Buongiorno, oggi è il 30 aprile.
Il 30 aprile 1573 crolla il campanile della cattedrale di Beauvais.
Beauvais, in Piccardia, è città di antica origine preromana. Situata in felice posizione a metà strada tra Parigi e Amiens, ebbe notevole importanza in epoca medioevale, come testimoniano le grandiose strutture della sua cattedrale e altri monumenti cittadini.
Certamente meno nota rispetto alle illustri “vicine” di Parigi, Reims, Amiens, Laon, Chartres, Rouen, la cattedrale di Beauvais merita particolare attenzione per alcune sue particolarità, che ne fanno uno degli esempi più impressionanti del virtuosismo architettonico sperimentato nei grandi cantieri gotici del XIII secolo nel nord della Francia.
Sorto nel luogo della precedente cattedrale, l’edificio si presenta incompiuto ed è frutto di diverse fasi costruttive ben distinguibili e di vicissitudini documentate. Di quella che sarebbe dovuta diventare una delle cattedrali più vaste d’Europa, possiamo oggi ammirare il coro, il transetto e la prima campata della navata centrale.
L’interruzione definitiva del cantiere alla fine del XVI secolo ha concesso la rara opportunità di poter ancora osservare, davanti alla chiesa gotica, un moncone della cattedrale preromanica, destinato a scomparire progressivamente con la costruzione del corpo delle tre navate, mai cominciato. I resti di questo antico edificio sono di notevole interesse; datata generalmente al X secolo e rimaneggiata nell’XI e nel XII, la chiesa primitiva, nota localmente come Notre-Dame-de-la-Basse-Oeuvre, mostra forme architettoniche che la avvicinano ai pochissimi esempi superstiti di architettura carolingia. Dell’impianto basilicale con corpo trinavato si conservano la facciata, caratterizzata da un profilo a salienti e da una grande finestra monofora con luce semicircolare, e un piccolo tratto delle tre navate e dei fianchi, purtroppo molto restaurato e risarcito nel corso dei restauri.
È documentato che l’antica chiesa fu gravemente danneggiata da un incendio nel 1225.
L’avvenimento segna l’atto di fondazione del nuovo edificio, che probabilmente venne iniziato poco tempo dopo, più o meno contemporaneamente al cantiere della cattedrale di Amiens (iniziata nel 1220), ma con proporzioni ancora più ambiziose: la nuova cattedrale avrebbe dovuto essere una delle più grandi mai costruite e certamente la più alta; l’evoluzione del sistema costruttivo gotico, perfezionatosi nel corso della seconda metà del XII secolo e nei primi decenni del XIII, consentiva ormai l’erezione di strutture notevolmente ardite; il coro della cattedrale di Beauvais, a tre navate, con deambulatorio e sette cappelle radiali, fu portato a termine con molta lentezza e completato in circa mezzo secolo, ed è ancora oggi il più alto del mondo, con le volte a crociera che coprono lo spazio interno a un’altezza di oltre 48 metri. Inoltre, per consentire l’ingresso libero della luce attraverso le altissime vetrate (le finestre sono alte circa 18 metri), si tentò di assottigliare al massimo possibile lo spessore dei contrafforti esterni e degli archi rampanti che dovevano sostenere i carichi.
Ne risultò una struttura straordinariamente leggera e ardita, ma altrettanto fragile, dato che, già pochissimi anni dopo la consacrazione, iniziarono a presentarsi i primi problemi di stabilità, che portarono a un crollo delle volte del coro e delle parti alte dei muri perimetrali nel novembre del 1284. I lavori di restauro e ricostruzione procedettero fino a circa il 1350, e dovettero per forza di cose apportare delle piccole modifiche al progetto iniziale, al fine di dare maggiore stabilità all’edificio: la pianta rimase invariata, ma venne aumentato il numero dei pilastri riducendo la luce degli archi (particolare che, tra l’altro, dà alla struttura interna uno slancio ascensionale ancora maggiore: gli archi si impostano a oltre 20 metri dal suolo) e rinforzando il sistema dei contrafforti radiali all'esterno. L’altezza rimase immutata.
Dalla metà del Trecento e per tutto il Quattrocento il cantiere subì una lunga stasi, anche a causa della precarietà della situazione politica ed economica del Regno, funestato dagli avvenimenti della Guerra dei Cent’anni.
Il cantiere riprese vigore nell’anno 1500, quando si pose mano all’edificazione del transetto trinavato davanti al coro; la nuova struttura, caratterizzata da una ricca decorazione in stile gotico flamboyant, si salda armonicamente al coro due-trecentesco, specialmente per quanto attiene allo spazio interno, dove le altezze e le proporzioni delle campate e delle volte dovettero adattarsi a quanto già esistente.
Il nuovo transetto si caratterizza esternamente per l’ esuberanza dei prospetti delle testate nord e sud, caratterizzate da una ricchissima ornamentazione a traforo su tutte le superfici.
Portato a termine in un cinquantennio, il cantiere venne chiuso con l’innalzamento, sul vano centrale all’incrocio tra transetto e coro, di una slanciata torre-guglia che superava i 150 metri di altezza, completata nel 1569.
La struttura superava in altezza la guglia della vicina cattedrale di Rouen, da poco portata a termine. Una torre del genere, di grande arditezza, non aveva eguali nell’Europa del tempo e testimonia del persistere, ancora nel XVI secolo, della volontà di fare della cattedrale di Beauvais la chiesa più alta della cristianità. Le murature della torre si impostarono su una struttura delicata, già fortemente provata dal punto di vista statico. Pochi anni dopo avvenne l’inevitabile: il 30 aprile del 1573 la torre crollò, portandosi dietro le volte del transetto, da poco completate, e causando seri danni anche al coro. I lavori di ripristino iniziarono quasi subito, come testimoniano le date incise nelle nuove volte del transetto, ma la torre all’incrocio non venne riedificata. Giunti agli ultimi anni del XVI secolo, un cantiere come quello di Beauvais risultava ormai fuori tempo e, cosa di non poco conto, non era facile reperire le somme necessarie al completamento dell’edificio, mancante ancora dell’intero corpo trinavato longitudinale. Il cantiere venne allora definitivamente interrotto e la cattedrale rimase incompiuta.
Al giorno d’oggi le strutture di Saint-Pierre, splendide pur nella loro frammentarietà e discontinuità, dominano l’intero abitato e sono visibili da chilometri di distanza.
La chiesa resta a testimonianza delle potenzialità costruttive che i maestri del gotico andavano sperimentando nelle cattedrali francesi nella prima metà del XIII secolo e anche del sogno, purtroppo portato a compimento solo in parte, che sta alla base del progetto duecentesco: conferire alla piccola città piccarda il primato di avere la chiesa più alta della cristianità.
I problemi statici dell’edificio non si sono interrotti con il compimento dei lavori cinquecenteschi, e ancora oggi la chiesa deve continuamente essere sottoposta a interventi di consolidamento e restauro, tesi a prevenire ulteriori danni alle già tormentate strutture medioevali.
Non è questa la sede per una descrizione di questi interventi: basti dire che alcune opere restano visibili a tutti, in quanto all’esterno il coro si presenta completamente incatenato a diverse altezze, onde evitare pericolosi movimenti tra i contrafforti e le pareti; all’interno sono invece state installate, nei due bracci del transetto, alcune armature fisse di controspinta.
All’interno l’edificio è ulteriormente arricchito da alcuni preziosi arredi e da un interessante corredo di vetrate, databili a epoche diverse, dal XIII secolo a oggi.
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domenica 30 aprile 2023
sabato 29 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 aprile.
Il 29 aprile 1519 nasce a Venezia Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, uno dei più grandi pittori italiani, esponente della scuola veneziana, ultimo rinascimentale e precursore dello stile barocco, imperante poi nel '600.
Al padre, e alla sua famiglia in genere, Jacopo deve innanzitutto il soprannome con cui è noto. Il nome di "Tintoretto" infatti è figlio del mestiere paterno: tintore di stoffe, appunto. Secondo gli studi più recenti, a dire il vero, lo stesso cognome Robusti, d'eredità paterna, sarebbe a sua volta un soprannome ricavato da un'impresa di guerra, nella quale si sarebbe distinto il padre del Tintoretto: energico difensore, secondo le fonti, della città di Padova. Il vero cognome, a quanto pare, sarebbe Comin, stando almeno alla dimostrazione del curatore del museo del Prado di Madrid, Miguel Falomir, in occasione dell'inaugurazione della mostra sul pittore veneziano, aperta il 29 gennaio del 2007.
Indubbio è che il padre, Giovanni Battista Robusti, o Comin, fosse un tintore. Probabilmente di origine lucchese, considerato che l'arte della tintura, almeno in quegli anni, è ad appannaggio dei lucchesi e dei toscani in genere. A confermarlo, ci sarebbero gli interessi da parte del figlio verso la pittura dei toscani, Michelangelo e Raffaello su tutti, che con ogni probabilità ha osservato da vicino, studiandone le tecniche.
Sull'infanzia e l'apprendistato del giovane Jacopo si sa poco. Secondo il biografo Carlo Ridolfi, il Tintoretto scopre la sua vocazione nel laboratorio paterno, utilizzando i colori del padre per dipingere le pareti. Il Robusti, a questo punto, per incoraggiarne la vocazione, lo porta dal maestro di allora, Tiziano. Il grande artista però, temendo che l'allievo possa superarlo e offuscare la sua fama in poco tempo, lo caccia dalla bottega. L'episodio risalirebbe al 1530.
Ad ogni modo, è datato 22 maggio 1539 un documento ufficiale nel quale Tintoretto si firma "maestro", dunque in possesso di una propria bottega sita in Venezia, in campo San Cassian. È dell'anno dopo, 1540, la firma su una celebre "Sacra Conversazione", mentre sono i suoi i due soffitti con soggetti mitologici dipinti per la casa veneziana di Pietro Aretino. A considerare da questi episodi, è possibile allora stimare che il celebre artista veneziano abbia visto crescere ed affermarsi la sua notorietà, o maestria, come si diceva, proprio in questi anni. A corroborare questa tesi, c'è anche la prima, vera commissione di cui si ha traccia certa, riguardante il Tintoretto. Vettor Pisani, nobile e titolare di una banca, intorno al 1541, in occasione delle nozze, chiama il giovane ventitreenne pittore per il restauro della propria residenza a San Paterniàn: sedici tavole incentrate sul tema delle Metamorfosi di Ovidio.
Nel 1547 comincia a lavorare alla celebre opera "La lavanda dei piedi", mentre l'anno dopo, l'Aretino gli scrive una lettera, in cui lo ringrazia per il lavoro svolto presso la Scuola Veneziana di San Marco. Il dipinto in questione è "Il miracolo di San Marco", commissionatogli anche grazie all'intervento del padre della sua futura sposa, Marco Episcopi, notabile e tra gli alti funzionari di Venezia.
Sempre in questi anni, l'artista si trasferisce nella parrocchia di Santa Maria dell'Orto, cominciando un intenso lavoro di rinnovamento delle opere artistiche interne ed esterne. Contemporaneamente, prosegue la sua collaborazione con la Scuola di San Marco, fino al 1566, lavorando ad altre tele raffiguranti il santo, come "San Marco salva un saraceno durante un naufragio", "Trafugamento del corpo di San Marco" e "Ritrovamento del corpo di San Marco". Intanto, nel 1549 porta a termine una delle tele più importanti di questo periodo, "San Rocco risana gli appestati", per la Chiesa San Rocco di Venezia.
Successivamente, anche l'Albergo della Scuola della Trinità lo chiama per alcuni lavori e tra il 1551 e il 1552, Tintoretto esegue un ciclo di dipinti ispirati alle storie della Genesi.
Nel 1552 si impegna formalmente con il procuratore Giulio Contarini a dipingere le portelle dell'organo della chiesa veneziana di Santa Maria del Giglio o Zobenigo. Il 20 dicembre dell'anno dopo, il 1553, è attestato un pagamento ricevuto dal pittore veneziano per alcuni dipinti eseguiti a Palazzo Ducale. Intorno a questa data poi, il pittore sposa Faustina Episcopi.
Nel 1555, l'artista, ormai soprannominato anche "Il furioso", per il suo tratto e per l'uso drammatico della prospettiva, dipinge la celebre pala con "L'Assunta" nella Chiesa dei Gesuiti di Venezia, e "Giuseppe e la moglie di Putifarre", altro celebre lavoro, poi acquistato da Diego Velasquez per Filippo IV. Dell'anno dopo invece, è il dipinto "Susanna e i vecchioni".
Nel 1564 il pittore inizia a lavorare per la sala dell'Albergo della Scuola Grande di San Rocco, a Venezia. Sono questi gli anni in cui la competizione, per l'ottenimento delle committenze più importanti, è più che agguerrita. Tiziano, ad esempio, è uno di quegli artisti che cerca in tutti i modi di osteggiare la fama del rivale Tintoretto. Per sbrogliare la questione, a quanto si legge da alcune fonti e, anche, dalle cronache del Vasari, la Giunta della Scuola di San Rocco ha intenzione di indire un concorso vero e proprio, per l'assegnazione del lavoro dell'ovale di San Rocco in gloria. Nel 1564 però, "il furioso" anziché presentare gli studi dell'opera, come gli altri artisti, presenta direttamente l'opera, con tanto di misure e collocazione ove prestabilito. Con la sua offerta decisamente vantaggiosa, riesce così ad ottenere l'incarico desiderato, nonostante i malcontenti creati tra gli altri pittori. E, l'11 marzo del 1564, come si evince dalle fonti ufficiali, con 85 voti a favore e 19 contrari, Tintoretto viene nominato membro della Scuola e incaricato dell'esecuzione di un ciclo di dipinti incentrati sul tema della "Passione".
Quattro anni dopo, nel 1568, arrivano alcuni dei due capolavori dipinti per l'Albergo, "La discesa di Cristo al limbo" e "La crocifissione". Intanto, porta a termine il ciclo di "San Rocco", cominciato nel 1549, dando alla luce nel 1567 il meraviglioso "San Rocco in carcere". Del 1571 invece, è la datazione di una serie di pagamenti per l'esecuzione di alcuni lavori richiesti dalla Libreria marciana, come il noto dipinto "I filosofi".
Nel 1574 Tintoretto acquista una casa nella fondamenta dei Mori, a San Marziale, dove abita fino alla fine dei suoi giorni. Contemporaneamente, comincia i lavori per la Sala Grande Superiore della Scuola di San Rocco, dedicandosi alle tele del soffitto, di recente ultimato. La peste che si abbatte sulla città lagunare in quegli anni, porta l'artista a prendere la decisione di lavorare gratuitamente alla tela centrale del soffitto, come sorta di voto a San Rocco, protettore proprio degli appestati. Ultima le tele nel 1577.
Nel 1580 è a Mantova per la consegna degli ultimi quattro teleri dei "Fasti", secondo la commissione ricevuta da Guglielmo Gonzaga per il Palazzo Ducale della città. L'anno dopo porta a termine anche i lavori alle pareti della Sala Grande di San Rocco e nel 1582 comincia a dipingere, per la Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale, a Venezia, il dipinto "La battaglia di Zara". Al contempo, si dedica anche alle tele per la Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco. Entro il 1588, porta a termine tutti i lavori per San Rocco.
Nel 1592 pertanto, inizia a lavorare ai capolavori "L'ultima cena" e "Gli ebrei nel deserto rifiutano la manna", entrambi per il Presbiterio di San Giorgio Maggiore, a Venezia.
Stando al suo atto di morte, dopo una febbre di due settimane il Tintoretto muore il 31 maggio del 1594. Tre giorni dopo, viene sepolto nella chiesa della Madonna dell'Orto, nella cripta della famiglia Episcopi.
Dalle analisi effettuate negli anni '70 su campioni prelevati dalle tele della Scuola Grande di San Rocco, si sono ottenute preziose informazioni riguardo ai materiali e alle tecniche impiegate da Tintoretto.
Le tele utilizzate, in tutti i campioni, si sono rivelate essere di lino, con differenti armature, sia semplici come il tabì, simile a quella del taffetà, che più robuste come la spina di pesce. La scelta della trama non sembra essere dipendente dal tipo di dipinto o dalla sua collocazione: ad esempio, per l'Ultima Cena Tintoretto ha utilizzato una trama grossolana, nonostante il dipinto sia visibile da una distanza ravvicinata. Non era raro che i dipinti venissero realizzati su tele cucite assieme: i telai dell'epoca potevano infatti realizzare altezze fino a 110 cm. Solitamente, le cuciture venivano effettuate prima dell'esecuzione del dipinto, in modo tale che fossero il più possibile invisibili, e soprattutto che non si trovassero in corrispondenza di parti importanti come mani e volti: era preferibile inoltre utilizzare pezze con la stessa trama, per avere una maggiore uniformità. Tintoretto invece pare non prestare attenzione a questi accorgimenti: utilizza ritagli di tela con trame diverse tra loro, con cuciture anche evidenti, come nel caso del volto della Vergine nella Fuga in Egitto, della Scuola di San Rocco.
Le imprimiture più comuni erano composte da uno strato sottile di gesso e colla, derivate da quelle già utilizzate nella pittura su tavola: il fondo chiaro dava una maggior luminosità ai colori successivamente stesi. Tintoretto preferiva invece un fondo scuro, steso sull'imprimitura a gesso o direttamente sulla tela: le analisi hanno rivelato che non si tratta di un colore bruno uniforme, bensì di un impasto ottenuto con i residui delle tavolozze, data la presenza di particelle colorate microscopiche. Sul fondo così preparato era possibile dipingere sia i toni chiari che gli scuri, lasciando anche trasparire il fondo stesso: questo era possibile nei casi in cui il dipinto si fosse trovato in zone buie o in ombra e contribuiva a velocizzare notevolmente l'esecuzione del dipinto.
Il Ridolfi racconta che l'artista era solito approntare dei piccoli "teatrini" per studiare la composizione delle opere e l'effetto delle luci: panneggiava le vesti su modellini di cera, che poi disponeva in "stanze" costruite con cartoni, illuminate da candele. Per lo studio degli scorci, appendeva manichini al soffitto dello studio: questo è evidente dal confronto di due dipinti, il Miracolo di san Marco che libera lo schiavo e il San Rocco in carcere confortato da un angelo, in entrambi i quali si può riconoscere un modello simile utilizzato per le figure sospese.
Per gli studi a gesso, Tintoretto era affezionato alla carta azzurra che tanto andava di moda a Bologna e che gli permetteva di utilizzare sia gli scuri che le lumeggiature.
Il 29 aprile 1519 nasce a Venezia Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, uno dei più grandi pittori italiani, esponente della scuola veneziana, ultimo rinascimentale e precursore dello stile barocco, imperante poi nel '600.
Al padre, e alla sua famiglia in genere, Jacopo deve innanzitutto il soprannome con cui è noto. Il nome di "Tintoretto" infatti è figlio del mestiere paterno: tintore di stoffe, appunto. Secondo gli studi più recenti, a dire il vero, lo stesso cognome Robusti, d'eredità paterna, sarebbe a sua volta un soprannome ricavato da un'impresa di guerra, nella quale si sarebbe distinto il padre del Tintoretto: energico difensore, secondo le fonti, della città di Padova. Il vero cognome, a quanto pare, sarebbe Comin, stando almeno alla dimostrazione del curatore del museo del Prado di Madrid, Miguel Falomir, in occasione dell'inaugurazione della mostra sul pittore veneziano, aperta il 29 gennaio del 2007.
Indubbio è che il padre, Giovanni Battista Robusti, o Comin, fosse un tintore. Probabilmente di origine lucchese, considerato che l'arte della tintura, almeno in quegli anni, è ad appannaggio dei lucchesi e dei toscani in genere. A confermarlo, ci sarebbero gli interessi da parte del figlio verso la pittura dei toscani, Michelangelo e Raffaello su tutti, che con ogni probabilità ha osservato da vicino, studiandone le tecniche.
Sull'infanzia e l'apprendistato del giovane Jacopo si sa poco. Secondo il biografo Carlo Ridolfi, il Tintoretto scopre la sua vocazione nel laboratorio paterno, utilizzando i colori del padre per dipingere le pareti. Il Robusti, a questo punto, per incoraggiarne la vocazione, lo porta dal maestro di allora, Tiziano. Il grande artista però, temendo che l'allievo possa superarlo e offuscare la sua fama in poco tempo, lo caccia dalla bottega. L'episodio risalirebbe al 1530.
Ad ogni modo, è datato 22 maggio 1539 un documento ufficiale nel quale Tintoretto si firma "maestro", dunque in possesso di una propria bottega sita in Venezia, in campo San Cassian. È dell'anno dopo, 1540, la firma su una celebre "Sacra Conversazione", mentre sono i suoi i due soffitti con soggetti mitologici dipinti per la casa veneziana di Pietro Aretino. A considerare da questi episodi, è possibile allora stimare che il celebre artista veneziano abbia visto crescere ed affermarsi la sua notorietà, o maestria, come si diceva, proprio in questi anni. A corroborare questa tesi, c'è anche la prima, vera commissione di cui si ha traccia certa, riguardante il Tintoretto. Vettor Pisani, nobile e titolare di una banca, intorno al 1541, in occasione delle nozze, chiama il giovane ventitreenne pittore per il restauro della propria residenza a San Paterniàn: sedici tavole incentrate sul tema delle Metamorfosi di Ovidio.
Nel 1547 comincia a lavorare alla celebre opera "La lavanda dei piedi", mentre l'anno dopo, l'Aretino gli scrive una lettera, in cui lo ringrazia per il lavoro svolto presso la Scuola Veneziana di San Marco. Il dipinto in questione è "Il miracolo di San Marco", commissionatogli anche grazie all'intervento del padre della sua futura sposa, Marco Episcopi, notabile e tra gli alti funzionari di Venezia.
Sempre in questi anni, l'artista si trasferisce nella parrocchia di Santa Maria dell'Orto, cominciando un intenso lavoro di rinnovamento delle opere artistiche interne ed esterne. Contemporaneamente, prosegue la sua collaborazione con la Scuola di San Marco, fino al 1566, lavorando ad altre tele raffiguranti il santo, come "San Marco salva un saraceno durante un naufragio", "Trafugamento del corpo di San Marco" e "Ritrovamento del corpo di San Marco". Intanto, nel 1549 porta a termine una delle tele più importanti di questo periodo, "San Rocco risana gli appestati", per la Chiesa San Rocco di Venezia.
Successivamente, anche l'Albergo della Scuola della Trinità lo chiama per alcuni lavori e tra il 1551 e il 1552, Tintoretto esegue un ciclo di dipinti ispirati alle storie della Genesi.
