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venerdì 13 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 giugno.

Il 13 giugno 1878 ebbe inizio il Congresso di Berlino.

Il Congresso di Berlino ebbe luogo nella capitale tedesca nei giorni che andarono dal 13 giugno al 13 luglio dell’anno 1878, presso il Palazzo della Cancelleria nella Wilhelmstraße, una delle vie dello shopping più famose della Germania. Durò un intero mese, tra numerose riunioni di commissioni, feste e banchetti e dopo venti sessioni plenarie.

Il primo giorno il Cancelliere tedesco Otto von Bismarck venne eletto Presidente del Congresso su proposta del delegato austriaco Gyula Andrà¡ssy. A promuoverlo fu l’Austria, che lo propose alle altre potenze europee con lo scopo di rettificare il Trattato di Pace di Santo Stefano con cui la Russia, dopo aver sconfitto la Turchia nella Guerra russo-turca del 1877-1978, aveva accresciuto il proprio potere nei Balcani.

La destinazione dei territori turchi alle nazioni europee stabilita in precedenza con il Trattato di Pace di Santo Stefano fu dunque rettificata con il Congresso di Berlino e i successi russi vennero ridimensionati: Romania, Serbia, Montenegro e Bulgaria restarono indipendenti, la Bosnia-Erzegovina venne affidata all’Austria, Cipro passò nelle mani della Gran Bretagna e la Russia dovette accontentarsi della Bessarabia.

Questi nuovi negoziati furono poco graditi ai russi e incrinarono le relazioni tra i membri della Lega dei tre imperatori, l’accordo politico siglato nel 1873 tra Germania, Austria-Ungheria e Russia. Altro episodio spartiacque fu la Conferenza di Berlino del 1884-1885, anche detta Conferenza dell’Africa Occidentale o Conferenza sul Congo.

La Conferenza di Berlino fu voluta dalla Germania per organizzare in modo regolamentato le numerose iniziative europee nella zona.

Bismark invitò Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Spagna e Stati Uniti con l’ipotetico scopo di tracciare le linee per regolare il commercio europeo nel centro-ovest africano, nell’area dei fiumi Congo e Niger.

L’intenzione iniziale, però, sfociò presto in un bisogno di consolidamento delle sfere di influenza che portò le potenze europee a proclamare propri possedimenti all’interno del territorio occupato. Negli atti ufficiali, infatti, Bismark si limitò a sancire un insieme di regole commerciali e umanitarie, alludendo alla colonizzazione solo in relazione alla zona costiera.

Nei fatti, invece, dominò la regola per cui una potenza con possedimenti sulla costa aveva il diritto all’entroterra limitrofo. La Germania ottenne così il Camerun e un protettorato su quella che poi divenne l’Africa Orientale Tedesca.

Le altre nazioni, specialmente Francia e Gran Bretagna, lottarono per la conquista di nuovi spazi del continente africano. Ciò portò alla cosiddetta “corsa all’Africa", nota in inglese con il termine scramble for Africa, un proliferare di rivendicazioni degli stati europei sulla terra africana, una vera e propria spartizione dell’Africa durata dal 1880 alla Prima Guerra Mondiale.

All’interno di questo quadro storico l’Italia non giocò un ruolo importante. Già  prima del Congresso di Berlino la nostra nazione aveva sperato di ottenere l’annessione del Trentino con l’occupazione austriaca della Bosnia. Ciò però non avvenne e lo stato italiano tornò a casa senza risultati, finché nel 1882 si legò a Bismark con la Triplice Alleanza, il patto militare stipulato a Vienna tra Regno d’Italia, Germania e Austria per contrastare soprattutto l’avanzata francese.

L’Europa dopo il Congresso di Berlino cambiò e portò a quella corsa all’Africa e quell’inasprirsi dei rapporti tra le grandi potenze che furono tra le cause dello scoppio del Primo Conflitto Mondiale.

giovedì 12 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 giugno.

Il 12 giugno è la Giornata Internazionale Contro il Lavoro Minorile.

Se vivessero tutti in unico Paese, costituirebbero il nono Stato più popoloso al mondo, più del doppio dell’Italia, più grande anche della Russia: sono i 152 milioni di minori tra i 5 e i 17 anni, 1 su 10 al mondo, vittime di sfruttamento lavorativo, di cui quasi la metà – 73 milioni – costretti a svolgere lavori duri e pericolosi, che ne mettono a grave rischio la salute e la sicurezza, con gravi ripercussioni anche dal punto di vista psicologico.

Sessantaquattro milioni di bambine e 88 milioni di bambini, che si vedono sottrarre l’infanzia alla quale hanno diritto, allontanati dalla scuola e dallo studio, privati della protezione di cui hanno bisogno e dell’opportunità di costruirsi il futuro che sognano. In più di 7 su 10 vengono impiegati in agricoltura, mentre il restante 29% lavora nel settore dei servizi (17%) o nell’industria, miniere comprese (12%).

Una piaga che non risparmia neppure il nostro Paese dove, solo negli ultimi due anni, sono stati accertati più di 480 casi di illeciti riguardanti l’occupazione irregolare di bambini e adolescenti, sia italiani che stranieri, di cui più di 210 nei servizi di alloggio e ristorazione, 70 nel commercio all’ingrosso o al dettaglio, più di 60 in attività manifatturiere e oltre 40 in agricoltura. Un numero, tuttavia, senza dubbio sottostimato a causa della mancanza, nel nostro Paese, di una rilevazione sistematica in grado di definire i contorni del fenomeno. Basti pensare che secondo l’ultima indagine sul lavoro minorile in Italia, diffusa da Save the Children e Associazione Bruno Trentin nel 2013, i minori tra i 7 e i 15 anni coinvolti nel fenomeno erano stimati in 260.000, più di 1 su 20 tra i bambini e gli adolescenti della loro età.

“Ancora troppi bambini, nel mondo, anziché andare a scuola e vivere a pieno la loro infanzia, oggi sono costretti a lavorare in condizioni difficilissime, sottoposti a sforzi fisici inappropriati per la loro età, a orari massacranti anche di 12-14 ore al giorno e a gravissimi rischi per la loro salute, sia fisica che mentale. 

Nonostante i progressi significativi compiuti negli ultimi 20 anni, il mondo è ancora lontano dal raggiungere l’obiettivo di sradicare ogni forma di lavoro minorile entro il 2025, come previsto negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, e in base al trend attuale, in quella data, vi saranno ancora 121 milioni di minori vittime di sfruttamento lavorativo.

Anche in Italia c’è ancora molto da fare per mettere fine allo sfruttamento lavorativo di cui sono vittime bambini e adolescenti, a partire dalla necessità di istituire una raccolta dati, sistematica e puntuale, che permetta di avere un quadro preciso del fenomeno. È inoltre fondamentale e urgente che le istituzioni rafforzino l’impegno per contrastare la povertà minorile e la dispersione scolastica, fenomeni entrambi strettamente collegati al lavoro minorile, e da questo punto di vista il livello di dispersione scolastica che dopo molti anni è ritornato a crescere non può che rappresentare un preoccupante campanello d’allarme.

Del totale dei minori vittime di sfruttamento lavorativo oggi presenti al mondo - sottolinea Save the Children - 79 milioni hanno tra i 12 e i 17 anni di età, mentre 73 milioni sono molto piccoli, tra i 5 e gli 11 anni, e quindi ancor più vulnerabili ed esposti al rischio di conseguenze sul loro sviluppo psico-fisico. Quasi la metà del totale (72 milioni) si trova in Africa, con Mali, Nigeria, Guinea Bissau e Ciad che fanno registrare le percentuali più alte di bambini tra i 5 e i 17 anni coinvolti nel lavoro minorile. In questi Paesi, infatti, lavora più di 1 bambino su 2; quasi 1 su 3 (29%) se si considera l’area dell’Africa subsahariana dove, rispetto al passato, la lotta al lavoro minorile non soltanto non ha fatto registrare alcun miglioramento ma, al contrario, ha visto un incremento del fenomeno.

Complessivamente negli ultimi vent’anni sono stati tuttavia compiuti significativi passi avanti per contrastare il fenomeno, come evidenziato sul recente “Rapporto sulla condizione dei bambini nel mondo”. Nel 2000, infatti, il lavoro minorile coinvolgeva 246 milioni di bambine e bambini, 94 milioni in più rispetto alla situazione attuale. Progressi che hanno riguardato in particolar modo i minori tra i 12 e i 17 anni, con un tasso calato del 42% rispetto al 2000, mentre si è ridotto in misura minore il numero di minori tra i 5 e gli 11 anni (passati da 110 milioni nel 2000 ai 73 milioni di oggi).

In Asia centrale ed Europa orientale i progressi maggiori, con l’Uzbekistan che ha tagliato il tasso di lavoro minorile del 92% e l’Albania (dove oggi è vittima di lavoro minorile il 5% dei minori) del 79%. Restando in Asia, anche Cambogia e Vietnam si segnalano per aver ridotto nettamente, rispetto a 20 anni fa, il numero di minori coinvolti nel fenomeno, rispettivamente con una riduzione del 78 e del 67 percento. Volgendo infine lo sguardo all’area del Sud America e dei Caraibi, dove attualmente oggi più di 1 bambino su 10 è coinvolto nel lavoro minorile, notevoli progressi sono stati compiuti in particolare dal Brasile che ha ridotto dell’80% rispetto al 2000 il tasso di lavoro minorile relativo alla fascia di età 5-14 anni, sebbene nel Paese oggi vi siano ancora 1 milione di minori costretti a lavorare. Decisi passi in avanti compiuti anche in Messico, dove il tasso (per la fascia di età 5-14 anni) si è ridotto dell’80% rispetto a vent’anni fa, passando dal 24% al 5%, con oltre 3 milioni di bambini tuttavia ancora intrappolati nella piaga del lavoro minorile.

mercoledì 11 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 giugno.

L'11 giugno 1993 esce nelle sale americane Jurassic Park.

Maestoso; questo è l’aggettivo che viene in mente pensando a Jurassic Park del 1993 di Steven Spielberg, un film che ha saputo incredibilmente interpretare il ruolo di gigante degli anni ’90 basandosi su fondamenta solide e letterarie. Tratto da un romanzo di Michael Crichton, Jurassic Park è il punto di arrivo di tutto un filone classico di film sui giganti del passato, basti pensare agli anni ’30 e ’40 quando il cinema pullulava di film sui dinosauri con goffi e simpatici effetti speciali. Il parco dei “divertimenti” allestito dal genio di Spielberg invece non manca di spettacolarità e clamore scenico, spazzando via la concorrenza con una grandissima interpretazione degli effetti speciali. Nela scena dove il Brachiosaurus irrompe con il suo verso notiamo l’espressione attonita e meravigliata dei protagonisti della pellicola quasi a voler sottolineare il radicale cambiamento di intendere il cinema, l’estasi quasi mistica dello spettatore. Il catastrofismo di Crichton viene perfettamente trasposto da Spielberg che riesce ad amalgamare bene l’intenzione e il messaggio finale dello scrittore; la macchina non è uno strumento affidabile e prima o poi si ribella al volere del suo creatore. La felicità, nel giro di poco tempo, si trasforma in una disperata corsa alla sopravvivenza dove l’uomo, in poche ore, si ritrova ad occupare la parte più bassa della catena alimentare.

La storia narra del miliardario sognatore americano John Hammond (il compianto Richard Attemborough) e della sua “creatura”, il Jurassic Park, un parco a tema dove le creature che popolavano la terra milioni di anni fa si trovavano rinchiuse come all’interno di un grande zoo. La macchina ideata da John sembra funzionare perfettamente e anche il Prof. Grant (Sam Neill) assieme alle Prof.ssa Sattler (Laura Dern) e all’istrionico Prof. Malcolm (Jeff Goldblum) assistono estasiati al funzionamento di questo parco, seppur mostrando qualche riserva. Di questi Grant pone l’interrogativo più interessante:

Il mondo ha subito cambiamenti così radicali che corriamo per tenerci al passo. Non voglio affrettare conclusioni ma dico… i dinosauri e l’uomo… due specie separate da 65 milioni di anni di evoluzione, vengono a trovarsi gettati nella mischia insieme. Come potremo mai avere la ben che minima idea di che cosa possiamo aspettarci?

