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venerdì 17 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 gennaio.

Alle 2 di notte del 17 gennaio 1985, a causa della forte nevicata del giorno prima, crolla il tetto del Palasport di Milano.

Il teatro dello sport milanese sorgeva nei pressi dello stadio Giuseppe Meazza ed era stato inaugurato nel 1976. Era diventato la casa dell’attuale Olimpia Milano allora chiamata Simac.  Anche l’atletica ed alcuni concerti bagnarono la versatilità di questa immensa struttura. Il "Palasport di San Siro" poteva ospitare ben 18000 persone, si trattava di una delle strutture sportive più grandi al mondo. 

Purtroppo la pesante nevicata del 1985 fece cedere il tetto del tempio milanese dello sport. Dan Peterson, storico condottiero sulla panchina dell’Olimpia Milano, ribattezzò il giorno del crollo come “Black Thursday”. "Il Palazzone" è stato in seguito demolito e, nonostante le tante promesse, Milano rimane ancora oggi priva di una maxi struttura di quella portata. Le conseguenze principali sono state pagate dalla squadra milanese di pallacanestro che ha dovuto emigrare al Forum di Assago per avere un impianto da almeno diecimila posti.

Il Palazzone era però tutta un' altra cosa. La sua posizione strategica consentiva di raccogliere sempre quattro/cinquemila tifosi da San Siro creando una cornice di pubblico incredibile: quando giocavi contro Milano dovevi combattere anche contro questa imponente bolgia umana. L' entusiasmo ed il calore generati da questa immenso stadio sono ormai soltanto un vecchio ricordo archiviato da tempo.  

giovedì 16 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 gennaio.

Il 16 gennaio 1994 il Presidente Oscar Luigi Scalfaro scioglie le Camere, ponendo fine così alla cosiddetta Prima Repubblica.

La penosa agonia vissuta dal complesso partitico italiano a cavallo fra gli anni ‘80 e ‘90 sembrò consumarsi all'insaputa dei suoi stessi protagonisti, incapaci di cogliere nell'indebolimento della coalizione governativa e nel vistoso calo fatto registrare dal PCI qualcosa di diverso da una semplice replica degli accadimenti verificatisi un ventennio prima. Eppure un inquietante campanello di allarme era arrivato già al termine di quello che era stato ribattezzato con prematura baldanza “il secondo miracolo economico, quando gli effetti destabilizzanti della crisi del debito pubblico uniti agli oneri assunti con la CEE per il passaggio alla moneta unica agitarono tra i cittadini l’antico spettro della recessione. Non è certo un caso che l'ipotesi di istituire un apposito governo tecnico, destinato nelle intenzioni dei suoi propugnatori a risolvere quei problemi accumulatisi nel corso delle decadi, abbia assunto a partire da questa delicatissima fase storica una crescente appetibilità. Altrettanto rilevante nel decidere le sorti della cosiddetta Prima Repubblica fu il repentino mutamento dello scenario internazionale in seguito al collasso dell'Unione Sovietica e all'esaurimento del confronto ideologico tra le due superpotenze, determinante nel rendere inattuali la conventio ad excludendum e il ruolo della D.C. come bastione inespugnabile dell’anticomunismo. Il declino di quest'ultima nelle vesti di garante del sistema politico fu per di più accelerato dalla progressiva perdita del sostegno della Santa Sede, imputabile all'ormai cronica emorragia degli iscritti dalle sue liste e ai frequenti episodi di collusione mafiosa che in quel periodo stavano giungendo all'attenzione del grande pubblico.

Il primo aspetto degno di menzione quando si parla della X legislatura fu il ritorno dei democristiani al timone dell'esecutivo, prospettiva obbligata a fronte di un PSI risalito ai livelli del 1958, ma impossibilitato nel compiere quel salto di qualità necessario a trasformarlo in una forza partitica di grandi dimensioni. Fra le conseguenze più immediate connesse all’approdo di De Mita a Palazzo Chigi occorre ricordare l’accantonamento di tutti i progetti di riforma istituzionale discussi nel lustro precedente, risultato di un'intesa più equilibrata con i socialisti in materia di lottizzazione delle cariche conosciuta, dalle iniziali dei suoi promotori (Craxi, Andreotti e Forlani), con l'acronimo di CAF. Nondimeno le logiche interne al partito, da sempre ostile alla concentrazione di ampi poteri nelle mani di un solo uomo, avrebbero giocato un ruolo chiave nel costringere il neo-Premier ad abbandonare la direzione del Paese e della stessa D.C. a vantaggio, rispettivamente, di Andreotti e Forlani.