Nel 1552 si impegna formalmente con il procuratore Giulio Contarini a dipingere le portelle dell'organo della chiesa veneziana di Santa Maria del Giglio o Zobenigo. Il 20 dicembre dell'anno dopo, il 1553, è attestato un pagamento ricevuto dal pittore veneziano per alcuni dipinti eseguiti a Palazzo Ducale. Intorno a questa data poi, il pittore sposa Faustina Episcopi.
Nel 1555, l'artista, ormai soprannominato anche "Il furioso", per il suo tratto e per l'uso drammatico della prospettiva, dipinge la celebre pala con "L'Assunta" nella Chiesa dei Gesuiti di Venezia, e "Giuseppe e la moglie di Putifarre", altro celebre lavoro, poi acquistato da Diego Velasquez per Filippo IV. Dell'anno dopo invece, è il dipinto "Susanna e i vecchioni".
Nel 1564 il pittore inizia a lavorare per la sala dell'Albergo della Scuola Grande di San Rocco, a Venezia. Sono questi gli anni in cui la competizione, per l'ottenimento delle committenze più importanti, è più che agguerrita. Tiziano, ad esempio, è uno di quegli artisti che cerca in tutti i modi di osteggiare la fama del rivale Tintoretto. Per sbrogliare la questione, a quanto si legge da alcune fonti e, anche, dalle cronache del Vasari, la Giunta della Scuola di San Rocco ha intenzione di indire un concorso vero e proprio, per l'assegnazione del lavoro dell'ovale di San Rocco in gloria. Nel 1564 però, "il furioso" anziché presentare gli studi dell'opera, come gli altri artisti, presenta direttamente l'opera, con tanto di misure e collocazione ove prestabilito. Con la sua offerta decisamente vantaggiosa, riesce così ad ottenere l'incarico desiderato, nonostante i malcontenti creati tra gli altri pittori. E, l'11 marzo del 1564, come si evince dalle fonti ufficiali, con 85 voti a favore e 19 contrari, Tintoretto viene nominato membro della Scuola e incaricato dell'esecuzione di un ciclo di dipinti incentrati sul tema della "Passione".
Quattro anni dopo, nel 1568, arrivano alcuni dei due capolavori dipinti per l'Albergo, "La discesa di Cristo al limbo" e "La crocifissione". Intanto, porta a termine il ciclo di "San Rocco", cominciato nel 1549, dando alla luce nel 1567 il meraviglioso "San Rocco in carcere". Del 1571 invece, è la datazione di una serie di pagamenti per l'esecuzione di alcuni lavori richiesti dalla Libreria marciana, come il noto dipinto "I filosofi".
Nel 1574 Tintoretto acquista una casa nella fondamenta dei Mori, a San Marziale, dove abita fino alla fine dei suoi giorni. Contemporaneamente, comincia i lavori per la Sala Grande Superiore della Scuola di San Rocco, dedicandosi alle tele del soffitto, di recente ultimato. La peste che si abbatte sulla città lagunare in quegli anni, porta l'artista a prendere la decisione di lavorare gratuitamente alla tela centrale del soffitto, come sorta di voto a San Rocco, protettore proprio degli appestati. Ultima le tele nel 1577.
Nel 1580 è a Mantova per la consegna degli ultimi quattro teleri dei "Fasti", secondo la commissione ricevuta da Guglielmo Gonzaga per il Palazzo Ducale della città. L'anno dopo porta a termine anche i lavori alle pareti della Sala Grande di San Rocco e nel 1582 comincia a dipingere, per la Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale, a Venezia, il dipinto "La battaglia di Zara". Al contempo, si dedica anche alle tele per la Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco. Entro il 1588, porta a termine tutti i lavori per San Rocco.
Nel 1592 pertanto, inizia a lavorare ai capolavori "L'ultima cena" e "Gli ebrei nel deserto rifiutano la manna", entrambi per il Presbiterio di San Giorgio Maggiore, a Venezia.
Stando al suo atto di morte, dopo una febbre di due settimane il Tintoretto muore il 31 maggio del 1594. Tre giorni dopo, viene sepolto nella chiesa della Madonna dell'Orto, nella cripta della famiglia Episcopi.
Dalle analisi effettuate negli anni '70 su campioni prelevati dalle tele della Scuola Grande di San Rocco, si sono ottenute preziose informazioni riguardo ai materiali e alle tecniche impiegate da Tintoretto.
Le tele utilizzate, in tutti i campioni, si sono rivelate essere di lino, con differenti armature, sia semplici come il tabì, simile a quella del taffetà, che più robuste come la spina di pesce. La scelta della trama non sembra essere dipendente dal tipo di dipinto o dalla sua collocazione: ad esempio, per l'Ultima Cena Tintoretto ha utilizzato una trama grossolana, nonostante il dipinto sia visibile da una distanza ravvicinata. Non era raro che i dipinti venissero realizzati su tele cucite assieme: i telai dell'epoca potevano infatti realizzare altezze fino a 110 cm. Solitamente, le cuciture venivano effettuate prima dell'esecuzione del dipinto, in modo tale che fossero il più possibile invisibili, e soprattutto che non si trovassero in corrispondenza di parti importanti come mani e volti: era preferibile inoltre utilizzare pezze con la stessa trama, per avere una maggiore uniformità. Tintoretto invece pare non prestare attenzione a questi accorgimenti: utilizza ritagli di tela con trame diverse tra loro, con cuciture anche evidenti, come nel caso del volto della Vergine nella Fuga in Egitto, della Scuola di San Rocco.
Le imprimiture più comuni erano composte da uno strato sottile di gesso e colla, derivate da quelle già utilizzate nella pittura su tavola: il fondo chiaro dava una maggior luminosità ai colori successivamente stesi. Tintoretto preferiva invece un fondo scuro, steso sull'imprimitura a gesso o direttamente sulla tela: le analisi hanno rivelato che non si tratta di un colore bruno uniforme, bensì di un impasto ottenuto con i residui delle tavolozze, data la presenza di particelle colorate microscopiche. Sul fondo così preparato era possibile dipingere sia i toni chiari che gli scuri, lasciando anche trasparire il fondo stesso: questo era possibile nei casi in cui il dipinto si fosse trovato in zone buie o in ombra e contribuiva a velocizzare notevolmente l'esecuzione del dipinto.
Il Ridolfi racconta che l'artista era solito approntare dei piccoli "teatrini" per studiare la composizione delle opere e l'effetto delle luci: panneggiava le vesti su modellini di cera, che poi disponeva in "stanze" costruite con cartoni, illuminate da candele. Per lo studio degli scorci, appendeva manichini al soffitto dello studio: questo è evidente dal confronto di due dipinti, il Miracolo di san Marco che libera lo schiavo e il San Rocco in carcere confortato da un angelo, in entrambi i quali si può riconoscere un modello simile utilizzato per le figure sospese.
Per gli studi a gesso, Tintoretto era affezionato alla carta azzurra che tanto andava di moda a Bologna e che gli permetteva di utilizzare sia gli scuri che le lumeggiature.
venerdì 28 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 aprile.
Il 28 aprile 1980 Renato Vallanzasca organizza una fuga di detenuti dal carcere di San Vittore. Verranno tutti riacciuffati quasi subito.
Vallanzasca, "il bel Renè", come veniva chiamato, aveva iniziato ancora ragazzino a entrare e uscire dal Beccaria, il carcere minorile di Milano. Nel luglio del 1969 finì per la prima volta a San Vittore. Da allora è rimasto libero in tutto meno di due anni. Tornato in carcere nel 1972 per una rapina a un supermercato, evase in maniera clamorosa nell’estate del 1976. Non potendo contare su un medico compiacente che redigesse un falso certificato, aveva deciso di procurarsi un’epatite, nutrendosi per settimane con uova marce e iniettandosi la propria urina. Quando finalmente fu trasferito in ospedale, nel giro di pochi giorni riuscì a convincere una delle guardie, offrendogli 3 milioni, a chiudere un occhio per un paio di minuti. Così era sparito nella notte.
Per i sette mesi successivi, fino al febbraio 1977 quando fu riacciuffato a Roma, lui e la sua banda riuscirono a tenere in scacco le forze dell’ordine di mezza Italia, rendendosi responsabili di un’ottantina di rapine, sparatorie e sequestri, tra cui uno, in particolare, che diede origine al “mito” del Bel Renè. Da un giorno all’altro, i giornali trasformarono Vallanzasca in una leggenda della malavita.
Quelle due stagioni di fuoco costarono la vita a quattro poliziotti e ad altre due persone. Morti provocate dalla banda e per le quali Vallanzasca si accollò ogni responsabilità. Fu una scelta – sostiene lui – dettata da un “codice d’onore” a cui il bandito non volle sottrarsi.
Nell'estate del 1987, dopo già dieci anni di carcere, Vallanzasca non aveva ancora smesso di pensare alla fuga. Era stato deciso il trasferimento da Genova al carcere di Nuoro, utilizzando il traghetto Flaminia, pieno di turisti. I carabinieri, fermi davanti alla cabina assegnata, rimasero perplessi solo per un attimo. Era chiaro che la stanza grande, senza aperture ma con cinque brandine, era per loro, mentre quella piccola, con solo due letti e con il bagno interno, doveva andare al detenuto. Il fatto che ci fosse anche un oblò non li preoccupò troppo. Fu un errore, e quella sbadataggine rappresentò l’occasione che Vallanzasca aspettava. Appena fu chiuso nel suo alloggio, svitò i bulloni dell’oblò e dopo un paio di minuti era già sul ponte, mescolato ai passeggeri. Poiché la nave era ancora attraccata, riuscì a sbarcare e a perdersi nella folla. Sarebbe stata la sua ultima, rocambolesca, fuga.
«Sono già passati vent’anni? Che certe parole vengano in mente a un ergastolano potrà sembrare ridicolo, ma non posso fare a meno di dire “come passa il tempo”» scherzava Renato Vallanzasca, che oggi si trova nel carcere di Bollate, vicino a Milano. «In realtà fu una “vacanza” brevissima, solo 20 giorni. Ma tante cose mi sono rimaste impresse: il fatto che esistesse ancora della frutta deliziosa, per dirne una. Bere in un bicchiere di vetro è stata una sensazione piacevolissima. La cosa a cui feci invece fatica ad adattarmi fu il peso delle posate da tavola, visto che in galera si usano solo quelle di plastica. Comunque, al di là del sesso che ebbi finalmente modo di riscoprire, la cosa che più mi ha esaltato è stato correre a perdifiato in un prato alla periferia di Genova, gridando “Sono libero!”. Fu una sensazione travolgente».
Da Genova, infatti, Vallanzasca si fece quasi tutta a piedi la strada per tornare alla sua Milano. Percorrendo di notte i 38 km del passo del Turchino e trovando poi chi gli offrì uno strappo in auto credendolo un operaio dell’autostrada rimasto a piedi. «La cosa che mi colpì di più una volta a Milano fu che non la riconoscevo. Non è che fosse più bella o più brutta, semplicemente non era quella che ricordavo».
A Milano, però, Vallanzasca non intendeva restare nascosto: «Tanto sarebbe valso restare in galera». Per uno come lui, ribelle e amante della provocazione, fu naturale sfidare le forze dell’ordine esponendosi con un’intervista in diretta a Radio Popolare. «Un giorno ero in radio che conducevo il mio programma, quando un’assistente mi disse che c’era una visita per me» ricorda il giornalista Umberto Gay. «Si fece avanti un signore con una permanente rossiccia e un paio di occhiali azzurrati. “Sì?” gli chiesi. Lui alzò gli occhiali e mi fece l’occhiolino. Santo Dio, era lui!».
«La sfida e una buona dose di incoscienza hanno sempre fatto parte del mio Dna» dice Vallanzasca. «Se una persona si camuffa con qualche piccolo accorgimento diventa pressoché invisibile, nell’indifferenza che regna sovrana tra la gente. Nel mio caso, mi ero tagliato i baffi e mi ero fatto una tinta che, per errore, venne fuori color rosso mogano. Come che sia, a Umberto Gay l’intervista la dovevo. Gliel’avevo promessa». Quell’intervista lasciò sbalordito Achille Serra, allora dirigente alla Squadra mobile di Milano. Era il poliziotto che più di tutti aveva dato la caccia a Vallanzasca.
«Quell’uomo aveva mille risorse» racconta Serra. «Due giorni dopo l’evasione misi un servizio di sorveglianza sotto la casa di una giornalista che, negli ultimi tempi, mi era sembrata subire il fascino nero del boss della Comasina. Lui non venne ma, alla fine, la giornalista si accorse dei pedinamenti e il suo direttore telefonò al questore. Dire che io e i miei collaboratori fummo strapazzati per quell’iniziativa è poco. Fatto sta che seppi poi che Vallanzasca era effettivamente andato a trovarla, ma la sera prima che iniziassimo gli appostamenti».
«Non andò proprio così» ribatte Carla Ferrari, all’epoca giovane cronista giudiziaria di un quotidiano milanese. «In realtà non subivo alcun fascino e non so da che elementi il prefetto Serra possa averlo dedotto. Ero una giornalista che faceva il suo lavoro. Mi occupavo di giudiziaria e mi si chiedevano interviste anche con ergastolani come Vallanzasca. Quella sera arrivò a casa mia, senza preavviso, quell’uomo appena evaso, con tanto di pistola. Non pensai a cattive intenzioni, ma, nonostante fossi in compagnia di un collega, la tensione era davvero alta. Passato lo choc, mi concentrai sul suo racconto pensando di ricavarne un articolo. Tre ore dopo se ne andò facendomi promettere che avrei concordato l’intervista con Umberto Gay di Radio Popolare. Solo il giorno dopo trovai gli agenti della questura sotto casa mia, in un servizio di copertura a dir poco tardivo».
Lo scoop comunque non ci fu perché l’intervista a Radio Popolare la bruciò sul tempo. «Semplicemente, Gay non accettò che il mio articolo uscisse lo stesso giorno della sua intervista alla radio. Ma quando poi fu pubblicato – apparente frutto della conferenza stampa tenuta a Radio Popolare – c’erano molti particolari che testimoniavano invece di una fonte diretta».
Intanto, il mondo stava cambiando. Gran parte dei vecchi amici della banda o non erano più in vita o erano in galera. Anche la “mala” era un’altra: i banditi e i rapinatori come lui avevano fatto il loro tempo, adesso imperava la droga. «Ma che malavita, quella ormai era solo mala vita» dice Vallanzasca. «Per quella gente l’onore era un optional, la parola data non valeva niente e ciò che contava era quasi esclusivamente il dio denaro. Era chiaro che avevo fatto il mio tempo. Mi sentii come un pesce fuor d’acqua».
«È vero» conferma Serra: «ormai alla Comasina (un quartiere della periferia nord di Milano) c’era un’altra generazione criminale, lui avrebbe finito per dare fastidio. I primi che se lo sarebbero venduto sarebbero stati proprio loro». Così, lasciò Milano e andò a nascondersi in una pensioncina di Grado (Go) in attesa dell’opportunità di scappare all’estero. Prese il sole e tirò tardi in discoteca, cercando di non sciupare neppure un minuto della ritrovata libertà. Fu solo quando tentò di mettersi in contatto con un’ammiratrice, che gli aveva scritto in carcere, che fu intercettato. Fu fermato a un posto di blocco, con una pistola che decise di non usare. Era rimasto fuori solo 20 giorni.
Oggi, con 52 anni di galera alle spalle, Vallanzasca è il detenuto italiano in carcere da più tempo. «Da una ventina d’anni a questa parte ho sotterrato l’“ascia di guerra”» spiega. «Stando dentro ci si ritrova con più tempo per meditare e ripensare alle proprie scelleratezze, ed è qui che il carcere diventa oltremodo pesante». Dice Serra: «Sì, sta scontando molti anni, ma io sono del parere che debba continuare a scontarli, considerato che tanta gente è stata uccisa e tanti hanno sofferto per causa sua. Certo oggi non lo ritengo più pericoloso, e quando vedo tanti altri lasciare il carcere penso che ci vorrebbe più equità anche nel suo caso. Non fosse altro, per la sua anziana mamma».
Nel 2005 la quasi novantenne mamma di Renato scrisse all’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, chiedendo la grazia per il figlio. «Non ne ho più saputo nulla» dice Vallanzasca. «Mi aspettavo almeno una risposta, anche negativa. È vero però che negli ultimi mesi ho potuto fare visita alla mia adorata e malandata vecchietta per ben due volte, se pure con abbondante scorta. Quando mi sarà data l’opportunità di recarmi in permesso senza una marea di agenti al seguito, potrò dimostrare di essere un detenuto come gli altri. E forse anche i più restii si convinceranno a darmi ancora una chance».
«Come vedo il mio futuro?» conclude Vallanzasca. «Dare una risposta è impossibile. Sono in galera da tanto tempo, da prima ancora che l’uomo andasse sulla Luna. Posso capire chi pensa che per un assassino come me non sarebbero abbastanza neanche cent’anni di prigione. Ma resta il fatto che io possa e debba continuare a sperare».
A partire dall'8 marzo 2010 Renato Vallanzasca ha usufruito del beneficio del lavoro esterno. Gli venne concesso di uscire dal carcere alle 7.30 per lavorare, e rientrarvi alle 19.00. Ha prestato servizio in una pelletteria, che è anche una cooperativa sociale nel milanese, e ha lavorato in un negozio di abbigliamento a Sarnico in provincia di Bergamo. Il 30 maggio 2011 il Tribunale di Milano ha sospeso Vallanzasca dal beneficio del lavoro esterno perché l'ex bandito violava le regole di utilizzo del beneficio, in particolare per incontrarsi segretamente con una donna; inoltre, sempre nel mese di maggio 2011, la Corte di Cassazione ha condannato Vallanzasca a rimborsare allo Stato le spese di mantenimento in carcere. Nel febbraio 2012 ha riottenuto il beneficio di poter lavorare all'esterno del carcere, come magazziniere. Perde dopo poco il lavoro per una protesta popolare che non voleva il bandito così vicino alla famiglia dell'agente Barborini ucciso nello scontro a fuoco di Dalmine. Nel dicembre 2012 ha riottenuto il permesso di lavoro esterno presso una ricevitoria.
Il 13 giugno 2014, intorno alle ore 20, durante il regime di semilibertà concessogli dal carcere di Bollate, tenta di taccheggiare un supermercato di Milano (nel tentativo di appropriarsi di biancheria intima e materiale da giardinaggio), arrestato dai carabinieri, viene processato per direttissima per il reato di rapina impropria.
Per questo fatto il 14 novembre seguente viene condannato a 10 mesi di reclusione più 330 euro di multa con l'accusa di tentata rapina impropria aggravata.
Con questa nuova condanna Vallanzasca non ha più ottenuto benefici durante la detenzione. Nella sua "carriera criminale" è stato condannato, complessivamente, a quattro ergastoli e 295 anni di reclusione.
Il 28 aprile 1980 Renato Vallanzasca organizza una fuga di detenuti dal carcere di San Vittore. Verranno tutti riacciuffati quasi subito.
Vallanzasca, "il bel Renè", come veniva chiamato, aveva iniziato ancora ragazzino a entrare e uscire dal Beccaria, il carcere minorile di Milano. Nel luglio del 1969 finì per la prima volta a San Vittore. Da allora è rimasto libero in tutto meno di due anni. Tornato in carcere nel 1972 per una rapina a un supermercato, evase in maniera clamorosa nell’estate del 1976. Non potendo contare su un medico compiacente che redigesse un falso certificato, aveva deciso di procurarsi un’epatite, nutrendosi per settimane con uova marce e iniettandosi la propria urina. Quando finalmente fu trasferito in ospedale, nel giro di pochi giorni riuscì a convincere una delle guardie, offrendogli 3 milioni, a chiudere un occhio per un paio di minuti. Così era sparito nella notte.
Per i sette mesi successivi, fino al febbraio 1977 quando fu riacciuffato a Roma, lui e la sua banda riuscirono a tenere in scacco le forze dell’ordine di mezza Italia, rendendosi responsabili di un’ottantina di rapine, sparatorie e sequestri, tra cui uno, in particolare, che diede origine al “mito” del Bel Renè. Da un giorno all’altro, i giornali trasformarono Vallanzasca in una leggenda della malavita.
Quelle due stagioni di fuoco costarono la vita a quattro poliziotti e ad altre due persone. Morti provocate dalla banda e per le quali Vallanzasca si accollò ogni responsabilità. Fu una scelta – sostiene lui – dettata da un “codice d’onore” a cui il bandito non volle sottrarsi.
Nell'estate del 1987, dopo già dieci anni di carcere, Vallanzasca non aveva ancora smesso di pensare alla fuga. Era stato deciso il trasferimento da Genova al carcere di Nuoro, utilizzando il traghetto Flaminia, pieno di turisti. I carabinieri, fermi davanti alla cabina assegnata, rimasero perplessi solo per un attimo. Era chiaro che la stanza grande, senza aperture ma con cinque brandine, era per loro, mentre quella piccola, con solo due letti e con il bagno interno, doveva andare al detenuto. Il fatto che ci fosse anche un oblò non li preoccupò troppo. Fu un errore, e quella sbadataggine rappresentò l’occasione che Vallanzasca aspettava. Appena fu chiuso nel suo alloggio, svitò i bulloni dell’oblò e dopo un paio di minuti era già sul ponte, mescolato ai passeggeri. Poiché la nave era ancora attraccata, riuscì a sbarcare e a perdersi nella folla. Sarebbe stata la sua ultima, rocambolesca, fuga.
«Sono già passati vent’anni? Che certe parole vengano in mente a un ergastolano potrà sembrare ridicolo, ma non posso fare a meno di dire “come passa il tempo”» scherzava Renato Vallanzasca, che oggi si trova nel carcere di Bollate, vicino a Milano. «In realtà fu una “vacanza” brevissima, solo 20 giorni. Ma tante cose mi sono rimaste impresse: il fatto che esistesse ancora della frutta deliziosa, per dirne una. Bere in un bicchiere di vetro è stata una sensazione piacevolissima. La cosa a cui feci invece fatica ad adattarmi fu il peso delle posate da tavola, visto che in galera si usano solo quelle di plastica. Comunque, al di là del sesso che ebbi finalmente modo di riscoprire, la cosa che più mi ha esaltato è stato correre a perdifiato in un prato alla periferia di Genova, gridando “Sono libero!”. Fu una sensazione travolgente».
Da Genova, infatti, Vallanzasca si fece quasi tutta a piedi la strada per tornare alla sua Milano. Percorrendo di notte i 38 km del passo del Turchino e trovando poi chi gli offrì uno strappo in auto credendolo un operaio dell’autostrada rimasto a piedi. «La cosa che mi colpì di più una volta a Milano fu che non la riconoscevo. Non è che fosse più bella o più brutta, semplicemente non era quella che ricordavo».