Il quesito darà presto una terribile risposta; per via di un sabotaggio ad opera del malefico Nedry (Wayne Knight) il parco vedrà tutti questi incredibili animali liberi e ben presto la situazione precipiterà in un’autentica lotta. Starà all’istinto di sopravvivenza dei protagonisti prevalere su quello di caccia dei dinosauri, in particolare dei temibili T-Rex e Velociraptor.

Jurassic Park è un’avventura senza tempo, un film che non può mancare nello scaffale di un vero appassionato, una meravigliosa dimostrazione di come storia ed effetti possano convivere generando un meraviglioso mix finale. Da brividi il primo piano su Attemborough, mentre la musica sale di tono, egli esclama Benvenuti al Jurassic Park. Noi rimaniamo lì, seduti ed estasiati ancora una volta, quasi come il tempo non fosse mai passato, forse il punto più alto della carriera di Spielberg.

martedì 10 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 giugno.

Il 10 giugno 1922 nasce Frances Ethel Gumm, meglio nota come Judy Garland. 

Celebre diva del cinema, Judy Garland è divenuta celebre per il grande pubblico per aver interpretato il ruolo di Dorothy, la bambina del "Mago di Oz". L'attrice, protagonista di tante commedie e musical, è nota anche per la sua vita privata molto travagliata. Ha avuto cinque mariti e tre figli, una è Liza Minnelli. Sull'ultima parte della sua vita nel 2019 è stato girato un film biografico dal titolo "Judy" (interpretato da Renèe Zellweger).

Chi è davvero Judy Garland? Ecco, qui di seguito, la sua biografia, la vita privata, quella sentimentale, le difficoltà e tutte le altre curiosità su questa donna dal viso angelico e con uno spiccato talento per il ballo e per il canto.

Nata il 10 giugno del 1922 a Grand Rapids, una città del Minnesota, Judy Garland è figlia di due attori che le trasmettano la passione per la recitazione. Sin da bambina, Frances Ethel Gumm - questo è il suo vero nome - dimostra le sue doti interpretative. Non solo. La sua voce soave le permette di sfondare anche nel canto; mentre il corpo longilineo ed esile la rende una straordinaria ballerina.

Judy Garland inizia la sua carriera nel mondo del teatro accanto alle sorelle maggiori sulle note di "Jingle Bells". Le "Gumm Sisters" si esibiscono a Vaudeville fino a quando, nel 1934, l'agente Al Rosen, che lavora per la società Metro-Goldwyn-Mayer, si accorge di Judy e le procura un importante contratto.

A partire da questo momento Judy Garland inizia la scalata verso il successo. Pur mantenendo la passione per il teatro interpreta circa dodici film con La MGM, ricevendo consensi per differenti ruoli.

La sua interpretazione più celebre è quella di Dorothy, ragazzina protagonista del "Mago di Oz" (The Wizard of Oz) del 1939, film nel quale canta e lancia la celeberrima canzone "Over the Rainbow"; qui Judy ha solo 17 anni, ma ha alle spalle già una dozzina di film.

E' inoltre ricordata per le sue interpretazioni accanto a Mickey Rooney e Gene Kelly. In questa fase della carriera Judy viene scelta nei cast di "Meet Me in St. Louis" del 1944, "The Harvey Girls" del 1946, "Easter Parade" del 1948 e "Summer Stock" del 1950.

Smette di lavorare per conto della Metro-Goldwyn-Mayer dopo quindici anni a causa di problemi personali che le impediscono di portare a termine gli impegni contrattuali. Conclusa l'esperienza con la Metro-Goldwyn-Mayer la carriera di Judy sembra essere finita.

Nonostante ciò l'attrice viene premiata con l'Oscar come migliore attrice protagonista nella pellicola "E' nata una stella" (A Star is Born, di George Cukor) del 1954. Inoltre riceve una nomination come attrice non protagonista nel film "Vincitori e vinti" (Judgment at Nuremberg) del 1961.

Judy si è distinta nel panorama cinematografico anche per ulteriori riconoscimenti. Dopo la pubblicazione di ben otto album in studio ha ricevuto la nomination agli Emmy per la serie televisiva "The Judy Garland Show" trasmessa fra il 1963 e 1964.

All'età di 39 anni, Judy Garland viene riconosciuta come l'attrice più giovane di tutti i tempi ad aver ricevuto l'ambito premio Cecil B. DeMille, grazie ai significativi contributi che ha apportato al mondo dello spettacolo. Garland ha ricevuto anche il Grammy Lifetime Achievement Award. L'American Film Institute l'ha inclusa fra le dieci più grandi stelle femminili del cinema classico americano.

Nonostante i numerosi successi Judy Garland è costretta a vivere una vita personale ricca di difficoltà. A causa delle pressioni per la celebrità raggiunta Judy, sin da bambina, si ritrova a combattere diversi disagi che le procurano sofferenze emotive e fisiche.

Molti registi e agenti cinematografici giudicano l'aspetto di Judy Garland poco attraente e questo turba profondamente l'attrice che si ritrova costantemente inadeguata, oltre che influenzata negativamente da questi giudizi. Gli stessi agenti sono quelli che successivamente manipolano l'estetica dell'attrice in diversi film.

Judy inizia anche ad assumere farmaci per aumentare il suo peso; ne giustifica il consumo spiegando che questi le servono solo per far fronte ai numerosi impegni lavorativi. Tutto ciò la porta ad avere forti crisi depressive.

Anche la vita sentimentale dell'attrice è molto travagliata ed instabile. Judy si sposa ben cinque volte e fra i suoi mariti figura anche il regista Vincente Minnelli. Dalla storia d'amore nasce Liza Minnelli, che seguendo le orme dei genitori diventerà una celebre star di fama mondiale. Dal burrascoso matrimonio con Sidney Luft nascono poi altri due figli, Joseph - detto Joey - e Lorna.

Anche in età adulta Judy Garland continua ad assumere alcolici e sostanze stupefacenti, fino a diventarne completamente dipendente. Si ritrova anche in forte difficoltà finanziaria; deve affrontare tanti debiti soprattutto a causa di tasse rimaste arretrate. L'abuso di alcool e di droghe è proprio la causa che porta Judy Garland a una prematura scomparsa: muore di overdose a Londra, a soli 47 anni, il 22 giugno del 1969. I medici dissero che le sarebbe comunque rimasto poco da vivere a causa della grave forma di cirrosi epatica da cui era affetta. Il corpo dell'artista venne tumulato in un colombario del Ferncliff Cemetery di Hartsdale, nello stato di New York. Dopo oltre quarantasette anni, nel gennaio 2017, i tre figli fecero traslare il corpo nel Judy Garland Pavilion, un nuovo ed enorme padiglione costruito all'interno dell'Hollywood Forever Cemetery per ospitare le spoglie della Garland e dei membri della sua famiglia.

Di lei Oriana Fallaci scrisse:

Le vedevo le rughe precoci, e ormai benissimo anche la cicatrice sotto la gola ed ero affascinata da quegli occhi neri, e disperati, in fondo ai quali tremava una disperazione ostinata.

lunedì 9 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 giugno.

Il 9 giugno 1311 la "Maestà" di Duccio di Boninsegna viene installata sull'altare del Duomo di Siena.

Duccio di Buoninsegna (1255 ca.- 1318 ca.) fu non solo l’incontrastato caposcuola della pittura senese del Trecento ma senza dubbio uno dei più raffinati, ammirati e celebrati artisti dell’intera età gotica. Fu proprio grazie a questa conquistata posizione di assoluto predominio culturale e artistico che ricevette, nel 1308, come testimoniano alcuni documenti, la commissione di realizzare un grande polittico, con la Maestà, ossia la Vergine in trono, circondata da angeli e santi, destinato all’altare maggiore del Duomo di Siena.

L’opera, oggi nota come Maestà del Duomo, continuava quel programma di celebrazione della Madonna avviato, pochi anni prima, con la vetrata duccesca dell’abside e che si sarebbe concluso in seguito con l’esecuzione di altre quattro pale, sempre a tema mariano, commissionate a Simone Martini, ai due fratelli Lorenzetti e a Bartolomeo Bulgarini. In tre anni di intenso lavoro, praticamente senza aiuti di bottega, Duccio realizzò 32 grandi figure, 10 mezze figure e quasi 80 figurazioni, organizzando una complessa iconografia alla cui definizione potrebbe aver collaborato il domenicano Ruggero da Casole, vescovo di Siena.

Nel 1311, la pala fu collocata nella cattedrale dopo una solenne processione che partì dallo studio del pittore e alla quale parteciparono le massime autorità religiose e civili della città, assieme all’intera cittadinanza. Racconta un testimone che quel giorno tutte le botteghe di Siena rimasero chiuse in onore dell’evento. Tale testimonianza certifica il carattere di grande valore civile, oltre che religioso, che a questo capolavoro i senesi riconobbero in quegli anni: attraverso l’opera di Duccio, Siena volle affermare la propria grandezza.

La pala è oggi divisa in singoli pannelli, giacché nel 1711 si decise, sciaguratamente, di smontarla per ricavarne altre due pale da collocare sopra due altari minori del Duomo. Nel 1878 il polittico fu parzialmente ricostruito nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena; alcune tavole, però, sono conservate in altri musei, in particolare al British Museum di Londra. Un tempo, invece, la Maestà del Duomo si presentava come una complessa struttura dipinta da entrambi i lati.

Il prospetto frontale accoglieva una monumentale Madonna con Bambino, seduta in un trono di marmo intarsiato e circondata da 20 angeli, 2 apostoli, 6 santi tra i più venerati della tradizione e 2 sante. Questi personaggi celesti sono distribuiti su tre file parallele e si dispongono simmetricamente rispetto alla Madonna.

Alla base del trono è possibile leggere, in latino, la seguente dedica dell’artista alla Vergine: MATER S(AN)CTA DEI / SIS CAUSA SENIS REQUIEI SIS DUCIO VITA TE QUIA / PINXIT ITA (Madre Santa di Dio, sii motivo di pace per Siena, sii Vita per Duccio perché ti ha dipinta così). Maestà del Duomo di Siena

In primo piano, inginocchiati, si riconoscono i quattro santi protettori di Siena (Ansano, Savino, Crescenzio e Vittore), mentre alle estremità, in piedi, sono raffigurate le due sante (Caterina a sinistra e Agnese a destra). Affiancano Maria gli altri quattro santi (Paolo, Giovanni Evangelista, Giovanni Battista e Pietro).

Il trono della Vergine è posto sotto una tribuna da cui si affacciano, a mezza figura, gli altri dieci apostoli. In origine, tutte le tavole erano racchiuse da una cornice monumentale, che ospitava una fascia alla base, o predella, dov’erano illustrate 7 scene dell’Infanzia di Cristo alternate a figure veterotestamentarie. La pala era coronata da sette cuspidi, in sei delle quali erano raccontati gli ultimi giorni della vita di Maria. La cuspide centrale, più grande (e purtroppo perduta), presentava, forse, le scene con l’Assunzione e l’Incoronazione della Vergine.

La parete opposta del polittico ospitava 14 pannelli con 26 scene della Passione di Cristo, che si svolgono, come un libro illustrato, dall’Ingresso di Cristo a Gerusalemme (in basso a sinistra) fino all’Apparizione di Cristo a Emmaus (in alto a destra). Da questa parte, la predella riportava alcune Scene della Vita di Cristo (prima della Passione) e, nelle cuspidi, le sue apparizioni dopo la Resurrezione. 

La Maestà del Duomo di Duccio è stata consacrata come uno dei vertici della pittura italiana su tavola. È, infatti, una mirabile celebrazione di bellezza, da intendersi come promessa di felicità. Pur immaginandola in Paradiso, Duccio umanizzò la Vergine in modo lirico e convincente a un tempo. La Santa Madre inclina soavemente il capo, come a indicare il Bambino che ha in braccio, e ha un’espressione tenera, confidenziale ma intensamente malinconica: ella è ben consapevole, infatti, del dolore che il Figlio ha dovuto patire per riscattare l’umanità.

