. Inoltre, non è raro che un uomo abbia diverse amanti, pur essendo sposato - e allo stesso modo ci sono donne che hanno figli da diversi uomini. A parte questo, i concetti morali dei seychellesi sono comunque simili a quelli dell'Europa centrale. Nel 21° secolo alle Seychelles si può riconoscere un grado di benessere maggiore rispetto ad altri paesi africani, il reddito pro capite è addirittura superiore a quello di alcuni paesi europei.

La età media alle Seychelles è di 32 anni. La crescita della popolazione annuale è dello 0,4%. Chi fa un viaggio alle Seychelles si accorgerà che la gente del posto accoglie i propri ospiti stranieri in modo sempre disponibile e cortese. Per quanto riguarda il loro ritmo di vita quotidiana, regna una grande tranquillità: la fretta a noi per lo più familiare non è conosciuta alle Seychelles.

La lingua comune della popolazione mista è una variante delle lingue creole, conosciuta come creolo delle Seychelles o seselwa. Questa lingua madre di tutti i seychellesi è un mix evolutosi nella storia e derivato da lingue africane, come lo swahili ed il malgascio, e le lingue degli ex padroni coloniali, soprattutto il francese. Le lingue ufficiali sono il creolo, l'inglese ed il francese.

I seychellesi sono per la maggior parte cristiani cattolici (82,3%). Il 6,4 % appartiene alla chiesa anglicana, un 2% al induismo, ed un 1,1% alla fede islamica. Il 2% della popolazione appartiene a credi cristiani minori, come gli avventisti ed i Bahai. (Dati: Gennaio 2016, Ministero degli Affari esteri tedesco).

A prescindere dalla religione, stregoneria, magia, superstizione e divinazione hanno una certa ed indiscussa importanza. Non di rado si chiede consiglio ad un "Tonton", un mago, che viene spesso consultato dai seychellesi quando devono prendere decisioni importanti, durante periodi di malattia o altri problemi personali. Anche l'uso di talismani è molto diffuso.

sabato 28 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 28 giugno.

Il 28 giugno 1919 venne firmato il trattato di Versailles.

Quella che doveva essere una conferenza volta a ristabilire una pace duratura si tramutò, invece, nella causa embrionale della seconda, immane, tragedia.

I delegati delle potenze vincitrici si ritrovarono a Versailles nel gennaio 1919, per ristabilire i nuovi assetti di un’Europa straziata da una guerra devastante, che aveva travolto assetti consolidati da secoli, con il crollo di ben 4 grandi imperi.

Già nel gennaio 1918 il presidente americano Wilson aveva enunciato i suoi 14 punti, volti a definire una pace giusta e duratura e a creare un organismo garante dell’integrità territoriale, che avrebbe dovuto vigilare su eventuali tentativi sovversivi e di destabilizzazione; in realtà, fin dalle prime battute, la conferenza di Versailles, anziché mirare a creare una situazione di armonia, si caratterizzò per il suo intento punitivo nei confronti delle nazioni vinte, che, senza essere neppure invitate, furono costrette a subire condizioni umilianti delle potenze alleate, animate da un profondo desiderio di vendetta.

La stessa associazione voluta dal presidente statunitense, la società delle nazioni, nacque, in pratica, già morta, priva di effettivi poteri e svuotata dall’assenza, tra i suoi membri, non solo di delegati dei paesi sconfitti, ma anche di quelli americani, dopo la politica d’ "isolamento" decisa dal congresso.

Se l’impero Austro-Ungarico cessò di esistere politicamente, la Germania, ove nel frattempo era stata proclamata la repubblica, si ritrovò, praticamente, in ginocchio:

considerata la causa di tutte le sciagure e la principale responsabile dei lutti provocati da 4 anni di guerra, fu privata di tutte le colonie e dell’Alsazia e della Lorena, tornate alla Francia, che si arrogò pure il diritto di sfruttare le miniere della Saar.

La fragile repubblica di Weimar fu inoltre condannata a pagare debiti di guerra astronomici, a smilitarizzare la zona del Reno, a cedere la flotta di guerra all’Inghilterra (ma le navi tedesche, confinate a Scapa Flow, preferirono l’auto-affondamento) a limitare l’esercito a soli 100.00 effettivi, a rinunciare ad artiglieria, sommergibili ed aviazione; la stessa Prussia orientale, la regione dalla quale partì il processo di unificazione del paese, venne separata dalla madrepatria, attraverso il cosiddetto "corridoio" di Danzica, creato al fine di concedere uno sbocco sul mare alla neonata Polonia e proprio il corridoio di Danzica sarebbe tragicamente divenuto noto come la causa scatenante del secondo conflitto mondiale.

La Germania post-bellica appariva come un paese sull’orlo del baratro, disastrato dalla fame, dalla miseria, dalla disoccupazione, con l’inflazione che raggiunse livelli talmente spaventosi da ridurre il marco a mera carta straccia; i tumulti di piazza, i disordini erano all’ordine del giorno e lo stesso governo appariva troppo debole per poter arginare la protesta e le insurrezioni che rendevano, sempre più concreto, lo spettro di una rivoluzione filo-bolscevica.

In una nazione distrutta ed umiliata, si fece dunque sempre più strada il partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi di Adolf Hitler, che, nel giro di pochi anni riuscì a conquistare il favore delle folle, assolutamente conquistate dai suoi appassionati discorsi, imperniati, proprio, sulla necessità di riportare la Germania ai fasti e alla grandezza di un tempo e di cancellare le umiliazioni inferte ad un popolo, destinato, necessariamente, a prendersi la rivincita sulle nazioni vincitrici.

Si può dunque dire che gli errori dei trattato di pace di Versailles furono fatali per gli equilibri europei e per i sogni di una pace stabile e certa: a causa del desiderio di vendetta delle potenze alleate, sotto la cenere della "grande guerra", covò il sentimento di rivalsa degli sconfitti, che sarebbe sfociato, nel settembre 1939, nel secondo drammatico incubo, capace di travolgere i fragili equilibri creati e responsabile, tragicamente, della morte di ben 50 milioni di persone.

venerdì 27 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 27 giugno.

Il 27 giugno 1833 l'insegnante Prudence Crandall viene arrestata per aver aperto la sua scuola privata in Connecticut a studenti di colore.

Una insegnante quacchera e abolizionista; Prudence Crandall si oppose coraggiosamente alla discriminazione razziale aprendo una delle sue prime scuole in Connecticut a ragazze afroamericane. Nonostante fosse supportata da molti attivisti contro la schiavitù, tra i quali William Lloyd Garrison, la Crandall, una donna bianca, dovette subire un processo e la ridicolizzazione pubblica per i suoi sforzi di educare neri liberi del Nord.

Nata a Hopkinton, Rhode Island, il 3 settembre 1803 dai contadini Pardon ed Esther Carpenter Crandall, Prudence si spostò con la sua famiglia a Canterbury, nel Connecticut, all'età di 10 anni. Frequentò la New England Friends' Boarding School a Providence, studiando aritmetica, Latino e scienza (materie non usuali per le donne, ma i quaccheri credevano nelle pari opportunità di educazione). Dopo un breve insegnamento a Plainfield, nel 1831 aprì una scuola privata per ragazze a Canterbury, inizialmente destinata alle famiglie facoltose della città. Il suo curriculum rigoroso le consentì di dare alle ragazze un'educazione paragonabile a quella delle migliori scuole maschili, posizionandola come una delle migliori scuole dello Stato. 

Nel 1832 la Crandall ammise a scuola Sarah Harris, figlia di un afroamericano di successo, che sognava di diventare una insegnante. i genitori bianchi delle altre ragazze inorridirono, chiedendo a gran voce che la ragazza venisse espulsa. La Crandall rifiutò. I genitori ritirarono le loro figlie dalla scuola, e lei la trasformò in una scuola per ragazze di colore. Ciò non placò l'ostilità della comunità, che temeva che la scuola attirasse altre ragazze afroamericane nel territorio col rischio di portare a matrimoni misti. Garrison, editore del "Liberator", il giornale più antirazzista del Paese, aiutò la Crandall facendole pubblicità e mettendola in contatto con le famiglie afroamericane più facoltose, interessate a inviare le loro figlie nella sua scuola. 