A Milano, però, Vallanzasca non intendeva restare nascosto: «Tanto sarebbe valso restare in galera». Per uno come lui, ribelle e amante della provocazione, fu naturale sfidare le forze dell’ordine esponendosi con un’intervista in diretta a Radio Popolare. «Un giorno ero in radio che conducevo il mio programma, quando un’assistente mi disse che c’era una visita per me» ricorda il giornalista Umberto Gay. «Si fece avanti un signore con una permanente rossiccia e un paio di occhiali azzurrati. “Sì?” gli chiesi. Lui alzò gli occhiali e mi fece l’occhiolino. Santo Dio, era lui!».
«La sfida e una buona dose di incoscienza hanno sempre fatto parte del mio Dna» dice Vallanzasca. «Se una persona si camuffa con qualche piccolo accorgimento diventa pressoché invisibile, nell’indifferenza che regna sovrana tra la gente. Nel mio caso, mi ero tagliato i baffi e mi ero fatto una tinta che, per errore, venne fuori color rosso mogano. Come che sia, a Umberto Gay l’intervista la dovevo. Gliel’avevo promessa». Quell’intervista lasciò sbalordito Achille Serra, allora dirigente alla Squadra mobile di Milano. Era il poliziotto che più di tutti aveva dato la caccia a Vallanzasca.
«Quell’uomo aveva mille risorse» racconta Serra. «Due giorni dopo l’evasione misi un servizio di sorveglianza sotto la casa di una giornalista che, negli ultimi tempi, mi era sembrata subire il fascino nero del boss della Comasina. Lui non venne ma, alla fine, la giornalista si accorse dei pedinamenti e il suo direttore telefonò al questore. Dire che io e i miei collaboratori fummo strapazzati per quell’iniziativa è poco. Fatto sta che seppi poi che Vallanzasca era effettivamente andato a trovarla, ma la sera prima che iniziassimo gli appostamenti».
«Non andò proprio così» ribatte Carla Ferrari, all’epoca giovane cronista giudiziaria di un quotidiano milanese. «In realtà non subivo alcun fascino e non so da che elementi il prefetto Serra possa averlo dedotto. Ero una giornalista che faceva il suo lavoro. Mi occupavo di giudiziaria e mi si chiedevano interviste anche con ergastolani come Vallanzasca. Quella sera arrivò a casa mia, senza preavviso, quell’uomo appena evaso, con tanto di pistola. Non pensai a cattive intenzioni, ma, nonostante fossi in compagnia di un collega, la tensione era davvero alta. Passato lo choc, mi concentrai sul suo racconto pensando di ricavarne un articolo. Tre ore dopo se ne andò facendomi promettere che avrei concordato l’intervista con Umberto Gay di Radio Popolare. Solo il giorno dopo trovai gli agenti della questura sotto casa mia, in un servizio di copertura a dir poco tardivo».
Lo scoop comunque non ci fu perché l’intervista a Radio Popolare la bruciò sul tempo. «Semplicemente, Gay non accettò che il mio articolo uscisse lo stesso giorno della sua intervista alla radio. Ma quando poi fu pubblicato – apparente frutto della conferenza stampa tenuta a Radio Popolare – c’erano molti particolari che testimoniavano invece di una fonte diretta».
Intanto, il mondo stava cambiando. Gran parte dei vecchi amici della banda o non erano più in vita o erano in galera. Anche la “mala” era un’altra: i banditi e i rapinatori come lui avevano fatto il loro tempo, adesso imperava la droga. «Ma che malavita, quella ormai era solo mala vita» dice Vallanzasca. «Per quella gente l’onore era un optional, la parola data non valeva niente e ciò che contava era quasi esclusivamente il dio denaro. Era chiaro che avevo fatto il mio tempo. Mi sentii come un pesce fuor d’acqua».
«È vero» conferma Serra: «ormai alla Comasina (un quartiere della periferia nord di Milano) c’era un’altra generazione criminale, lui avrebbe finito per dare fastidio. I primi che se lo sarebbero venduto sarebbero stati proprio loro». Così, lasciò Milano e andò a nascondersi in una pensioncina di Grado (Go) in attesa dell’opportunità di scappare all’estero. Prese il sole e tirò tardi in discoteca, cercando di non sciupare neppure un minuto della ritrovata libertà. Fu solo quando tentò di mettersi in contatto con un’ammiratrice, che gli aveva scritto in carcere, che fu intercettato. Fu fermato a un posto di blocco, con una pistola che decise di non usare. Era rimasto fuori solo 20 giorni.
Oggi, con 52 anni di galera alle spalle, Vallanzasca è il detenuto italiano in carcere da più tempo. «Da una ventina d’anni a questa parte ho sotterrato l’“ascia di guerra”» spiega. «Stando dentro ci si ritrova con più tempo per meditare e ripensare alle proprie scelleratezze, ed è qui che il carcere diventa oltremodo pesante». Dice Serra: «Sì, sta scontando molti anni, ma io sono del parere che debba continuare a scontarli, considerato che tanta gente è stata uccisa e tanti hanno sofferto per causa sua. Certo oggi non lo ritengo più pericoloso, e quando vedo tanti altri lasciare il carcere penso che ci vorrebbe più equità anche nel suo caso. Non fosse altro, per la sua anziana mamma».
Nel 2005 la quasi novantenne mamma di Renato scrisse all’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, chiedendo la grazia per il figlio. «Non ne ho più saputo nulla» dice Vallanzasca. «Mi aspettavo almeno una risposta, anche negativa. È vero però che negli ultimi mesi ho potuto fare visita alla mia adorata e malandata vecchietta per ben due volte, se pure con abbondante scorta. Quando mi sarà data l’opportunità di recarmi in permesso senza una marea di agenti al seguito, potrò dimostrare di essere un detenuto come gli altri. E forse anche i più restii si convinceranno a darmi ancora una chance».
«Come vedo il mio futuro?» conclude Vallanzasca. «Dare una risposta è impossibile. Sono in galera da tanto tempo, da prima ancora che l’uomo andasse sulla Luna. Posso capire chi pensa che per un assassino come me non sarebbero abbastanza neanche cent’anni di prigione. Ma resta il fatto che io possa e debba continuare a sperare».
A partire dall'8 marzo 2010 Renato Vallanzasca ha usufruito del beneficio del lavoro esterno. Gli venne concesso di uscire dal carcere alle 7.30 per lavorare, e rientrarvi alle 19.00. Ha prestato servizio in una pelletteria, che è anche una cooperativa sociale nel milanese, e ha lavorato in un negozio di abbigliamento a Sarnico in provincia di Bergamo. Il 30 maggio 2011 il Tribunale di Milano ha sospeso Vallanzasca dal beneficio del lavoro esterno perché l'ex bandito violava le regole di utilizzo del beneficio, in particolare per incontrarsi segretamente con una donna; inoltre, sempre nel mese di maggio 2011, la Corte di Cassazione ha condannato Vallanzasca a rimborsare allo Stato le spese di mantenimento in carcere. Nel febbraio 2012 ha riottenuto il beneficio di poter lavorare all'esterno del carcere, come magazziniere. Perde dopo poco il lavoro per una protesta popolare che non voleva il bandito così vicino alla famiglia dell'agente Barborini ucciso nello scontro a fuoco di Dalmine. Nel dicembre 2012 ha riottenuto il permesso di lavoro esterno presso una ricevitoria.
Il 13 giugno 2014, intorno alle ore 20, durante il regime di semilibertà concessogli dal carcere di Bollate, tenta di taccheggiare un supermercato di Milano (nel tentativo di appropriarsi di biancheria intima e materiale da giardinaggio), arrestato dai carabinieri, viene processato per direttissima per il reato di rapina impropria.
Per questo fatto il 14 novembre seguente viene condannato a 10 mesi di reclusione più 330 euro di multa con l'accusa di tentata rapina impropria aggravata.
Con questa nuova condanna Vallanzasca non ha più ottenuto benefici durante la detenzione. Nella sua "carriera criminale" è stato condannato, complessivamente, a quattro ergastoli e 295 anni di reclusione.
giovedì 27 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 aprile.
Il 27 aprile 1521 Magellano viene ucciso da nativi delle attuali isole Filippine.
Ferdinando Magellano (Fernão de Magalhães) nasce a Sobrosa, una cittadina di poche migliaia di abitanti situata nel nord del Portogallo, il 17 ottobre del 1480. Appartiene ad una famiglia aristocratica decaduta. Il padre è il sindaco della città mentre la madre si occupa della famiglia. Magellano ha un fratello, Diego e una sorella, Isabel. La sua famiglia ha un lignaggio antico e prestigioso ma non ha più il potere economico di un tempo. All'età di dieci anni perde i due genitori e insieme al fratello viene mandato alla corte del re Giovanni II nella capitale Lisbona, dove ricopre la carica di paggio. Il re si prende cura di lui formalmente, anche se la vita di corte prevede che siano altri ad impartirgli l'educazione di cui necessita.
Nel 1505 il re decide di mandarlo in India a servire il viceré Francisco de Almeida. Alla corte di Almeida, Magellano si distingue per l'autorevolezza, l'ingegno e il coraggio tanto da essere premiato per aver sventato un ammutinamento su una delle navi reali.
La sua carriera per mare inizia quando viene arruolato nella Marina di Sua Maestà dove mostra subito capacità e passione per la navigazione. Nel 1506 partecipa alla spedizione che deve far rotta verso le Isole delle Spezie, conosciute con questo nome grazie alla ricchezza e varietà di spezie che vi si potevano trovare. Il loro vero nome, infatti, era Arcipelago delle Molucche.
Durante questa spedizione viene promosso capitano ma il suo carattere avventuroso e poco incline alla disciplina lo mette subito nei guai: si allontana dalla flottiglia con la sua nave per esplorare delle zone più a est della rotta stabilita e per questo viene subito degradato.
Perso il comando viene imbarcato, nel 1510, su un'altra nave capitanata da Alfonso de Albuquerque con il quale partecipa allo scontro per la conquista del porto di Malacca. Dopo questa vittoria rientra in Portogallo e nel 1513 viene imbarcato su un'altra nave militare diretta in Marocco, lì partecipa alla battaglia di Azamor. La sua permanenza in Marocco gli causa diversi problemi perché viene accusato di aver dato avvio ad alcune attività commerciali con i mussulmani ed aver quindi disonorato la sua divisa e il suo grado nella Marina. Per questo motivo nel 1514 viene congedato con disonore e viene allontanato sia dalla Marina reale sia dalla corte portoghese.
Una volta perso il lavoro, Magellano comincia ad immaginare una nuova spedizione da comandare in totale autonomia e grazie ad una carta geografica di cui era in possesso e che indicava un ipotetico passaggio per accedere all'Oceano Pacifico che si sarebbe dovuto trovare a sud del Rio de la Plata, inizia a progettare una nuova spedizione. L'idea di base era quella di raggiungere l'Asia senza dover circumnavigare l'Africa e quindi di ridurre notevolmente le distanze. Si trattava di un piano ambizioso che nel tempo aveva visto impegnati diversi cartografi e navigatori ma che non si era ancora mai realizzato.
Magellano avrebbe voluto non solo trovare questo passaggio ma anche dimostrare che era possibile raggiungere l'Arcipelago delle Molucche seguendo un'altra via; supponendo che tale via sia sotto il controllo della Spagna decide di presentare il suo progetto a Carlo V.
L'imperatore rimane affascinato dall'idea, non solo perché riconosce al suo interlocutore doti di coraggio, spregiudicatezza e attitudine al comando, ma anche perché ritiene che una via del genere potrebbe dimostrare che effettivamente le Molucche sono sotto l'influenza spagnola e inoltre la spedizione potrebbe portare alla scoperta di nuovi territori da colonizzare.
Per questi motivi Carlo V decide di sostenere l'impresa fornendo uomini, navi e provviste. Dopo gli opportuni preparativi il 20 settembre 1519 salpano cinque navi da San Luca de Barrameda, sulla foce del Guadalquivir con a bordo 265 uomini; la nave ammiraglia, al cui comando si trova Ferdinando Magellano, si chiama Trinidad.
Le navi puntano verso sud-ovest e attraversano l'Atlantico senza troppe difficoltà. Dopo diverse settimane giungono vicino al Rio de la Plata; a questo punto Magellano decide di dirigersi verso sud, navigando lungo le coste dell'America Meridionale. Dopo cinque mesi di stop, dovuti all'inverno australe, gli equipaggi riprendono il mare alla ricerca dello stretto che dovrebbe congiungere i due Oceani. La lunga navigazione e i disagi dovuti a malattie e alla scarsità del cibo e dell'acqua fomentano gli uomini che si ribellano più volte a Magellano, il quale interviene sempre con il pugno di ferro per sedarli.
Il 25 ottobre le navi, finalmente imboccano un canale (lo stretto che da lui prenderà il nome) la cui navigazione avviene senza alcuna misurazione preventiva; le intemperie, fra cui densi banchi di nebbia, rendono l'esplorazione molto difficoltosa. Dopo alcuni giorni il canale viene attraversato e le navi entrano nell'Oceano Pacifico. I marinai entusiasti per l'impresa ma stanchi e angosciati per la loro sorte - ormai i viveri erano quasi finiti - chiedono in maggioranza di poter tornare a casa. Magellano, però, si rifiuta e punta la rotta verso nord-ovest.
Il viaggio avviene su un Oceano calmo, tanto che gli venne attribuito il nome di "Pacifico" ma quando Magellano, che comanda ormai solo tre navi perché la sorte delle altre due era stata infausta - una era naufragata mentre il capitano della quinta nave aveva deciso, spinto dai suoi uomini, di tornare indietro - decide di approdare in un'isola delle Filippine, Cebu. Il suo viaggio si conclude in modo definitivo. Viene ucciso il 27 aprile del 1521 da alcuni indigeni dell'isola.
Il corpo di Magellano non fu mai restituito e non se ne conosce la sorte: un cenotafio a memoria del navigatore è posto vicino alla spiaggia di Mactan, dove si presume che il portoghese sia stato ucciso.
Dopo la morte di Magellano e un maldestro tentativo di riscattarne il corpo che non ebbe però successo, quello che rimaneva della flotta che aveva intrapreso una così lunga esplorazione nei mari di tutto il globo lasciò Mactan e Cebu sotto il comando di Duarte Barbosa e di Giovanni Serrano e fece rotta verso la Spagna: il viaggio si concluse il 6 settembre 1522, quando la Victoria, sola nave superstite, rientrò al porto di partenza dopo aver completato la prima circumnavigazione del globo in 2 anni, 11 mesi e 17 giorni. A bordo della piccola nave che stazzava solo 85 tonnellate, che imbarcava acqua ed aveva una velatura di fortuna, dei 234 partiti vi erano soltanto 18 uomini malmessi, ammalati e denutriti, tra marinai e soldati. Tra essi due italiani, Antonio Lombardo, detto il Pigafetta, colui che scriverà la storia della spedizione, e Martino de Judicibus.
Il viaggio di Magellano dimostrò definitivamente quattro cose: che la Terra è una sfera; che la circonferenza del pianeta è maggiore di quanto avessero mai creduto tutti i geografi; che l'America poteva essere circumnavigata al pari del continente africano; che si perdono 24 ore se si segue il cammino del Sole da Occidente a Oriente. Quest'ultima osservazione fornì le basi a nuove speculazioni di interesse fisico e metafisico sulla natura del tempo e dell'eternità.
Il 27 aprile 1521 Magellano viene ucciso da nativi delle attuali isole Filippine.
Ferdinando Magellano (Fernão de Magalhães) nasce a Sobrosa, una cittadina di poche migliaia di abitanti situata nel nord del Portogallo, il 17 ottobre del 1480. Appartiene ad una famiglia aristocratica decaduta. Il padre è il sindaco della città mentre la madre si occupa della famiglia. Magellano ha un fratello, Diego e una sorella, Isabel. La sua famiglia ha un lignaggio antico e prestigioso ma non ha più il potere economico di un tempo. All'età di dieci anni perde i due genitori e insieme al fratello viene mandato alla corte del re Giovanni II nella capitale Lisbona, dove ricopre la carica di paggio. Il re si prende cura di lui formalmente, anche se la vita di corte prevede che siano altri ad impartirgli l'educazione di cui necessita.
Nel 1505 il re decide di mandarlo in India a servire il viceré Francisco de Almeida. Alla corte di Almeida, Magellano si distingue per l'autorevolezza, l'ingegno e il coraggio tanto da essere premiato per aver sventato un ammutinamento su una delle navi reali.
La sua carriera per mare inizia quando viene arruolato nella Marina di Sua Maestà dove mostra subito capacità e passione per la navigazione. Nel 1506 partecipa alla spedizione che deve far rotta verso le Isole delle Spezie, conosciute con questo nome grazie alla ricchezza e varietà di spezie che vi si potevano trovare. Il loro vero nome, infatti, era Arcipelago delle Molucche.
Durante questa spedizione viene promosso capitano ma il suo carattere avventuroso e poco incline alla disciplina lo mette subito nei guai: si allontana dalla flottiglia con la sua nave per esplorare delle zone più a est della rotta stabilita e per questo viene subito degradato.
Perso il comando viene imbarcato, nel 1510, su un'altra nave capitanata da Alfonso de Albuquerque con il quale partecipa allo scontro per la conquista del porto di Malacca. Dopo questa vittoria rientra in Portogallo e nel 1513 viene imbarcato su un'altra nave militare diretta in Marocco, lì partecipa alla battaglia di Azamor. La sua permanenza in Marocco gli causa diversi problemi perché viene accusato di aver dato avvio ad alcune attività commerciali con i mussulmani ed aver quindi disonorato la sua divisa e il suo grado nella Marina. Per questo motivo nel 1514 viene congedato con disonore e viene allontanato sia dalla Marina reale sia dalla corte portoghese.
Una volta perso il lavoro, Magellano comincia ad immaginare una nuova spedizione da comandare in totale autonomia e grazie ad una carta geografica di cui era in possesso e che indicava un ipotetico passaggio per accedere all'Oceano Pacifico che si sarebbe dovuto trovare a sud del Rio de la Plata, inizia a progettare una nuova spedizione. L'idea di base era quella di raggiungere l'Asia senza dover circumnavigare l'Africa e quindi di ridurre notevolmente le distanze. Si trattava di un piano ambizioso che nel tempo aveva visto impegnati diversi cartografi e navigatori ma che non si era ancora mai realizzato.
Magellano avrebbe voluto non solo trovare questo passaggio ma anche dimostrare che era possibile raggiungere l'Arcipelago delle Molucche seguendo un'altra via; supponendo che tale via sia sotto il controllo della Spagna decide di presentare il suo progetto a Carlo V.
L'imperatore rimane affascinato dall'idea, non solo perché riconosce al suo interlocutore doti di coraggio, spregiudicatezza e attitudine al comando, ma anche perché ritiene che una via del genere potrebbe dimostrare che effettivamente le Molucche sono sotto l'influenza spagnola e inoltre la spedizione potrebbe portare alla scoperta di nuovi territori da colonizzare.
Per questi motivi Carlo V decide di sostenere l'impresa fornendo uomini, navi e provviste. Dopo gli opportuni preparativi il 20 settembre 1519 salpano cinque navi da San Luca de Barrameda, sulla foce del Guadalquivir con a bordo 265 uomini; la nave ammiraglia, al cui comando si trova Ferdinando Magellano, si chiama Trinidad.
Le navi puntano verso sud-ovest e attraversano l'Atlantico senza troppe difficoltà. Dopo diverse settimane giungono vicino al Rio de la Plata; a questo punto Magellano decide di dirigersi verso sud, navigando lungo le coste dell'America Meridionale. Dopo cinque mesi di stop, dovuti all'inverno australe, gli equipaggi riprendono il mare alla ricerca dello stretto che dovrebbe congiungere i due Oceani. La lunga navigazione e i disagi dovuti a malattie e alla scarsità del cibo e dell'acqua fomentano gli uomini che si ribellano più volte a Magellano, il quale interviene sempre con il pugno di ferro per sedarli.
Il 25 ottobre le navi, finalmente imboccano un canale (lo stretto che da lui prenderà il nome) la cui navigazione avviene senza alcuna misurazione preventiva; le intemperie, fra cui densi banchi di nebbia, rendono l'esplorazione molto difficoltosa. Dopo alcuni giorni il canale viene attraversato e le navi entrano nell'Oceano Pacifico. I marinai entusiasti per l'impresa ma stanchi e angosciati per la loro sorte - ormai i viveri erano quasi finiti - chiedono in maggioranza di poter tornare a casa. Magellano, però, si rifiuta e punta la rotta verso nord-ovest.
Il viaggio avviene su un Oceano calmo, tanto che gli venne attribuito il nome di "Pacifico" ma quando Magellano, che comanda ormai solo tre navi perché la sorte delle altre due era stata infausta - una era naufragata mentre il capitano della quinta nave aveva deciso, spinto dai suoi uomini, di tornare indietro - decide di approdare in un'isola delle Filippine, Cebu. Il suo viaggio si conclude in modo definitivo. Viene ucciso il 27 aprile del 1521 da alcuni indigeni dell'isola.
Il corpo di Magellano non fu mai restituito e non se ne conosce la sorte: un cenotafio a memoria del navigatore è posto vicino alla spiaggia di Mactan, dove si presume che il portoghese sia stato ucciso.
Dopo la morte di Magellano e un maldestro tentativo di riscattarne il corpo che non ebbe però successo, quello che rimaneva della flotta che aveva intrapreso una così lunga esplorazione nei mari di tutto il globo lasciò Mactan e Cebu sotto il comando di Duarte Barbosa e di Giovanni Serrano e fece rotta verso la Spagna: il viaggio si concluse il 6 settembre 1522, quando la Victoria, sola nave superstite, rientrò al porto di partenza dopo aver completato la prima circumnavigazione del globo in 2 anni, 11 mesi e 17 giorni. A bordo della piccola nave che stazzava solo 85 tonnellate, che imbarcava acqua ed aveva una velatura di fortuna, dei 234 partiti vi erano soltanto 18 uomini malmessi, ammalati e denutriti, tra marinai e soldati. Tra essi due italiani, Antonio Lombardo, detto il Pigafetta, colui che scriverà la storia della spedizione, e Martino de Judicibus.
Il viaggio di Magellano dimostrò definitivamente quattro cose: che la Terra è una sfera; che la circonferenza del pianeta è maggiore di quanto avessero mai creduto tutti i geografi; che l'America poteva essere circumnavigata al pari del continente africano; che si perdono 24 ore se si segue il cammino del Sole da Occidente a Oriente. Quest'ultima osservazione fornì le basi a nuove speculazioni di interesse fisico e metafisico sulla natura del tempo e dell'eternità.
mercoledì 26 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 aprile.