Allo stesso tempo, però, essendo Madre della Chiesa, non può dimenticare tutti gli altri suoi figli, che ogni giorno della loro vita percorrono il proprio difficile cammino di salvezza. È a loro, infatti, che si rivolgono il suo sguardo e il suo pensiero. In questo capolavoro, Duccio è riuscito a coniugare tradizione e modernità, eleganza e grandiosità, vibrazioni cromatiche ed effetti spaziali.

Per ogni dipinto sacro e celebrativo posto in posizione privilegiata, la tradizione richiedeva venissero rispettate alcune convenzioni: una certa frontalità della Madonna, più grande delle altre figure, i tratti somatici dei personaggi sostanzialmente indifferenziati, la mancanza di sviluppo spaziale in profondità. Duccio rispettò le richieste. Eppure, non si accontentò di riproporre sterili schemi bizantini. Per esempio, se la sua ricerca fu di certo cromatica prima che volumetrica, egli usò i colori come gli accordi musicali di un inno sacro, rendendo in qualche modo percepibili le masse dei corpi.

Al carattere ufficiale della faccia anteriore, quella posteriore risponde, con un tono più delicato e commosso, entrando nel cuore del mistero cristiano. Il racconto della Passione si svolge con sensibile leggerezza e consente a Duccio di cimentarsi con una dimensione più narrativa della pittura, normalmente a lui non congeniale e nella quale era invece maestro Giotto. I suoi protagonisti si muovono con gesti pacati, silenziosamente, più spettatori, che attori, degli eventi che stanno vivendo.

Gli spazi, poco definiti (se non improbabili, prospetticamente), fanno più da contorno che da contesto. Si consideri, per intendersi, il suo Bacio di Giuda, che certo vien voglia di confrontare con quello giottesco degli Scrovegni. Stessi personaggi, medesimo evento, uguali dettagli. Ma qui manca l’irruenza della Storia, il racconto si svolge con tenera e commovente compostezza.

domenica 8 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 giugno. 

L'8 giugno 1887 Herman Hollerith brevetta il calcolatore a schede perforate.

I computer di qualche decennio fa, prima ancora dell’avvento del Personal Computer, si interfacciavano con l’utilizzatore tramite schede di cartoncino di dimensioni ben codificate, simili per dimensioni e consistenza ai biglietti ferroviari cartacei di qualche anno fa. Le schede, brevettate da Herman Hollerith nel 1887, furono utilizzate con le schedatrici meccaniche e impiegate per la prima volta nel 1890 per il censimento dei cittadini degli Stati Uniti. A loro volta le schede perforate di Hollerith (che più tardi fonderà la International Business Machines, ossia l’IBM) si ispiravano alle schede metalliche del 1801 inventate da Joseph Jacquard per automatizzare il funzionamento di telai per tessitura.

Il passaggio dalle schedatrici meccaniche ai primi computer elettronici e la creazione di linguaggi evoluti decretò il successo e la diffusione del calcolo computerizzato, ma sarà ancora lunga la strada da percorrere verso il boom del personal computer dotato di tastiera autonoma pronta a dialogare direttamente con l’utilizzatore.

Per fare un esempio, per scrivere una tesi di laurea agli inizi degli anni ’70 all'università di Padova, si doveva scrivere a mano il programma in linguaggio Fortran (da “Formula Translation”, privilegiato per i calcoli scientifici), passare il tabulato ad un ufficio in cui personale specializzato (in genere femminile) provvedeva a trasferire su schede perforate le linee del programma (una scheda per ogni riga). 

Una volta perforate, le schede venivano lette da una speciale macchina che trasformava le perforazioni in impulsi elettrici binari tramite contatti striscianti, che consentivano il passaggio di corrente in corrispondenza dei fori nelle schede o, successivamente, mediante lettori a fibre ottiche.

I segnali venivano quindi inviati via cavo all’Università di Bologna, dove si trovava fisicamente l’elaboratore elettronico (a Casalecchio di Reno, presso il CINECA), al quale l’Università di Padova aveva accesso ad orari prefissati. I risultati dell’elaborazione venivano poi ritrasmessi via telescrivente alla sede del servizio elaborazione dati dell’Università di Padova, dove i vari studenti o ricercatori attendevano con ansia il risultato delle loro fatiche. Spesso un banalissimo errore di trascrizione nel tabulato iniziale, come ad esempio scambiare un punto con una virgola o viceversa, causava l’interruzione del calcolo con la restituzione della scritta “Fatal Error” seguito dal “dump” della memoria del computer, costituito da una (apparentemente) caotica sequenza di numeri e lettere comprensibili solo (e non sempre) agli addetti. Tutto questo veniva seguito da una affannosa ricerca dell’errore (o di più errori…) tra le righe del programma e, con l’attesa di poter riproporre il tabulato corretto alle perforatrici, (come generalmente venivano chiamate le addette al trasferimento del tabulato alle schede perforate) se ne andavano intere giornate di lavoro.

Successivamente, furono adottati computer IBM dotati di dischi rigidi intercambiabili da ben 500kB (grandi come una pizza e spessi vari centimetri), ma essi richiedevano comunque, per essere utilizzati, il tramite delle perforatrici, la cui disponibilità doveva sempre venire diplomaticamente curata.

In sostanza, in quel tempo, indicativamente fino alla prima metà degli anni ’80, la scheda perforata, oltre che l’interfaccia uomo-computer, costituiva la ROM (le prime schede del “pacchetto” contenevano il sistema di “boot”), la RAM e il supporto per la memoria di massa (con il programma e, separatamente, i dati in input) del calcolatore (Per lungo tempo la scheda perforata sarà presente anche nell’immaginario collettivo come simbolo stesso della misteriosa potenza dei calcolatori elettronici) .

Il passaggio obbligato dei dati da inserire nel computer (allora era più in uso il nome un po’ roboante di “cervello elettronico”) attraverso le tastiere delle perforatrici rallentava molto i lavori più routinari, quali ad esempio in ambito sanitario gli esami di laboratorio o gli esami radiologici.

Ecco dunque una semplice soluzione: schede di cartoncino pre-fustellate con stampati in chiaro i dati necessari per la prenotazione, effettuabile dall’impiegato addetto direttamente nelle segreterie di reparto o agli sportelli, semplicemente forando manualmente la scheda nei punti prestabiliti mediante la semplice pressione di un apposito punzone. Le schede venivano poi raccolte ed inviate al Servizio Elaborazione Dati, per la preparazione dei tabulati con le prenotazioni e delle etichette da applicare ai vari flaconi o alle buste per la conservazione delle pellicole radiografiche.

E’ difficile ai nostri giorni rendersi conto del progresso compiuto (anche per chi ha vissuto le travolgenti tappe di questa evoluzione); al giorno d’oggi si possono trovare nelle tasche di qualsiasi ragazzino quei minuscoli oggetti , noti con il nome di “smartphone”, con sistemi di calcolo dotati di tastiere virtuali, di memorie decine di migliaia di volte più capienti, di velocità di calcolo infinitamente superiori, di schermi ad alta risoluzione a milioni di colori, completi di interfacce vocali, di fotocamera e di capacità di comunicazioni istantanee senza fili a distanza planetaria, in grado di fornirti sui due piedi una infinità di informazioni, tramite internet. E’ difficile, ma ricordare può aiutarci ad apprezzare più consapevolmente l’impressionante percorso dell’ingegno umano.

sabato 7 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 giugno.

Il 7 giugno 1640 un gruppo di contadini catalani entrano a Barcellona armati di forconi e uccidono i funzionari del re, rivendicando l'indipendenza della Catalogna nella cosiddetta guerra dei mietitori.

Nell'invocare il diritto all'indipendenza, la regione spagnola della Catalogna ha stabilito una specifica data a cui far risalire il proprio spirito nazionalista: l'11 settembre 1714, momento finale della Guerra di successione spagnola. Quel giorno avrebbe segnato la fine della secolare indipendenza catalana e l'inizio della sottomissione al potere spagnolo, tanto che ogni anno in tale data si celebra la Diada Nacional de Catalunya. Tuttavia, a dispetto della narrazione che più piace ai catalani, l'unica loro esperienza di indipendenza durò sette giorni, quasi quattro secoli fa, e fu dichiarata conclusa dai catalani stessi.

La condanna emessa il 14 ottobre 2019 dal Tribunal Supremo nei confronti dei leader dell'indipendentismo catalano ha scatenato una guerriglia che ha messo a ferro e fuoco la città di Barcellona. L'antefatto è il controverso referendum promosso nell'autunno 2017 dalla Generalitat de Catalunya: "Volete che la Catalogna diventi uno Stato indipendente in forma di repubblica?", recitava la scheda elettorale, e il "sì" ottenne uno schiacciante 90%. Il governo centrale di Madrid dichiarò però la votazione illegale e molti funzionari catalani furono arrestati.

Quanto alle ragioni addotte dai catalani per la loro battaglia, sono sia economico-politiche sia storiche. Nello specifico, si fa risalire l'indipendenza catalana al VII secolo d.C., quando sotto Carlo Magno furono create le cosiddette "contee catalane" della Marca di Spagna, "zona cuscinetto" tra l'Impero Franco e il sud della Penisola Iberica, all'epoca in mano agli arabi. Tali aree godevano sì di buoni margini di autogoverno, ma la loro "sovranità" non fu mai ufficialmente riconosciuta.

La più florida ed egemone tra tutte le contee era quella di Barcellona, destinata a confluire nel 1137 in un'entità regia più vasta: la Corona d'Aragona. Motivo di tale cambiamento dell'assetto geopolitico fu l'unione dinastica tra il conte Raimondo Berengario IV e l'erede al trono del Regno aragonese. La Contea di Barcellona da allora andò incontro a ulteriori sviluppi economici e politici, specie tra i secoli XIII e XIV. Fu allora che divenne "Principato di Catalogna" e che presero forma le sue più importanti istituzioni governative, tra cui la Generalitat, nel 1359. La Catalogna continuò quindi a godere di ampie autonomie, ma sulla carta apparteneva ancora alla Corona d'Aragona.

I dissidi tra catalani e monarchia spagnola esplosero con forza durante la Guerra dei Trent'anni (1618-1648). Per finanziarsi, la Spagna impose pesanti tributi ai propri sudditi, e a farne le spese fu soprattutto la prospera Catalogna, che rispose nel 1640 scatenando la cosiddetta guerra dei mietitori. Alla sollevazione catalana seguì il sostegno militare concesso alla Francia, nemica della Spagna. Forte di tale alleanza anti-spagnola, il 16 gennaio 1641 il Principato catalano si proclamò Repubblica indipendente: un'esperienza fulminea, perché appena sette giorni dopo la stessa Catalogna si dichiarò vassalla della Francia, la cui autorità perdurerà per i successivi nove anni.

Nel 1700, alla morte del re spagnolo Carlo II, il trono iberico fu conteso tra il francese Filippo V di Borbone e l'arciduca d'Austria Carlo d'Asburgo. In tale contesto, il Principato di Catalogna sviluppò un nuovo sentimento anti-francese, schierandosi con l'Asburgo. Dopo 13 anni di conflitti ebbero però la meglio le forze francesi, e una delle ultime operazioni militari ebbe luogo proprio a Barcellona, posta sotto assedio dal settembre 1713 fino al fatidico 11 settembre 1714. La vittoria borbonica mise fine alle tradizionali istituzioni catalane, a partire dalla Generalitat, ripristinata e abolita più volte negli anni Trenta del Novecento fino alla ricostituzione, nel 1977.

Oggi gli storici interpretano la lunga sequela di tali intricati eventi in modi disparati, e la controversia sulla reale esistenza delle "ragioni storiche" dell'indipendentismo è così tuttora irrisolta. Formalmente, è certo che la Catalogna non sia mai stata una nazione indipendente, anche se ciò non toglie che nei secoli abbia forgiato una propria, solida identità culturale e sociale.

venerdì 6 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 giugno.

Il 6 giugno 1453, secondo la tradizione cattolica, ha luogo il Miracolo Eucaristico di Torino.