I cittadini bianchi di Canterbury protestavano continuamente. Le studentesse venivano aggredite fuori dalla scuola con minacce, urla e violenza. Bersagliate da lanci di uova, pietre e mattoni. Il municipio di Canterbury emise nel 1833 una legge, la "black law" (ritirata nel 1838), che rendeva illegale gestire una scuola che accogliesse studenti afroamericani provenienti da uno Stato diverso dal Connecticut. La Crandall venne arrestata e imprigionata. Il primo processo terminò con un non luogo a procedere, nel secondo venne condannata, sentenza poi ribaltata da una corte superiore. La notte del 9 settembre 1834 una folla inferocita assaltò la scuola rompendo tutte le finestre e devastando mobili e attrezzature. Temendo per la sicurezza delle studentesse, la Crandall decise infine di chiudere la scuola. 

Nel 1835 la Crandall sposò un ministro battista e abolizionista, il reverendo Calvin Philleo. La coppia lasciò il Connecticut, stabilendosi a La Salle, Illinois, dove la Crandall fondò un'altra scuola e partecipò attivamente al movimento delle suffragette. Dopo la morte del marito nel 1874, si trasferì a Elk Falls, in Kansas, andando a vivere con suo fratello. Fu lo scrittore Mark Twain a farsi promotore di una iniziativa tra i cittadini pentiti della città, grazie alla quale ricevette una piccola pensione dal Municipio di Canterbury fino alla morte. 

Oggi la sua vecchia scuola ospita il Museo Prudence Crandall, e lei è stata insignita del titolo di eroina dello Stato del Connecticut.


giovedì 26 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 26 giugno.

Il 26 giugno 1974 viene usato per la prima volta il codice a barre per prezzare un prodotto al supermercato.

Furono due ingegneri e inventori statunitensi, Norman Joseph Woodland e Bernard Silver, a brevettare il codice a barre, insieme di simboli grafici che codifica una serie di informazioni leggibili da specifici lettori laser. Lo registrarono nel 1949, quando erano studenti di ingegneria all'Università di Drexel, e il brevetto fu riconosciuto il 7 ottobre 1952.

L’idea del barcode prese forma su una spiaggia, come ricorda tra gli altri il quotidiano “The Guardian”. Silver e Woodland, sollecitati dal direttore di un supermercato a lavorare sull’idea di un sistema per marcare i prodotti e rendere più rapidi i pagamenti, si ispirarono al codice morse e, proprio durante una giornata al mare, disegnarono barre strette e barre larghe. In seguito utilizzarono dei codici a barre ovali e brevettarono la loro invenzione. I primi tentativi di riconoscere i codici a barre con un fotomoltiplicatore originariamente utilizzato per la lettura ottica delle bande audio dei film non ebbero successo.

L'eccessivo rumore dei dispositivi termoionici, il calore generato dalla lampada utilizzata per l'illuminazione e il peso risultante dall'insieme erano ostacoli insormontabili. Il successivo sviluppo della tecnologia laser permise ai lettori di essere costruiti a prezzi più accessibili e lo sviluppo dei circuiti integrati permise la decodifica vera e propria dei codici. Woodland, prima di morire nel 2012 all'età di 91 anni, fu insignito soltanto nel 1992 della medaglia nazionale statunitense per la tecnologia. Silver, invece, morì nel 1963, a 38 anni, prima di vedere le applicazioni pratiche del brevetto.

Ci vollero diversi anni, infatti, perché il codice a barre divenisse realmente uno strumento per velocizzare le code alle casse dei supermercati. Al 1972 risale una sperimentazione-flop in un grande magazzino di Cincinnati, e l'anno dopo fu lo stesso Woodland – che nel frattempo era andato a lavorare per la Ibm, cui aveva venduto il brevetto, in seguito ceduto alla Philco e, più tardi, alla RCA – a ideare i primi Upc, gli Universal product code. Bisognerà attendere ancora un anno perché venga venduto il primo prodotto utilizzando un lettore di codici a barre: un pacchetto di chewing gum che il 26 giugno 1974 fu acquistato in un supermarket di Troy, nell'Ohio. Quel pacchetto, un pezzo di storia contemporanea americana (e mondiale), si trova conservato allo Smithsonian's National Museum. Poi, dall'inizio degli anni Ottanta, il codice a barre – nelle sue infinite declinazioni – si affermò anche in Italia e nel resto d'Europa. E resiste anche all'avvento degli odierni “QR code”, o codici a barre bidimensionali – quelli da “leggere” con gli smartphone, per intenderci.

mercoledì 25 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 25 giugno.

Il 25 giugno 1963 nasce George Michael. 

Nasce Georgios Kyriacos Panayiotou  a Bushey (Inghilterra). Il padre, ristoratore, è di origine greco-cipriote.

E' il 1975 quando nel quartiere di North London, alla "Bushey Meads Comprehensive School" conosce Andrew Ridgely.

Quattro anni più tardi (5 novembre 1979) insieme a Paul Ridgely, fratello di Andrew, David Mortimer e Andrew Leaver, nasce il gruppo "The Executive"; provano a fare musica ska senza però ottenere molta fortuna.

Il 24 marzo 1982 George Michael e Andrew incidono un demo sotto il nome di "Wham!". Il demo li porta a firmare un contratto con la Innervisions. Il 28 maggio viene pubblicato in Inghilterra il loro primo singolo, "Wham Rap!"; sarà con "Young guns go for it" che il duo vedrà numeri di vendita significativi. I singoli che seguono sono "Bad Boys", che George Michael propone come il manifesto della sua generazione, e la notissima "Club Tropicana".

Esce quindi il loro primo album: "Fantastic".

Il successo crescente li porta ad abbandonare la piccola etichetta per passare alla CBS. Intanto nel luglio del 1984 viene pubblicato in Inghilterra il singolo "Careless Whisper", primo lavoro solista di George Michael da lui scritta all'età di diciassette anni. In America viene pubblicata con il nome "Wham! featuring George Michael".

La canzone diventa uno dei brani più programmati dalle radio di tutto il mondo.

Tra il 1984 e il 1985 escono i singoli "Wake me up before you go go" (primo posto nelle classifiche pop statunitensi), "Freedom", "Everything she wants", "Last Christmas" e "Do they know it's Christmas". Quest'ultima viene scritta per "Band Aid", con obiettivi solidali (i proventi sono destinati alle vittime della carestia che affligge l'Etiopia), e cantata da una selezione dei più rappresentativi artisti della musica pop europea (tra gli altri anche Bono degli U2).

L'ultimo album degli "Wham!" è "The edge of heaven". Il 13 novembre 1985 si sciolgono; il 28 giugno 1986 il concerto "The Final" al Wembley Stadium riunisce 72.000 persone, che assistono commosse all'ultimo capitolo del duo.

Di Andrew si perdono le tracce; molti anni più tardi inciderà l'album "Son of Albert", che si rivelerà un fallimento.

George Michael invece affina il suo stile ed aggiunge elementi di black music alla sua musica. Nel 1987 George Michael è il primo vocalist maschio in assoluto a duettare con Aretha Franklin. Inizia quindi i suoi viaggi tra Londra e la Danimarca dove registra il suo primo album solista "Faith", che venderà oltre 14 milioni di copie in tutto il mondo. Il primo singolo estratto è il controverso "I want your sex".

Nel 1988 partecipa al "Nelson Mandela Freedom Concert" a Wembley. L'immagine dell'artista intanto sembra essere considerata più della musica: nel 1990 mette in atto un cambiamento totale. Registra "Listen Without Prejudice Vol. 1" decide di non apparire in copertina, di non apparire in video e di non concedere interviste. Nel video di "Praying for time" compare solo il testo della canzone; in quello "Freedom '90" appaiono modelle all'epoca semi-sconosciute come Linda Evangelista, Naomi Campbell e Cindy Crawford.

Dal 1991 in poi collabora con vari artisti tra i quali Elton John, con cui canta allo stadio di Wembley un'indimenticabile "Don't let the sun go down on me". L'anno seguente, il 20 aprile, partecipa al "Freddie Mercury Tribute Concert" dove duetta con Lisa Stansfield in "These are the days of our lives"; stupisce quando interpreta "Somebody to love".