Il 26 aprile 1868 si ebbe in Sardegna la rivolta detta "de Su Connottu" come reazione all'editto delle chiudende e alla legge sugli espropri abitativi.
Il cosiddetto editto delle chiudende, più precisamente “Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna“, fu un provvedimento legislativo emanato il 6 ottobre 1820 dal re di Sardegna vittorio emanuele I e pubblicato nel 1823.
Con questo atto si autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati di proprietà collettiva, introducendo di fatto la proprietà privata. L’editto mirava a favorire la modernizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura locale, che versava in gravi condizioni di arretratezza, e nel suo passaggio più cruciale conteneva “l’autorizzazione a qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratoio.” Egual licenza era concessa ai comuni, per i terreni di loro proprietà, ed in tutti terreni chiusi in applicazione dell’editto era “libera qualunque coltivazione, compresa quella del tabacco”.
In Sardegna la riforma agraria del governo sabaudo, sollecitata da diversi studi economici svolti in precedenza, non tenne conto della diversità dei vari territori e soprattutto del fatto che nell’isola vigeva ancora il sistema feudale, che si innestava nel sistema tradizionale degli ademprivi (per ademprivio si intendeva in Sardegna, e tuttora in diritto, un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo.), rendendo la situazione giuridica dei terreni altamente complessa. L’uso degli ademprivi, inoltre, prevedeva la rotazione degli impieghi della terra, che un anno era destinata a pascolo e l’anno successivo a seminagione secondo determinazioni comunitarie locali.
Delle chiudende si parlava già da tempo, poiché la recinzione dei propri terreni da parte dei proprietari privati era, sia pur moderatamente [Non tutti i terreni di proprietari privati erano recintati, ma avrebbero dovuto esserlo, e da questa condizione nasce proprio il nome della “chiudenda”, che indica quella terra “che dovrà essere chiusa”.], sempre esistita.
Nel 1806 cominciava a rilevare la frequenza di abbattimenti di recinzioni da parte dei pastori per entrare abusivamente con il bestiame in terre private, tanto che si emanarono apposite norme per la repressione del fenomeno. La spinta all’agricoltura si corredava di varie norme d’agevolazione, comprese una che concedeva, come racconta Pietro Martini, “nobiltà gratuita a coloro che piantassero quattromila ulivi“, una che concedeva titolo a richiedere fidecommessi a chi disponesse di 400 piante d’ulivo, e soprattutto una che dava a tutti la facoltà di “chiudere i terreni aperti per formarvi degli uliveti“, che prevedeva sanzioni per chi non impiantasse ulivi nelle terre chiuse (esproprio e riassegnazione ad aspiranti ulivicoltori) e che introduceva la pena di morte per i capi di eventuali complotti di diroccatori di chiudende.
Ma se da un lato l’operato del governo puntava a risanare l’agricoltura ristrutturando la rete dei “monti granatici e d’abbondanza” (l’ammasso cui conferire le produzioni agricole frumentarie), dall’altro era costretta a creare nel 1807 i “monti di riscatto”, monti di pegno resisi indispensabili dopo che l’usura aveva raggiunto livelli preoccupanti per l’ordine sociale. La pastorizia, nelle sue millenarie tradizioni, era debole e disturbante nell’ottica economica piemontese: se già il Gemelli aveva sottolineato come l’istituto dell’alternanza nell’uso delle terre recasse gravi danni da mancato guadagno e da freno contro gli investimenti, altri studiosi consideravano una “piaga” il modo di allevamento semi-brado caratteristico dell’isola.
L’editto infranse il tradizionale principio “ubi feuda, ibi demania” (dove ci sono beni feudali, là ci sono i demani) che faceva parte del diritto intermedio già da diverso tempo. Fu accolto subito con criticità da alcuni conoscitori dell’Isola, in particolare dall’Angius, che nel 1822 scriveva che “i pastori cominciarono a maledire irreligiosamente l’editto delle chiudende e a cercare di reprimere l’ambizione di alcuni chiudenti […]. Queste doglianze furono dall’Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte“.
Gli effetti dell’editto furono di diverse nature. Lo stesso ex viceré di Sardegna, marchese di Yenne, scrisse due relazioni, la prima il 22 settembre 1832, la seconda il successivo 6 ottobre, che ne contengono una cronaca sufficientemente istruttiva: “È veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per «obbligare i pastori a pagarne un altissimo fitto» e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge“. Rincarando la dose, aggiunse che l’editto «giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e potenti».
La reazione pratica infatti era stata la corsa alle chiusure da parte di chi aveva la possibilità di farlo, e fra questi non erano i molti che non vennero a conoscenza del provvedimento se non a chiusure ormai completate. Corsa, come riferito dallo Yenne, caratterizzata dalla diffusione degli abusi da parte di coloro che «non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni […] al solo oggetto di far pagare a caro prezzo ai pastori e ai contadini la facoltà di seminarvi ed il diritto di far pascolare i loro armenti». Conseguenza della corsa a chiudere, cui si riferiscono i versi attribuiti al Murenu, fu un diffuso malcontento popolare, che ben presto sfociò in violenza e disordini. Sempre dalla relazione del viceré si apprende (per aver egli assunto le “più accurate informazioni”) che gli incidenti cominciarono a Gavoi, con l’abbattimento di tre “chiusi” e con «discussioni fra li demolitori e danneggiati»; seguitarono poi alla vicina Mamoiada e poi a Nuoro, Fonni, Bitti ed altri paesi, «portando in tutti codesti luoghi devastamenti, incendi e rovine, e segnatamente in Benetutti, il di cui aspetto mette orrore al passeggiero». Da queste azioni delittuose contro i beni, si passò presto a quelle contro le persone e si ebbero anche omicidi. Secondo lo Yenne da un lato vi era l’avidità di alcuni proprietari, che chiusero anche pubbliche strade e beni comunali, mentre dall’altro vi era una «irragionevole bramosia de’ silvestri pastori di un’illimitata libertà di pascolare i loro armenti in cui ripongono unicamente ogni loro idea di proprietà“». A margine vi era anche, sempre secondo la relazione, l’avarizia di alcuni ecclesiastici che non si ristettero dall’andare predicando presso il popolino che le chiudende erano un sistema odioso, forse per paura di veder calare, con la crescita dell’agricoltura, le loro decime sulla pastorizia.
In alcune aree dell’isola (Logudoro e Campidano) l’editto fu accolto in parte positivamente, soprattutto per il fatto che gli agricoltori erano in gran numero e finalmente potevano proteggere le loro coltivazioni; il rilancio dell’agricoltura portava a valorizzare vecchi istituti spagnoleschi come la roadia, la quale anch’essa, secondo le politiche della riforma, giovava a questi scopi. Ma il malcontento era generale. L’effetto negativo fu risentito in modo particolare nella zona delle Barbagie in quanto la privatizzazione dei terreni, che erano la risorsa primaria del territorio, mise in enorme difficoltà l’attività della pastorizia, la principale dell’area, dato che i pastori si trovarono improvvisamente in pratica privati dei loro pascoli.
Ben presto molti dei diseredati andarono ad ingrossare le file dei fuorilegge, dando al fenomeno del banditismo una virulenza ancora mai conosciuta. Nel 1827 furono emanate altre norme che confermavano la sostanza dell’editto, negando titolo ad azione risarcitoria a quei proprietari che non avessero chiuso bene i loro “tancati” (Il tancato è l’appezzamento di terreno chiuso a muro a secco; dal sardo tanca, a sua volta dal verbo tancare, chiudere.) ed avessero patito danno perché vi fosse penetrato del bestiame; a coloro che non chiudevano bene erano anzi comminate ammende. L’editto fu riformato nel 1830 e nel 1831, ma il livello del malcontento rimase sopra i livelli di guardia. Gli incidenti crebbero in tal misura che nel 1832 si dovette istituire una commissione militare che fece repressione arrestando ed impiccando senza regolare processo (nel 1833 si emanarono norme per vietare la ricostruzione delle chiudende e ordinare che quelle abusive fossero abbattute); a questa seguì una commissione mista, composta di militari e civili, e ve ne fu anche una terza, che impiegò l’esercito e che era guidata da un giudice dell’Audiencia, ma quest’ultima operò in favore dei proprietari.
A seguito dell’editto del 31 maggio 1836, con il quale cessava la “baronale giurisdizione”, finalmente dal 1837 iniziò il riscatto dei feudi, “riacquistati” dal re, che si concluse nel 1846, riscatto che fu pagato attingendo alle tasse dei sardi. Tra il 1847 ed il 1848 si attuò la perfetta unione della Sardegna agli stati di terraferma, ma i problemi aperti dall’editto del 1820 non erano stati ancora risolti. In ogni caso era sempre “monitorata” la situazione delle chiudende, tanto che nel 1850 l’Angius, nella sua analisi dell’Isola, riservava per ciascuno dei comuni osservati un’apposita sezione in cui osservava quanto le chiudende fossero praticate.
L’editto delle chiudende fu idealmente seguito nel 1865 da una legge con la quale si aboliva l’istituto degli ademprivi e si imponeva una tassazione particolarmente onerosa sulle abitazioni; la tassazione aveva sì dei correttivi e prevedeva delle agevolazioni, ma queste erano in massima parte inapplicabili nella strutturazione urbanistica sarda, costituita di piccoli villaggi, perché prevista per quelle abitazioni completamente isolate. Si ebbe in Sardegna un esproprio ogni 14 abitanti, mentre la media nazionale era di uno ogni 27.000. Questo provvedimento, insieme all’editto delle chiudende, è la causa dei disordini sfociati infine a Nuoro nel 1868 con la rivolta nota come “Su Connottu“. i rivoltosi, guidati da Paskedda Zau, chiedevano il ritorno a ciò che avevano sempre conosciuto, ossia il ripristino dell'antico sistema di gestione dei terreni. Nei giorni della rivolta fu assalito il comune e furono bruciati i documenti di compravendita delle terre comunali ex ademprivili. Giorgio Asproni, uno dei politici più in vista di quel territorio e deputato in Parlamento, era favorevole alla vendita dei terreni comunali, e nel contempo assegnava al clero un ruolo di responsabilità nella rivolta; tuttavia, a seguito di questi gravi fatti, sollecitò (insieme con altri deputati sardi) il governo italiano ad avviare una indagine sulle condizioni sociali ed economiche della Sardegna.
Nel novembre dello stesso anno fu istituita la Commissione Parlamentare di indagine, presieduta dal Agostino Depretis. La Commissione si recò nell'isola nel 1869, e furono vani i tentativi di Francesco Cocco Ortu e del marchese di Laconi Ignazio Aymerich di spiegare ai commissari i problemi economici dell'isola. L'unico che si impegnò seriamente fu Quintino Sella che produsse un'eccellente relazione sull'industria mineraria isolana. L'operato della commissione tuttavia non produsse alcun atto concreto.
Il 26 aprile 1868 si ebbe in Sardegna la rivolta detta "de Su Connottu" come reazione all'editto delle chiudende e alla legge sugli espropri abitativi.
Il cosiddetto editto delle chiudende, più precisamente “Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona, e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna“, fu un provvedimento legislativo emanato il 6 ottobre 1820 dal re di Sardegna vittorio emanuele I e pubblicato nel 1823.
Con questo atto si autorizzava la recinzione dei terreni che per antica tradizione erano fino ad allora considerati di proprietà collettiva, introducendo di fatto la proprietà privata. L’editto mirava a favorire la modernizzazione e lo sviluppo dell’agricoltura locale, che versava in gravi condizioni di arretratezza, e nel suo passaggio più cruciale conteneva “l’autorizzazione a qualunque proprietario a liberamente chiudere di siepe, o di muro, vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratoio.” Egual licenza era concessa ai comuni, per i terreni di loro proprietà, ed in tutti terreni chiusi in applicazione dell’editto era “libera qualunque coltivazione, compresa quella del tabacco”.
In Sardegna la riforma agraria del governo sabaudo, sollecitata da diversi studi economici svolti in precedenza, non tenne conto della diversità dei vari territori e soprattutto del fatto che nell’isola vigeva ancora il sistema feudale, che si innestava nel sistema tradizionale degli ademprivi (per ademprivio si intendeva in Sardegna, e tuttora in diritto, un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo.), rendendo la situazione giuridica dei terreni altamente complessa. L’uso degli ademprivi, inoltre, prevedeva la rotazione degli impieghi della terra, che un anno era destinata a pascolo e l’anno successivo a seminagione secondo determinazioni comunitarie locali.
Delle chiudende si parlava già da tempo, poiché la recinzione dei propri terreni da parte dei proprietari privati era, sia pur moderatamente [Non tutti i terreni di proprietari privati erano recintati, ma avrebbero dovuto esserlo, e da questa condizione nasce proprio il nome della “chiudenda”, che indica quella terra “che dovrà essere chiusa”.], sempre esistita.
Nel 1806 cominciava a rilevare la frequenza di abbattimenti di recinzioni da parte dei pastori per entrare abusivamente con il bestiame in terre private, tanto che si emanarono apposite norme per la repressione del fenomeno. La spinta all’agricoltura si corredava di varie norme d’agevolazione, comprese una che concedeva, come racconta Pietro Martini, “nobiltà gratuita a coloro che piantassero quattromila ulivi“, una che concedeva titolo a richiedere fidecommessi a chi disponesse di 400 piante d’ulivo, e soprattutto una che dava a tutti la facoltà di “chiudere i terreni aperti per formarvi degli uliveti“, che prevedeva sanzioni per chi non impiantasse ulivi nelle terre chiuse (esproprio e riassegnazione ad aspiranti ulivicoltori) e che introduceva la pena di morte per i capi di eventuali complotti di diroccatori di chiudende.
Ma se da un lato l’operato del governo puntava a risanare l’agricoltura ristrutturando la rete dei “monti granatici e d’abbondanza” (l’ammasso cui conferire le produzioni agricole frumentarie), dall’altro era costretta a creare nel 1807 i “monti di riscatto”, monti di pegno resisi indispensabili dopo che l’usura aveva raggiunto livelli preoccupanti per l’ordine sociale. La pastorizia, nelle sue millenarie tradizioni, era debole e disturbante nell’ottica economica piemontese: se già il Gemelli aveva sottolineato come l’istituto dell’alternanza nell’uso delle terre recasse gravi danni da mancato guadagno e da freno contro gli investimenti, altri studiosi consideravano una “piaga” il modo di allevamento semi-brado caratteristico dell’isola.
L’editto infranse il tradizionale principio “ubi feuda, ibi demania” (dove ci sono beni feudali, là ci sono i demani) che faceva parte del diritto intermedio già da diverso tempo. Fu accolto subito con criticità da alcuni conoscitori dell’Isola, in particolare dall’Angius, che nel 1822 scriveva che “i pastori cominciarono a maledire irreligiosamente l’editto delle chiudende e a cercare di reprimere l’ambizione di alcuni chiudenti […]. Queste doglianze furono dall’Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte“.
Gli effetti dell’editto furono di diverse nature. Lo stesso ex viceré di Sardegna, marchese di Yenne, scrisse due relazioni, la prima il 22 settembre 1832, la seconda il successivo 6 ottobre, che ne contengono una cronaca sufficientemente istruttiva: “È veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per «obbligare i pastori a pagarne un altissimo fitto» e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge“. Rincarando la dose, aggiunse che l’editto «giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e potenti».
La reazione pratica infatti era stata la corsa alle chiusure da parte di chi aveva la possibilità di farlo, e fra questi non erano i molti che non vennero a conoscenza del provvedimento se non a chiusure ormai completate. Corsa, come riferito dallo Yenne, caratterizzata dalla diffusione degli abusi da parte di coloro che «non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni […] al solo oggetto di far pagare a caro prezzo ai pastori e ai contadini la facoltà di seminarvi ed il diritto di far pascolare i loro armenti». Conseguenza della corsa a chiudere, cui si riferiscono i versi attribuiti al Murenu, fu un diffuso malcontento popolare, che ben presto sfociò in violenza e disordini. Sempre dalla relazione del viceré si apprende (per aver egli assunto le “più accurate informazioni”) che gli incidenti cominciarono a Gavoi, con l’abbattimento di tre “chiusi” e con «discussioni fra li demolitori e danneggiati»; seguitarono poi alla vicina Mamoiada e poi a Nuoro, Fonni, Bitti ed altri paesi, «portando in tutti codesti luoghi devastamenti, incendi e rovine, e segnatamente in Benetutti, il di cui aspetto mette orrore al passeggiero». Da queste azioni delittuose contro i beni, si passò presto a quelle contro le persone e si ebbero anche omicidi. Secondo lo Yenne da un lato vi era l’avidità di alcuni proprietari, che chiusero anche pubbliche strade e beni comunali, mentre dall’altro vi era una «irragionevole bramosia de’ silvestri pastori di un’illimitata libertà di pascolare i loro armenti in cui ripongono unicamente ogni loro idea di proprietà“». A margine vi era anche, sempre secondo la relazione, l’avarizia di alcuni ecclesiastici che non si ristettero dall’andare predicando presso il popolino che le chiudende erano un sistema odioso, forse per paura di veder calare, con la crescita dell’agricoltura, le loro decime sulla pastorizia.
In alcune aree dell’isola (Logudoro e Campidano) l’editto fu accolto in parte positivamente, soprattutto per il fatto che gli agricoltori erano in gran numero e finalmente potevano proteggere le loro coltivazioni; il rilancio dell’agricoltura portava a valorizzare vecchi istituti spagnoleschi come la roadia, la quale anch’essa, secondo le politiche della riforma, giovava a questi scopi. Ma il malcontento era generale. L’effetto negativo fu risentito in modo particolare nella zona delle Barbagie in quanto la privatizzazione dei terreni, che erano la risorsa primaria del territorio, mise in enorme difficoltà l’attività della pastorizia, la principale dell’area, dato che i pastori si trovarono improvvisamente in pratica privati dei loro pascoli.
Ben presto molti dei diseredati andarono ad ingrossare le file dei fuorilegge, dando al fenomeno del banditismo una virulenza ancora mai conosciuta. Nel 1827 furono emanate altre norme che confermavano la sostanza dell’editto, negando titolo ad azione risarcitoria a quei proprietari che non avessero chiuso bene i loro “tancati” (Il tancato è l’appezzamento di terreno chiuso a muro a secco; dal sardo tanca, a sua volta dal verbo tancare, chiudere.) ed avessero patito danno perché vi fosse penetrato del bestiame; a coloro che non chiudevano bene erano anzi comminate ammende. L’editto fu riformato nel 1830 e nel 1831, ma il livello del malcontento rimase sopra i livelli di guardia. Gli incidenti crebbero in tal misura che nel 1832 si dovette istituire una commissione militare che fece repressione arrestando ed impiccando senza regolare processo (nel 1833 si emanarono norme per vietare la ricostruzione delle chiudende e ordinare che quelle abusive fossero abbattute); a questa seguì una commissione mista, composta di militari e civili, e ve ne fu anche una terza, che impiegò l’esercito e che era guidata da un giudice dell’Audiencia, ma quest’ultima operò in favore dei proprietari.
A seguito dell’editto del 31 maggio 1836, con il quale cessava la “baronale giurisdizione”, finalmente dal 1837 iniziò il riscatto dei feudi, “riacquistati” dal re, che si concluse nel 1846, riscatto che fu pagato attingendo alle tasse dei sardi. Tra il 1847 ed il 1848 si attuò la perfetta unione della Sardegna agli stati di terraferma, ma i problemi aperti dall’editto del 1820 non erano stati ancora risolti. In ogni caso era sempre “monitorata” la situazione delle chiudende, tanto che nel 1850 l’Angius, nella sua analisi dell’Isola, riservava per ciascuno dei comuni osservati un’apposita sezione in cui osservava quanto le chiudende fossero praticate.
L’editto delle chiudende fu idealmente seguito nel 1865 da una legge con la quale si aboliva l’istituto degli ademprivi e si imponeva una tassazione particolarmente onerosa sulle abitazioni; la tassazione aveva sì dei correttivi e prevedeva delle agevolazioni, ma queste erano in massima parte inapplicabili nella strutturazione urbanistica sarda, costituita di piccoli villaggi, perché prevista per quelle abitazioni completamente isolate. Si ebbe in Sardegna un esproprio ogni 14 abitanti, mentre la media nazionale era di uno ogni 27.000. Questo provvedimento, insieme all’editto delle chiudende, è la causa dei disordini sfociati infine a Nuoro nel 1868 con la rivolta nota come “Su Connottu“. i rivoltosi, guidati da Paskedda Zau, chiedevano il ritorno a ciò che avevano sempre conosciuto, ossia il ripristino dell'antico sistema di gestione dei terreni. Nei giorni della rivolta fu assalito il comune e furono bruciati i documenti di compravendita delle terre comunali ex ademprivili. Giorgio Asproni, uno dei politici più in vista di quel territorio e deputato in Parlamento, era favorevole alla vendita dei terreni comunali, e nel contempo assegnava al clero un ruolo di responsabilità nella rivolta; tuttavia, a seguito di questi gravi fatti, sollecitò (insieme con altri deputati sardi) il governo italiano ad avviare una indagine sulle condizioni sociali ed economiche della Sardegna.
Nel novembre dello stesso anno fu istituita la Commissione Parlamentare di indagine, presieduta dal Agostino Depretis. La Commissione si recò nell'isola nel 1869, e furono vani i tentativi di Francesco Cocco Ortu e del marchese di Laconi Ignazio Aymerich di spiegare ai commissari i problemi economici dell'isola. L'unico che si impegnò seriamente fu Quintino Sella che produsse un'eccellente relazione sull'industria mineraria isolana. L'operato della commissione tuttavia non produsse alcun atto concreto.
martedì 25 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 aprile.
Il 25 aprile è ufficialmente una delle festività civili della Repubblica italiana, scelta per ricordare la fine dell’occupazione tedesca in Italia, del regime fascista e della Seconda guerra mondiale, simbolicamente indicata al 25 aprile 1945. La data del 25 aprile venne stabilita ufficialmente nel 1949, e fu scelta convenzionalmente perché fu il giorno della liberazione da parte dei partigiani delle città di Milano e Torino, ma la guerra continuò per qualche giorno ancora, fino ai primi giorni di maggio.