Questa storia inizia a metà del 1400 a Exilles, un paese della Val di Susa in cui è sita una poderosa fortificazione. Allora non era territorio sabaudo, bensì francese: era uno di quei paesi di confine che le vicende storiche portano a fortificarsi per respingere gli assalti ora di una ora dell'altra fazione.

Perciò spesso truppe piemontesi e savoiarde saccheggiavano la cittadina. E’ in questo incerto contesto che la notte del 3 giugno 1453 alcuni ladri entrarono nella chiesa del paese di San Pietro Apostolo e tra le altre cose sottrassero l’ostensorio custodito nel tabernacolo e nel cui interno era contenuta l’ostia consacrata. Dopo aver nascosto la refurtiva in un sacco di granaglie posto su di un mulo si diressero verso Torino dove intendevano venderla. E’ difficile capire se i ladri fossero professionisti che avevano approfittato della confusione o occasionali furfanti facenti parte di truppe mercenarie e irregolari. Attraversato l’incerto confine giunsero in Piemonte dove quei giorni vi era scarsa attività di polizia poiché l’epidemia di peste del 1451 (endemica in quegli anni ) serpeggiava e le guardie daziarie guardavano con riluttanza le merci in transito per la paura di contagiarsi con oggetti infetti. Cosi superarono facilmente il posto di controllo di Susa per poi nascondersi in un bosco nei pressi di Bussoleno per far riposare e pascolare l’animale.

Per sicurezza  transitarono per disagevoli viottoli campestri per evitare incontri con le guardie a cavallo. Sul loro mulo vi era una refurtiva che se scoperta li avrebbe condotti a morte certa con l’accusa di convivenza con il diavolo avendo recato offesa al corpo di Gesù. Evitarono la stazione di posta delle diligenze di Rivoli luogo di compravendite, poiché ritennero pericoloso trattare con i  ricettatori del luogo. Torino allora era una città rurale di circa 5000 abitanti dove maiali e galline giravano per le strade insieme a mandrie mucche e greggi di pecore. Ancora circondata dalle mura di origine romana conservava vie tortuose e selciate. Quattro erano le porte principali: Porta Castello già Decumana o Pretoria  (conglobata ora nel Palazzo Madama), Porta Segusina, posta all’incrocio fra via Garibaldi e Corso Siccardi, Porta Marmorea, situata all’incrocio fra via Santa Teresa e Arsenale e la Porta Palatina detta anche Doranea perché guardava verso la Dora, l’unica ancora esistente. Era un caldo pomeriggio quando entrarono in città da Porta Segusina. Percorsero un tratto di via Dora Grossa (l’attuale via Garibaldi),  e raggiunsero piazza San Silvestro o piazza del grano (oggi Piazza Corpus Domini).

Era il 6 giugno del 1453, qualche minuto prima delle cinque pomeridiane. A quel punto il mulo si bloccò sul posto ed a nulla valsero i tentativi di far rialzare l’ animale da parte dei ladri. Mentre la bestia subiva una bella dose di bastonate senza batter ciglio dal sacco di granaglie uscirono diversi oggetti preziosi  fra i quali l’ostensorio che miracolosamente cominciò a sollevarsi da terra fino all’ altezza del secondo piano delle case che circondavano la piazza.  

L’ostia sembrava un piccolo sole ed emanava raggi abbaglianti. Mentre si verificava questo singolare fenomeno, un ragazzo che si appurò fosse un chierichetto in duomo corse ad avvertire il vescovo Monsignor Ludovico dei marchesi di Romagnano che, dopo aver prelevato  un calice dalla cattedrale di San Giovanni, si diresse velocemente presso Piazza del Grano. Intanto l’ostia che era uscita dall’ostensorio ancora sospeso in aria lentamente scese verso il basso entrando nel calice che Monsignor Romagnano stringeva fra le mani. Grida e canti di gioia  segnarono la fine dello straordinario avvenimento. Approfittando della calca i ladri riuscirono a dileguarsi, prima di essere scoperti. Al miracolo assistettero molte persone che senza indugi confermarono il fatto. Si hanno i nomi di numerosi testimoni del miracolo registrati in un documento autenticato da un notaio e nell’archivio della confraternita dello Spirito Santo si conserva una relazione del fatto. Per ricordare lo straordinario evento fu posto sul sito un pilone commemorativo. Negli anni a seguire sul posto si registrarono numerosi miracoli. Nel 1510 il pilone venne demolito e fu costruita una chiesa, opera affidata all’architetto Michele Sanmicheli (1484-1559). L'oratorio del Sanmicheli, di piccole dimensioni (tre arcate di lunghezza totale inferiore a 11 metri, 6 metri e mezzo di altezza e 3,30 di profondità, con un altare centrale) venne completato nel 1529, per essere poi distrutto nel 1609 per far posto a una chiesa più grande.

Infatti per sciogliere un voto fatto dalla città di Torino in occasione dell’ epidemia di peste del 1598, nel 1603 si diede inizio alla costruzione dell’attuale basilica. Il cantiere fu affidato ad Ascanio Vitozzi che già stava ridisegnando Torino per volontà del duca Carlo Emanuele I di Savoia. L’interno ad unica navata termina con il maestoso altare maggiore realizzato nel 1664 da Francesco Lanfranchi.

 Suggestivo è l’utilizzo di marmi rossi e neri con inserti di bronzo dorato e colonne tortili. Alla facciata in marmo scandita da tre ordini e decorate con statue di Bernardo Falconi lavorò anche Amedeo di Castellamonte.  Quasi al centro della chiesa, circondata da una cancellata di ferro battuto, si trova la lapide scritta in latino dettata da Emanuele Thesauro (1592-1675) e che ricorda il miracolo dell’ ostia:

Qui cadde il giumento che trasportava

Il corpo divino

Qui la sacra ostia scioltasi dai lacci

Si librò nell'aria

Qui nelle mani supplichevoli dei torinesi

Discese clemente

Qui dunque il luogo sacro al prodigio

Memore supplice chino

Venera e temi

Il 6 di giugno dell'anno del Signore 1453

Il futuro Santo Giuseppe Benedetto Cottolengo il 2 settembre del 1827 in questa chiesa ebbe l’intuizione dalla quale scaturì l’istituzione indissolubilmente legata al suo nome, cioè la Piccola Casa della Divina Provvidenza; egli iniziò la sua opera davanti alla chiesa in una casa detta della Volta Rossa.  A questa storia se ne è aggiunta un altra più recente: il calice in argento del suddetto miracolo che aveva raccolto l’ostia, dalla forma semplice, dotato di un’elegante bolla sullo stelo e un piede a base esagonale era conservato fino agli anni quaranta del novecento nella chiesa del Corpus Domini; fu nascosto da un premuroso sacerdote (il prevosto del capitolo del duomo, il canonico Don Luigi Benna),  che ritenne di metterlo al sicuro. Individuò pare un punto sicuro del Duomo di Torino, fece scavare in una parete una piccola nicchia sufficiente a contenere la reliquia, poi fece murare il nascondiglio. Nel dicembre del 1944 il sacerdote venne colto da morte improvvisa per polmonite senza aver rivelato a nessuno, almeno fra quanti oggi potessero ricordarlo, il punto in cui il calice era stato occultato e cosi da allora non si ha più notizia di dove sia finito o dove sia stato nascosto. Questo è Il "Graal" torinese, che aspetta ancora di essere ritrovato. Speriamo un giorno di poterlo ritrovare.

giovedì 5 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 giugno.

Il 5 giugno 1945 viene fucilato a Roma il criminale fascista Pietro Koch.

Pietro Koch nasce a Benevento il 18 agosto 1918.

Nella primavera del 1943 fu chiamato alle armi nel 2º reggimento Granatieri, ma dopo lo sbandamento nazionale si spostò a Firenze e si iscrisse al Partito Fascista Repubblicano ed entrò nel “Reparto Speciale di Sicurezza” di Mario Carità.

Si mise subito in evidenza con la cattura del colonnello Marino, già aiutante del generale di corpo d’armata Mario Caracciolo di Feroleto, l’ex comandante della V Armata che aveva tentato la difesa di Firenze. Caracciolo, uno dei pochi generali che si erano opposti ai tedeschi, si era rifugiato a Roma presso il convento vaticano di San Sebastiano, sotto tutela di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Il capitano delle SS di via Tasso, autorizzò Koch a violare il territorio Vaticano, così la sua banda, attraverso uno stratagemma e l’appoggio esterno delle SS, riuscì ad arrestare il generale.

Le SS, dopo averlo schedato lo lasciarono a Koch che lo trasferì a Firenze presso la sede della cosiddetta Banda Carità.

Il risultato di questa azione gli permise di avere le autorizzazioni dal capo della Polizia della RSI di Salò, Tullio Tamburini, per costituirsi un suo reparto speciale. Una volta costituita la squadra speciale, che prese la denominazione ufficiale di “Reparto Speciale di Polizia Repubblicana”, si aggregarono anche diversi elementi della Banda Carità fino ad arrivare a circa una settantina di unità tra i quali anche dei sacerdoti. La formazione ottenne alcuni rapidi e clamorosi successi con irruzioni e perquisizioni nelle sedi della Chiesa. La sede del reparto si attestò nella palazzina di via Principe Amedeo 2, presso la pensione Oltremare, a Roma.

Tra gennaio e maggio 1944 la banda decimò le file degli antifascisti di Roma, tra i quali ben 23 esponenti del Partito d’Azione, che subì la pressione maggiore, di cui 21 furono fucilati alle Fosse Ardeatine

Quando, nel giugno del 1944, Roma fu liberata dagli Alleati Koch si unì al convoglio di Eugen Dollmann diretto a nord mentre la sua banda fuggì a Milano. Il Reparto Speciale, inquadrato nelle SS italiane, si insediò presso Villa Fossati (tra le vie Paolo Uccello e Masaccio), che in città sarà nominata come “Villa Triste”, attrezzandola con filo spinato, riflettori e sirene. Alcuni locali furono adibiti a stanze di tortura. Quasi tutti i componenti di Roma raggiunsero Milano, solamente alcuni furono arrestati e condannati a morte durante la loro fuga, come il questore Pietro Caruso. A Milano si inserirono anche nuovi elementi, come l’attore Osvaldo Valenti (l’uomo di collegamento fra Koch e il principe Borghese della Xª MAS), il conte-industriale Guido Stampa e altre donne (Lina Zini e Camilla Giorgiatti). (Dalla deposizione testimoniale di Luchino Visconti agli atti del processo Koch)

Koch, attraverso numerosi arresti e interrogatori brutali, ottenne in breve tempo il nome di Franco Calamandrei, Luigi Pintor, Lisa Giua Foa e nel 1944 la banda arrestò anche Luchino Visconti. Tutti loro sono stati ferocemente torturati, tranne Lisa Giua perché incinta. I metodi di tortura e le tecniche d’interrogatorio della banda divennero tristemente famosi e, vista la generalità di testimonianze concordi, quasi codificati:« Quando venni arrestato il Koch diede ordine che venissi fucilato nella notte. Per otto giorni, rinchiuso nel cosiddetto “buco” della pensione Jaccarino, attesi che la sentenza, continuamente confermata dall’aguzzino, fosse eseguita. Una sera Caruso  venne in visita alla pensione e Koch, per divertirsi un poco, gli mostrò due patrioti che avevano appena finito di subire la tortura. Successivamente venni trasferito a quello che nel gergo della Jaccarino veniva definito “l’ammasso”: uno stanzone fetido, con un po’ di paglia in terra. ».