Ancora più precarie apparivano le condizioni del PCI, vittima di uno stato di profondo smarrimento dopo la conclusione della parentesi della solidarietà nazionale e il processo di revisione dell’ortodossia sovietica inaugurato con l'ascesa di Michail Gorbačëv. A scuoterlo da questo insostenibile torpore contribuirono gli eventi che, a partire dall’estate del 1989, incrinarono irrimediabilmente la tenuta del blocco comunista rendendo di fatto obsoleto l'intero apparato dottrinario sul quale aveva costruito la propria identità. Di questo fu consapevole il giovane segretario Achille Occhetto, succeduto l’anno prima ad Alessandro Natta e persuaso della necessità di rifondare l’associazione alla luce del nuovo assetto internazionale che si stava profilando all'orizzonte: nella giornata del 12 Novembre 1989 si era infatti proceduto all’ufficializzazione di un nuovo corso politico, la cosiddetta Svolta della Bolognina, indirizzato al superamento del PCI e alla nascita di un nuovo partito della sinistra italiana che potesse competere per il controllo dell’esecutivo. La vera sfida fu tuttavia quella costituita dal raggiungimento di un’intesa fra le diverse fazioni interne, risvegliatesi dopo decenni di rigido centralismo democratico e divise su innumerevoli questioni quali il nome da attribuire all’organizzazione (ribattezzata in modo non troppo scherzoso La cosa). Piuttosto lunga sarebbe stata la querelle tra gli esponenti dell'ex ala destra, i miglioristi, favorevoli ad una conversione alla socialdemocrazia senza per questo recidere ogni legame con le altre forze dell'Internazionale, e quegli intransigenti di sinistra che auspicavano un rilancio ideologico per raccogliere la pesante eredità accumulata sin dal 1921. L'impossibilità nell’armonizzare queste anime tra loro così diverse avrebbe avuto delle ricadute disastrose sul neonato Partito Democratico della Sinistra (PDS), la cui parabola politica fu quasi immediatamente segnata dalla scissione del gruppo egemonizzato da Sergio Garavini conosciuto come Partito della Rifondazione Comunista (12 Dicembre 1991).

Conscia dell’impossibilità di sbloccare dall’interno il cronico stallo istituzionale, una nutrita cerchia di uomini di cultura coagulatasi attorno alla figura del democristiano Mariotto Segni (figlio dell’ex Presidente della Repubblica Antonio Segni, in carica fra il 1962 e il 1964) individuò nello strumento referendario l'arma vincente per aggirare i veti imposti dalle varie forze politiche. Il successo del suo Manifesto dei 31 e delle proposte da esso avanzate fra il 1991 e il 1993 quali la riduzione del numero di preferenze esprimibili alla Camera e l’abrogazione di alcune parti della legge in vigore al Senato, rappresentarono l’inequivocabile spia dello scollamento in atto tra la società civile e quei vecchi partiti incapaci di dare soddisfazione alle reiterate istanze riformiste. I primi anni ‘90 si sarebbero inoltre caratterizzati per lo scontro frontale tra la magistratura e l'establishment sul tema della corruzione, dove le indagini condotte nel corso del decennio precedente avevano svelato una fitta trama di relazioni tra il mondo dell'imprenditoria, della politica e della malavita. Tale confronto si sarebbe colorato di tinte ancora più fosche in seguito all'intervento del Capo di Stato Francesco Cossiga, investitosi del compito di guidare la transizione del Paese verso nuovi assetti sistemici senza curarsi delle recriminazioni provenienti da Destra e da Sinistra.