Nei primi mesi del 1945 i partigiani che combattevano contro l’occupazione tedesca e la repubblica di Salò nell’Italia settentrionale erano diverse decine di migliaia di persone, abbastanza bene organizzate dal punto di vista militare. Molti soldati occupanti, nel marzo del 1945, si trovavano a sud della pianura padana per cercare di resistere all’offensiva finale degli americani e degli inglesi, che iniziò il 9 aprile (in una zona a est di Bologna) lungo un fronte più o meno parallelo alla via Emilia. L’offensiva fu subito un successo, sia per la superiorità di uomini e mezzi degli attaccanti che per il generale sentimento di sfiducia e inevitabilità della sconfitta che si era diffuso tra i soldati tedeschi e i repubblichini, nonostante la volontà delle massime autorità tedesche e fasciste di continuare la guerra fino all’ultimo.
Il 10 aprile il Partito Comunista fece arrivare a tutte le organizzazioni locali con cui era in contatto e che dipendevano da esso la “Direttiva n. 16″, in cui si diceva che era giunta l’ora di «scatenare l’attacco definitivo»; il 16 aprile il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui facevano parte tutti i movimenti antifascisti e di resistenza italiani, dai comunisti ai socialisti ai democristiani e agli azionisti) emanò simili istruzioni di insurrezione generale. I partigiani iniziarono quindi una serie di attacchi verso i centri urbani. Bologna, ad esempio, venne attaccata dai partigiani il 19 aprile e definitivamente liberata con l’aiuto degli alleati il 21.
Il 24 aprile gli alleati superarono il Po, e il 25 aprile 1945 i soldati tedeschi e della repubblica di Salò cominciarono a ritirarsi da Milano e da Torino, dove la popolazione si era ribellata e iniziarono ad arrivare i partigiani, con un coordinamento pianificato. A Milano era stato proclamato, a partire dalla mattina del giorno precedente, uno sciopero generale, annunciato alla radio “Milano Libera” da Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, allora partigiano e membro del Comitato di Liberazione Nazionale. Le fabbriche vennero occupate e presidiate e la tipografia del Corriere della Sera fu usata per stampare i primi fogli che annunciavano la vittoria. La sera del 25 aprile Benito Mussolini abbandonò Milano per dirigersi verso Como (verrà catturato dai partigiani due giorni dopo e ucciso il 28 aprile). I partigiani continuarono ad arrivare a Milano nei giorni tra il 25 e il 28, sconfiggendo le residue e limitate resistenze. Una grande manifestazione di celebrazione della liberazione si tenne a Milano il 28 aprile. Gli americani arrivarono nella città il 1° maggio.
La guerra continuò anche dopo il 25 aprile 1945: la liberazione di Genova avvenne il 26 aprile, il 29 aprile venne liberata Piacenza e fu firmato l’atto ufficiale di resa dell’esercito tedesco in Italia. Alcuni reparti continuarono i combattimenti ancora per qualche giorno, fino all’inizio di maggio.
A guerra conclusa, un decreto legislativo del governo italiano provvisorio, datato 22 aprile 1946, dichiarò “festa nazionale” il 25 aprile, limitatamente all’anno 1946. Fu allora che, per la prima volta, si decise convenzionalmente di fissare la data della Liberazione al 25 aprile, giorno della liberazione di Milano e Torino. La scelta venne fissata in modo definitivo con la legge n. 260 del maggio 1949, presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, che stabilì che il 25 aprile sarebbe stato un giorno festivo, come le domeniche, il primo maggio o il giorno di Natale, in quanto “anniversario della liberazione”.
Il 25 aprile non è la festa della Repubblica italiana, che si celebra invece il 2 giugno (per alcuni anni, dal 1977 al 2001, fu trasformata in una festa mobile, la prima domenica di giugno): con riferimento al 2 giugno 1946, giorno in cui gli italiani votarono al referendum per scegliere tra forma di governo monarchica e repubblicana nel nuovo stato.
Anche altri paesi europei ricordano la fine dall’occupazione straniera durante la Seconda guerra mondiale: Olanda e Danimarca la festeggiano il 5 maggio, la Norvegia l’8 maggio, la Romania il 23 agosto. Anche l’Etiopia festeggia il 5 maggio la festa della Liberazione, anche se in quel caso si tratta della fine dell’occupazione italiana (avvenuta nel 1941).
Il 25 aprile è ufficialmente una delle festività civili della Repubblica italiana, scelta per ricordare la fine dell’occupazione tedesca in Italia, del regime fascista e della Seconda guerra mondiale, simbolicamente indicata al 25 aprile 1945. La data del 25 aprile venne stabilita ufficialmente nel 1949, e fu scelta convenzionalmente perché fu il giorno della liberazione da parte dei partigiani delle città di Milano e Torino, ma la guerra continuò per qualche giorno ancora, fino ai primi giorni di maggio.
Nei primi mesi del 1945 i partigiani che combattevano contro l’occupazione tedesca e la repubblica di Salò nell’Italia settentrionale erano diverse decine di migliaia di persone, abbastanza bene organizzate dal punto di vista militare. Molti soldati occupanti, nel marzo del 1945, si trovavano a sud della pianura padana per cercare di resistere all’offensiva finale degli americani e degli inglesi, che iniziò il 9 aprile (in una zona a est di Bologna) lungo un fronte più o meno parallelo alla via Emilia. L’offensiva fu subito un successo, sia per la superiorità di uomini e mezzi degli attaccanti che per il generale sentimento di sfiducia e inevitabilità della sconfitta che si era diffuso tra i soldati tedeschi e i repubblichini, nonostante la volontà delle massime autorità tedesche e fasciste di continuare la guerra fino all’ultimo.
Il 10 aprile il Partito Comunista fece arrivare a tutte le organizzazioni locali con cui era in contatto e che dipendevano da esso la “Direttiva n. 16″, in cui si diceva che era giunta l’ora di «scatenare l’attacco definitivo»; il 16 aprile il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui facevano parte tutti i movimenti antifascisti e di resistenza italiani, dai comunisti ai socialisti ai democristiani e agli azionisti) emanò simili istruzioni di insurrezione generale. I partigiani iniziarono quindi una serie di attacchi verso i centri urbani. Bologna, ad esempio, venne attaccata dai partigiani il 19 aprile e definitivamente liberata con l’aiuto degli alleati il 21.
Il 24 aprile gli alleati superarono il Po, e il 25 aprile 1945 i soldati tedeschi e della repubblica di Salò cominciarono a ritirarsi da Milano e da Torino, dove la popolazione si era ribellata e iniziarono ad arrivare i partigiani, con un coordinamento pianificato. A Milano era stato proclamato, a partire dalla mattina del giorno precedente, uno sciopero generale, annunciato alla radio “Milano Libera” da Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, allora partigiano e membro del Comitato di Liberazione Nazionale. Le fabbriche vennero occupate e presidiate e la tipografia del Corriere della Sera fu usata per stampare i primi fogli che annunciavano la vittoria. La sera del 25 aprile Benito Mussolini abbandonò Milano per dirigersi verso Como (verrà catturato dai partigiani due giorni dopo e ucciso il 28 aprile). I partigiani continuarono ad arrivare a Milano nei giorni tra il 25 e il 28, sconfiggendo le residue e limitate resistenze. Una grande manifestazione di celebrazione della liberazione si tenne a Milano il 28 aprile. Gli americani arrivarono nella città il 1° maggio.
La guerra continuò anche dopo il 25 aprile 1945: la liberazione di Genova avvenne il 26 aprile, il 29 aprile venne liberata Piacenza e fu firmato l’atto ufficiale di resa dell’esercito tedesco in Italia. Alcuni reparti continuarono i combattimenti ancora per qualche giorno, fino all’inizio di maggio.
A guerra conclusa, un decreto legislativo del governo italiano provvisorio, datato 22 aprile 1946, dichiarò “festa nazionale” il 25 aprile, limitatamente all’anno 1946. Fu allora che, per la prima volta, si decise convenzionalmente di fissare la data della Liberazione al 25 aprile, giorno della liberazione di Milano e Torino. La scelta venne fissata in modo definitivo con la legge n. 260 del maggio 1949, presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, che stabilì che il 25 aprile sarebbe stato un giorno festivo, come le domeniche, il primo maggio o il giorno di Natale, in quanto “anniversario della liberazione”.
Il 25 aprile non è la festa della Repubblica italiana, che si celebra invece il 2 giugno (per alcuni anni, dal 1977 al 2001, fu trasformata in una festa mobile, la prima domenica di giugno): con riferimento al 2 giugno 1946, giorno in cui gli italiani votarono al referendum per scegliere tra forma di governo monarchica e repubblicana nel nuovo stato.
Anche altri paesi europei ricordano la fine dall’occupazione straniera durante la Seconda guerra mondiale: Olanda e Danimarca la festeggiano il 5 maggio, la Norvegia l’8 maggio, la Romania il 23 agosto. Anche l’Etiopia festeggia il 5 maggio la festa della Liberazione, anche se in quel caso si tratta della fine dell’occupazione italiana (avvenuta nel 1941).
lunedì 24 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 aprile.
Il 24 aprile 1854 convolano a nozze Elisabetta di Baviera (la principessa Sissi) e Francesco Giuseppe I, imperatore d'Austria.
Francesco Giuseppe I fu imperatore d'Austria per 68 anni, dal 1848 al 1916. Fu uno dei protagonisti più importanti della storia europea nella seconda metà dell'800.
Francesco Giuseppe (nome tedesco: Franz Josef) nacque il 18 agosto 1830 nel castello di Schönbrunn a Vienna. Già all'età di 5 anni fu designato come futuro imperatore dell'Austria, pur non essendo il primo in linea di successione. L'imperatore Ferdinando I, salito al trono nel 1835, era debole e rivelò crescenti sintomi di essere malato di mente, e così suo fratello Francesco Carlo (padre di Francesco Giuseppe) che sarebbe succeduto al trono rinunciò in anticipo al trono a favore di suo figlio. Il piccolo Francesco ricevette, di conseguenza, fin dall'inizio una rigidissima educazione, com'era previsto dalle regole della corte per chi doveva succedere al trono degli Asburgo.
Il 1848 fu un anno di rivoluzioni in tutta l'Europa e anche nei centri dell'impero asburgico, in Boemia, in Ungheria e a Vienna il popolo si rivoltò contro la monarchia chiedendo riforme, una costituzione democratica e la fine della censura.
Per i crescenti disordini popolari a Vienna, il cancelliere Metternich, simbolo odiato del periodo della restaurazione, fuggì in Inghilterra e poco dopo anche l'imperatore Ferdinando fu costretto a ritirarsi a Innsbruck. Alla fine del 1848 abdicò definitivamente (già prima aveva lasciato la gestione degli affari di stato a un gruppo di consiglieri) e di conseguenza Francesco Giuseppe divenne, come deciso dalla famiglia, il nuovo imperatore, a soli 18 anni.
L'imperatore Francesco Giuseppe regnò per sessantotto anni. Cominciò come monarca assoluto ultra-conservatore che disprezzava i moti democratici del 1848 e che si vantava di "aver gettato a mare la paccottiglia costituzionale". Con gli anni diventò più tollerante e liberale, fino ad accettare alcuni elementi della democrazia parlamentare - ma più per rassegnazione che per convinzione. Per tutta la vita fu convinto di essere un monarca legittimato da Dio e i valori tradizionali della monarchia furono sempre le linee guida della sua vita e del suo agire come imperatore.
Si alzava presto alla mattina, lavorando sodo e sempre conscio del suo ruolo e dei suoi doveri. Rappresentava la versione austriaca del motto "Il re è il primo servitore dello stato", stabilito da Federico il Grande, re della Prussia. Fu un burocrate modello, interessato anche ai dettagli più insignificanti degli affari di stato, ma con poca sensibilità per i grandi problemi dell'epoca. Delle questioni economiche, sempre più importanti nella seconda metà dell'800, non capì nulla, non fu né un grande stratega militare, né un abile diplomatico. Il suo governare consisté, per decenni, sostanzialmente nel rimandare, nel cedere, nel rassegnarsi. Ma tutti sapevano che era un uomo modesto e parsimonioso che viveva spartanamente, lavorando dalla mattina alla sera e non concedendosi nessun lusso privato. E su queste virtù si basava la sua popolarità, specialmente in età avanzata. L'unico piacere privato che si concedeva era la caccia, la sua grande passione.
Durante il suo regno avvenne il passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale con una crescente influenza della borghesia liberale vista con diffidenza dall'aristocrazia. Ma Francesco Giuseppe, un po' alla volta, cedette alle loro pretese e permise così, pur rimanendo sempre un convinto conservatore, la trasformazione dell'Austria in uno stato più moderno. Inizialmente ristabilì la posizione dominante della chiesa cattolica in molti ambiti dello stato, abolendo praticamente tutte le leggi con cui i suoi predecessori avevano cercato di limitare l'influenza delle gerarchie ecclesiastiche, ma nella seconda metà del suo regno si convertì a una maggiore tolleranza religiosa e culturale che contribuì molto a far diventare Vienna uno dei centri culturali più vivaci dell'Europa.
Ma i quasi settant'anni del suo regno furono caratterizzati soprattutto dai problemi creati dal fragile equilibrio tra le molte nazionalità che si sentivano sempre più costrette alla convivenza in questo stato. Con l'Ungheria, la componente non-tedesca più forte, si riuscì ad arrivare a un compromesso, cedendo a quasi tutte le sue richieste di autonomia, il che però scontentò molto la Boemia, il terzo componente importante dell'impero. E alla fine sarebbero stati proprio i nazionalismi crescenti a far implodere l'impero.
Nella politica estera Francesco Giuseppe collezionò un disastro dopo l'altro, dovuto in gran parte alla sua caratteristica di limitarsi sostanzialmente a reagire e raramente ad agire. La sua fissazione sul valore assoluto dell'onore lo rese incapace alla diplomazia che nell'800 richiedeva una crescente flessibilità. I suoi avversari erano semplicemente più furbi e meno prevedibili di lui e dei suoi consiglieri. Perse le province dell'Italia meridionale e nel rapporto con la Prussia incassò solo sconfitte amare, non solo diplomatiche, ma anche militari.
Quando Francesco ed Elisabetta di Baviera si sposarono (nel 1854) lui aveva 24 anni, lei 15. Fu un matrimonio combinato - come lo erano all'epoca quasi tutti i matrimoni delle case reali in Europa - e per Elisabetta questo matrimonio si rivelò fin dall'inizio un incubo. Intorno a loro due, specialmente intorno a Elisabetta, si crearono subito miti e cliché che, rafforzati dalla stampa rosa e più tardi soprattutto dal cinema, hanno trasformato Elisabetta in una "regina del cuore", che ancora oggi ne costituisce l'immagine collettiva.
Francesco amava la moglie, ma non sapeva niente di lei e non la capiva, fu totalmente estraneo al mondo in cui viveva. I due avevano dei caratteri e degli interessi diametralmente opposti. Elisabetta, che aveva trascorso un'infanzia spensierata e felice, non sopportò il soffocante protocollo di corte di Vienna. Francesco Giuseppe non vide le sofferenze della moglie, era completamente assorbito dagli affari di stato e persino nella loro luna di miele fu molto spesso assente.
Infatti, il loro matrimonio entrò presto in crisi. Francesco Giuseppe, stanco delle eterne liti tra madre e moglie e della crescente chiusura di Elisabetta nei suoi confronti, cominciò a cercare consolazione da altre parti. Alla corte le avventure galanti degli imperatori erano sempre state tacitamente tollerate e visto che la corte non aveva mai amato Elisabetta, le simpatie erano tutte dalla parte di Francesco. Dopo anni di esperienze dolorose, Elisabetta imparò finalmente ad imporsi contro la corte, contro la suocera e anche contro il marito. Ora Francesco Giuseppe cominciò a temerla per le sue stravaganze che scioccavano l'aristocrazia viennese e che rischiavano di offuscare anche la sua immagine di imperatore e marito. La amava, ma la temeva anche per i suoi lunghi viaggi che in realtà erano delle fughe dalla corte e che Elisabetta usava anche come veri e propri ricatti contro di lui.
Per essere più libera dal marito e allo stesso tempo per attenuare i sensi di colpa per il fatto di trascurarlo Elisabetta gli aveva persino procurato un'amante, Katarina Schratt. La Schratt, attrice del teatro di corte, che aveva un carattere diametralmente opposto a quello di Elisabetta accettava volentieri questo ruolo (tra l'altro molto ben retribuito) e fu amica e amante di Francesco Giuseppe per molti decenni, anche dopo la morte di Elisabetta nel 1898.
Nel '700 la Prussia era un "nuovo arrivato" tra le grandi potenze dell'Europa, ancora relativamente piccola, ma con grandi ambizioni e con una notevole aggressività che si rivolse soprattutto contro la vicina Austria. Gli antagonisti erano, all'epoca, l'imperatrice austriaca Maria Teresa e Federico II, re della Prussia e la loro rivalità si scaricò in varie guerre piuttosto dure e sanguinose.
Nella seconda metà dell'800, sotto il regno di Francesco Giuseppe, la rivalità tra le due potenze si riaccese. In Germania era nato un forte movimento per l'unità nazionale e la Prussia cercò con tutti i mezzi di escludere l'Austria da una ipotetica futura Germania unita e di attirare gli altri stati tedeschi sotto la sua influenza. Ora la Prussia era diventata molto più forte e soprattutto sotto il cancelliere Bismarck agì con grande spregiudicatezza e sfacciataggine provocando - e vincendo - un'altra guerra contro l'Austria di Francesco Giuseppe che, oltre alle noie con la Prussia, aveva molti altri problemi spinosi da risolvere, soprattutto in Italia e nei Balcani e che, in realtà, non aveva nessuna voglia di sfidare continuamente il vicino prussiano, così bellicoso.
Alla fine la Prussia riuscì a tirare dalla sua parte gli altri stati tedeschi per costituire, nel 1871, lo stato unitario "Germania", escludendo l'Austria.
Ma Bismarck, al contrario di Francesco Giuseppe, fu anche un abile diplomatico che, tra il 1871 e il 1890, costruì un sistema di alleanze europee che incluse l'Austria e che la fece diventare un alleato di ferro della Germania. Non proprio alleati a pari livello: la Germania, sotto la guida della Prussia, era uno stato giovane con un forte sviluppo industriale, che fece di tutto per inserirsi anche nella spartizione coloniale dell'Africa e dell'Asia. D'altro canto, l'Austria era uno stato vecchio e anche un po' stanco perché continuamente occupato a difendere - con risultati peraltro scarsi - la sua integrità territoriale contro i nazionalismi in Italia e nei Balcani. E in più di un'occasione il cancelliere Bismarck e gli imperatori tedeschi Guglielmo I e Guglielmo II fecero capire a Francesco Giuseppe chi, secondo loro, era il partner forte di quest'alleanza.
Una leggenda messa al mondo da alcuni storici dice gli stati europei siano stati "trascinati" in questa guerra, senza realmente volerla. Niente di più sbagliato di questo: le preparazioni a questa guerra, sia quelle materiali - una folle corsa agli armamenti - sia quelle psicologiche - il bombardamento di odio nazionalistico contro altri stati e popoli attraverso gran parte della stampa - andarono avanti per anni, in tutti i paesi che vi avrebbero partecipato. Anche in Austria.
Francesco Giuseppe invece era contrario alla guerra: dopo la rovinosa sconfitta inflitta all'Austria a Königgrätz, nel 1866, da parte della Prussia, l'imperatore aveva cercato di evitare le guerre dove poteva (non sempre con successo). Ma nel 1914 il vero potere decisionale non era più dalla parte del monarca, tra l'altro ormai vecchio (aveva 84 anni) e un po' stanco. I suoi ministri, i militari, gli industriali e gran parte della società civile volevano la guerra e si aspettava solo il momento e il pretesto giusto per poterla scatenare.
Il momento giusto arrivò con l'uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando, l'erede al trono degli Asburgo, da parte di un attentatore serbo. Il governo austriaco mandò un ultimatum alla Serbia che questa accettò, con un'unica piccola eccezione. Bastò per fornire il pretesto per la dichiarazione di guerra alla Serbia che, per il fitto sistema di alleanze in Europa, coinvolse presto quasi l'intero continente.
La guerra andò malissimo per l'Austria, fin dall'inizio, e l'entusiasmo per la guerra di gran parte della popolazione svanì molto presto. Dopo due anni, Francesco Giuseppe disse al suo aiutante di campo: " Le cose ci vanno male, molto peggio di quanto pensiamo. ... La prossima primavera la farò senz'altro finita con la guerra". Ma non ci arrivò. Il 21 novembre 1916 morì per una debolezza cardiaca in seguito a una polmonite.
Da gran parte della popolazione la morte di Francesco Giuseppe fu percepita come primo atto della fine della monarchia e dell'impero austro-ungarico che arrivò definitivamente due anni dopo. Come nessun altro imperatore Francesco Giuseppe aveva impersonificato la monarchia asburgica, nel bene e nel male.
Il 24 aprile 1854 convolano a nozze Elisabetta di Baviera (la principessa Sissi) e Francesco Giuseppe I, imperatore d'Austria.
Francesco Giuseppe I fu imperatore d'Austria per 68 anni, dal 1848 al 1916. Fu uno dei protagonisti più importanti della storia europea nella seconda metà dell'800.
Francesco Giuseppe (nome tedesco: Franz Josef) nacque il 18 agosto 1830 nel castello di Schönbrunn a Vienna. Già all'età di 5 anni fu designato come futuro imperatore dell'Austria, pur non essendo il primo in linea di successione. L'imperatore Ferdinando I, salito al trono nel 1835, era debole e rivelò crescenti sintomi di essere malato di mente, e così suo fratello Francesco Carlo (padre di Francesco Giuseppe) che sarebbe succeduto al trono rinunciò in anticipo al trono a favore di suo figlio. Il piccolo Francesco ricevette, di conseguenza, fin dall'inizio una rigidissima educazione, com'era previsto dalle regole della corte per chi doveva succedere al trono degli Asburgo.
Il 1848 fu un anno di rivoluzioni in tutta l'Europa e anche nei centri dell'impero asburgico, in Boemia, in Ungheria e a Vienna il popolo si rivoltò contro la monarchia chiedendo riforme, una costituzione democratica e la fine della censura.
Per i crescenti disordini popolari a Vienna, il cancelliere Metternich, simbolo odiato del periodo della restaurazione, fuggì in Inghilterra e poco dopo anche l'imperatore Ferdinando fu costretto a ritirarsi a Innsbruck. Alla fine del 1848 abdicò definitivamente (già prima aveva lasciato la gestione degli affari di stato a un gruppo di consiglieri) e di conseguenza Francesco Giuseppe divenne, come deciso dalla famiglia, il nuovo imperatore, a soli 18 anni.