(Dalla deposizione testimoniale di Luchino Visconti agli atti del processo Koch)

L'interrogatorio avveniva nella stanza di rappresentanza di Koch alla presenza di numerosi poliziotti; se un arrestato non parlava, cioè non rivelava chi fosse e quale fosse la propria attività politica, le percosse erano immediate con: lo schiaffo scientifico, la capriola (lancio della vittima contro il muro), la corsa (un percorso da denudato dalla doccia alle celle tra due file di poliziotti che colpivano). Perché la violenza mantenesse vigore e forza gli agenti si davano il cambio; le percosse avvenivano con fruste di cuoio, con nervi di bue, con i caricatori (carichi delle cartucce); l’isolamento avveniva nel cosiddetto buco, cioè in locali angusti e soffocanti; la sospensione dei torturati: venivano legati con corde e issati in modo che il corpo non toccasse terra e lasciati così per ore; la doccia bollente: le vittime venivano denudate e spinte con manici di scopa sotto un getto d’acqua bollente; qualche testimonianza ha riferito anche dell’uso del manico di scopa come variante per violenze e abusi sessuali; la messinscena dell’esecuzione per terrorizzare le vittime: una vera esecuzione fermata all’ultimo momento. 

Tra gli indagati fascisti del Reparto speciale ci furono sia fascisti intransigenti come Roberto Farinacci, che fascisti moderati come il direttore de La Stampa Concetto Pettinato. Furono svolte dagli uomini di Koch anche indagini interne nei confronti dei membri della "Muti" che esercitavano una certa rivalità nei confronti della squadra speciale. Il gruppo dirigente fascista si sentì minacciato dall'autonomia di Koch e riuscì così ad avere l'avallo di Mussolini per smantellare la banda con un'azione di forza, condotta il 25 settembre 1944 proprio da parte della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, al comando del Questore Alberto Bettini. Secondo alcune fonti il reparto era implicato anche in un traffico di cocaina. Villa Fossati fu circondata, circa cinquanta componenti della banda vennero arrestati e fu sequestrato tutto il bottino accumulato nei mesi di attività. Il 17 dicembre 1944 Koch fu arrestato e rinchiuso al carcere di San Vittore a Milano. Successivamente, nonostante le proteste di Kappler, il Reparto fu smantellato. 

Con l’aiuto dei tedeschi, Koch riuscì ad evadere il 25 aprile 1945 e da Milano si spostò a Firenze, allo scopo di ricongiungersi con Tamara Cerri, che, dopo l’arresto a Villa Fossati, era stata liberata e aveva raggiunto la sua famiglia a Firenze, per essere nuovamente catturata dagli alleati. Avuta notizia dell’arresto, il 1º giugno si presentò alla questura del capoluogo toscano dichiarando: “Se avete arrestato Tamara Cerri perché vi dica dov’è Koch, potete liberarla. Koch sono io, arrestatemi”. Subito tradotto a Roma, fu processato dopo una rapida istruttoria di due giorni, con procedura d’urgenza.

Il processo si aprì il 4 giugno nell’aula magna della Sapienza, l’interrogatorio dell’imputato e le deposizioni dei testimoni dell’accusa (l’ex-questore Morazzini e il commissario di polizia Marittoli) e a discarico (Luchino Visconti, la cui deposizione finì invece per prodursi in un ulteriore capo d’accusa) occuparono due ore; la requisitoria del PM e l’arringa difensiva di Federico Comandini, nominato avvocato d’ufficio quale Presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, presero circa mezz’ora. Alle 11:55 l’imputato fu condotto in camera di sicurezza e alle 12:17 rientrò in aula, dando la corte lettura del dispositivo della sentenza. Condannato alla pena capitale, fu giustiziato presso il Forte Bravetta alle ore 14:21 del 5 giugno 1945. 

La sua esecuzione fu filmata da Luchino Visconti.


mercoledì 4 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 giugno.

Il 4 giugno 1994 Marco Pantani vince la tappa Lienz - Merano del Giro d'Italia, la sua prima vittoria da ciclista professionista.

Il grande campione del ciclismo italiano Marco Pantani nasce il 13 gennaio 1970 a Cesena.

Vive a Cesenatico: esordisce come professionista il 5 agosto 1992 con la squadra "Carrera Tassoni", con cui correrà fino al 1996. La prima vittoria arriva nel 1994, al Giro d'Italia, nella tappa di Merano. Lo stesso anno Marco Pantani vince anche la tappa dell'Aprica, e il suo nome comincia a farsi conoscere.

Nel 1995 arriva la vittoria nella tappa di Flumsberg al Giro di Svizzera, ma sono le due tappe (Alpe D'Huez e Guzet Neige) al Tour de France a imporlo con forza all'attenzione del grande pubblico e dei media.

Anziché utilizzare il classico berrettino, Pantani corre con una bandana colorata sul capo: il mito del "Pirata" nasce lì, sulle salite del Tour.

Nello stesso anno vince il bronzo ai Campionati del mondo di Duitama in Colombia, ma è in agguato il primo dramma della sua carriera: il terribile incidente alla Milano-Torino. Le circostanze lo costringono a lunghe cure e a saltare un'intera stagione.

Torna nel 1997 e riprende le gare passando alla squadra Mercatone Uno. La sfortuna tuttavia sembra ancora perseguitarlo: una caduta al Giro d'Italia (25 Maggio, tappa di Cava dei Tirreni) lo costringe al ritiro. Si riprende in tempo per partecipare al Tour de France dove vince la tappa dell'Alpe D'Huez e di Morzine.

Il 1998 è l'anno di una straordinaria impresa: Marco Pantani, indomabile in salita, vince il Giro d'Italia (si impone nelle tappe di Piancavallo e Montecampione) e subito dopo vince il Tour de France. In Francia vince le tappe di Plateau de Beille e Les Deux Alpes, prima di arrivare al Parco dei Principi, a Parigi, da trionfatore in maglia gialla.

Con questa impresa Pantani entra a pieno merito nell'élite dei campionissimi che hanno vinto Giro e Tour nello stesso anno.

Il 1999 comincia alla grande: Pantani sembra destinato a dominare ancora in Italia e all'estero. Al Giro si prende la maglia rosa e vince quattro tappe (Gran Sasso, Oropa, Pampeago, Madonna di Campiglio).

Proprio sulle rampe della strada che sale da Pinzolo verso la località delle Dolomiti di Brenta se ne va solo, alla sua maniera, con uno scatto secco, per tutti irresistibile. Sarà l'ultimo vero, romantico, gesto atletico del vero Marco Pantani.

Il mattino successivo alla trionfale vittoria di Madonna di Campiglio, Pantani viene fermato: un controllo anti-doping rivela che il suo ematocrito è troppo alto, fuori norma.

Qui inizia il dramma personale dell'uomo Marco Pantani: l'atleta si proclama innocente, lascia la carovana del Giro che credeva già suo; la corsa riparte senza di lui.

La determinazione dell'atleta Pantani si rivelerà pari alla fragilità dell'uomo. Pantani è completamente distrutto. Inizia una parabola discendente che vede Pantani incapace di frenare la propria discesa verso una crisi interiore. La fatica di ritrovarsi è insostenibile.

L'inattività agonistica che va dal 5 giugno 1999 sino al 22 febbraio 2000 e dal 24 febbraio al 13 maggio 2001, sarà probabilmente la sua condanna. Tuttavia Marco non rinuncia: prova a reagire e a tornare come prima.

Rientra per il Giro del Giubileo con partenza da Roma, ma non riesce a terminarlo. Partecipa anche al Tour e vince le tappe del Mont Ventoux, cima leggendaria, e di Courchevel.

Poi ancora incertezze sul futuro. Dimostra di voler tornare a buoni livelli e chiude il suo ultimo Giro, nel 2003, al quattordicesimo posto, malgrado l'ennesima sfortuna di una brutta caduta.

Non partecipa al Tour successivo e si ricovera in una clinica vicino Padova, a Giugno, per disintossicarsi e per curare le sue frequenti crisi depressive.

Viene trovato morto il giorno 14 febbraio 2004 in un residence di Rimini, nel quale da alcuni giorni si era trasferito; la causa: overdose di eroina. La Gazzetta dello Sport titolava in modo semplice e rispettoso: "Se n'è andato". Il dramma dell'uomo e la sua tragica fine incontrano l'immenso cordoglio del mondo sportivo - e non solo - che unanimemente si trova d'accordo nel voler ricordare del grande campione le gesta sportive, le emozioni e l'orgoglio.

Il 4 giugno 2005 è stata inaugurata in piazza Marconi a Cesenatico la statua in bronzo, a grandezza naturale, che ritrae il campione Marco Pantani mentre pedala in salita. A causa di una legge datata 1923 che non permette di intitolare monumenti a personaggi scomparsi da meno di 10 anni, la statua non riportava alcuna targa. In seguito il monumento gli è stato definitivamente dedicato.

All'inizio del mese di agosto 2014 viene riaperta l'inchiesta sulla morte del Pirata: il campione romagnolo non si sarebbe suicidato, così la procura indaga per omicidio pur non essendovi alcun indiziato.

martedì 3 giugno 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 giugno.

Il 3 giugno 2017 in piazza San Carlo, a Torino, oltre 30mila persone si sono date appuntamento per assistere alla proiezione della finale di Champions League tra bianconeri e Real Madrid, in programma a Cardiff. 

Alle 22.15, il  Real Madrid segna il terzo gol: la delusione in piazza San Carlo è grande. La Juventus è sotto per 3-1 e sta per dire addio al sogno di conquistare la Champions League.  Quattro giovani approfittano dello scoramento dei tifosi per tentare una rapina con lo spray urticante. Uno di loro poggia il dito sulla bomboletta che ha portato da casa e spruzza in aria una sostanza urticante che colpisce le persone che gli sono accanto. Lo spray al peperoncino spruzzato in aria provoca la fuga delle persone che si trovano accanto ai quattro rapinatori. È il panico: a migliaia cercano di scappare dalla piazza ma molti di loro cadono a terra e vengono calpestati dalla folla impazzita.

I rapinatori fuggono a loro volta ma vengono ripresi dalle telecamere: le tracce si perdono in via XX Settembre. In piazza c'è sangue ovunque. Nessuno dei presenti, quasi tutti ragazzi, sa spiegare cosa sia davvero accaduto. C'è chi parla di un attacco terroristico, qualcuno addirittura sostiene di aver udito frasi pronunciate in arabo. 

l bilancio è da incubo: oltre 1500 feriti, alcuni gravissimi. Fra questi Erika Pioletti, 38 anni, in piazza per vedere la partita insieme al compagno. Erika morirà in ospedale dopo dodici giorni di agonia. Un’altra donna, Marisa Amato, morirà il 25 gennaio 2019 per le ferite riportate in piazza: era rimasta tetraplegica.

Dieci le persone colpite - dopo alcuni mesi dalla tragedia - dai provvedimenti dell’autorità giudiziaria torinese nell’ambito dell’inchiesta. Per sei scattò la custodia cautelare in carcere. Si tratta di una banda di giovani tra i 18 e i 20 anni. Quattro dei dieci, erano presenti in piazza San Carlo la sera del 3 giugno. Il primo a confessare è stato Sohaib Bouimadaghen, nato a Cirié nel 1998, cittadino italiano residente a Torino.  Gli indagati, inizialmente 21, sono diventati 15, accusati di omicidio, lesioni e disastro colposi. Tra i primi vertici istituzionali ad essere coinvolti nell’inchiesta anche la allora sindaca di Torino Chiara Appendino, il suo ex capo di gabinetto Paolo Giordana, l’ex questore di Torino Angelo Sanna, il suo ex capo di gabinetto Michele Mollo e i dirigenti di Turismo Torino, l’ente comunale che materialmente organizzò la manifestazione: il presidente Maurizio Montagnese e il suo vice Danilo Bessone.

Per i fatti del 3 giugno a Torino ci sono stati più tronconi di indagine. Il complesso processo è iniziato nel 2018. Il 17 maggio 2019, i ragazzi responsabili dello scatenarsi del panico a scopo di rapina sono stati condannati a 10 anni di carcere dal Tribunale di Torino per omicidio preterintenzionale.

Per Chiara Appendino e Paolo Giordana la corte d'assise d'appello di Torino il 20 gennaio 2025 ha confermato le condanne e disposto una pena di un anno, 5 mesi e 23 giorni di carcere.

lunedì 2 giugno 2025

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 Buongiorno, oggi è il 2 giugno.

Il 2 giugno 1897 Mark Twain, in seguito alle voci che circolavano sulla sua morte, dichiarò sul New York Journal che "la notizia della mia morte è una esagerazione".