Manifesta ancora il suo impegno per la lotta contro l'AIDS suonando d'avanti alla principessa del Galles nel "Concerto Della Speranza" trasmesso in mondovisione, servito per raccogliere fondi e sensibilizzare l'opinione pubblica sulla malattia.

Nel 1992 esce "Red Hot + Dance" un progetto con scopi di beneficenza che contiene canzoni di artisti come Madonna, Seal oltre che George Michael.

Inizia poi una battaglia legale per liberarsi dal contratto che lo lega all'etichetta CBS/Sony. L'opinione pubblica considera il comportamento del cantante come snobistico. La guerra in atto contro la casa discografica trascina George Michael in un lungo silenzio.

Finalmente nel 1996 dopo la agognata separazione dall'etichetta Epic, esce il tanto atteso album "Older" con la Virgin.

L'8 ottobre 1996 esegue un unplugged su MTV che incanta il pubblico. Dopo l'album "Older" la felicità e i successi di George Michael possono essere considerati una rinascita. Il momento migliore della sua vita viene rovinato dalla scomparsa della madre a causa di un tumore. A lei dedica "Waltz away dreaming", straordinario saluto "recitato" insieme a Toby Bourke.

Alla morte di Lady Diana, a cui è legato, le regala "You have been loved".

Esce poi la raccolta "Ladies and Gentleman" che contiene l'inedita "Outside", canzone con cui George Michael dichiara esplicitamente la propria omosessualità con ironia e con un invito al mondo intero ad accettare ogni apparente diversità come qualcosa di assolutamente normale.

Alle soglie del nuovo millennio esce "Songs of the last century", nel quale trovano posto brani che hanno segnato il ventesimo secolo riarrangiati con parti orchestrali.

Nei primi mesi del 2002, dopo anni di relativo silenzio discografico torna sulle scene con il singolo "Freeek!", il cui video traboccante di nudità, scene sexy e depravazioni sessuali assortite scatena un putiferio tra i puritani del Regno Unito.

Anche nella politica George Michael ha "qualcosa da dire": nel 2003 esce la canzone "Shoot the dog", il cui videoclip a cartoni animati vede come protagonisti gli "amanti" d'eccezione, George W. Bush e Tony Blair. Compaiono anche la signora Blair, Saddam Hussein e... i missili americani.

Cambia nuovamente etichetta e dopo la Universal, il cantante torna in Sony. Fa slittare la pubblicazione dell'album che esce nel 2004: "Patience", anticipato dal singolo "Amazing".

Nel 2006 torna con un nuovo singolo ("An easier affair") e un nuovo tour mondiale. Nel maggio 2011 annuncia il Symphonica Tour, un tour mondiale con un'orchestra sinfonica. Pochi mesi dopo, il 21 novembre, viene ricoverato a Vienna a causa di una grave forma di polmonite. Torna ad esibirsi durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra 2012, cantando "Freedom e White Light".

Il 4 settembre 2012 riprende il tour Symphonica Tour a Vienna, dove, nell'occasione, dedica il concerto a tutto lo staff medico che 9 mesi prima gli aveva salvato la vita. Tuttavia in seguito annulla le date australiane a causa dell'affaticamento e stress dovuti al non perfetto recupero dalla grave malattia dell'anno precedente.

Nel 2014 ritorna sulla scena musicale con un nuovo album, "Symphonica", che contiene tutti i grandi successi di George Michael eseguiti durante i concerti del Symphonica Tour.

A soli 53 anni, muore improvvisamente il giorno di Natale, 25 dicembre 2016, a causa di un infarto, nella sua casa di Goring-on-Thames;  l'artista è stato sepolto all'Highgate Cemetery, nel nord della capitale, accanto alla tomba della madre.

martedì 24 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 giugno.

Il 24 giugno 217 a. C. Annibale infligge una cocente sconfitta all'esercito romano presso il lago Trasimeno.

Annibale nacque nel 247 a.C. quando il padre Amilcare Barca si trovava in Sicilia a capo di un esercito con l’intento di presidiare le fiorenti colonie che Cartagine possedeva nell’isola.

All’età di 9 anni il padre lo chiamò a sé e, dopo averlo condotto davanti ad un altare, gli fece giurare solennemente eterno odio nei confronti dei Romani.

Per tutta la vita, Annibale tenne fede a tale giuramento.

A 18 anni rimase orfano di padre e a 26 gli successe nel comando dell’esercito. Innanzitutto decise di portare a termine l’opera intrapresa dal padre e lasciata incompiuta. Pertanto si dedicò alla conquista della Spagna e dei Pirenei fino alla valle del Rodano con l’intento di assicurare a Cartagine le vie commerciali verso la Gallia. Tutto questo avveniva con l’intento di creare una vasta rete di alleanze con le tribù galliche in attesa di aprire le ostilità contro i Romani.

Nel 219 a.C., dopo otto mesi di assedio, Annibale riuscì ad espugnare Sagunto, città spagnola alleata di Roma. La sfida contro Roma era così lanciata. Fu allora che divise l’esercito cartaginese in tre parti: una fu inviata a Cartagine per difendere la città in caso di attacco romano, l’altra rimase a presidiare la Spagna e la terza, formata da 50.000 soldati, 9.000 cavalieri e 367 elefanti, fu destinata alla conquista dell’Italia per combattere contro Roma.

Stando a quanto scrive Tito Livio, dopo aver risalito il corso della Durance e attraversato il valico del Monginevro, Annibale scese in Italia scendendo la valle della Dora Riparia. Le perdite dovute al viaggio furono enormi ma non per questo i Cartaginesi si persero di coraggio. Dopo le prime vittorie sul Ticino e sulla Trebbia, Annibale si diresse verso l’Italia centrale dove riportò una grande vittoria sul lago Trasimeno. Tuttavia, piuttosto che dirigersi verso Roma, preferì puntare verso l’Italia meridionale per farsi amiche tutte quelle città da poco entrate nell’orbita romana anche perché da qui gli sarebbe stato più facile mettersi in contatto con Cartagine. A Canne, Annibale riportò una vittoria schiacciante sull’esercito romano, senza che tuttavia la potenza romana fosse spezzata. Se le numerose vittorie riportate sui Romani, non permisero ad Annibale di piegare il tanto odiato nemico, ciò era dovuto al comportamento di coloro che governavano Cartagine. Essi temevano che Annibale, con la sua eclatante impresa, diventasse troppo potente e acquisisse il favore del popolo a tal punto da acclamarlo capo della città. In questo modo la ricca classe di mercanti e di magistrati che reggevano la città avrebbe perso tutto il suo potere; per questo motivo non fornirono ad Annibale tutto l’aiuto necessario.

Annibale rimase in Italia 16 anni durante i quali Roma non arrivò mai ad allontanare dalla penisola il pericolo cartaginese perché l’esercito era guidato da consoli troppo spesso in dissidio fra di loro. Alla fine, Roma riuscì ad opporgli un romano degno di lui nella persona di Publio Cornelio Scipione, il cui padre era stato sconfitto sedici anni prima nella battaglia del Ticino. Egli decise di agire con astuzia e per snidare i Cartaginesi dall’Italia portò la guerra in Africa. Fu così che Annibale lasciò l’Italia e i due eserciti si scontrarono a Zama: entrambi combatterono con grande coraggio, ma la vittoria arrise all’esercito romano.

Terminata la guerra, Annibale cercò di risollevare le sorti di Cartagine; fu eletto alle più alte cariche dello Stato, ma i suoi propositi non furono compresi dai concittadini sempre piuttosto diffidenti ed inclini a mercanteggiare piuttosto che a combattere. Ad un certo punto, egli ebbe il timore che la classe governante lo volesse consegnare nelle mani dei Romani pur di ingraziarseli. Allora, egli decise di abbandonare Cartagine per recarsi in Oriente dove si mise a servizio del re della Siria e del re di Bitinia. Questi erano, però, dei sovrani molto incapaci che non seppero approfittare dei consigli forniti loro da un grande stratega e fallirono nei loro intenti. Ancora una volta, Annibale temette di cadere nelle mani dei Romani. Infatti, un giorno, accortosi che il palazzo era circondato da inviati romani e che stava per cadere loro prigioniero, preferì darsi la morte col veleno che portava sempre con sé. Annibale aveva 65 anni e nello stesso anno, siamo nel 183 a.C., moriva anche Publio Cornelio Scipione, chiamato l’Africano.

lunedì 23 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi




 Buongiorno, oggi è il 23 giugno.