L'imperatore Francesco Giuseppe regnò per sessantotto anni. Cominciò come monarca assoluto ultra-conservatore che disprezzava i moti democratici del 1848 e che si vantava di "aver gettato a mare la paccottiglia costituzionale". Con gli anni diventò più tollerante e liberale, fino ad accettare alcuni elementi della democrazia parlamentare - ma più per rassegnazione che per convinzione. Per tutta la vita fu convinto di essere un monarca legittimato da Dio e i valori tradizionali della monarchia furono sempre le linee guida della sua vita e del suo agire come imperatore.
Si alzava presto alla mattina, lavorando sodo e sempre conscio del suo ruolo e dei suoi doveri. Rappresentava la versione austriaca del motto "Il re è il primo servitore dello stato", stabilito da Federico il Grande, re della Prussia. Fu un burocrate modello, interessato anche ai dettagli più insignificanti degli affari di stato, ma con poca sensibilità per i grandi problemi dell'epoca. Delle questioni economiche, sempre più importanti nella seconda metà dell'800, non capì nulla, non fu né un grande stratega militare, né un abile diplomatico. Il suo governare consisté, per decenni, sostanzialmente nel rimandare, nel cedere, nel rassegnarsi. Ma tutti sapevano che era un uomo modesto e parsimonioso che viveva spartanamente, lavorando dalla mattina alla sera e non concedendosi nessun lusso privato. E su queste virtù si basava la sua popolarità, specialmente in età avanzata. L'unico piacere privato che si concedeva era la caccia, la sua grande passione.
Durante il suo regno avvenne il passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale con una crescente influenza della borghesia liberale vista con diffidenza dall'aristocrazia. Ma Francesco Giuseppe, un po' alla volta, cedette alle loro pretese e permise così, pur rimanendo sempre un convinto conservatore, la trasformazione dell'Austria in uno stato più moderno. Inizialmente ristabilì la posizione dominante della chiesa cattolica in molti ambiti dello stato, abolendo praticamente tutte le leggi con cui i suoi predecessori avevano cercato di limitare l'influenza delle gerarchie ecclesiastiche, ma nella seconda metà del suo regno si convertì a una maggiore tolleranza religiosa e culturale che contribuì molto a far diventare Vienna uno dei centri culturali più vivaci dell'Europa.
Ma i quasi settant'anni del suo regno furono caratterizzati soprattutto dai problemi creati dal fragile equilibrio tra le molte nazionalità che si sentivano sempre più costrette alla convivenza in questo stato. Con l'Ungheria, la componente non-tedesca più forte, si riuscì ad arrivare a un compromesso, cedendo a quasi tutte le sue richieste di autonomia, il che però scontentò molto la Boemia, il terzo componente importante dell'impero. E alla fine sarebbero stati proprio i nazionalismi crescenti a far implodere l'impero.
Nella politica estera Francesco Giuseppe collezionò un disastro dopo l'altro, dovuto in gran parte alla sua caratteristica di limitarsi sostanzialmente a reagire e raramente ad agire. La sua fissazione sul valore assoluto dell'onore lo rese incapace alla diplomazia che nell'800 richiedeva una crescente flessibilità. I suoi avversari erano semplicemente più furbi e meno prevedibili di lui e dei suoi consiglieri. Perse le province dell'Italia meridionale e nel rapporto con la Prussia incassò solo sconfitte amare, non solo diplomatiche, ma anche militari.
Quando Francesco ed Elisabetta di Baviera si sposarono (nel 1854) lui aveva 24 anni, lei 15. Fu un matrimonio combinato - come lo erano all'epoca quasi tutti i matrimoni delle case reali in Europa - e per Elisabetta questo matrimonio si rivelò fin dall'inizio un incubo. Intorno a loro due, specialmente intorno a Elisabetta, si crearono subito miti e cliché che, rafforzati dalla stampa rosa e più tardi soprattutto dal cinema, hanno trasformato Elisabetta in una "regina del cuore", che ancora oggi ne costituisce l'immagine collettiva.
Francesco amava la moglie, ma non sapeva niente di lei e non la capiva, fu totalmente estraneo al mondo in cui viveva. I due avevano dei caratteri e degli interessi diametralmente opposti. Elisabetta, che aveva trascorso un'infanzia spensierata e felice, non sopportò il soffocante protocollo di corte di Vienna. Francesco Giuseppe non vide le sofferenze della moglie, era completamente assorbito dagli affari di stato e persino nella loro luna di miele fu molto spesso assente.
Infatti, il loro matrimonio entrò presto in crisi. Francesco Giuseppe, stanco delle eterne liti tra madre e moglie e della crescente chiusura di Elisabetta nei suoi confronti, cominciò a cercare consolazione da altre parti. Alla corte le avventure galanti degli imperatori erano sempre state tacitamente tollerate e visto che la corte non aveva mai amato Elisabetta, le simpatie erano tutte dalla parte di Francesco. Dopo anni di esperienze dolorose, Elisabetta imparò finalmente ad imporsi contro la corte, contro la suocera e anche contro il marito. Ora Francesco Giuseppe cominciò a temerla per le sue stravaganze che scioccavano l'aristocrazia viennese e che rischiavano di offuscare anche la sua immagine di imperatore e marito. La amava, ma la temeva anche per i suoi lunghi viaggi che in realtà erano delle fughe dalla corte e che Elisabetta usava anche come veri e propri ricatti contro di lui.
Per essere più libera dal marito e allo stesso tempo per attenuare i sensi di colpa per il fatto di trascurarlo Elisabetta gli aveva persino procurato un'amante, Katarina Schratt. La Schratt, attrice del teatro di corte, che aveva un carattere diametralmente opposto a quello di Elisabetta accettava volentieri questo ruolo (tra l'altro molto ben retribuito) e fu amica e amante di Francesco Giuseppe per molti decenni, anche dopo la morte di Elisabetta nel 1898.
Nel '700 la Prussia era un "nuovo arrivato" tra le grandi potenze dell'Europa, ancora relativamente piccola, ma con grandi ambizioni e con una notevole aggressività che si rivolse soprattutto contro la vicina Austria. Gli antagonisti erano, all'epoca, l'imperatrice austriaca Maria Teresa e Federico II, re della Prussia e la loro rivalità si scaricò in varie guerre piuttosto dure e sanguinose.
Nella seconda metà dell'800, sotto il regno di Francesco Giuseppe, la rivalità tra le due potenze si riaccese. In Germania era nato un forte movimento per l'unità nazionale e la Prussia cercò con tutti i mezzi di escludere l'Austria da una ipotetica futura Germania unita e di attirare gli altri stati tedeschi sotto la sua influenza. Ora la Prussia era diventata molto più forte e soprattutto sotto il cancelliere Bismarck agì con grande spregiudicatezza e sfacciataggine provocando - e vincendo - un'altra guerra contro l'Austria di Francesco Giuseppe che, oltre alle noie con la Prussia, aveva molti altri problemi spinosi da risolvere, soprattutto in Italia e nei Balcani e che, in realtà, non aveva nessuna voglia di sfidare continuamente il vicino prussiano, così bellicoso.
Alla fine la Prussia riuscì a tirare dalla sua parte gli altri stati tedeschi per costituire, nel 1871, lo stato unitario "Germania", escludendo l'Austria.
Ma Bismarck, al contrario di Francesco Giuseppe, fu anche un abile diplomatico che, tra il 1871 e il 1890, costruì un sistema di alleanze europee che incluse l'Austria e che la fece diventare un alleato di ferro della Germania. Non proprio alleati a pari livello: la Germania, sotto la guida della Prussia, era uno stato giovane con un forte sviluppo industriale, che fece di tutto per inserirsi anche nella spartizione coloniale dell'Africa e dell'Asia. D'altro canto, l'Austria era uno stato vecchio e anche un po' stanco perché continuamente occupato a difendere - con risultati peraltro scarsi - la sua integrità territoriale contro i nazionalismi in Italia e nei Balcani. E in più di un'occasione il cancelliere Bismarck e gli imperatori tedeschi Guglielmo I e Guglielmo II fecero capire a Francesco Giuseppe chi, secondo loro, era il partner forte di quest'alleanza.
Una leggenda messa al mondo da alcuni storici dice gli stati europei siano stati "trascinati" in questa guerra, senza realmente volerla. Niente di più sbagliato di questo: le preparazioni a questa guerra, sia quelle materiali - una folle corsa agli armamenti - sia quelle psicologiche - il bombardamento di odio nazionalistico contro altri stati e popoli attraverso gran parte della stampa - andarono avanti per anni, in tutti i paesi che vi avrebbero partecipato. Anche in Austria.
Francesco Giuseppe invece era contrario alla guerra: dopo la rovinosa sconfitta inflitta all'Austria a Königgrätz, nel 1866, da parte della Prussia, l'imperatore aveva cercato di evitare le guerre dove poteva (non sempre con successo). Ma nel 1914 il vero potere decisionale non era più dalla parte del monarca, tra l'altro ormai vecchio (aveva 84 anni) e un po' stanco. I suoi ministri, i militari, gli industriali e gran parte della società civile volevano la guerra e si aspettava solo il momento e il pretesto giusto per poterla scatenare.
Il momento giusto arrivò con l'uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando, l'erede al trono degli Asburgo, da parte di un attentatore serbo. Il governo austriaco mandò un ultimatum alla Serbia che questa accettò, con un'unica piccola eccezione. Bastò per fornire il pretesto per la dichiarazione di guerra alla Serbia che, per il fitto sistema di alleanze in Europa, coinvolse presto quasi l'intero continente.
La guerra andò malissimo per l'Austria, fin dall'inizio, e l'entusiasmo per la guerra di gran parte della popolazione svanì molto presto. Dopo due anni, Francesco Giuseppe disse al suo aiutante di campo: " Le cose ci vanno male, molto peggio di quanto pensiamo. ... La prossima primavera la farò senz'altro finita con la guerra". Ma non ci arrivò. Il 21 novembre 1916 morì per una debolezza cardiaca in seguito a una polmonite.
Da gran parte della popolazione la morte di Francesco Giuseppe fu percepita come primo atto della fine della monarchia e dell'impero austro-ungarico che arrivò definitivamente due anni dopo. Come nessun altro imperatore Francesco Giuseppe aveva impersonificato la monarchia asburgica, nel bene e nel male.
domenica 23 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 aprile.
Il 23 aprile 1516 Ludovico Ariosto dà alle stampe la prima stesura dell'Orlando Furioso.
Composto da quarantasei canti, il poema cavalleresco è la continuazione di un’opera di Matteo Maria Boiardo, l’Orlando Innamorato, che lo scrittore lasciò incompiuta.
Il poema epico racconta le vicende del cavaliere Orlando innamorato di Angelica e la storia d’amore tra Ruggero (che è saraceno) e Bradamante, che invece è una donna cristiana.
Le storie si inseriscono nello scorcio generale della guerra scoppiata tra Saraceni e Cristiani. Il poema si apre infatti con l’invasione della Francia da parte del re saraceno Agramante, che poi viene definitivamente sconfitto sull’isola di Lipadusa dalle truppe di Carlo Magno.
Orlando è un cavaliere cristiano perdutamente innamorato della bellissima Angelica, che però è contesa anche dal cugino Rinaldo. La donna, affidata al Duca di Baviera, viene promessa in sposa a colui che riuscirà a sconfiggere Argalia (che è il fratello di Angelica, nonché principe del Catai). Un cavaliere pagano, chiamato Ferraù, riesce nell’intento. A questo punto Angelica decide di fuggire dall’accampamento in cui si trova: alcuni cavalieri la inseguono, tra cui Rinaldo e Orlando di lei innamorati.
Durante la fuga Angelica si imbatte in un cavaliere saraceno, che si chiama Medoro. I due si innamorano e scappano insieme. Prima però, incidono i loro nomi su un albero. Quando Orlando arriva nel luogo in cui la coppia ha suggellato il loro amore, resta allibito e il dolore per Angelica lo conduce alla pazzia. Lo sconforto porta il cavaliere ad errare senza meta per la Spagna e la Francia, attraversando a nuoto lo stretto di Gibilterra.
Grazie al guerriero Astolfo, che riesce a domare il cavallo alato ippogrifo, Orlando riesce a recuperare il senno perduto, che si trova sulla luna. Intanto Angelica e il suo amato Medoro riescono a fuggire in Catai.
Altra vicenda d’amore assai avvincente è quella tra Bradamante, sorella di Rinaldo, ed il cavaliere saraceno Ruggero, che daranno vita alla famiglia d’Este. Il mago Atlante si intromette tra i due perché è convinto che l’uomo morirà subito dopo le nozze. Il mago imprigiona il guerriero in un castello incantato per proibirgli di sposare Bradamante, ma Ruggero riesce lo stesso a convolare a nozze con la sua amata.
I colpi di scena però non finiscono qui: durante il banchetto il principe d’Algeri Rodomonte compare all’improvviso e sfida Ruggero in un duello. L’uomo accusa Ruggero di aver rinnegato la sua fede per poter sposare una donna appartenente alla religione cristiana. Ruggero riesce a uccidere Rodomonte.
Pur essendo lungo e articolato, l’Orlando Furioso è molto scorrevole e ricco di sfumature eleganti che ne fanno un modello di poema epico per tutti i tempi. Il tono utilizzato dall’Ariosto per descrivere i vari personaggi è spesso ironico senza mai eccedere. Il lettore si appassiona alle vicende raccontate, e l’autore passa da una all’altra mantenendo sempre vivi la suspense e il pathos nei confronti dei personaggi.
Prima grande opera della letteratura moderna a essere pensata per la stampa, l'Orlando Furioso ebbe immediatamente un grande successo e fu tradotta nello stesso Cinquecento e nei secoli successivi in numerose lingue.
Per diversi secoli l'Orlando Furioso fu letto come opera prevalentemente di evasione. Dobbiamo a Hegel, nell'Ottocento, l'interpretazione del Furioso in chiave di critica dei valori della cavalleria, come opera perciò che segna l'analisi e la consapevolezza della fine di un'epoca storica, il Medioevo, con tutto ciò che esso significava. Nel secolo scorso il filosofo e critico Benedetto Croce ne ha dato una lettura nuova, rifiutando anche lui l'idea di un poema d'evasione e sottolineando la sua funzione di grande affresco di un'epoca, vista nei suoi aspetti positivi e negativi.
L'ultimo grande omaggio all'Orlando Furioso lo si deve a Italo Calvino, che non solo ne curò una versione da lui in parte sintetizzata, ma che ai temi e alle vicende degli eroi di Ariosto rese indirettamente omaggio nel ciclo di romanzi I nostri antenati.
Il 23 aprile 1516 Ludovico Ariosto dà alle stampe la prima stesura dell'Orlando Furioso.
Composto da quarantasei canti, il poema cavalleresco è la continuazione di un’opera di Matteo Maria Boiardo, l’Orlando Innamorato, che lo scrittore lasciò incompiuta.
Il poema epico racconta le vicende del cavaliere Orlando innamorato di Angelica e la storia d’amore tra Ruggero (che è saraceno) e Bradamante, che invece è una donna cristiana.
Le storie si inseriscono nello scorcio generale della guerra scoppiata tra Saraceni e Cristiani. Il poema si apre infatti con l’invasione della Francia da parte del re saraceno Agramante, che poi viene definitivamente sconfitto sull’isola di Lipadusa dalle truppe di Carlo Magno.
Orlando è un cavaliere cristiano perdutamente innamorato della bellissima Angelica, che però è contesa anche dal cugino Rinaldo. La donna, affidata al Duca di Baviera, viene promessa in sposa a colui che riuscirà a sconfiggere Argalia (che è il fratello di Angelica, nonché principe del Catai). Un cavaliere pagano, chiamato Ferraù, riesce nell’intento. A questo punto Angelica decide di fuggire dall’accampamento in cui si trova: alcuni cavalieri la inseguono, tra cui Rinaldo e Orlando di lei innamorati.
Durante la fuga Angelica si imbatte in un cavaliere saraceno, che si chiama Medoro. I due si innamorano e scappano insieme. Prima però, incidono i loro nomi su un albero. Quando Orlando arriva nel luogo in cui la coppia ha suggellato il loro amore, resta allibito e il dolore per Angelica lo conduce alla pazzia. Lo sconforto porta il cavaliere ad errare senza meta per la Spagna e la Francia, attraversando a nuoto lo stretto di Gibilterra.
Grazie al guerriero Astolfo, che riesce a domare il cavallo alato ippogrifo, Orlando riesce a recuperare il senno perduto, che si trova sulla luna. Intanto Angelica e il suo amato Medoro riescono a fuggire in Catai.
Altra vicenda d’amore assai avvincente è quella tra Bradamante, sorella di Rinaldo, ed il cavaliere saraceno Ruggero, che daranno vita alla famiglia d’Este. Il mago Atlante si intromette tra i due perché è convinto che l’uomo morirà subito dopo le nozze. Il mago imprigiona il guerriero in un castello incantato per proibirgli di sposare Bradamante, ma Ruggero riesce lo stesso a convolare a nozze con la sua amata.
I colpi di scena però non finiscono qui: durante il banchetto il principe d’Algeri Rodomonte compare all’improvviso e sfida Ruggero in un duello. L’uomo accusa Ruggero di aver rinnegato la sua fede per poter sposare una donna appartenente alla religione cristiana. Ruggero riesce a uccidere Rodomonte.
Pur essendo lungo e articolato, l’Orlando Furioso è molto scorrevole e ricco di sfumature eleganti che ne fanno un modello di poema epico per tutti i tempi. Il tono utilizzato dall’Ariosto per descrivere i vari personaggi è spesso ironico senza mai eccedere. Il lettore si appassiona alle vicende raccontate, e l’autore passa da una all’altra mantenendo sempre vivi la suspense e il pathos nei confronti dei personaggi.
Prima grande opera della letteratura moderna a essere pensata per la stampa, l'Orlando Furioso ebbe immediatamente un grande successo e fu tradotta nello stesso Cinquecento e nei secoli successivi in numerose lingue.
Per diversi secoli l'Orlando Furioso fu letto come opera prevalentemente di evasione. Dobbiamo a Hegel, nell'Ottocento, l'interpretazione del Furioso in chiave di critica dei valori della cavalleria, come opera perciò che segna l'analisi e la consapevolezza della fine di un'epoca storica, il Medioevo, con tutto ciò che esso significava. Nel secolo scorso il filosofo e critico Benedetto Croce ne ha dato una lettura nuova, rifiutando anche lui l'idea di un poema d'evasione e sottolineando la sua funzione di grande affresco di un'epoca, vista nei suoi aspetti positivi e negativi.
L'ultimo grande omaggio all'Orlando Furioso lo si deve a Italo Calvino, che non solo ne curò una versione da lui in parte sintetizzata, ma che ai temi e alle vicende degli eroi di Ariosto rese indirettamente omaggio nel ciclo di romanzi I nostri antenati.
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sabato 22 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 aprile.
Il 22 aprile 1967 Stanley Kubrick e Arthur Clarke cominciano a gettare le basi della sceneggiatura di 2001: odissea nello spazio.
Nel rivedere questo capolavoro assoluto del cinema la prima considerazione che viene in mente è che, a distanza oramai di oltre vent'anni dalla data fatidica citata nel titolo, per quanti progressi l’uomo abbia compiuto in ambito spaziale da quel lontano 1968, anno in cui fu realizzato questo celeberrimo film, è curioso che nulla o quasi si sia verificato nella realtà di quanto descritto nel corso della storia. Si parla ovviamente della parte tecnologica e scientifica, anche se Stanley Kubrick, a detta degli stessi esperti del settore aerospaziale, da perfezionista ai limiti del maniacale, descrive uno scenario assolutamente plausibile, anche nei dettagli.
L’anno seguente, nel 1969, ci fu lo storico sbarco sulla luna al termine di una lunga fase di grande fermento e competizione fra le due superpotenze di allora (USA e URSS) per tagliare per prime quel prestigioso traguardo. Ciò che il film descrive a livello di stazioni orbitanti e viaggi interplanetari che avrebbero dovuto popolare lo spazio nel 2001, è stato infatti nel frattempo enormemente ridimensionato, anche per via dei costi esorbitanti che quelle spedizioni comportano, divenute in pratica insostenibili. Si può pertanto affermare che il film del grande regista britannico disegna uno scenario ottimistico in rapporto a ciò che l’uomo si prefiggeva di raggiungere in quel campo entro fine secolo. È stato enorme comunque l’impatto che ha avuto quest’opera sul genere fantascientifico in particolare, grazie a numerose sequenze di straordinaria suggestione, non solo visiva. Ancora oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, esse affascinano e suscitano ammirazione oltreché determinare una sorta di riverenza per questo film in generale, come avviene di solito davanti ad un capolavoro scultoreo, pittorico o di qualsiasi altra forma artistica. Stiamo parlando pertanto di un gioiello della cinematografia mondiale che si staglia nettamente dalla media sia per eleganza formale, che per innovazione e profondità dei temi trattati: un film grandioso, complesso ed ambizioso allo stesso tempo.
A posteriori è impossibile ignorare l’incredibile coincidenza accaduta in quel fatidico 2001, quando l’odissea non si è verificata nello spazio, come prefiguravano gli autori del film e del racconto dal quale è tratto, scritto da Arthur C. Clarke (coautore della sceneggiatura), ma nel nostro pianeta, in un’area compresa fra New York e Washington, laddove Kubrick non poteva di certo supporre. Casualità ha voluto che proprio in quell’anno, con l’attentato alle Torri Gemelle ed al cuore economico e militare degli USA, si sia verificato uno degli eventi che hanno cambiato la storia recente dell’uomo. Con uno spericolato parallelismo, non necessariamente connesso agli eventi immaginari che racconta, si potrebbe addirittura azzardare che 2001: Odissea Nello Spazio contenga casualmente alcune analogie riguardo un imminente cambiamento epocale, nello specifico a seguito della scoperta sulla luna di un oscuro e misterioso monolito, raffigurazione semplice ma geometricamente perfetta di varie entità, sia astratte che concrete.
Come tutti i capolavori, anche 2001: Odissea Nello Spazio non si può ridurre ad un solo piano d’interpretazione. L’attore Rock Hudson ad esempio partecipando alla prima del film pare che ad un certo punto si sia alzato chiedendo: ‘C’è qualcuno in sala che sappia spiegarmi qualcosa?’. In effetti il film, fra strepitose sequenze dal punto di vista spettacolare, soprattutto nella prima e nella quarta parte, in particolare quest’ultima, include una serie di elementi enigmatici, dal punto di vista intellettuale, filosofico e spirituale, sino ad arrivare ad un ermetismo che per molti può apparire come fine a se stesso. Esistono al riguardo numerosi siti Internet dedicati che cercano di fornire le giuste risposte, non di rado in contrapposizione fra loro.