Samuel Langhorne Clemens, noto con lo pseudonimo di Mark Twain, nasce nella città di Florida, nello stato del Missouri, il 30 novembre 1835. La madre è calvinista, il padre è dedito alla vita avventurosa. Cresce nella città di Hannibal: nel 1847 muore il fratello; Samuel ha solo dodici anni ed è costretto ad abbandonare gli studi per guadagnarsi da vivere e sostenere la famiglia. Lavora come tipografo presso il giornale del fratello scomparso.

Il mestiere lo porta ad alimentare l'interesse per la letteratura; inizia così a scrivere alcune novelle le quali verranno pubblicate proprio dai giornali presso i quali era impiegato.

In questi anni ottiene il brevetto di pilota per i battelli a vapore che percorrono il fiume Mississippi.

Gli anni dal 1857 al 1861 sono caratterizzati proprio da una vita condotta sul Mississippi, che lascerà tracce profonde nello spirito del narratore, e che diventerà un tema ricorrente nelle sue opere.

Twain iniziò a utilizzare il suo pseudonimo principale dopo aver lavorato a bordo dei battelli che navigavano sul Mississippi: il termine "Mark" fa riferimento alla misurazione della profondità delle acque (ma è ambivalente essendo anche un nome proprio), mentre "Twain" è la forma arcaica (old english) di "Two" (due), quindi il barcaiolo gridava "Mark Twain!" o meglio "by the Mark Twain!" che significa "dal segno [la profondità] è due tese" ovvero "l'acqua è profonda 12 piedi, è sicuro passare".

Il suo primo libro è una raccolta di novelle intitolata "Il ranocchio saltatore" (1865).

Desideroso di cercar fortuna, Mark Twain si trasferisce in California e diviene un cercatore d'oro, minatore, giornalista nonché reporter a San Francisco. Visita le Hawaii e viaggia in Africa, Francia e Italia.

Da queste esperienze nasce il suo secondo libro "Gli innocenti all'estero".

Dopo il successo dei suoi primi lavori nel 1870 Mark Twain sposa Olivia Langdon e si trasferisce a Hartford, nello stato del Connecticut, dove rimarrà sino al 1891.

Dopo il 1894, con l'intensificarsi della sua attività di conferenziere, i suoi viaggi si moltiplicano.

Sebbene fosse di carattere pessimista, Mark Twain è noto e conosciuto come scrittore dall'irresistibile umorismo. Il suo lato negativo con il passare degli anni andrà accentuandosi, anche a causa dei gravi lutti che colpiscono la sua famiglia: nel 1893 muore la figlia Susan; nel 1904 la moglie; nel 1909 la figlia Jane.

Egli scrisse nel 1909: "Sono arrivato con la cometa di Halley nel 1835. Tornerà l'anno prossimo e io me ne andrò con lei". Così avvenne: il 21 aprile 1910, il giorno successivo al passaggio della cometa, sarà stroncato da un infarto cardiaco, all'età di 74 anni.

Twain e molti membri della sua famiglia sono sepolti in una collina boscosa nel Woodlawn National Cemetery, ad Elmira, nello stato di New York; la sepoltura si trova, per volontà della figlia, a 12 piedi di profondità (3,7 metri), cioè "due tese" da cui appunto aveva tratto il soprannome "Mark Twain".

Tutta l'opera di Mark Twain, ispirata alle vicende e ai luoghi in cui visse e che visitò, è da considerarsi autobiografica. La sua opera viene comunemente divisa in quattro gruppi: le impressioni di viaggio ("Gli innocenti all'estero"); i ricordi d'infanzia e della prima giovinezza ("Le avventure di Tom Sawyer", 1876, "Le avventure di Huckleberry Finn", 1884); vita sul Mississippi; le narrazioni satiriche ambientate nel Medioevo e nel Rinascimento ("Un americano alla corte di Re Artù").

Mark Twain, al massimo della sua notorietà, fu con tutta probabilità la maggiore celebrità americana del suo tempo.

domenica 1 giugno 2025

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 Buongiorno, oggi è il primo giugno.

Il primo giugno 1980 iniziano le trasmissioni della Cable News Network.

Il canale all-news più famoso degli Stati Uniti è la CNN, acronimo di Cable News Network. L’emittente televisiva è stata fondata il giorno 1 giugno del 1980, da Ted Turner e Reese Schonfeld ed è una divisione della Turner Broadcasting System, di proprietà della Time Warner. Nel mondo del giornalismo la CNN è davvero una potenza, perché grazie al satellite, è vista in 100 Paesi differenti, da più di 40 milioni di abbonati.

La forza comunicativa della CNN ha di fatto cambiato il modo di fare informazione, introducendo per la prima volta un canale tematico dove poter vedere notizie 24 ore su 24. Per avere questo servizio, in Italia, abbiamo dovuto attendere più di 20 anni e forse non siamo ancora realmente riusciti a compiere il miracolo. Possiamo, però, definire la nostra CNN, Sky TG24. La Rete americana ha avuto anche un distaccamento italiano, durato dal 1999 al 2003, grazie a un accordo con il gruppo L’Espresso-la Repubblica, che ha permesso la realizzazione del sito internet CNNitalia.it, uno dei primi, nato in un periodo sfortunato, a cavallo della famosa bolla speculativa di Internet. Nel 2011, la casa Usa ha deciso di tornare a investire nel Belpaese e ha siglato una partnership con l’agenzia giornalistica TM News, diretta da Claudio Sonzogno.

La CNN dà lavoro a moltissimi giornalisti: la sua sede di Atlanta, il quartiere generale, ospita più di 600 professionisti, che non producono solo informazioni web, ma sono formati per raccontare in diretta tv gli eventi. Ricordiamo, infatti, che i primi a dare la notizia dello scoppio della Guerra del Golfo sono stati proprio i giornalisti CNN: nello specifico il merito è di Peter Arnett, il miglior inviato della Rete, che è riuscito a trasmettere con una parabola satellitare, da un hotel di Bagdad, le prime immagini delle truppe americane che attaccavano l’esercito di Saddam Hussein (era il 17 gennaio del 1991).  Oltre ad Arnett, la CNN inviò in Iraq anche una troupe di tecnici da set cinematografico, perché Arnett da solo non poteva manovrare le telecamere analogiche, estremamente pesanti e complesse, e al tempo stesso andare in onda. Oggi, forse, questa cosa non sorprende più nessuno, perché la tecnologia ha fatto passi da gigante, ma allora il reportage live della CNN ha fatto la storia.

La CNN è organizzata per canali d’informazione tematici. Abbiamo, infatti, quello di economia, di sport e di spettacolo e poi quello di news 24 ore su 24 che raccoglie gli eventi più importanti della giornata. Tra i personaggi che hanno segnato l’immagine della Rete, c’è sicuramente il giornalista Larry King, che ha condotto per 25 anni il suo speciale The Larry King Show, un salotto televisivo dove gli ospiti (dagli attori ai politici) si confessavano in diretta tv. Il programma, che ha chiuso il sipario alla fine del 2010, è stato il primo vero talk show americano.

L’avventura de The Larry King Show è iniziata 3 giugno del 1985 e si è confermato fin da subito un gradissimo successo, superando nel corso degli anni le 40 mila interviste. Possiamo dire che metà degli Usa che conta (e non solo) si è seduta davanti a  Lawrence Harvey Zeiger, questo il vero nome di Larry King.  Il giornalista, noto per la sua cifra ironica, per le sue domande al vetriolo e le sue bretelle, ha, infatti, avuto l’onore di chiacchierare con tutti i Presidenti della Casa Bianca e di indicare, nel 2007, Barack Obama come prossimo inquilino della stanza ovale. Ma davanti a lui, si sono seduti anche la Lady di Ferro, la signora Margaret Thatcher, il premier russo Vladimir Putin, il papà di Michael Jackson, quasi tutte le star di Hollywood e della musica, come Lady Gaga.

Nel 2010, il mitico King è stato mandato in pensione a 77 anni compiuti e una carriera incredibile e la CNN ha deciso di sostituirlo con Piers Morgan, ex editore del Mirror.


sabato 31 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 31 maggio.

Il 31 maggio 1962 un treno merci che non aveva rispettato il semaforo rosso piomba su un treno passeggeri fermo alla stazione di Voghera.

Era un giovedì quel maledetto 31 maggio 1962. Un giorno che Voghera non potrà mai dimenticare. Sessantaquattro morti, il terzo peggior disastro ferroviario della storia italiana e tra i più gravi di quella europea. Alle due e un quarto del mattino un treno merci piomba a settanta chilometri orari addosso all'accelerato 1391 fermo sul terzo binario della stazione e stracarico di turisti diretti in riviera. La pesante locomotiva entra nei vagoni di coda come un coltello nel burro. E' una strage. Muoiono a decine, sorpresi nel sonno dal tremendo impatto, tantissimi i feriti. Chi occupava gli ultimi vagoni del convoglio, non ebbe praticamente scampo. Tra le vittime donne, bambini, anziani. Non ci furono pavesi tra loro, per il semplice motivo che chi salì sul treno a Pavia o a Voghera trovò i posti in fondo, nelle carrozze della morte, già occupati e dovette sistemarsi a metà o in cima al treno dove gli effetti dello scontro furono assai meno devastanti. La Fiera dell'Ascensione viene immediatamente annullata dall'allora sindaco democristiano Rino Cristiani. La città si prodiga nei soccorsi. E' un lavoro infernale, estrarre i feriti e i corpi straziati da quell'ammasso di lamiere contorte. L'urto ha fatto accartocciare le carrozze le une sulle altre, come se fossero dei modellini di plastica. Illesi i macchinisti del merci assassino, scappati quando si sono resi conto di non potere fare nulla per evitare il terribile urto. Abitano entrambi a Sesto San Giovanni, pagheranno con una dura trafila processuale e il carcere colpe che forse non sono soltanto le loro, in una tragica catena di comandi e di segnali intempestivi e non rispettati: all'epoca, del resto, non c'erano sistemi di controllo elettronico e ogni decisione era delegata al fattore umano, fatalmente esposto al rischio di un errore. Di certo c'è che il merci è entrato alla stazione di Voghera a una velocità eccessiva e sarà questa una delle principali imputazioni contestate ai due ferrovieri. L'impressione nel Paese è enorme. Siamo negli anni del boom economico e di un benessere che si sta estendendo anche ai ceti medio-bassi, ma ancora viva è l'eco delle distruzioni causate dalla guerra e dai bombardamenti. Con la strage della stazione di Voghera l'orologio del tempo sembra tornare indietro di vent'anni, alle città sventrate dalle bombe. Una folla imponente assiste ai funerali, celebrati in Duomo. Partecipano al rito, in una giornata plumbea, sotto la pioggia, il presidente della Repubblica, Antonio Segni, il presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, il ministro Tremelloni. All'epoca, un cineamatore - si chiamava Carena - realizzò anche un filmato a colori, rarissimo per quei tempi, nelle ore immediatamente successive al disastro, con una cinepresa 8 millimetri. Quelle scene impressionanti, con i vagoni accatastati su se stessi, le bare allineate sul terzo binario, le facce attonite e sconvolte dei volontari, dei soldati mobilitati nell'emergenza, sono state utilizzate da Giulio Cesare Anselmi, medico chirurgo dell'ospedale, tra i primi ad accorrere sul luogo della sciagura, per realizzare il video, «Il disastro di Voghera», uno dei documenti storici più preziosi su quei fatti già lontani più di mezzo secolo, ma rimasti scolpiti indelebilmente nel cuore della città.

venerdì 30 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 30 maggio.

Il 30 maggio 1911 viene disputata per la prima volta la 500 miglia di Indianapolis.

La 500 Miglia di Indianapolis è una delle corse più longeve che le competizioni motoristiche possano annoverare e costituisce un universo a parte nelle competizioni.