La prova tangibile del declino vissuto dalla Democrazia Cristiana arrivò dai frequenti episodi di defezione ad opera di personalità di primo piano quali Leoluca Orlando, il popolare sindaco di Palermo ostracizzato per via delle denunce sulle infiltrazioni mafiose e sulla corruzione dilaganti in Sicilia, nonché il già citato Segni, il cui Movimento per la Riforma Elettorale aveva riscosso le simpatie di importanti associazioni laicali come l'Azione Cattolica. Non meno precaria risultava essere la posizione del Partito Socialista che, nonostante la lenta progressione fatta registrare nelle elezioni europee del 1989 e nelle amministrative dell'anno successivo, scontava il danno d'immagine derivante dalle accuse di appropriazione indebita di risorse finanziarie. È alla luce degli eventi poc’anzi descritti che bisogna interpretare la decisione di chiudere anticipatamente la legislatura, invero goffo escamotage per sottrarsi ad una tempesta oramai inevitabile di fronte all’uscita dei Repubblicani dalla maggioranza pentapartitica, all’approssimarsi della tornata elettorale del 1992 e, soprattutto, alla conflagrazione del caso Tangentopoli.

Termine coniato negli ambienti del giornalismo italiano per descrivere un sistema di corruzione politica così diffuso da rappresentare, nella memoria collettiva di coloro che vi assistettero, l’essenza più intima della Prima Repubblica, l’affare Tangentopoli esplose nella giornata del 17 Febbraio 1992 quando il Pubblico Ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne un ordine di cattura per Mario Chiesa, presidente della casa di riposo Pio Albergo Trivulzio ed esponente di primo piano del PSI milanese. Grazie alle rivelazioni di Luca Magni, imprenditore la cui azienda aveva “vinto” una gara di appalto per un ammontare complessivo di centoquaranta milioni, Chiesa era stato infatti sorpreso nel momento di ricevere una tangente dell’ordine di sette milioni di Lire. Nonostante i tentativi di Craxi di minimizzare l’accaduto definendo il collega “un mariuolo isolato”, le indagini condotte nell’ambito di Mani pulite provarono l’esistenza di un vero e proprio circuito delinquenziale dove il versamento delle famigerate bustarelle era divenuto la conditio sine qua non per influenzare le delibere della pubblica amministrazione. Ormai stanchi dei continui scandali e delle promesse non mantenute per decenni, i cittadini trovarono nel voto di protesta l’espediente ideale per esprimere la loro frustrazione: ciò sarebbe risultato evidente durante le elezioni del 5-6 Aprile, segnate dal trionfo indiscusso dei movimenti più giovani come i Verdi e la Lega Nord. Quest’ultima in particolare, nata nel 1989 dalla fusione della Liga Veneta con la Lega Lombarda, aveva saputo sfruttare a proprio vantaggio le grane giudiziarie della D.C. grazie alla conduzione carismatica del suo leader Umberto Bossi (è di questo periodo l’iconico slogan Roma ladrona!). Fra le altre vittime illustri finite sotto la lente d’ingrandimento dei PM occorre menzionare non soltanto il PSI e il suo onnipotente segretario, il quale si era visto sfumare davanti agli occhi una probabile riconferma a Palazzo Chigi, ma anche quel Partito Socialdemocratico squassato dagli scandali finanziari e indebolito dalla copiosa emorragia verso l'area socialista. La frenetica evoluzione dello scenario politico nazionale e internazionale non avrebbe risparmiato nemmeno il MSI, impegnato in un'opera di estesa ristrutturazione ideologica sotto la vigile sorveglianza del nuovo segretario Giancarlo Fini.

Il tracollo dell’ormai decrepito edificio partitico fu sicuramente accelerato dall'offensiva scatenata dalla mafia contro diverse personalità appartenenti al mondo della politica e della giustizia. Le radici del sodalizio con la Repubblica italiana si perdono in quel fenomeno di speculazione edilizia cominciato a Palermo nei tardi anni’50 quando Salvo Lima e Vito Ciancimino, assessori ai lavori pubblici e membri della D.C., concessero migliaia di licenze ad esponenti legati al mondo della malavita organizzata. Nel ventennio successivo invece le attività criminose di Cosa Nostra si sarebbero orientate in direzione del traffico di stupefacenti e del riciclaggio di denaro grazie al sostegno di istituti di credito come lo IOR e il Banco Ambrosiano, attività che a cavallo del 1981 e del 1983 avrebbero permesso al clan dei Corleonesi di assumere una posizione di egemonia rispetto alle altre cosche rivali. Cruciale nel consentire l’attuazione di una simile strategia fu l’assassinio, grazie alla sostanziale impunità garantita dai propri referenti, di quelle figure passibili di interferire con gli interessi delle Famiglie (il pensiero non può che andare ai vari Peppino Impastato, Carlo Alberto dalla Chiesa, Carmine Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, Pio la Torre e molti altri ancora).