Già l’inizio è inquietante ed insolito: sullo schermo completamente buio si sentono in sottofondo alcune note musicali che incutono apprensione ad un volume progressivamente crescente, come se di lì a breve si dovesse aprire il sipario su uno scenario insolito ed inquietante. A seguire, dopo un paio di minuti che sembrano interminabili, le prime immagini che mostrano il perfetto allineamento della luna e della terra rispetto al sole, sulle note di Così Parlò Zarathustra di Richard Strauss, riproposte in seguito altre due volte, a sottolineare momenti di svolta nel corso della storia narrata.
2001: Odissea Nello Spazio è diviso sostanzialmente in quattro capitoli, nettamente distinti fra di loro, seppure legati da un filo logico che si chiarisce meglio durante lo svolgimento. Il primo s’intitola ‘L’Alba Dell’Uomo’ ed è a sua volta suddiviso in sei segmenti. Si tratta di una parte essenzialmente contemplativa, nella quale la colonna sonora è espressa dai rumori provenienti dai luoghi e dagli animali che li frequentano. Apparentemente questo primo capitolo è tematicamente molto differente dagli altri tre, sia per le scene rappresentate che per i toni utilizzati. Ci voleva il colpo di genio di un artista come Stanley Kubrick per realizzare, nel momento di passaggio fra la prima e la seconda parte del film la più strepitosa associazione e stacco d’inquadratura della storia del Cinema: un osso lanciato nel cielo da un ominide che si trasforma magicamente in un’astronave che sta navigando nello spazio. In tale mirabile sintesi si concretizza, nel giro di pochi secondi, il processo evolutivo della scienza e quindi della conoscenza intercorso in alcuni milioni di anni, esaltato dalle note imperiose, riproposte per la seconda volta, dell’oramai noto ‘Così Parlò Zarathustra’.
I sei passaggi relativi a ‘L’Alba Dell’Uomo’ evidenziati da bruschi cambiamenti di scena, raffigurano altrettanti momenti cruciali nello sviluppo evolutivo, sia dal punto di vista sociale che intellettivo, seppure l’uomo stesso sia ancora relegato allo stato scimmiesco. Primo, la vulnerabilità espressa dall’attacco della belva quando gli ominidi, pur vivendo in gruppo, non sono ancora capaci di difendersi sfruttando la forza del loro numero. Secondo, la difesa del territorio, soprattutto della polla d’acqua che è fondamentale per la loro sopravvivenza, dagli attacchi dei gruppi rivali. Terzo, la consapevolezza che l’aggregazione consente di creare forze solidali e più efficienti, capaci di difendere il singolo ma conseguentemente anche il gruppo. Quarto, l’ispirazione generata dal monolito, apparso improvvisamente davanti agli ominidi, che rappresenta una proiezione ed allegoria della maturazione conoscitiva. Quinto, lo sviluppo dell’ingegno e la presa di coscienza della loro forza, sfruttando l’ambiente circostante, espressa dalla scoperta delle ossa utilizzabili come utensili ed armi di difesa/offesa. Sesto, la capacità ed il coraggio di reagire agli attacchi, seguendo l’esempio del capobranco il quale, brandendo un osso, colpisce ripetutamente il più intraprendente fra i rivali, assumendo la leadership del branco. Questo primo capitolo dell’opera è introdotto da alcune sequenze che mostrano in realtà degli scatti fotografici eseguiti in alta definizione, riferiti a panorami e tramonti di struggente bellezza e fascino, ad esaltazione della natura e del contrasto insito in essa rispetto all’asprezza delle sequenze successive le quali sono improntate invece alla lotta per la sopravvivenza ed all’affermazione degli uni sugli altri, ominidi o belve che siano.
La seconda parte inizia con una perfetta simbiosi fra musica (‘Il Danubio Blu’ di Johann Strauss jr.) ed immagini di fantasia nello spazio, ma di eccezionale realismo scenico, che colpiscono ancora oggi a distanza di così tanti anni dall’uscita del film, relative ad un’astronave che si sta dirigendo verso una stazione orbitante muovendosi seguendo un ritmo perfettamente coordinato con le note musicali. Si tratta di un’altra sequenza che è diventata un simbolo di genialità applicata al cinema e quando l’azione si sposta all’interno Kubrick si lascia andare ad alcuni momenti ad effetto, sottolineando la diversità ambientale nella quale l’uomo si trova ad agire nello spazio e mostrando, ad esempio, una penna che ondeggia in assenza di gravità, le vaschette dalle quali gli astronauti assumono cibo con la cannuccia, la hostess che si muove con molta difficoltà ma rotea innaturalmente su se stessa nel passaggio da una capsula all’altra; una videochiamata telefonica fra spazio e terra ad ulteriore testimonianza del livello raggiunto dall’uomo dal punto di vista tecnologico; infine persino un accenno di ironia ed ilarità quando il comandante Floyd, appena giunto dalla terra, legge le note istruttive fuori dalla toilette relative all’utilizzo della stessa in assenza di gravità.
Partendo dal cordiale ma formale incontro di Floyd con una delegazione sovietica (la qual cosa suggerisce, fra l’altro, che sia stata superata nel frattempo la ‘guerra fredda’ fra i due blocchi) che si svolge in un punto di snodo della stazione orbitante i cui arredi anticipano lo stile avveniristico di Arancia Meccanica, il film rientra temporaneamente nei canoni tipici della fantascienza, raccontando la complessa gestione da parte delle autorità governative americane della sconcertante scoperta avvenuta per caso sulla luna di un monolito che risulta sepolto da oltre 4 milioni di anni e che emette un unico fortissimo segnale radio verso Giove. La sua origine, la semplicità e la perfezione della forma non possono avere che due spiegazioni, entrambe sbalorditive: è opera di Dio, oppure di una forma di vita nell’universo ben più evoluta dell’uomo. In ogni caso l’annuncio del ritrovamento deve essere gestito con cautela, per non provocare uno choc nella popolazione terrestre e per tale ragione è stato deciso di simulare un’epidemia nella stazione Clavius che possa tacitare i sospetti dell’URSS riguardo le strane manovre in atto e l’interdizione decisa unilateralmente dagli USA ad alcune zone dello spazio. Il mistero s’infittisce ulteriormente quando Floyd e gli altri componenti la stazione orbitante effettuano un sopralluogo dove è stato rinvenuto il monolito e proprio mentre stanno scattando le foto di rito l’allineamento fra il monolito stesso ed il sole provoca un rumore insopportabile per gli astronauti, nonostante la protezione del casco.
Nel nuovo cambio repentino di scena, si salta in avanti di diciotto mesi, per assistere ad un episodio intitolato ‘Missione a Giove’. In questa parte, che è interlocutoria rispetto a quella finale, ma non meno importante per gli argomenti che tratta, Kubrick concentra l’attenzione sul super computer Hal 9000 (HAL sono le lettere dell’alfabeto che precedono rispettivamente IBM, brand storico in ambito informatico), la cui capacità di memoria, definibile anche come intelligenza artificiale e di interazione con i membri dell’equipaggio sembra tale da giustificare il sospetto che egli possa provare anche delle vere e proprie emozioni. Naturalmente Hal è stato programmato in tal senso per meglio dialogare con gli uomini, come fosse uno di loro, seppure viene trattato in pratica come un servo, tacito esecutore pure del più piccolo ed insignificante ordine. Eppure Hal 9000 controlla tutti gli apparati vitali dell’astronave diretta su Giove, dove il governo ritiene possibile trovare le risposte relative al monolito ritrovato. La sua importanza è strategica quindi, considerando oltretutto che per la lunghezza del viaggio alcuni membri dell’equipaggio sono stati ibernati, così da averli utili e perfettamente conservati al momento opportuno ed anche le loro funzioni vitali sono totalmente controllate da Hal.
Un inaspettato errore di diagnosi riguardo il previsto guasto di un apparato esterno all’astronave costringe i due membri attivi dell’equipaggio, David (Keir Dullea) e Frank (Gary Lockwood), ad isolarsi per discutere il delicato ruolo di Hal, sino ad ipotizzarne la disattivazione nel caso dovesse rivelarsi non più affidabile al cento per cento. La reazione di Hal, il quale seguendo il movimento delle loro labbra ha compreso il suo destino, è quella di chi, dotato di emotività e discernimento, viene colpito nell’orgoglio e posto nella condizione di reagire per assicurarsi la sua stessa sopravvivenza. Egli ritiene sostanzialmente di poter ‘vivere’ autonomamente e di poter fare a meno dell’uomo che in effetti dipende totalmente da lui. Dopo aver causato la morte di Frank mentre si trova all’esterno dell’astronave e, ancora più facilmente, degli stessi membri ibernati, Hal tenta la stessa operazione con David, uscito dall’astronave con una navicella per recuperare il corpo del collega, disobbedendo poi ai suoi comandi per consentirgli di rientrare. David, dopo varie peripezie ed un’operazione molto rischiosa ma positivamente conclusa, riesce comunque a rientrare sfruttando i comandi manuali ed a procedere alla disattivazione di Hal, in un sequenza che è diventata storica, nella quale il super computer tenta in vari modi di convincere David a recedere dai suoi propositi, sino a regredire allo stadio infantile, mano a mano che gli slot di memoria vengono disabilitati (‘David ho paura… la mia mente se ne va, lo sento, lo sento, lo sento…’), per canticchiare infine una celebre filastrocca. Poco prima della completa rimozione della memoria di Hal parte però una registrazione d’emergenza in audio-video la quale rivela anche a David che diciotto mesi prima è stata trovata la prima testimonianza di vita intelligente sulla luna. Un’informazione sconosciuta all’equipaggio nel corso della missione in direzione Giove ma della quale invece Hal era al corrente. L’intera sequenza che vede protagonista David, all’esterno ed all’interno dell’astronave, è scandita soltanto dal rumore del suo respiro affannoso oppure da momenti di assoluto silenzio, se si escludono i brevi scambi di battute fra lui e Hal, con una sensazione di angosciante tensione degna del miglior thriller.
In effetti Kubrick evidenzia in questa parte la natura contraddittoria del rapporto uomo-computer e uomo-tecnologia, soprattutto in un ambiente come lo spazio a noi ostile dove ci muoviamo con difficoltà, cercando di replicare alla meno peggio le nostre abitudini e necessità terrene (le partite a scacchi con Hal, le corsette e gli esercizi per tenersi in forma, persino l’abbronzatura artificiale). Anche solo per respirare l’uomo ha bisogno di elementi di supporto come quando si trova sott'’acqua, mentre il computer invece richiede solo energia che egli stesso è in grado di procurarsi gestendo i pannelli solari dell’astronave, per il resto essendo in grado di auto gestirsi, senza l’ausilio dei membri dell’equipaggio. Da lì a ritenere che possa presuntuosamente sostituirsi all’uomo stesso che l’ha creato il passo è breve, ma la macchina non ha tenuto conto però dell’inventiva di quest’ultimo, capace di uscire dagli schemi preordinati, a differenza di un computer per quanto super evoluto, per trovare soluzioni di rimedio alternative, anche in condizioni di inferiorità ambientale.
Siamo arrivati quindi alla quarta ed ultima parte del film, intitolata ‘Giove e Oltre l’Infinito’. Si parte un’altra volta dal buio completo dello schermo che dura oltre due minuti e sulle note ossessive e quasi del tutto mono tono della musica di Ligeti da lui stesso definita ‘micropolifonica’, che trova la sua massima espressione in ‘Atmosphéres’, una composizione usata proprio in questa occasione da Kubrick e misconosciuta dal musicista che intentò persino una causa nei confronti del regista accusandolo di averla manipolata senza il suo assenso. Quando tornano le immagini vediamo il monolito che fluttua nello spazio in direzione del più grande pianeta del sistema solare. Va detto che questa è la parte che ha suscitato le maggiori discussioni e perplessità fra i critici, gli studiosi e gli stessi addetti ai lavori. Nell’allineamento dei pianeti con il monolito, David, che si sta dirigendo nella medesima direzione con la sua astronave verso un destino segnato, non potendo più contare sull’aiuto fondamentale di Hal, precipita non solo fisicamente dentro una sequenza onirica di grande e conturbante impatto visivo. Un’incubo, un viaggio nel tempo e nello spazio, dentro un’altra dimensione: ogni ipotesi a questo punto è possibile. Una sorta di corsa, simile a quella dello spermatozoo dentro l’uovo per fecondarlo che si svolge però negli spazi infiniti ed i misteri del cosmo e della vita, mentre appaiono e scompaiono nebulose, albe boreali, esplosioni cosmiche, dal più grande al più piccolo e viceversa. Una colata lavica di immagini, colori e suoni che dilatano le pupille allucinate di David, sottoposto ad una sorta di ipnosi, in un volo d’angelo fra crateri, canyon virati in negativo e colori cangianti di continuo in tonalità e brillantezza, ed eruzioni di magma che scorre veloce come provenisse dalle viscere della vita. Quando infine l’occhio di David, ripreso a tutto campo, torna alla normalità, egli si trova come calato in un sogno assurdo, con la sua stessa navicella all’interno di una stanza finemente arredata in uno stile d’epoca, ma di glaciale freddezza, in contraddizione rispetto alla tuta d’astronauta che indossa lo stesso David, di uno sgargiante e contrastante colore rosso. Egli è come se fosse appena atterrato in un pianeta sconosciuto e familiare allo stesso tempo, nel quale appare improvvisamente invecchiato e dove cammina con esitazione su un pavimento bianco luminoso all’interno di un appartamento lussuoso, ma che sembra disabitato. Egli vede se stesso riflesso allo specchio e si rende conto del tempo che è trascorso osservando le rughe del viso. Dietro David si scorge una stanza dentro la quale c’è un vecchio seduto di spalle che sta pranzando da solo. Il movimento delle posate è l’unico rumore udibile, oltre al respiro ansioso dell’astronauta che attira l’attenzione del vecchio il quale interrompe il suo frugale pasto per voltarsi e quindi alzarsi per verificarne la provenienza. Il vecchio e l’astronauta sono la stessa persona che si ritrova poco dopo in una camera da letto nella quale domina il colore bianco: lo stesso al quale siamo soliti associare l’aldilà. Il vecchio riprende il suo pranzo ma inavvertitamente sposta un bicchiere frantumandolo per terra. Mentre ne osserva stupito i resti, sente il respiro di un vecchio sdraiato sul letto che sembra in punto di morte. È ancora lui, ulteriormente invecchiato. David sta assistendo, come se qualcuno avesse premuto un ipotetico bottone dell’avanti veloce in un recorder, alla conclusione in rapida sequenza della sua vita. Di fronte a lui, ai piedi del letto, c’è il monolito che lui stesso indica con un dito nel più assoluto ed impressionante silenzio, come se ne avesse finalmente compreso il significato. Nel letto ora al posto del vecchio morente c’è un feto dentro un involucro simile ad una placenta. Sulle note di ‘Così Parlò Zarathustra’ per l’ultima volta, si conclude la storia dell’uomo nella struttura circolare immaginata da Stanley Kubrick, il quale, sulla visione affiancata del pianeta terra e del nascituro di natura cosmica si può azzardare che supponga la speranza di una evoluzione dell’uomo più in armonia con il resto dell’universo.
La lunga descrizione di quest’ultima parte di 2001: Odissea Nello Spazio è utile per evidenziare la difficoltà nel fissarne un significato preciso sul quale ancora oggi, dopo molti anni, s’intrecciano opinioni e disquisizioni. A tirarci fuori d’impiccio ci sono due frasi pronunciate in merito dallo stesso Kubrick: la prima ‘Se qualcuno ha capito qualcosa, ciò significa che io ho sbagliato tutto…’ che sembra quasi una risposta diretta al quesito posto da Rock Hudson all’inizio. La seconda è un po’ più circostanziata: ‘Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.’. Al di là della facile battuta riguardo il fatto che il celebre regista potesse essere sotto l’effetto di qualche allucinogeno quando ha pensato e girato questa lunga sequenza, si può affermare che rappresenta una sfida indirizzata ad ogni spettatore, il quale, secondo sensibilità e cultura, può appunto interpretarla e considerarla diversamente e liberamente. La stessa reazione insomma che può provare ogni singola persona posta di fronte, ad esempio, ad un dipinto dal grande valore espressivo ma che è, proprio per questo, anche soggettivamente interpretabile. Nel caso del film in oggetto ognuno può trovarvi di volta in volta un messaggio mistico, un viaggio affascinante dentro la cognizione di spazio e tempo, oppure semplicemente un caleidoscopio d’immagini, colori, effetti speciali fini a loro stessi. Molti si sono chiesti ad esempio il ruolo ed il significato del monolito al quale sono state attribuite diverse interpretazioni: un’allegoria di Dio stesso, una rappresentazione dell’illuminazione e della conoscenza, una sfida di natura scientifica nei riguardi dell’uomo che tenta d’interpretarla, risalendone alle origini. Di certo ad ogni sua apparizione si verifica un momento di svolta: per gli ominidi che imparano a difendersi ed usare le ossa come armi, per David che è guidato dal monolito stesso lungo il viaggio allucinante in direzione Giove e dentro i segreti della vita ed infine dal vecchio morente per comprendere quella che in fondo è una banalità: l’infinita ripetitività del ciclo della vita.
2001: Odissea Nello Spazio è di sicuro un’esperienza indimenticabile, sia che si tenti di comprenderne ogni sfumatura filosofica oppure che ci si accontenti di assistere ad uno spettacolo unico ed insuperato per la grandiosità delle immagini, l’eleganza, la qualità e la perfezione tecnica, fotografica e del montaggio. Stanley Kubrick si rivela proprio a partire da quest’opera un talento fra i maggiori della storia del cinema, ahimè prematuramente scomparso, maniacale al limite dell’ossessione. Egli ha realizzato pochissimi film nel corso della sua carriera, tutti però sono diventati degli eventi e dei punti di riferimento nel loro genere. In ognuno di essi il regista britannico ha impiegato mesi, chiuso nella sua villa di campagna a Hertfordshire in Inghilterra, per rivederne i contenuti e le scene da inserire o escludere, prima di rilasciare la versione finale da presentare nelle sale.
Probabilmente non esiste un altro film che abbini in maniera altrettanto elegante, armoniosa e complementare musica classica ed immagini, peraltro di contrastante impronta avveniristica. Alcuni dei brani utilizzati di Richard e Johann Strauss, Gyorgy Ligeti e Aram Kachaturian sono rimasti indelebilmente associati a questo film, anche in contesti diversi dal cinema, a testimonianza dell’influenza che hanno avuto le immagini e la musica di quest’opera. D’altronde quasi tutto in questo film è divenuto proverbiale ed un punto di riferimento per alcuni specifici argomenti. Dalle numerose sequenze, anche singoli fotogrammi che sono divenuti sfondi per poster o destinazioni di vario genere, ad alcuni momenti topici che appartengono oramai all’iconografia cinematografica, ma anche non soltanto legate strettamente al cinema. Gli stessi collaboratori di Kubrick, dal premio Oscar per gli effetti speciali Douglas Trumball, ai direttori della fotografia Geoffrey Unsworth e John Alcott, al montatore Ray Lovejoy sono rimasti inevitabilmente e con pieno merito segnati da quest’opera prestigiosa. Lo stesso Stanley Kubrick ne è regista, produttore, co-sceneggiatore ed ha partecipato alla realizzazione degli effetti speciali; per ironia della sorte, ma soprattutto per la scarsa considerazione (oltrechè per incompetenza e poca lungimiranza dei votanti), è stato premiato con l’Oscar nel 1969 proprio solo per questi ultimi ed appena ‘nominato’, bontà loro, per la regia e la sceneggiatura.
2001: Odissea Nello Spazio per la rilevanza estetica, culturale e storica è stato inserito nella lista dei film preservati nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Anche se è difficile che lo spettatore medio possa ritenere necessario farlo prima ed anche dopo la visione, è un’opera che per essere meglio affrontata, compresa e valutata necessita di una adeguata preparazione e documentazione. Un pò come quando si entra in un museo e ci si trova davanti ad un quadro famoso, ad esempio, di Van Gogh, Monet o Velasquez: è facile rimanere impressionati dal nome dell’autore ed apprezzare comunque superficialmente la tecnica e la bellezza della sua opera, ma è evidente la differenza di approccio, di comprensione e valutazione che può raggiungere invece chi ha acquisito in precedenza conoscenze più approfondite riguardo la genesi ed il significato di quel dipinto.
Siamo in definitiva di fronte, non sembri una battuta, ad una di quelle rare opere che bisognerebbe spedire nello spazio perché qualche altra forma di vita possa un giorno riceverla ed apprezzarla come mirabile esempio d’arte sviluppato dal genere umano.
Il 22 aprile 1967 Stanley Kubrick e Arthur Clarke cominciano a gettare le basi della sceneggiatura di 2001: odissea nello spazio.
Nel rivedere questo capolavoro assoluto del cinema la prima considerazione che viene in mente è che, a distanza oramai di oltre vent'anni dalla data fatidica citata nel titolo, per quanti progressi l’uomo abbia compiuto in ambito spaziale da quel lontano 1968, anno in cui fu realizzato questo celeberrimo film, è curioso che nulla o quasi si sia verificato nella realtà di quanto descritto nel corso della storia. Si parla ovviamente della parte tecnologica e scientifica, anche se Stanley Kubrick, a detta degli stessi esperti del settore aerospaziale, da perfezionista ai limiti del maniacale, descrive uno scenario assolutamente plausibile, anche nei dettagli.
L’anno seguente, nel 1969, ci fu lo storico sbarco sulla luna al termine di una lunga fase di grande fermento e competizione fra le due superpotenze di allora (USA e URSS) per tagliare per prime quel prestigioso traguardo. Ciò che il film descrive a livello di stazioni orbitanti e viaggi interplanetari che avrebbero dovuto popolare lo spazio nel 2001, è stato infatti nel frattempo enormemente ridimensionato, anche per via dei costi esorbitanti che quelle spedizioni comportano, divenute in pratica insostenibili. Si può pertanto affermare che il film del grande regista britannico disegna uno scenario ottimistico in rapporto a ciò che l’uomo si prefiggeva di raggiungere in quel campo entro fine secolo. È stato enorme comunque l’impatto che ha avuto quest’opera sul genere fantascientifico in particolare, grazie a numerose sequenze di straordinaria suggestione, non solo visiva. Ancora oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, esse affascinano e suscitano ammirazione oltreché determinare una sorta di riverenza per questo film in generale, come avviene di solito davanti ad un capolavoro scultoreo, pittorico o di qualsiasi altra forma artistica. Stiamo parlando pertanto di un gioiello della cinematografia mondiale che si staglia nettamente dalla media sia per eleganza formale, che per innovazione e profondità dei temi trattati: un film grandioso, complesso ed ambizioso allo stesso tempo.