Il 23 giugno 1939 a Berlino Italia e Germania firmano l'accordo per le cosiddette "opzioni" riservate ai cittadini dell'Alto Adige.

L’11 marzo del 1938 avvenne "l’Anschluss" , ovvero l’annessione dell’Austria al nuovo Reich tedesco.

Il 23 giugno del 1939 venne firmato a Berlino nel comando generale delle SS l’accordo tra Italia e Germania riguardante il trasferimento dei Sudtirolesi nel Reich. Questo consisteva nella "libera" possibilità di scegliere (optare) entro il 31 dicembre '39 se rimanere nell’Italia fascista con l’obbligo di essere fedeli al Duce o se espatriare nella Germania nazista.

Il 29 giugno la notizia divenne pubblica e un’ondata di costernazione invase la regione. Gli uomini raggruppati intorno l’ "Unione tedesca" e il gruppo di lotta popolare sudtirolese (VKS) erano d’accordo nel rifiutare l’opzione. Il 22 luglio il VKS però cambiò opinione per quanto riguardava l’opzione.

La popolazione fu percorsa da due grandi correnti: i "Dableiber" e gli "Optanti". I "Dableiber" erano coloro che volevano rimanere fedeli alla propria patria, invece quelli che volevano essere trasferiti nel "Terzo Reich" erano gli "Optanti".

La propaganda pro e contro le opzioni era intensa. I favorevoli all’espatrio intimidivano quelli che volevano restare nella loro terra con il terrore, spargendo la voce di un possibile insediamento nelle colonie italiane in Africa o in Sicilia, qualora avessero optato per rimanere in Italia. Taluni ritennero le opzioni una specie di consultazione popolare ostile all’Italia. Alcuni, per rimanere nel loro territorio, facevano riferimento ai vincoli fra viventi e cari deceduti che riposavano nei cimiteri. I rossi gerani in fiore che in Tirolo secondo la tradizione abbelliscono le finestre e i balconi delle case, e che sono chiamati "amore ardente" (brennende Liebe), simboleggiavano il vincolo con la propria terra che non si poteva abbandonare.

Molti scelsero l’emigrazione, ma altri rimasero nella propria patria. Alla scadenza del termine, 166.488 altoatesini avevano optato per la Germania mentre 63017 persone erano opposte. Coloro che avevano dichiarato l’intenzione di rimanere nella loro terra vennero sottoposti a gravi manifestazioni di ostilità ed intolleranza anche dagli stessi familiari.

Intanto il 1° settembre 1939 era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale. A causa del conflitto e dei  continui bombardamenti sulle reti di comunicazione, solo 75.000 persone effettive espatriarono: dapprima i non sposati e i più poveri, poi gli artigiani e molti contadini con famiglie numerose. La maggior parte di loro si insediò nel Vorarlberg. Solamente una minima parte degli optanti ritornarono in Alto Adige dopo la fine della guerra.

Dopo l'armistizio, i tedeschi occuparono militarmente l’Alto Adige nel giro di due giorni, il 9 e il 10 settembre del 1943, senza che si verificassero scontri fra le forze italiane. Un certo numero di militari italiani si diede alla "macchia" cercando la strada verso casa, mentre i rimanenti vennero disarmati e imprigionati nei campi di concentramento.

Il comandante supremo dell’Alto Adige, Franz Hofer, diede subito inizio alla sua sistematica azione, per escludere dalla regione ogni forma d’autorità italiana e gettare le premesse dell’annessione del territorio al Reich. Fra questi vi era il distacco dalle provincie di Trento e Belluno e il confine di Stato con posti di blocco, per impedire, a chi non fosse fornito di uno speciale permesso, l’entrata o l’uscita dalla "zona d’operazione".

Fu cambiata anche la toponomastica con lo scopo di far capire che gli anni della predominanza fascista erano completante chiusi. Gran parte delle autorità amministrative italiane furono sostituite con elementi tedeschi, in quasi tutti gli enti pubblici furono nominati commissari fedeli al Reich e di madre lingua tedesca. Si ebbe l’introduzione forzata del bilinguismo; il giornale italiano "La Provincia di Bolzano" venne soppresso e sostituito con il "Bozner Tagesblatt"; l’unica emittente italiana venne sostituita con un’emittente tedesca; fu costituita la polizia locale che era composta per lo più da uomini di lingua tedesca.

Si volle dare, perciò, un’impronta totalmente tedesca alla vita pubblica locale riscoprendo e valorizzando le vecchie tradizioni, divenute sovversive durante il periodo fascista.

La scuola italiana venne chiusa. Dopo l’8 settembre la polizia alto atesina procedette all’arresto dei membri della comunità israelitica di Merano, circa una quarantina, che furono deportati in Germania, da dove ne fece ritorno solo uno.

La RSI non poteva inviare i propri funzionari, i quali trovarono pure difficoltà a diffondere la stampa fascista. Hofer proibì anche l’apertura di una sede del Partito Fascista e il reclutamento di giovani altoatesini fra le forze repubblichine, tanto che emise un editto in cui stabilì che tutti i ragazzi nati fra il 1924 e il 1925, senza specificare l’appartenenza linguistica, dovevano prestare fedeltà alle forze naziste.

La discriminazione del gruppo linguistico italiano fece sì che molti membri, anche ex fascisti, entrassero a far parte delle organizzazioni di lotta contro l’oppressione nazista.

domenica 22 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 giugno.

Il 22 giugno 1956, a Los Alamos, viene scoperto il neutrino.

La prima evidenza sperimentale del neutrino costituisce una delle ricerche più estenuanti e lunghe della storia della fisica moderna. Ci fu addirittura chi, come Hans Bethe (premio Nobel per la fisica nel 1964) aveva dichiarato che non ci fosse modo in pratica di osservare un neutrino.

E’ effettivamente vero che un singolo neutrino attraversa la materia praticamente senza interagire, ma se i neutrini fossero stati tanti e l'osservazione si fosse protratta per un lungo tempo, si sarebbe potuto sperare che almeno uno di essi venisse catturato ed identificato. Il problema era quello di reperire una sorgente di neutrini sufficientemente intensa. Dopo varie ipotesi gli scienziati americani Frederich Reines  e Clyde Cowan montarono nel 1953 un rivelatore di grandi dimensioni (per quel tempo) nei pressi del reattore nucleare a fissione del Savannah River nel South Carolina. L’esperimento faceva parte di quello che avevano battezzato “Progetto Poltergeist” dato che l’impalpabilità del neutrino lo rendeva simile ad un fantasma.

In un reattore nucleare a fissione i nuclei di uranio si dividono in frammenti più piccoli, liberando neutroni. Questi neutroni liberi decadono in protoni ed emettono antineutrini (l’antiparticella del neutrino). Tipicamente un reattore nucleare emette nell’ambiente circostante 10000 miliardi di antineutrini al secondo per centimetro quadrato. Se questi antineutrini transitando nel rivelatore interagiscono con i protoni presenti, questi espellono positroni e si trasformano in neutroni. In verità, a quel tempo, Cowan e Reines erano ignari della distinzione tra neutrino ad antineutrino, ma sapevano che se i neutrini fossero esistiti, per la conservazione della carica elettrica, i prodotti della reazione avrebbero dovuto essere un neutrone ed un positrone (cioè un anti-elettrone). Il positrone appena formato, incontrando un elettrone, si annichila originando due raggi gamma. Il rivelamento di questa radiazione rappresenta il primo segnale della reazione. Un secondo segnale deriva dalla cattura del neutrone appena formato dal nucleo di un atomo particolare, che assorbe il neutrone ed emette fotoni di una precisa energia. Questi due segnali uno successivo all’altro, separati da un ben preciso intervallo temporale, costituiscono la firma inconfondibile di una reazione originata da un neutrino.