L’impianto che ospita la 500 Miglia si trova nello Stato dell’Indiana a Speedway, una cittadina a nord-ovest di Indianapolis, e la costruzione del tracciato, pavimentato in ghiaia mista a catrame, risale al 1909: la pista avrebbe dovuto servire come supporto per ospitare eventi di vario genere ed attività di collaudo automobilistico. Nel 1911, all’indomani di una ripavimentazione più adeguata (il nuovo rivestimento è in mattoni e calce, detto Brickyard), viene organizzata una gara di durata da disputare su una distanza di cinquecento miglia: nella prima Indy 500 si impone Ray Harroun su Marmon Wasp, ad una media di circa 75 miglia orarie e alla guida della prima auto da corsa munita di specchietto retrovisore. Se in tutto il resto del mondo le prestazioni si misurano in tempo, a Indianapolis si parla principalmente di media oraria, che è la stessa cosa, ma restituisce meglio il concetto di velocità.

Dagli Anni Trenta in poi il manto stradale sarà in asfalto, ma ancora oggi è possibile ammirare la famosa pavimentazione in mattoncini nella striscia larga tre piedi che delimita la linea del traguardo. Per quanto riguarda i dati tecnici della pista, il catino (da percorrere in senso antiorario) è accreditato di una lunghezza di 2,5 miglia, così ripartiti: due rettilinei da 5/8 di miglio con banking a 0°, due raccordi tra le curve (detti Short Chute) da 1/8 di miglio con banking a 0° e quattro curve da 1/4 di miglio con banking a 9°12′. Quattro curve e pianta simmetrica sono il trionfo della semplicità, ma non della banalità, dato che ci sono due insidie nascoste: primo, gli specialisti degli ovali (ovvero la quintessenza dell’automobilismo USA) dicono che la corsa su questa tipologia di tracciato sia una delle esperienze di guida più pericolose in assoluto, perché giocata molto spesso sul filo del rasoio; secondo, chi ha guidato durante la Indy 500 riferisce che il catino sia “una cosa viva che si muove”, come se fosse in continua evoluzione. Noi, che al massimo abbiamo giocato al glorioso Indianapolis 500 The Simulation della Papyrus durante gli Anni Novanta, non possiamo fare altro che affidarci alle parole dei professionisti.

La 500 miglia di Indianapolis costituisce una corsa a parte rispetto al resto della stagione dell’IndyCar, anche se vi contribuisce come punteggio. Chiunque sia in grado di mettere in pista una vettura con le specifiche richieste dal regolamento può partecipare all’evento, indipendentemente dalla partecipazione al campionato: all’atto dell’iscrizione riceverà il numero di gara per la monoposto principale e il numero di gara con la T per l’eventuale muletto, detto T-car. Oggi le specifiche vigenti lasciano libera solo la scelta del motorista (Chevrolet o Honda), ma fino agli Anni Novanta le possibili combinazioni di motore, telaio (anche di qualche anno prima, tutto fa brodo…) e gomme davano luogo ad una selezione tecnica più variegata. In un certo senso, questo appiattimento tecnico è uno dei motivi per cui negli ultimi anni la gara ha smarrito buona parte di quel fascino che la caratterizzava: tentativi di qualifica con vetture anacronisticamente a motore anteriore (negli Anni Ottanta) o con tecnologie fin troppo d’avanguardia come la Eagle Aircraft Flyer (nel 1982), per non parlare dei motori dedicati esclusivamente alla 500 Miglia, come i Mercedes-Ilmor vittoriosi nel 1994 o le preparazioni Menard, mostruosamente potenti e con un’affidabilità prossima allo zero, sono solamente ricordi di un’epoca lontana.

Tutto il mese di maggio è dedicato alle prove libere: nei primi giorni viene effettuato il Rookie orientation program, prova di ammissione per gli esordienti, che devono dimostrare di essere in grado di girare per quattro batterie di dieci giri ciascuna mantenendosi dentro un range di velocità media che a ogni batteria si alza. Stesso trattamento anche per i veterani che si sono presi una pausa dalle gare IndyCar: per loro il test prende il nome di Refresher.

Le qualificazioni sono da sempre caratterizzate da un sistema complesso di assegnazione dei posti, ma dal 2014 la procedura si è semplificata; ciò che non è cambiato è la prestazione di riferimento, cioè la velocità media ottenuta in quattro giri di pista consecutivi (regola che risale al 1939). Il sabato del fine settimana prima della gara la pista rimane aperta per i tentativi di qualifica: ogni iscritto ha a disposizione tre tentativi di qualifica (l’ordine viene stabilito per estrazione) e ogni tentativo annulla la media ottenuta dal precedente; alla fine della giornata i trentatré più veloci si aggiudicheranno la griglia di partenza. Il giorno dopo, i primi nove (detti The Fast 9) avranno un tentativo ciascuno per giocarsi le prime nove posizioni al via, così come i restanti ventiquattro, che si disputeranno i posti dal decimo al trentatreesimo. Prima del 2014 il sistema di qualifica prevedeva tre giornate di definizione provvisoria della griglia (sempre a scaglioni: top 11, poi posti dal 12° al 22° e quindi dal 23° al 33°) e una quarta giornata (il Bump Day) in cui il pilota On the bubble, cioè con la media più bassa (e non necessariamente l’ultimo nello schieramento), poteva essere estromesso da chi girava più forte, fino ad esaurimento dei tentativi disponibili.

La gara si gioca sulla distanza di cinquecento miglia, caratterizzate da velocità, sorpassi, rifornimenti, cambi gomme e neutralizzazioni sotto bandiera gialla: se vogliamo vedere il nostro numero di gara nel punto più alto di The Pylon al traguardo del duecentesimo giro, entrando da trionfatori nella Gasolyne Alley per brindare con il latte, la lettura di ciò che avviene in pista è importante tanto quanto comprendere il comportamento della vettura nelle varie fasi di gara. In altre parole: se vogliamo che la nostra faccia finisca scolpita sull’enorme Borg Warner Trophy abbiamo bisogno di un buon compromesso di assetto per le fasi di gara in aria libera e quelle in aria turbolenta (cioè in scia agli avversari o nelle fasi trafficate di doppiaggio), un ottimo affiatamento con lo spotter (la persona che dai box informa costantemente il pilota su tutto quello che, letteralmente, succede intorno alla vettura) e di trovarsi in una posizione buona, con livelli di gomme e metanolo sufficienti, per essere aggressivi negli ultimi quindici – venti giri, cioè la fase risolutiva della gara. E bisogna gestire la concentrazione, l’adrenalina e il proprio fisico durante le due ore e tre quarti di gara (se va bene), sotto il sole che picchia e quasi sempre oltre le duecento miglia orarie: il confine tra vittoria e sconfitta è talmente labile che basta una disattenzione in prossimità del traguardo per infrangere i sogni di gloria… chiedete a Takuma Sato o J. R. Hildebrand e vedete cosa vi rispondono.

In conclusione: la storia leggendaria di Indy 500 fa sì che la gara sul catino dell’Indiana sia una delle grandi classiche dell’automobilismo mondiale, con una copertura mediatica a livello globale (basti pensare a cos’è successo nella edizione con la partecipazione di Fernando Alonso) e, almeno nei giorni di grazia, seguita da un pubblico da casa numericamente secondo solo al Superbowl. Negli ultimi vent’anni la corsa ha smarrito per strada buona parte del fascino caratteristico dell’epoca che fu, di quei gloriosi Anni Sessanta quando costituiva il punto di contatto tra l’America e l’Europa in pista e in cui si parlava di un riconoscimento puramente statistico, la Triple Crown, che metteva assieme la vittoria in tre gare completamente diverse tra loro (GP di Monaco di Formula 1, 24 ore di Le Mans e 500 Miglia di Indianapolis): la causa è da ricercare in un complicato garbuglio di ragioni tecniche, sportive e politiche che dagli Anni Duemila in poi ad un certo punto hanno portato una delle corse più famose del mondo al livello di una bolsa gara di go-kart aziendale. Nella speranza che un domani torni ad essere iconica come lo era un tempo e come dovrebbe sempre essere.

giovedì 29 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 maggio.

Il 29 maggio 1994 va in onda negli Stati Uniti l'ultimo episodio della serie "Star Trek - The next generation", dal titolo "Ieri, oggi e domani" (titolo originale "all good things...").

"Star Trek: The Next Generation" prosegue le avventure dell'Enterprise nello spazio profondo. Rispetto alla serie originale cambiano i personaggi, ma non la missione: esplorare strani, nuovi mondi, alla ricerca di nuove forme di vita e di nuove civiltà, per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima

"Volevamo vedere se eri capace di espandere la tua mente e i tuoi orizzonti, e in effetti per un breve momento ce l'hai fatta... In quell'unica frazione di secondo ti sei posto dei quesiti del tutto nuovi. Quella è l'esplorazione che ti aspetta, non scoprire le stelle o studiare le nebulose, ma esplorare a fondo le ignote possibilità dell'esistenza."

(Q, The Next Generation, "All Good Things...")

Star Trek. Lo spazio come ultima frontiera, l'esplorazione intesa come scoperta di sé stessi, per arrivare dove nessuno è mai giunto prima. Otto lettere riuniscono milioni di appassionati in tutto il mondo che si incontrano nelle convention, nelle mostre, nelle fiere, condividendo uno stesso sogno: che, in fondo, quello di Star Trek non sia un mero universo partorito dalla fantasia di un autore televisivo californiano, ma il futuro che attende l'umanità.

In "All Good Things..." ("Ieri, oggi, domani"), l'ultima puntata di The Next Generation, la seconda serie in live action del franchise creato da Gene Roddenberry nel 1966, nonché la più vicina all'idea del suo autore, il capitano della nave stellare Enterprise Jean-Luc Picard viaggia attraverso tre diverse dimensioni temporali senza soluzione di continuità: torna nel passato, nel giorno in cui assunse il suo nuovo incarico, visita il futuro, in cui sperimenta gli effetti dello scorrere del tempo, e salva il presente, minacciato dall'entità aliena Q, un essere immortale e onnipotente, il primo personaggio incontrato dai membri dell'equipaggio sette anni prima. L'episodio, ispirato a "Mattatoio n. 5" di Kurt Vonnegut, un must tra gli sceneggiatori emergenti della serie, vincitore del premio Hugo 1995 per la migliore rappresentazione drammatica, ritrova una sua linearità concludendo un arco narrativo iniziato nell'episodio pilota, "Encounter at Farpoint" ("Incontro a Farpoint"), di cui si propone come l'ideale seguito. Il cerchio si chiude con una partita a poker tra i membri dell'equipaggio, un gioco ricorrente nell'universo di Star Trek, che spinge i suoi personaggi alla riflessione, all'uso della logica, all'intuizione, e accetta non di rado di essere regolato dalla pura casualità.

Suona ormai banale l'opinione pubblica che Star Trek sia molto più di una serie televisiva. Non solo per l'enorme passione che unisce milioni di appassionati sparsi in tutto il mondo, difficile da ignorare anche per chi di Star Trek non ha mai visto mezza scena, ma soprattutto per la quantità di studi accademici accumulati nel corso degli anni in seminari dedicatigli, volti ad analizzare la complessità di un'opera che affonda le radici in svariati campi, dalla filosofia alle scienze sociali, retti dalla fantascienza utopica di Roddenberry. Chi ha visto solo di sfuggita una o più puntate di una qualsiasi serie di Star Trek, senza mai penetrarne nello spirito, generalmente crede sia un'opera lenta, che richieda un impegno costante non tanto nella fruizione dei singoli episodi, comunque sempre finalizzati all'intrattenimento, com'è d'uopo per la televisione americana, quanto nel seguire le molteplici dinamiche di un caratteristico universo senza il rischio di perdersi tra le stelle.