A posteriori è impossibile ignorare l’incredibile coincidenza accaduta in quel fatidico 2001, quando l’odissea non si è verificata nello spazio, come prefiguravano gli autori del film e del racconto dal quale è tratto, scritto da Arthur C. Clarke (coautore della sceneggiatura), ma nel nostro pianeta, in un’area compresa fra New York e Washington, laddove Kubrick non poteva di certo supporre. Casualità ha voluto che proprio in quell’anno, con l’attentato alle Torri Gemelle ed al cuore economico e militare degli USA, si sia verificato uno degli eventi che hanno cambiato la storia recente dell’uomo. Con uno spericolato parallelismo, non necessariamente connesso agli eventi immaginari che racconta, si potrebbe addirittura azzardare che 2001: Odissea Nello Spazio contenga casualmente alcune analogie riguardo un imminente cambiamento epocale, nello specifico a seguito della scoperta sulla luna di un oscuro e misterioso monolito, raffigurazione semplice ma geometricamente perfetta di varie entità, sia astratte che concrete.
Come tutti i capolavori, anche 2001: Odissea Nello Spazio non si può ridurre ad un solo piano d’interpretazione. L’attore Rock Hudson ad esempio partecipando alla prima del film pare che ad un certo punto si sia alzato chiedendo: ‘C’è qualcuno in sala che sappia spiegarmi qualcosa?’. In effetti il film, fra strepitose sequenze dal punto di vista spettacolare, soprattutto nella prima e nella quarta parte, in particolare quest’ultima, include una serie di elementi enigmatici, dal punto di vista intellettuale, filosofico e spirituale, sino ad arrivare ad un ermetismo che per molti può apparire come fine a se stesso. Esistono al riguardo numerosi siti Internet dedicati che cercano di fornire le giuste risposte, non di rado in contrapposizione fra loro.
Già l’inizio è inquietante ed insolito: sullo schermo completamente buio si sentono in sottofondo alcune note musicali che incutono apprensione ad un volume progressivamente crescente, come se di lì a breve si dovesse aprire il sipario su uno scenario insolito ed inquietante. A seguire, dopo un paio di minuti che sembrano interminabili, le prime immagini che mostrano il perfetto allineamento della luna e della terra rispetto al sole, sulle note di Così Parlò Zarathustra di Richard Strauss, riproposte in seguito altre due volte, a sottolineare momenti di svolta nel corso della storia narrata.
2001: Odissea Nello Spazio è diviso sostanzialmente in quattro capitoli, nettamente distinti fra di loro, seppure legati da un filo logico che si chiarisce meglio durante lo svolgimento. Il primo s’intitola ‘L’Alba Dell’Uomo’ ed è a sua volta suddiviso in sei segmenti. Si tratta di una parte essenzialmente contemplativa, nella quale la colonna sonora è espressa dai rumori provenienti dai luoghi e dagli animali che li frequentano. Apparentemente questo primo capitolo è tematicamente molto differente dagli altri tre, sia per le scene rappresentate che per i toni utilizzati. Ci voleva il colpo di genio di un artista come Stanley Kubrick per realizzare, nel momento di passaggio fra la prima e la seconda parte del film la più strepitosa associazione e stacco d’inquadratura della storia del Cinema: un osso lanciato nel cielo da un ominide che si trasforma magicamente in un’astronave che sta navigando nello spazio. In tale mirabile sintesi si concretizza, nel giro di pochi secondi, il processo evolutivo della scienza e quindi della conoscenza intercorso in alcuni milioni di anni, esaltato dalle note imperiose, riproposte per la seconda volta, dell’oramai noto ‘Così Parlò Zarathustra’.
I sei passaggi relativi a ‘L’Alba Dell’Uomo’ evidenziati da bruschi cambiamenti di scena, raffigurano altrettanti momenti cruciali nello sviluppo evolutivo, sia dal punto di vista sociale che intellettivo, seppure l’uomo stesso sia ancora relegato allo stato scimmiesco. Primo, la vulnerabilità espressa dall’attacco della belva quando gli ominidi, pur vivendo in gruppo, non sono ancora capaci di difendersi sfruttando la forza del loro numero. Secondo, la difesa del territorio, soprattutto della polla d’acqua che è fondamentale per la loro sopravvivenza, dagli attacchi dei gruppi rivali. Terzo, la consapevolezza che l’aggregazione consente di creare forze solidali e più efficienti, capaci di difendere il singolo ma conseguentemente anche il gruppo. Quarto, l’ispirazione generata dal monolito, apparso improvvisamente davanti agli ominidi, che rappresenta una proiezione ed allegoria della maturazione conoscitiva. Quinto, lo sviluppo dell’ingegno e la presa di coscienza della loro forza, sfruttando l’ambiente circostante, espressa dalla scoperta delle ossa utilizzabili come utensili ed armi di difesa/offesa. Sesto, la capacità ed il coraggio di reagire agli attacchi, seguendo l’esempio del capobranco il quale, brandendo un osso, colpisce ripetutamente il più intraprendente fra i rivali, assumendo la leadership del branco. Questo primo capitolo dell’opera è introdotto da alcune sequenze che mostrano in realtà degli scatti fotografici eseguiti in alta definizione, riferiti a panorami e tramonti di struggente bellezza e fascino, ad esaltazione della natura e del contrasto insito in essa rispetto all’asprezza delle sequenze successive le quali sono improntate invece alla lotta per la sopravvivenza ed all’affermazione degli uni sugli altri, ominidi o belve che siano.
La seconda parte inizia con una perfetta simbiosi fra musica (‘Il Danubio Blu’ di Johann Strauss jr.) ed immagini di fantasia nello spazio, ma di eccezionale realismo scenico, che colpiscono ancora oggi a distanza di così tanti anni dall’uscita del film, relative ad un’astronave che si sta dirigendo verso una stazione orbitante muovendosi seguendo un ritmo perfettamente coordinato con le note musicali. Si tratta di un’altra sequenza che è diventata un simbolo di genialità applicata al cinema e quando l’azione si sposta all’interno Kubrick si lascia andare ad alcuni momenti ad effetto, sottolineando la diversità ambientale nella quale l’uomo si trova ad agire nello spazio e mostrando, ad esempio, una penna che ondeggia in assenza di gravità, le vaschette dalle quali gli astronauti assumono cibo con la cannuccia, la hostess che si muove con molta difficoltà ma rotea innaturalmente su se stessa nel passaggio da una capsula all’altra; una videochiamata telefonica fra spazio e terra ad ulteriore testimonianza del livello raggiunto dall’uomo dal punto di vista tecnologico; infine persino un accenno di ironia ed ilarità quando il comandante Floyd, appena giunto dalla terra, legge le note istruttive fuori dalla toilette relative all’utilizzo della stessa in assenza di gravità.
Partendo dal cordiale ma formale incontro di Floyd con una delegazione sovietica (la qual cosa suggerisce, fra l’altro, che sia stata superata nel frattempo la ‘guerra fredda’ fra i due blocchi) che si svolge in un punto di snodo della stazione orbitante i cui arredi anticipano lo stile avveniristico di Arancia Meccanica, il film rientra temporaneamente nei canoni tipici della fantascienza, raccontando la complessa gestione da parte delle autorità governative americane della sconcertante scoperta avvenuta per caso sulla luna di un monolito che risulta sepolto da oltre 4 milioni di anni e che emette un unico fortissimo segnale radio verso Giove. La sua origine, la semplicità e la perfezione della forma non possono avere che due spiegazioni, entrambe sbalorditive: è opera di Dio, oppure di una forma di vita nell’universo ben più evoluta dell’uomo. In ogni caso l’annuncio del ritrovamento deve essere gestito con cautela, per non provocare uno choc nella popolazione terrestre e per tale ragione è stato deciso di simulare un’epidemia nella stazione Clavius che possa tacitare i sospetti dell’URSS riguardo le strane manovre in atto e l’interdizione decisa unilateralmente dagli USA ad alcune zone dello spazio. Il mistero s’infittisce ulteriormente quando Floyd e gli altri componenti la stazione orbitante effettuano un sopralluogo dove è stato rinvenuto il monolito e proprio mentre stanno scattando le foto di rito l’allineamento fra il monolito stesso ed il sole provoca un rumore insopportabile per gli astronauti, nonostante la protezione del casco.
Nel nuovo cambio repentino di scena, si salta in avanti di diciotto mesi, per assistere ad un episodio intitolato ‘Missione a Giove’. In questa parte, che è interlocutoria rispetto a quella finale, ma non meno importante per gli argomenti che tratta, Kubrick concentra l’attenzione sul super computer Hal 9000 (HAL sono le lettere dell’alfabeto che precedono rispettivamente IBM, brand storico in ambito informatico), la cui capacità di memoria, definibile anche come intelligenza artificiale e di interazione con i membri dell’equipaggio sembra tale da giustificare il sospetto che egli possa provare anche delle vere e proprie emozioni. Naturalmente Hal è stato programmato in tal senso per meglio dialogare con gli uomini, come fosse uno di loro, seppure viene trattato in pratica come un servo, tacito esecutore pure del più piccolo ed insignificante ordine. Eppure Hal 9000 controlla tutti gli apparati vitali dell’astronave diretta su Giove, dove il governo ritiene possibile trovare le risposte relative al monolito ritrovato. La sua importanza è strategica quindi, considerando oltretutto che per la lunghezza del viaggio alcuni membri dell’equipaggio sono stati ibernati, così da averli utili e perfettamente conservati al momento opportuno ed anche le loro funzioni vitali sono totalmente controllate da Hal.
Un inaspettato errore di diagnosi riguardo il previsto guasto di un apparato esterno all’astronave costringe i due membri attivi dell’equipaggio, David (Keir Dullea) e Frank (Gary Lockwood), ad isolarsi per discutere il delicato ruolo di Hal, sino ad ipotizzarne la disattivazione nel caso dovesse rivelarsi non più affidabile al cento per cento. La reazione di Hal, il quale seguendo il movimento delle loro labbra ha compreso il suo destino, è quella di chi, dotato di emotività e discernimento, viene colpito nell’orgoglio e posto nella condizione di reagire per assicurarsi la sua stessa sopravvivenza. Egli ritiene sostanzialmente di poter ‘vivere’ autonomamente e di poter fare a meno dell’uomo che in effetti dipende totalmente da lui. Dopo aver causato la morte di Frank mentre si trova all’esterno dell’astronave e, ancora più facilmente, degli stessi membri ibernati, Hal tenta la stessa operazione con David, uscito dall’astronave con una navicella per recuperare il corpo del collega, disobbedendo poi ai suoi comandi per consentirgli di rientrare. David, dopo varie peripezie ed un’operazione molto rischiosa ma positivamente conclusa, riesce comunque a rientrare sfruttando i comandi manuali ed a procedere alla disattivazione di Hal, in un sequenza che è diventata storica, nella quale il super computer tenta in vari modi di convincere David a recedere dai suoi propositi, sino a regredire allo stadio infantile, mano a mano che gli slot di memoria vengono disabilitati (‘David ho paura… la mia mente se ne va, lo sento, lo sento, lo sento…’), per canticchiare infine una celebre filastrocca. Poco prima della completa rimozione della memoria di Hal parte però una registrazione d’emergenza in audio-video la quale rivela anche a David che diciotto mesi prima è stata trovata la prima testimonianza di vita intelligente sulla luna. Un’informazione sconosciuta all’equipaggio nel corso della missione in direzione Giove ma della quale invece Hal era al corrente. L’intera sequenza che vede protagonista David, all’esterno ed all’interno dell’astronave, è scandita soltanto dal rumore del suo respiro affannoso oppure da momenti di assoluto silenzio, se si escludono i brevi scambi di battute fra lui e Hal, con una sensazione di angosciante tensione degna del miglior thriller.
In effetti Kubrick evidenzia in questa parte la natura contraddittoria del rapporto uomo-computer e uomo-tecnologia, soprattutto in un ambiente come lo spazio a noi ostile dove ci muoviamo con difficoltà, cercando di replicare alla meno peggio le nostre abitudini e necessità terrene (le partite a scacchi con Hal, le corsette e gli esercizi per tenersi in forma, persino l’abbronzatura artificiale). Anche solo per respirare l’uomo ha bisogno di elementi di supporto come quando si trova sott'’acqua, mentre il computer invece richiede solo energia che egli stesso è in grado di procurarsi gestendo i pannelli solari dell’astronave, per il resto essendo in grado di auto gestirsi, senza l’ausilio dei membri dell’equipaggio. Da lì a ritenere che possa presuntuosamente sostituirsi all’uomo stesso che l’ha creato il passo è breve, ma la macchina non ha tenuto conto però dell’inventiva di quest’ultimo, capace di uscire dagli schemi preordinati, a differenza di un computer per quanto super evoluto, per trovare soluzioni di rimedio alternative, anche in condizioni di inferiorità ambientale.
Siamo arrivati quindi alla quarta ed ultima parte del film, intitolata ‘Giove e Oltre l’Infinito’. Si parte un’altra volta dal buio completo dello schermo che dura oltre due minuti e sulle note ossessive e quasi del tutto mono tono della musica di Ligeti da lui stesso definita ‘micropolifonica’, che trova la sua massima espressione in ‘Atmosphéres’, una composizione usata proprio in questa occasione da Kubrick e misconosciuta dal musicista che intentò persino una causa nei confronti del regista accusandolo di averla manipolata senza il suo assenso. Quando tornano le immagini vediamo il monolito che fluttua nello spazio in direzione del più grande pianeta del sistema solare. Va detto che questa è la parte che ha suscitato le maggiori discussioni e perplessità fra i critici, gli studiosi e gli stessi addetti ai lavori. Nell’allineamento dei pianeti con il monolito, David, che si sta dirigendo nella medesima direzione con la sua astronave verso un destino segnato, non potendo più contare sull’aiuto fondamentale di Hal, precipita non solo fisicamente dentro una sequenza onirica di grande e conturbante impatto visivo. Un’incubo, un viaggio nel tempo e nello spazio, dentro un’altra dimensione: ogni ipotesi a questo punto è possibile. Una sorta di corsa, simile a quella dello spermatozoo dentro l’uovo per fecondarlo che si svolge però negli spazi infiniti ed i misteri del cosmo e della vita, mentre appaiono e scompaiono nebulose, albe boreali, esplosioni cosmiche, dal più grande al più piccolo e viceversa. Una colata lavica di immagini, colori e suoni che dilatano le pupille allucinate di David, sottoposto ad una sorta di ipnosi, in un volo d’angelo fra crateri, canyon virati in negativo e colori cangianti di continuo in tonalità e brillantezza, ed eruzioni di magma che scorre veloce come provenisse dalle viscere della vita. Quando infine l’occhio di David, ripreso a tutto campo, torna alla normalità, egli si trova come calato in un sogno assurdo, con la sua stessa navicella all’interno di una stanza finemente arredata in uno stile d’epoca, ma di glaciale freddezza, in contraddizione rispetto alla tuta d’astronauta che indossa lo stesso David, di uno sgargiante e contrastante colore rosso. Egli è come se fosse appena atterrato in un pianeta sconosciuto e familiare allo stesso tempo, nel quale appare improvvisamente invecchiato e dove cammina con esitazione su un pavimento bianco luminoso all’interno di un appartamento lussuoso, ma che sembra disabitato. Egli vede se stesso riflesso allo specchio e si rende conto del tempo che è trascorso osservando le rughe del viso. Dietro David si scorge una stanza dentro la quale c’è un vecchio seduto di spalle che sta pranzando da solo. Il movimento delle posate è l’unico rumore udibile, oltre al respiro ansioso dell’astronauta che attira l’attenzione del vecchio il quale interrompe il suo frugale pasto per voltarsi e quindi alzarsi per verificarne la provenienza. Il vecchio e l’astronauta sono la stessa persona che si ritrova poco dopo in una camera da letto nella quale domina il colore bianco: lo stesso al quale siamo soliti associare l’aldilà. Il vecchio riprende il suo pranzo ma inavvertitamente sposta un bicchiere frantumandolo per terra. Mentre ne osserva stupito i resti, sente il respiro di un vecchio sdraiato sul letto che sembra in punto di morte. È ancora lui, ulteriormente invecchiato. David sta assistendo, come se qualcuno avesse premuto un ipotetico bottone dell’avanti veloce in un recorder, alla conclusione in rapida sequenza della sua vita. Di fronte a lui, ai piedi del letto, c’è il monolito che lui stesso indica con un dito nel più assoluto ed impressionante silenzio, come se ne avesse finalmente compreso il significato. Nel letto ora al posto del vecchio morente c’è un feto dentro un involucro simile ad una placenta. Sulle note di ‘Così Parlò Zarathustra’ per l’ultima volta, si conclude la storia dell’uomo nella struttura circolare immaginata da Stanley Kubrick, il quale, sulla visione affiancata del pianeta terra e del nascituro di natura cosmica si può azzardare che supponga la speranza di una evoluzione dell’uomo più in armonia con il resto dell’universo.
La lunga descrizione di quest’ultima parte di 2001: Odissea Nello Spazio è utile per evidenziare la difficoltà nel fissarne un significato preciso sul quale ancora oggi, dopo molti anni, s’intrecciano opinioni e disquisizioni. A tirarci fuori d’impiccio ci sono due frasi pronunciate in merito dallo stesso Kubrick: la prima ‘Se qualcuno ha capito qualcosa, ciò significa che io ho sbagliato tutto…’ che sembra quasi una risposta diretta al quesito posto da Rock Hudson all’inizio. La seconda è un po’ più circostanziata: ‘Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.’. Al di là della facile battuta riguardo il fatto che il celebre regista potesse essere sotto l’effetto di qualche allucinogeno quando ha pensato e girato questa lunga sequenza, si può affermare che rappresenta una sfida indirizzata ad ogni spettatore, il quale, secondo sensibilità e cultura, può appunto interpretarla e considerarla diversamente e liberamente. La stessa reazione insomma che può provare ogni singola persona posta di fronte, ad esempio, ad un dipinto dal grande valore espressivo ma che è, proprio per questo, anche soggettivamente interpretabile. Nel caso del film in oggetto ognuno può trovarvi di volta in volta un messaggio mistico, un viaggio affascinante dentro la cognizione di spazio e tempo, oppure semplicemente un caleidoscopio d’immagini, colori, effetti speciali fini a loro stessi. Molti si sono chiesti ad esempio il ruolo ed il significato del monolito al quale sono state attribuite diverse interpretazioni: un’allegoria di Dio stesso, una rappresentazione dell’illuminazione e della conoscenza, una sfida di natura scientifica nei riguardi dell’uomo che tenta d’interpretarla, risalendone alle origini. Di certo ad ogni sua apparizione si verifica un momento di svolta: per gli ominidi che imparano a difendersi ed usare le ossa come armi, per David che è guidato dal monolito stesso lungo il viaggio allucinante in direzione Giove e dentro i segreti della vita ed infine dal vecchio morente per comprendere quella che in fondo è una banalità: l’infinita ripetitività del ciclo della vita.
2001: Odissea Nello Spazio è di sicuro un’esperienza indimenticabile, sia che si tenti di comprenderne ogni sfumatura filosofica oppure che ci si accontenti di assistere ad uno spettacolo unico ed insuperato per la grandiosità delle immagini, l’eleganza, la qualità e la perfezione tecnica, fotografica e del montaggio. Stanley Kubrick si rivela proprio a partire da quest’opera un talento fra i maggiori della storia del cinema, ahimè prematuramente scomparso, maniacale al limite dell’ossessione. Egli ha realizzato pochissimi film nel corso della sua carriera, tutti però sono diventati degli eventi e dei punti di riferimento nel loro genere. In ognuno di essi il regista britannico ha impiegato mesi, chiuso nella sua villa di campagna a Hertfordshire in Inghilterra, per rivederne i contenuti e le scene da inserire o escludere, prima di rilasciare la versione finale da presentare nelle sale.
Probabilmente non esiste un altro film che abbini in maniera altrettanto elegante, armoniosa e complementare musica classica ed immagini, peraltro di contrastante impronta avveniristica. Alcuni dei brani utilizzati di Richard e Johann Strauss, Gyorgy Ligeti e Aram Kachaturian sono rimasti indelebilmente associati a questo film, anche in contesti diversi dal cinema, a testimonianza dell’influenza che hanno avuto le immagini e la musica di quest’opera. D’altronde quasi tutto in questo film è divenuto proverbiale ed un punto di riferimento per alcuni specifici argomenti. Dalle numerose sequenze, anche singoli fotogrammi che sono divenuti sfondi per poster o destinazioni di vario genere, ad alcuni momenti topici che appartengono oramai all’iconografia cinematografica, ma anche non soltanto legate strettamente al cinema. Gli stessi collaboratori di Kubrick, dal premio Oscar per gli effetti speciali Douglas Trumball, ai direttori della fotografia Geoffrey Unsworth e John Alcott, al montatore Ray Lovejoy sono rimasti inevitabilmente e con pieno merito segnati da quest’opera prestigiosa. Lo stesso Stanley Kubrick ne è regista, produttore, co-sceneggiatore ed ha partecipato alla realizzazione degli effetti speciali; per ironia della sorte, ma soprattutto per la scarsa considerazione (oltrechè per incompetenza e poca lungimiranza dei votanti), è stato premiato con l’Oscar nel 1969 proprio solo per questi ultimi ed appena ‘nominato’, bontà loro, per la regia e la sceneggiatura.
2001: Odissea Nello Spazio per la rilevanza estetica, culturale e storica è stato inserito nella lista dei film preservati nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Anche se è difficile che lo spettatore medio possa ritenere necessario farlo prima ed anche dopo la visione, è un’opera che per essere meglio affrontata, compresa e valutata necessita di una adeguata preparazione e documentazione. Un pò come quando si entra in un museo e ci si trova davanti ad un quadro famoso, ad esempio, di Van Gogh, Monet o Velasquez: è facile rimanere impressionati dal nome dell’autore ed apprezzare comunque superficialmente la tecnica e la bellezza della sua opera, ma è evidente la differenza di approccio, di comprensione e valutazione che può raggiungere invece chi ha acquisito in precedenza conoscenze più approfondite riguardo la genesi ed il significato di quel dipinto.
Siamo in definitiva di fronte, non sembri una battuta, ad una di quelle rare opere che bisognerebbe spedire nello spazio perché qualche altra forma di vita possa un giorno riceverla ed apprezzarla come mirabile esempio d’arte sviluppato dal genere umano.
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