Il rivelatore costruito dai due ricercatori conteneva una grande quantità d'acqua, le cui molecole sono ricche di protoni, nella quale era sciolto del cloruro di cadmio, che aveva il compito di catturare i neutroni. All'esterno vi erano apparecchi capaci di rivelare la presenza di raggi gamma e di determinarne energia e direzione. Nel 1956, venne annunciato l'avvistamento del primo antineutrino concludendo una caccia durata 25 anni.

Sembra che quando Reines ricordò a Bethe la frase pronunciata molti anni prima, questi replicò: “Beh, non dovresti credere a tutto ciò che leggi!”.

Clyde Cowan morì nel 1974, Frederick Reines per il suo lavoro sulla fisica del neutrino venne insignito del premio Nobel per la Fisica nel 1995, premio che, a detta di molti, avrebbe dovuto essere assegnato parecchi anni prima.

sabato 21 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 giugno.

Il 21 giugno 1321 un editto emesso a Poitiers dal re Filippo V di Francia e Navarra ordinava la reclusione e l’eccidio dei lebbrosi che erano stati giudicati colpevoli di complotto. Le cronache riportano infatti che i malati – sotto tortura – avevano confessato di essersi alleati con gli ebrei per contaminare acque, fontane e pozzi.

La voce della cospirazione si era diffusa più in fretta di qualunque contagio e la popolazione, inorridita, era intervenuta prima ancora dell’editto reale, intrappolando nelle case i lebbrosi e dando loro fuoco. In seguito i colpevoli sarebbero stati giudicati con maggiore sangue freddo e reclusi in ghetti, in modo che la separazione dalla società civile potesse impedire loro di causare del male agli innocenti. Due editti di poco posteriori, emanati il 16 e il 18 agosto, permisero la continuazione dei processi, mentre l’anno seguente il successore di Filippo V, Carlo IV detto il Bello, confermò il programma di reclusione dei lebbrosi.

La paura della cospirazione si diffuse costeggiando i Pirenei, viaggiando di pari passo con pestilenze e carestie. Risaliva il cammino di Santiago di Compostela confondendosi tra i miti dei Paesi Baschi e il folklore popolare. Vent’anni dopo, alla corte del re Carlo II di Navarra, il poeta e compositore francese Guillame de Machaut narrava eventi simili nel suo poema in stile cortese Le jugement dou Roy de Navarre; nell’esordio descriveva un succedersi di avvenimenti catastrofici preceduti da segni nel cielo culminati con un gran numero di morti. La responsabilità ricadde questa volta sugli ebrei e sui loro complici. Il racconto del poeta s’ispirava probabilmente alla grande peste nera che sconvolse la Francia nel 1349; esso rifletteva anche il clima di isteria collettiva dell’epoca e rappresentava lo stereotipo persecutorio teso ad accusare di cospirazione, a seconda dell’occasione, ebrei, lebbrosi ed eretici (successivamente le streghe) per poter legittimare la violenza nei loro confronti: il verosimile si fonde con l’immaginifico teso a ricreare eventi irreali – o ispirati a fatti reali, come pestilenze e carestie – e a incolpare di tali sciagure le categorie considerate «maledette». Come ha osservato l’antropologo René Girard, il massacro degli ebrei è ugualmente reale, giustificato agli occhi della folla omicida dalle voci di avvelenamento che circolano un po’ dappertutto. È il terrore universale della malattia che dà a queste dicerie il credito sufficiente per scatenare simili massacri.

Le comunità medioevali temevano talmente la peste che il suo solo nome le terrorizzava; evitavano il più a lungo possibile di pronunciarlo e perfino di prendere le misure che urgevano, a rischio di aggravare le conseguenze delle epidemie. La loro impotenza era tale che riconoscere la verità non significava far fronte alla situazione, ma piuttosto abbandonarsi ai suoi effetti disgregativi, rinunciare a ogni parvenza di vita normale. Tutta la popolazione si associava volentieri a questo tipo di accecamento. Una simile volontà disperata di negare l’evidenza favoriva la caccia ai «capri espiatori».

Nonostante l’assurdità delle accuse, nelle cronache redatte dai persecutori possiamo rinvenire elementi storicamente validi per ricostruire il clima di violenza e gli stereotipi letterari tesi a incolpare e perseguitare alcune races maudites, «razze maledette».

«La presenza di dati immaginari non ci porta a considerare immaginario il testo nel suo insieme. Al contrario. Le accuse incredibili non sminuiscono ma rafforzano la credibilità degli altri dati», conclude Girard.

Questi gruppi di persone «altre» rispetto al comune corpus sociale assumono le fattezze di «razze demoniache», assumendo su di sé la proiezione delle paure e delle fantasie della comunità: attraverso una complessa genealogia, costoro diventano i discendenti del Maligno o di antiche divinità che sopravvivono nelle tradizioni e nel folklore locali. Guardati con sospetto in quanto «diversi», vengono accusati di tramare contro la gente «normale»; su di loro aleggiano le paure della comunità che, in concomitanza con epidemie e carestie, si consolidano esorcizzando la paura della morte e sfogando la violenza che rischierebbe altrimenti di mettere in pericolo l’intero gruppo.

Su di essi agisce quel sistema «vittimario» messo in evidenza da Girard, che fa di loro il perfetto «capro espiatorio»; come spiega ancora l’antropologo francese, esso agisce soltanto sui rapporti umani sconvolti dalla crisi, ma darà l’impressione di agire ugualmente sulle cause esterne, le pestilenze, le siccità e altre calamità oggettive. Al di là di una certa soglia di credenza, l’effetto del capro espiatorio inverte totalmente i rapporti tra i persecutori e la loro vittima ed è proprio questa inversione a produrre il sacro, gli antenati fondatori e le divinità. Essa fa della vittima, in realtà passiva, l’unica causa agente e onnipotente di fronte a un gruppo che si ritiene completamente manipolato.

Le categorie perseguitate assumono di volta in volta connotati simili, venendo descritti dalle cronache popolari in modo analogo: sono appestati, pericolosi, maledetti, cattivi, storpi, nauseabondi ecc. Tra di esse vi sono anche coloro che la gente all’epoca di Guillaume de Machaut chiamava «Cagots» (o «Chrestians») e che erano costretti ad abitare in condizioni abominevoli in ghetti poco fuori i villaggi o in caverne scavate lungo i pendii. Le prime notizie certe su questo gruppo di reietti risalgono al XIV secolo, anche se la loro presenza nel sud-ovest della Francia era già nota da almeno un paio di secoli.

La loro provenienza rimane tutt’ora ignota  da un lato si tendeva a isolarli e a trattarli come degli «intoccabili», al pari di ebrei, lebbrosi, eretici (albigesi in particolare), saraceni e prostitute, rendendoli oggetto di forte disprezzo e intolleranza. Dall’altra erano gli stessi Cagots a voler far perdere le proprie tracce, arrivando persino, durante i moti della Rivoluzione Francese, a distruggere i documenti che parlavano di loro e della loro misteriosa origine. Nei secoli si alterneranno le dicerie sulle loro origini, facendone i discendenti degli ebrei, dei lebbrosi, dei catari, di Caino, delle Lamie, persino del Diavolo. I Cagots sarebbero stati colpiti da forme di persecuzione analoghe a quelle che toccavano agli ebrei: sarebbero stati accusati di tramare contro la gente «sana», di essere crudeli o addirittura maledetti e di ogni possibile oscenità.

Per poterli identificare, avrebbero portato cucito sulle vesti un segno di riconoscimento: una zampa d’oca o d’anatra, di colore rosso. L’Occidente cristiano, a seconda del paese e del periodo, muta così la rappresentazione esteriore dello stigma (forma o colore), lasciando però immutata la volontà di rendere riconoscibile, attraverso l’abbigliamento, la condizione sociale degli individui. Il bisogno di regolamentare la diversità si pose con particolare evidenza a partire dal XII secolo, quando le differenze tra le classi si fecero più marcate: l’abito rivelava con immediatezza l’appartenenza ad uno status; attraverso l’abito si leggeva facilmente la funzione e la dignità di chi lo indossava, nonché la condizione di marginalità delle minoranze e dei reietti. L’imposizione a questi ultimi di un segno o di un abbigliamento particolare doveva fungere, come per le altre fasce sociali, da codice di distinzione: la marginalità cosi codificata e resa riconoscibile, veniva accettata e, in qualche misura, tutelata.