Star Trek si fonda sin dal principio sull'esplorazione, esteriore e, di riflesso, interiore, un filo che lega tutti i capitani delle cinque serie, da Kirk ad Archer, passando per Picard, Sisko e Janeway. La buona fantascienza è un genere che guarda al futuro per riflettere sul presente. Il cinema dei grandi incassi, tuttavia, è abituato ad un altro tipo di fantascienza, dipendente dalla spettacolarità, tradotta spesso in scene di guerra - è anche il caso degli ultimi film di Star Trek, che si sono dovuti adattare ai tempi, snaturando molte caratteristiche che hanno reso il marchio celebre. Il boom hollywoodiano degli anni '50, figlio della Guerra Fredda, evidenziava il conflitto tra l'Uomo e l'Altro, ossia l'alieno, il Diverso, creatura estranea ed invadente. Star Trek, e in particolare The Next Generation, che Roddenberry plasmò secondo la sua personale idea di società futuristica, rovescia molti schemi tipici della fantascienza hollywoodiana e rifiuta la spettacolarità più immediata in favore di una regia essenziale, invisibile, con ben pochi virtuosismi, ed una preferenza concessa ai dialoghi tra i personaggi e alla psicologia degli stessi piuttosto che all'azione diretta. L'alieno non è mai visto come il diverso, l'incontro deve essere sempre stimolante e deve contribuire allo sviluppo delle specie.

Tra i membri dell'equipaggio dell'Enterprise NCC-1701-D, il conflitto, un'esperienza che in sociologia definisce lo sviluppo di una persona, è praticamente assente. L'armonia viene sconvolta da fattori di origine esterna, come le entità che in taluni episodi si impossessano dei personaggi. Nella prima, dimenticabile stagione, gli esseri umani sono presentati paradossalmente come creature inumane, troppo perfetti per essere veri e per stimolare un'interazione sincera con un pubblico abituato alle avventure di Kirk, Spock e McCoy. In tale contesto, un personaggio che funziona sin da subito è Data, l'androide che sostituisce idealmente il vulcaniano Spock sulla plancia dell'Enterprise. Interpretato dal mimo Brent Spiner, Data è un essere pressoché perfetto che desidera adottare i comportamenti tipici degli uomini, incarnando anche le debolezze della nostra specie. "Pinocchio", lo definisce simpaticamente William Riker, il secondo in comando. Come un antropologo, Data è un acuto osservatore dei suoi colleghi, e questo suo atteggiamento, che lo porta spesso ad essere il personaggio effettivamente più umano, ispira alcune tra le scene più brillanti della serie.

Il concetto dei rapporti di forza tra i singoli e i gruppi in Star Trek è fondamentale. Come ha osservato Thomas Richards nel suo saggio "The Meaning of Star Trek" ("Il mondo di Star Trek"), la Federazione dei Pianeti Uniti, l'organizzazione che nel futuro raccoglie l'umanità e altri popoli che hanno scelto di unirsi sotto un unico governo, interagisce con tre diversi tipi di specie: quelle di livello inferiore, quelle di livello uguale e quelle di livello superiore.

Nell'universo di Star Trek, il viaggio verso territori stellari inesplorati comporta l'assenza di una legislazione atta a regolare il comportamento degli esploratori. L'ultima frontiera, per l'appunto. È per questo che molte puntate della serie originale rivolte all'incontro tra l'Enterprise e civiltà non ancora sviluppate sono vicine al genere western, con Kirk che indossa idealmente i panni dello sceriffo, l'unico portatore della legge in una terra selvaggia. È opportuno tuttavia specificare che la Federazione non è un impero. Per questo motivo lo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon introdusse nella serie originale la fondamentale Prima Direttiva, una regola volta ad allontanare eventuali smanie di conquista da parte dei membri della Flotta Stellare, che impedisce di interferire con lo sviluppo di una società aliena finché questa non abbia raggiunto i requisiti tecnologici per viaggiare nello spazio - che, nell'universo di Star Trek, sulla Terra vengono raggiunti nel 2063 grazie alle ricerche di Zefram Cochrane. È tuttavia impossibile mantenere un distacco in un universo in cui tutte le azioni hanno delle conseguenze, come mostra la puntata di The Next Generation "Who Watches the Watchers?" ("Prima direttiva"), in cui, su un pianeta popolato da una razza primitiva, alcuni membri della popolazione si imbattono in una stazione di ricerche antropologiche istituita dalla Flotta Stellare, identificando Picard nel proprio Dio.

I migliori episodi di The Next Generation si fondano sullo scontro tra due culture che condividono uno stesso livello di sviluppo. L'immagine ricorrente nei climax di molte puntate indimenticabili mostra due astronavi ferme nello spazio, una di fronte all'altra, al culmine di una crisi, in attesa che l'altra faccia la prima mossa. Generalmente è un astuto ragionamento di Picard ad evitare il disastro. Per la natura del nuovo capitano dell'Enterprise, The Next Generation propone più situazioni di stallo, da sbrogliare con il sapiente uso della diplomazia, rispetto a quelle incentrate sull'azione. La missione della Flotta Stellare è opposta a quella delle altre specie del loro livello, che hanno invece creato dei veri e propri imperi. L'arco narrativo dei Klingon, scritto dall'esordiente Ronald D. Moore - che qualche anno dopo proporrà una nuova serie di Battlestar Galactica - ricorda i toni delle tragedie di Shakespeare, i Romulani ragionano in modo simile agli antichi Romani, gli spietati Cardassiani imitano indirettamente le stragi naziste sui Bajorani - il tema su cui si svilupperà Deep Space Nine.

La prima, grande puntata di The Next Generation, "Q-Who?" ("Chi è Q?"), introduce i Borg, esseri composti da parti umane e meccaniche fuse tra loro, i definitivi nemici dell'individualità, il cui scopo è assimilare tutte le specie dell'universo in un unico corpo-macchina. I Borg, che si spostano nello spazio tramite una caratteristica astronave a forma di cubo, sono gli antagonisti principali di The Next Generation, sconvolgendo qualsiasi schema pre-esistente e ponendo gli umani di fronte ad una condizione di assoluta ed ineluttabile inferiorità. La tensione tra la Federazione e i Borg raggiunge l'apice con le due indimenticabili puntate che chiudono ed aprono rispettivamente la terza e la quarta stagione, "The Best of Both Worlds" ("L'attacco dei Borg"), nel corso delle quali Picard viene assimilato ed assume la nuova identità di Locutus dei Borg, recando una fragorosa sconfitta alla Flotta Stellare nella battaglia di Wolf 359. È l'unica, epica battaglia di The Next Generation, nemmeno mostrata nella sua totalità, a causa dell'economia sui mezzi. Solo nel successivo Deep Space Nine, la più cupa tra le serie di Star Trek, si assisterà ad un conflitto costante, seriale, che condurrà ad una guerra su larga scala, la cui spettacolarità venne tradotta con i mezzi dell'allora innovativa - almeno per la televisione - CGI.

The Next Generation attraversa la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, e come tutte le serie televisive è figlia del suo tempo. Largamente episodica, l'argomento trattato in una puntata si esaurisce nei 45 minuti che la compongono, e spesso non ne viene fatta più menzione. Gli archi narrativi sono slegati da una soluzione di continuità, una puntata può infatti costituire il seguito di un'altra anche a una o più stagioni di distanza. Mentre oggi appare ormai consolidato il processo di serializzazione delle opere audiovisive destinate al mercato della televisione, proposto in larga scala dal modello HBO sperimentato tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000 con opere innovative quali "Oz", "I Soprano" e "The Wire", nell'epoca in cui le televisioni trasmettono The Next Generation c'era ancora la paura che il pubblico non riuscisse a stabilire una immediata connessione emotiva con il programma senza avere le informazioni ricavate dalla visione delle puntate precedenti. In The Next Generation, l'importanza di ogni singolo episodio viene accentuata rispetto alle intere stagioni, prive di temi di fondo generali, con piccoli cambiamenti sparsi - la terza stagione, ad esempio, introduce una nuova sigla e nuovi capi d'abbigliamento per i membri dell'Enterprise. Riguardare The Next Generation oggi, o addirittura guardarlo per la prima volta, nell'era di Netflix, rappresenta un vero e proprio viaggio verso l'ignoto, come quello intrapreso dall'Enterprise.

Superato un primo, rapido periodo di assestamento, dalla terza stagione in poi ai singoli personaggi sono dedicate intere puntate. Il capitano Jean-Luc Picard è un esperto diplomatico dalla profonda sensibilità e fermezza, appassionato di archeologia, nato in Francia ed interpretato dal grande attore shakesperiano Patrick Stewart, immediatamente riconoscibile dal suo caratteristico accento. "Darmok" (id.), in cui deve comunicare con un alieno che si esprime attraverso metafore tratte da ignoti racconti mitologici della sua popolazione, "Tapestry" ("Una seconda opportunità"), in cui rivive in una sorta di purgatorio un episodio della sua adolescenza che ha cambiato radicalmente la sua vita, " The Inner Light" ("Una vita per ricordare"), nel quale vive una vita alternativa nell'arco di pochi minuti reali, sono autentici capolavori della televisione, e andrebbero recuperati da tutti gli appassionati del genere. Il primo ufficiale William Riker nasconde la sua insicurezza, causata da un forte conflitto con la figura paterna esplicato in "The Icarus Factor" ("Fattore Icaro"), sotto una maschera risoluta, che attrae molte donne incontrate nel viaggio, ed è responsabile dell'incolumità del capitano, costretto a sfidare nel già citato "The Best of Both Worlds". Come accadde a Kirk nella serie originale, un malfunzionamento del teletrasporto genera un suo clone in "Second Chances" ("Duplicato"). Il tenente Geordi LaForge, dotato di uno spiccato senso dell'umorismo, promosso a ingegnere capo nel corso della serie, si serve di un paio di visori per correggere una cecità congenita. Collaborerà a fianco di Montgomery Scott, l'ingegnere capo della prima Enterprise, in "Relics" ("Il naufrago del tempo"). Il capo della sicurezza Worf è il primo Klingon della Flotta Stellare, cresciuto da una coppia di esseri umani che hanno dirottato la sua aggressività verso la lealtà per la Federazione. A lui sono dedicate numerose puntate che condurranno ad una guerra civile tra i Klingon, governati da politici corrotti. Il consulente di bordo Deanna Troi è per metà umana e per metà betazoide, una specie che possiede abilità telepatiche. La dottoressa Crusher intrattiene rapporti ambigui con Picard, amico del suo defunto marito, e viaggia accompagnata da suo figlio Wesley, bambino prodigio che nel corso della serie si iscriverà all'Accademia della Flotta Stellare, in cui si rende colpevole, insieme ad altri suoi compagni, di un incidente in "The First Duty" ("Il primo dovere").

The Next Generation fonda il suo enorme successo sulla familiarità che si stabilisce tra il pubblico e i suoi personaggi, proposti in ambienti ricorrenti, che replicano lo stile della sitcom, come l'inconfondibile plancia dell'Enterprise e il bar di prora gestito da Guinan, interpretata dall'attrice premio Oscar Whoopi Goldberg. Tutti questi personaggi hanno problemi con le loro famiglie, e il loro scopo ultimo è preservare una propria individualità nel corso del loro viaggio. L'autonomia e l'indipendenza sono concetti largamente esasperati in Star Trek. L'Enterprise è solo una nave tra centinaia appartenenti alla Flotta Stellare, l'equilibrio può essere stabile o instabile, l'importante è che i personaggi non perdano mai la propria personalità, minacciata dai Borg e dai Cardassiani, le due razze veramente distopiche in un futuro largamente desiderabile.

La fantascienza è influenzata dagli astri, associati ad una struttura deterministica delle storie. In una delle scene più famose di Star Wars, il giovane Luke Skywalker mira il tramonto di Tatooine e la musica di sottofondo di John Williams sottolinea il suo incombente destino: diventare un cavaliere Jedi. In Star Trek, questi momenti sono limitati. Concetti come il destino e l'eroismo vengono annullati dalla morte apparentemente inutile della prima addetta alla sicurezza Tasha Yar in "Skin of Evil" ("La pelle del male"). In una puntata della settima stagione, "Parallels" ("Paralleli"), l'Enterprise interagisce con altre astronavi gemelle provenienti da dimensioni parallele, tra cui una in cui i Borg hanno assimilato quasi totalmente la razza umana. L'universo di Star Trek è dominato dal libero arbitrio, e sono le scelte di ogni personaggio a sconvolgere l'equilibrio. La minaccia incombe, tocca agli uomini e alla loro intelligenza riuscire a mantenere l'armonia che rende la serie godibile per chi l'ha già vista, per chi la sta recuperando adesso e per la prossima generazione di spettatori.

 

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