Nondimeno sul finire degli anni ’80 l’accordo in vigore fra le parti sembrò essere entrato in una spirale negativa: la condanna di numerosi delinquenti al termine di quello che venne definito Maxiprocesso (1986-1992), l’esplosione del fenomeno del pentitismo e la maggior consapevolezza dimostrata dall’opinione pubblica nazionale avevano inferto un colpo durissimo alla Cupola guidata da Salvatore Riina, la quale nei mesi conclusivi del 1991 maturò la decisione di consegnare al Governo e alla società civile un messaggio inequivocabile. Il 12 Marzo 1992 il luogotenente di Andreotti sull’isola, Salvo Lima, venne ucciso a colpi d’arma da fuoco, mentre il 23 Maggio seguente le auto su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta saltarono in aria assieme ad un tratto della A29. Ad essi avrebbero fatto seguito, il 19 Luglio di quello stesso anno nei pressi di Via d’Amelio, il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti di polizia incaricati di proteggerlo. La parabola dello stragismo mafioso proseguì con rinnovata intensità l’anno successivo quando un’autobomba avente per obiettivo il popolare conduttore televisivo Maurizio Costanzo deflagrò in Via Fauro senza uccidere nessuno, mentre nelle stragi di Via dei Georgofili e di Via Palestro fu il patrimonio culturale italiano a finire nel mirino degli attentatori. Il 27 Luglio due Fiat Uno imbottite di tritolo vennero fatte esplodere davanti alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, trascinando nell’equazione anche la Santa Sede. L’atto finale di questa stagione luttuosa si consumò nella giornata del 31 Ottobre con la scoperta, nei pressi dello Stadio Olimpico di Roma, di un ordigno esplosivo il cui malfunzionamento scongiurò il ripetersi dell’ennesimo bagno di sangue. Poi, dopo un biennio costellato di decine di morti, rappresaglie contro bersagli strategici e liquidazioni di civili inermi, la quiete.

Come si spiega una simile inversione di rotta? Cosa può aver spinto la mafia ad arrestare di punto in bianco la propria offensiva ai danni dell’ordine costituito, ad abbandonare la linea dello scontro frontale per ritirarsi dietro una familiare cortina di silenzi assordanti? La risposta, per quanto incredibile possa sembrare, risiederebbe nel raggiungimento dei target prefissati alla vigilia dell’attacco. Stando infatti alle dichiarazioni rilasciate nel 2009 da Massimo Ciancimino, figlio del sopracitato Vito e testimone chiave nell’ambito della trattiva Stato-mafia, esponenti del mondo delle istituzioni e della malavita avrebbero aperto già nel corso dall’estate del 1992 dei canali di comunicazione informali per il raggiungimento di un'intesa duratura, un accordo (papello) di coesistenza più o meno pacifica basato su reciproche concessioni. Ed ecco che dai meandri della storia repubblicana emergerebbe, ancora una volta, un quadro a dir poco inquietante dove una potente organizzazione criminale sarebbe riuscita ad imporre le proprie condizioni innalzandosi ai livelli di un’entità politica sovrana: un obiettivo nel quale avevano fallito persino le Brigate Rosse ai tempi del caso Moro.

L'eco della strage di Capaci fu così vasto da spingere le diverse forze politiche ad avallare la nomina di Oscar Luigi Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, investendolo del gravoso compito di selezionare il nuovo Presidente del Consiglio tra i papabili indicati da Craxi. La scelta sarebbe ricaduta su Giuliano Amato, leader di un esecutivo indebolito da faide interne e pesantemente criticato per il varo di misure impopolari come il prelievo forzoso del sei per mille dai conti correnti delle banche italiane e la manovra finanziaria da 100.000 miliardi di lire. L'abrogazione del meccanismo delle preferenze multiple alla Camera e di alcune parti della legge per il Senato aveva nel frattempo spianato la strada ad una riforma elettorale in senso maggioritario, propedeutica all'attivazione di quel circuito virtuoso per l’alternanza inutilmente perseguito nel decennio precedente: conosciuta con l’appellativo di Mattarellum dal nome del suo relatore Sergio Mattarella, le disposizioni n. 276 e 277 promulgate il 4 Agosto 1993 introdussero un modello misto per cui i 2/3 dei seggi sarebbero stati assegnati in base ad un sistema uninominale secco, i rimanenti tramite un proporzionale a liste bloccate.