Ciononostante, il codice di distinzione a cui alludeva il segno sugli abiti non sempre difendeva chi lo portava dal disprezzo e da brutali atti di persecuzione, facilitandone semmai, attraverso l’identificazione, l’esclusione e la violenza. Il Concilio lateranense nel 1215 aveva già prescritto che gli ebrei portassero sulle vesti il simbolo di una ruota di colore giallo, rosso o verde; i lebbrosi dovevano indossare abiti speciali: una cappa grigia o (più raramente) nera, un berretto e un cappuccio scarlatti, talvolta la bàttola (cliquette) di legno. Questi segni di riconoscimento erano stati estesi anche ai Cagots, o «lebbrosi bianchi» (in Bretagna assimilati agli ebrei) che soltanto la mancanza dei lobi delle orecchie e il fiato puzzolente distingueva, nella coscienza comune, dai sani: il concilio di Nogaret (1290) decretò che portassero un distintivo rosso sul petto o su una spalla.

Ogni categoria di queste races maudites doveva portare su di sé ben chiaro e intelligibile uno stigma, un segno d’infamia che potesse essere facilmente visto e riconosciuto. Agli ebrei era stata assegnata la ruota: essa poteva rappresentare secondo una prima interpretazione una moneta,  con evidente allusione all’attaccamento degli ebrei al profitto, o ai trenta denari ricevuti da Giuda come ricompensa per aver venduto Cristo. La seconda ipotesi scaturisce dalla evidente somiglianza del segno d’infamia con la forma dell’ostia: dal momento che gli ebrei non avevano voluto convertirsi alla vera fede, con un perverso meccanismo punitivo, essi venivano obbligati ad ostentare sugli abiti il simbolo della fede (l’ostia) che avevano rifiutato.

La paura del contagio genera da sempre forme di violenza e isolamento. Come ricorda Carlo Ginzburg, è altrettanto antica la connessione tra ebrei e lebbrosi, a cui si aggiungeranno i Cagots che verranno in alcuni documenti confusi con i lebbrosi.

Fin dal primo secolo dopo Cristo lo storico ebreo Flavio Giuseppe polemizzava nel suo scritto apologetico Contro Apione con l’egiziano Manetone, il quale aveva sostenuto che tra gli antenati degli ebrei c’era anche un gruppo di lebbrosi cacciati dall’Egitto. Nel racconto perduto del cosiddetto Manetone, apparentemente intricato e contraddittorio, erano senza dubbio confluite tradizioni  antiebraiche, forse di provenienza egiziana.

I Cagots erano sottoposti a decine di prescrizioni, derisi e ghettizzati, oggetto a ogni genere di violenza, ma invece di essere ignorati o banditi, paradossalmente veniva loro impedito di fuggire o andare in esilio. Venivano tenuti vicino, ma non troppo; lontani, ma non abbastanza da ricrearsi una vita altrove: il Male veniva così circoscritto e «internato» per essere espulso attraverso dinamiche violente solo all’apice delle persecuzioni.

Il problema che subentra nell’identificazione del capro espiatorio consiste infatti nell’individuare la giusta vittima sostitutiva da uccidere o espellere dalla comunità per purificarla; ciò avviene ovviamente nei momenti di crisi, come una pestilenza o una carestia. La scelta della vittima è un’operazione delicata e pericolosa poiché, scegliendo un dato individuo, si può scatenare la collera e la vendetta dei suoi parenti. Si tratta allora di sceglierne una che sia sufficientemente interna alla comunità perché il meccanismo sostitutivo possa funzionare, ma che sia anche abbastanza esterna per non essere protetta da altri. In questo senso, essa deve essere il simile-diverso: stranieri, bambini, persone con un’anomalia o infermità fisica che li rende parte della comunità ma al contempo «diversi».

Le vittime, cioè, vengono scelte «non in base ai crimini che vengono loro attribuiti, ma in base ai loro segni vittimari e a tutto ciò che suggerisce la loro colpevole affinità con la crisi. I segni vittimari si spiegano in quanto nella mitologia classica il «fisico» e il «morale» sono inseparabili:

La deformità fisica deve corrispondere a un aspetto reale di qualche vittima, a una infermità reale, la claudicazione di Edipo o di Vulcano non è, all’origine, necessariamente meno reale di quella della strega medievale.

Le piaghe dei lebbrosi mostrano così sul loro fisico il «segno » del peccato di cui si sono macchiati; lo stesso dicasi per i Cagots che vengono descritti affetti da numerose deformità e spesso anche da una forma di lebbra. Se non manifestano le piaghe della malattia, poco importa: essi saranno affetti da una forma di lebbra «invisibile». I Cagots, in quanto «razza maledetta» per eccellenza, rappresentano così lo stereotipo perfetto della persecuzione e del capro espiatorio secondo quanto teorizzato da Girard: fungono cioè da valvola di sfogo per la violenza che ribolle in ogni comunità, persino nel cristianissimo Occidente. Come nota giustamente Alessandra Violi, la maledizione che grava su di loro «ha acquisito per secoli uno statuto di verità indiziaria nei discorsi giuridici, religiosi e politici europei, coinvolgendo le istituzioni – la Legge, lo Stato, la Chiesa – nella produzione del consenso contro la razza maledetta», nonostante si sia persa con il passare del tempo l’origine di tale leggenda.

Su di loro pesa una colpa indefinita che sfuma in leggende dai contorni irreali, a volte persino bizzarri. I miti si fondono e confondono con le descrizioni delle loro presunte deformità fisiche. Il popolo ne è terrorizzato, mentre i potenti li guardano con sospetto, a volte persino con ambiguo rispetto, come se fossero consapevoli che su di loro aleggia una maledizione ambivalente che ne fa, come i fabbri nelle culture tradizionali, delle creature potenti quanto pericolose.

Rappresentano i «Figli della Colpa», su cui grava una maledizione ontologica, legata alla loro stessa esistenza; per questo verranno anche riconosciuti come creature mezzosangue, frutto della progenie di creature semidivine di cui la mitologia basca serba ancora il ricordo. Lungi dall’essere dei semplici «paria», i Cagots emergono così dalle cronache medievali come gli eredi di un antico sapere, iniziati a un culto segreto legato alle grotte che erano costretti ad abitare. Quelle stesse grotte che serbavano il ricordo di miti ancestrali e che nel corso dei secoli avrebbero assistito alla rinascita di racconti legati a un Dio Cornuto o spodestato che, costretto a rifugiarsi nelle viscere della terra, sarebbe presto riemerso per riconquistare il proprio regno.


venerdì 20 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 giugno.

Il 20 giugno 1975 esce nelle sale americane "Lo squalo" (Jaws), di Steven Spielberg.

"Ci serve una barca più grossa."

La frase celebre del film Lo Squalo, pronunciata dal poliziotto Martin Brody (Roy Scheider), racchiude tutta la paura verso il potente pescecane protagonista della pellicola, e non per niente è stata scelta dall’American Film Institute come la numero 35 tra le 100 migliori citazioni cinematografiche di tutti i tempi. Il 20 giugno del 1975, il giovane Steven Spielberg portò nei cinema americani Lo Squalo, una pellicola estiva destinata a cambiare per sempre il genere del filone shark movies. Cinquanta anni fa infatti ha debuttato questo film in cui nessuno credeva, costato 9 milioni di dollari, cifra oltre il budget previsto, e che ha finito, incredibilmente, per incassarne ben 471.

Basato sull’omonimo romanzo di Peter Benchley, la storia narrata ne Lo Squalo prende spunto da fatti realmente accaduti in New Jersey nel 1916, quando un enorme pescecane terrorizzò per una lunga estate le calde acque della zona. Anche nel film di Spielberg, il protagonista resta il grande squalo, che inizia a seminare morti tra i bagnanti dell’immaginaria cittadina di Amity, nota località turistica. Per smorzare il panico, il capo della polizia locale decide di cercarlo e ucciderlo con l’aiuto di un biologo marino e di un cacciatore di squali professionista.

Se pensate che la collaborazione tra i tre sia facile, vi sbagliate di grosso. Tre uomini diversi tra loro, che affrontano un destino avverso. Lo sceriffo Martin Brody (Roy Scheider), obbediente alle regole, con una famiglia che ama, che ha però paura dell’acqua, ma ironicamente sarà lui ad affrontare lo squalo nel confronto finale; il cacciatore di squali Quint (Robert Shaw), spavaldo, temerario, che racconta senza ribrezzo la sua esperienza dell’affondamento della USS Indianapolis, un racconto di storia vero, dove migliaia di marinai finirono in mare attaccati e uccisi dagli squali. Quint racconta com’è venir morsi da uno di loro, terrorizzando i suoi due compagni, e invece finisce orribilmente per essere ucciso dallo squalo; infine Matt Hooper (Richard Dreyfuss) biologo e quindi uomo di scienza, che di fronte alla forza del grande predatore, si sente piccolo e tutte le sue conoscenze vengono a mancare.

Da sempre l’immagine dello squalo ha rappresentato le nostre paure primordiali: è infatti il predatore più antico dei mari, il terrore che sventra gli uomini con le sue enormi fauci (da qui Jaws del titolo originale) e i denti ricurvi e seghettati. Una macchina perfetta per uccidere, come spiegherà Hooper in una scena del film, che ha spaventato l’uomo per secoli. Ne Lo Squalo, Spielberg ha saputo risvegliare questa paura primordiale con un tocco di genio: scene girate in mare aperto piuttosto che nella classica piscina allestita o in un laghetto, facendo sì che proprio nel 1975, anno di uscita del film, ci sia stato un calo delle attività di villeggiatura perché tutti erano colpiti dallo ‘squalo’.

Nella prima parte di durata della pellicola, il grande squalo bianco non viene mai mostrato e la sua presenza viene fatta percepire attraverso la musica inquietante e incalzante di John Williams (Oscar per le musiche appunto); nella seconda parte, quando Brody, Quint e Hooper partono con la barchetta Orca a caccia dello squalo, solo allora lui si mostra in tutta la sua maestosa potenza. Merito dei tre squali meccanici, soprannominati allegramente da Spielberg ‘Bruce’, lunghi 8 metri.

Lo Squalo è un film che ha segnato un’epoca e che a distanza di cinquant’anni continua a incutere terrore. È una storia di paura, di coraggio, di una lotta continua tra uomo e animale, in cui, nella realtà, spesso è proprio quest’ultimo a finire sconfitto, colpa dell’uomo che lo caccia illegalmente portandolo a rischio estinzione. Al di là dei discorsi animalisti, la cosa che colpisce maggiormente questa pellicola è il realismo con il quale è stato realizzato. Squali meccanici ma anche veri, scene in mare aperto, tanto sudore e fatica che hanno dato inizio alla carriera di uno straordinario regista che ha intimorito per anni i suoi telespettatori tra squali e dinosauri.

giovedì 19 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 giugno.

Il 19 giugno 1982 una nuova coppia viene uccisa dal mostro di Firenze. Questo delitto segnerà una svolta nelle indagini.

La notte del 21 agosto 1968, a Signa, in provincia di Firenze, fu usata per la prima volta l’arma con la quale nei successivi diciassette anni, e sempre in quelle zone, furono commessi altri sette duplici omicidi. Anche se il primo di quei delitti, quello del 1968, venne considerato legato agli altri solo quindici anni dopo, tutti a un certo punto vennero attribuiti a quello che i giornali chiamarono prima il “maniaco delle coppiette” e poi il “mostro di Firenze”.

Quello del cosiddetto “mostro di Firenze” fu il primo caso di omicidi seriali in Italia riconosciuto come tale. La sua storia è intricata e confusa: inizia alla fine degli anni Sessanta, ma non è ancora stata del tutto chiarita. Un uomo di nome Pietro Pacciani, il più noto tra le persone coinvolte, venne condannato in primo grado e poi assolto in appello: morì prima del nuovo processo chiesto dalla Cassazione. Due suoi amici – i cosiddetti “compagni di merende”, Mario Vanni e Giancarlo Lotti – vennero condannati per quattro degli otto duplici omicidi commessi. Nel tempo si è ipotizzato anche che potessero esserci stati dei mandanti, si parlò di moventi di natura esoterica, vi furono depistaggi, persone coinvolte che poi uscirono di scena e tantissime ipotesi. Tuttora è aperta un’inchiesta.

Tutti gli otto omicidi attribuiti al “mostro di Firenze” hanno coinvolto giovani coppie che si trovavano in luoghi appartati nella campagna fiorentina. Tutte le coppie, a parte quella dell’ultimo delitto, si trovavano in auto. Come è stato scoperto, ma solo a un certo punto, per tutti i delitti è stata usata la stessa arma, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera “H” sul fondello del bossolo. Spesso le vittime hanno subìto anche ferite d’arma bianca, e in diversi casi l’assassino ha asportato il pube delle donne uccise. In due casi le donne sono state mutilate del seno sinistro. I luoghi dei delitti hanno fatto pensare che l’assassino conoscesse bene il territorio e che, in alcuni casi, pedinasse le persone che poi decideva di uccidere.

Il 21 agosto del 1968, intorno a mezzanotte, furono uccisi Antonio Lo Bianco e Barbara Locci. Si trovavano dentro un’auto parcheggiata in una strada appartata vicino al cimitero di Signa, in provincia di Firenze. Lui era un muratore, aveva 29 anni ed era sposato. Lei faceva la casalinga, aveva 32 anni ed era a sua volta sposata. I due erano amanti e al momento dell’aggressione, in macchina con loro, c’era anche Natalino Mele, il figlio di 6 anni che la donna aveva avuto con il marito, Stefano Mele, un manovale sardo che viveva in Toscana da diversi anni. I due amanti morirono a causa di otto colpi di pistola sparati da vicino: quattro colpirono lei e quattro lui. I bossoli di cartucce ritrovati erano Winchester marcati con la lettera “H” sul fondello. L’arma non fu trovata, e non lo sarà mai.

La prima persona che venne sospettata dell’omicidio fu il marito di lei, Stefano Mele. Nella storia c’erano comunque molte incongruenze: Mele risultò totalmente incapace di maneggiare un’arma, confuse il finestrino verso il quale partirono i colpi, ma dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo qualcuno che avesse assistito alla scena. Cambiò versione dei fatti molte volte: prima negò tutto, poi accusò e coinvolse nell’indagine altri amanti della moglie sardi come lui (Salvatore e Francesco Vinci, per cui nelle indagini si parlò di “pista sarda”) e poi li scagionò, alla fine confessò e disse di essere stato lui. Anche il bambino, che prima disse di non aver sentito niente, alla fine ammise di aver visto il padre quella notte. Nel 1970 Stefano Mele fu condannato dal tribunale di Perugia a 14 anni di carcere. La storia sembrava essere finita qui, invece quindici anni più tardi questo delitto venne collegato ai successivi, e con questo delitto hanno a che fare le indagini attualmente in corso. Ci torniamo.

Il 14 settembre del 1974 a Sagginale, una frazione della comunità montana del Mugello, vennero uccisi Pasquale Gentilcore, 19 anni, e Stefania Pettini, 18 anni. Si frequentavano da circa due anni e al momento dell’aggressione si trovavano in auto, in una strada sterrata. Lui fu colpito cinque volte, lei tre: venne portata fuori dall’auto ancora viva e accoltellata decine di volte. Nella vagina le venne infilato un tralcio di vite e le furono asportati il seno sinistro e il pube. Anche il corpo di lui venne colpito con un coltello. Dalle indagini emerse che la donna aveva confidato ad un’amica di avere avuto un incontro insolito con una persona il giorno prima, e il suo insegnante di guida disse che durante una lezione erano stati pedinati.

Nel 1981 i duplici omicidi furono due: il primo avvenne a Scandicci nella notte tra il 6 e il 7 giugno. Giovanni Foggi, 30 anni, e la sua fidanzata Carmela De Nuccio, 21 anni, si erano appartati con la loro auto. Lei venne ritrovata mutilata al pube come Stefania Pettini. Dopo il delitto di giugno venne sospettato e arrestato un uomo, scagionato però perché mentre si trovava in carcere venne commesso un nuovo omicidio. In ottobre, a Calenzano, vennero infatti uccisi Stefano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, 24 anni. La modalità fu la stessa degli altri casi. I due fidanzati si trovavano in auto lungo una strada sterrata, l’omicida sparò diversi colpi e poi ferì e mutilò con un coltello il corpo di lei. La donna aveva detto alla madre di essere pedinata.

Al giugno del 1982 risalgono gli omicidi di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini. I due si trovavano in auto a Baccaiano, frazione di Montespertoli, fermi in uno slargo di una strada provinciale. Questa volta le cose andarono diversamente. I primi colpi sparati non uccisero Paolo Mainardi e l’uomo, probabilmente seduto al posto di guida, rimase inizialmente solo ferito: secondo la versione più condivisa riuscì ad accendere l’auto e ad attraversare trasversalmente la strada. Poi l’assassino sparò ancora, colpendo di nuovo i due ragazzi. Il luogo non era molto isolato e l’assassino non ebbe il tempo di mutilare il corpo della donna perché, probabilmente, sarebbe stato troppo rischioso. L’auto in mezzo alla strada e i corpi di Paolo Mainardi e di Antonella Migliorini vennero infatti trovati dopo poco. Lei era morta, lui respirava ancora ma morì il giorno dopo in ospedale senza aver ripreso coscienza.

Questo delitto segnò anche una svolta nelle indagini: gli inquirenti collegarono infatti i delitti del 1974, 1981 e 1982 a quello avvenuto 14 anni prima a Signa, per cui un uomo, Stefano Mele, era già stato condannato: l’arma usata nel 1968 era la stessa utilizzata negli omicidi successivi. Quando venne fatto il collegamento, gli investigatori si ricordarono di Mele, lo interrogarono e lui tornò ad accusare Francesco Vinci. Nell’agosto del 1982 Vinci venne arrestato per maltrattamenti e due mesi dopo venne anche accusato di essere il “mostro di Firenze”. Poi avvenne un nuovo omicidio e Vinci venne scarcerato (fu trovato assassinato nel 1993 insieme a un amico in una pineta).

Il 9 settembre del 1983 a Giogoli, nel comune di Scandicci, furono uccisi due turisti tedeschi. Erano entrambi maschi, uno dei due aveva i capelli lunghi e venne probabilmente confuso con una donna. I corpi non vennero mutilati. A quel punto, e sempre sulla base di nuove dichiarazioni di Stefano Mele, vennero indagati suo fratello e il cognato. Mentre erano in carcere venne commesso un nuovo duplice omicidio, il penultimo.

Claudio Stefanacci e Pia Gilda Rontini vennero uccisi nel luglio del 1984 mentre si trovavano nella loro Fiat Panda parcheggiata in una strada sterrata vicino a Vicchio. Si trovavano sul sedile posteriore e il corpo di lei fu accoltellato e mutilato del pube e del seno sinistro. La data dell’ultimo duplice delitto, l’ottavo, non è chiara. Era settembre ed era il 1985, ma i corpi di Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot (anche lei accoltellata e mutilata) vennero trovati giorni dopo l’aggressione. Si trovavano dentro la loro tenda agli Scopeti, nel comune di San Casciano Val di Pesa. Qualche giorno dopo la scoperta dei corpi, alla procura di Firenze venne spedito in una busta anonima indirizzato a Silvia Della Monica, la pm incaricata delle indagini, un brandello del seno della donna.

Le indagini delle procure di Firenze e Perugia, fino ad allora, non avevano portato a niente di concreto: diverse persone erano state indagate, ma poi erano state tutte scarcerate. Nel 1991 le forze dell’ordine che indagavano esclusivamente su quegli omicidi seriali, e che erano riunite nella SAM (Squadra Anti-Mostro), si concentrarono su Pietro Pacciani. A quel tempo Pacciani si trovava in prigione per aver stuprato le sue due figlie, e aveva già scontato una condanna di tredici anni, quando ne aveva 26, per aver ucciso l’amante della fidanzata: li sorprese in atteggiamenti intimi, accoltellò l’uomo e poi costrinse la donna ad avere un rapporto sessuale accanto al cadavere. Dopo quell’arresto, Pacciani dichiarò di avere avuto un raptus, come si dice, poiché aveva visto la fidanzata che davanti all’amante si denudava il seno sinistro.

Già nel 1985 una lettera anonima diceva agli inquirenti di indagare su Pacciani, e ne descriveva la personalità brutale e irascibile (era soprannominato “il vampa”). Inoltre il nome di Pacciani era già stato schedato dalla SAM tra le molte persone che avevano le caratteristiche dell’assassino seriale. Gli indizi che accusavano Pacciani erano diversi e venne arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di essere l’omicida delle otto coppie. Nel 1994, il tribunale di Firenze lo condannò all’ergastolo per sette degli otto duplici omicidi di cui era accusato; Pacciani venne invece assolto per il duplice omicidio del 1968. Pacciani venne assolto anche in appello, ma la Cassazione nel 1996 annullò la seconda sentenza e ordinò un nuovo processo. Pacciani morì il 22 febbraio 1998, prima che il nuovo processo potesse cominciare, in circostanze non molto chiare (fu trovato morto in casa mezzo nudo, con tracce nel sangue di un farmaco anti-asmatico).

In primo grado Pacciani venne condannato sulla base di vari elementi, perlopiù di valore indiziario. Un elemento invece trascurato in questi primi processi – e preso in considerazione solo più tardi – furono i grossi movimenti di denaro sul suo conto in banca, giudicati incompatibili con il mestiere dell’agricoltore. Nelle inchieste successive, invece, si ipotizzò che Pacciani e le persone che successivamente vennero condannate (ci arriviamo) ricevessero denaro per eseguire gli omicidi su commissione.

Dalla metà degli anni Novanta le indagini coinvolsero anche alcuni amici di Pacciani, i cosiddetti “compagni di merende”: Mario Vanni, Giancarlo Lotti, Fernando Pucci e Giovanni Faggi. Faggi venne assolto in tutti e tre i gradi di giudizio da ogni accusa riguardante gli omicidi e Pucci testimoniò contro i primi due amici dicendo di essere stato un testimone oculare di due degli otto omicidi. Vanni e Lotti vennero alla fine condannati in via definitiva per quattro degli otto duplici omicidi. Vi avrebbero partecipato con Pacciani e in alcuni casi sarebbero stati loro gli esecutori materiali.

A un certo punto le indagini portarono gli inquirenti a ipotizzare l’esistenza di un secondo livello, che avrebbe agito come mandante dei delitti del “mostro” in base a un possibile movente magico-esoterico: c’erano state alcune testimonianze che andavano in questo senso e c’erano le grosse somme di denaro, non giustificabili, a disposizione di Pacciani dopo i delitti. L’ipotesi era che del gruppo dei mandanti facesse parte anche un famoso gastroenterologo, Francesco Narducci, trovato morto in barca poco dopo l’ultimo dei duplici omicidi del “mostro di Firenze”. Con lui si ipotizzò che c’entrassero anche molte altre persone, i familiari di Narducci e pure un giornalista che finì in carcere per quasi un mese. Questo filone delle indagini, alla fine, non portò a nulla.

Nel 2017 però è partito un nuovo filone di indagine che coinvolge Giampiero Vigilanti, un uomo di 87 anni, e il suo medico. Vigilanti, ex legionario, è residente a Prato ed è nato a Vicchio, il paese in cui era cresciuto Pietro Pacciani. Conosceva Pacciani, conosceva i “compagni di merende”, era già stato coinvolto nelle indagini a metà degli Ottanta, possedeva molte pistole, compreso il modello usato per i duplici omicidi o uno simile. A casa sua sono stati trovati diversi articoli di giornale sui delitti dal 1968 in poi, dei proiettili dello stesso lotto usato dal mostro e si sa che possedeva una pistola che avrebbe potuto essere compatibile con quella usata per gli omicidi. Attualmente si è in attesa dei risultati di una perizia su molti reperti accumulati fino ad ora nell’inchiesta. A oggi ufficialmente, se non ci saranno nuovi sviluppi, la vicenda del “mostro di Firenze” è finita con la condanna ai “compagni di merende”.

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