Con le dimissioni di Amato nel mese di Aprile le redini del Paese passarono invece nelle mani dell’ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi, la cui investitura rappresentò una svolta epocale nella storia repubblicana in quanto aliena a tutti i principi che avevano regolato sino ad allora la formazione dei ministeri. La decisione di istituire un apposito governo tecnico può essere compresa solo tenendo conto della delegittimazione morale gravante sul cosiddetto Parlamento degli inquisiti, decimato dalle inchieste condotte dai pubblici ministeri nell'ambito di Mani Pulite, nonché del maggior coinvolgimento del Capo di Stato nella definizione delle intese. Fu in questo breve lasso di tempo che si consumò in via definitiva la parabola discendente delle Democrazia Cristiana, affossata dagli avvisi di garanzia diretti contro i suoi maggiori esponenti come Antonio Gava, Cirino Pomicino e Giulio Andreotti (processato fra il 1993 e il 2004 per collusione mafiosa ma prosciolto dalle accuse per decorrenza dei termini) oltre che dalla sonora sconfitta patita nelle elezioni amministrative di Giugno. La sommatoria di tali elementi aveva infatti palesato la necessità di rifondare il partito il quale, seppur ridimensionato dalla scissione di quel Centro Cristiano Democratico guidato da Pier Ferdinando Casini e da Clemente Mastella, sarebbe sopravvissuto al naufragio della Prima Repubblica riassumendo l’antica denominazione di Partito Popolare Italiano (PPI). Destino non condiviso dal vecchio PSI, condannato dalla strategia miope adottata dall’ex-segretario e dal clamore delle indagini aperte dalla magistratura ad una morte lenta e ingloriosa. Il colpo di grazia per qualunque velleità di rilancio sarebbe arrivato nel Maggio del ’94 quando Craxi, di fronte all’emergere di prove schiaccianti nei procedimenti istruiti a suo carico e all’ineluttabile perdita dell’immunità parlamentare, fuggì precipitosamente nella città tunisina di Hammamet per sottrarsi alla cattura. Un segnale inequivocabile circa l'esaurimento dell'esperienza partitocratica sarebbe infine arrivato dal Movimento Sociale Italiano, concorde durante il Congresso di Fiuggi del Gennaio di quello stesso anno nell’abbandonare gran parte dei propri riferimenti ideologici al fascismo trasformandosi in Alleanza Nazionale.

Il vuoto lasciato dalla conclusione anticipata dell'XI legislatura e dalla scomparsa di quegli attori che avevano animato il primo cinquantennio della storia repubblicana alimentò l'illusione di una drastica rottura con il recente passato, invero confutata dalla mancata alterazione degli assetti istituzionali nonostante l'incognita della nuova legge elettorale. Con grande sorpresa la tornata del Marzo del 1994 si concluse con la netta vittoria del partito Forza Italia e del suo leader, l'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, il cui primo coinvolgimento nell'agone politico risaliva alle elezioni amministrative del 1993 con l'appoggio offerto al candidato missino Gianfranco Fini: determinante per il loro successo fu un insieme di fattori costituito dalla scelta di presentare due coalizioni fra loro collegate (il Polo delle Libertà e quello del Buon Governo), dalla sottovalutazione dell'avversario ad opera del PDS e, soprattutto, dall'impiego spregiudicato dei mass media come le emittenti televisive private. 

Quello della Prima Repubblica è stato il classico esempio di un edificio costruito su fondamenta troppo fragili per reggere il peso degli anni e degli agenti esterni, una costruzione instabile attraversata da crepe così profonde da richiedere una ristrutturazione estensiva e non una semplice passata di stucco in attesa dell’inevitabile crollo. È in queste anomalie croniche, nelle incoerenze riscontrabili tra la base e il vertice, tra le parole e le azioni, nell’eterna dicotomia fra ragion di Stato e moralità, che possiamo scorgere un interminabile filo conduttore a collegamento delle due Repubbliche. Sempre ammesso che, dopo il 1994, l’arena di gioco sia effettivamente cambiata.

mercoledì 15 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 gennaio.

Il 15 gennaio 1943 viene completata l'edificazione del Pentagono.

Presso la spettacolare struttura del Pentagono si trova la sede del quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America; l’edificio sorge nella contea di Arlington, sulla riva opposta del fiume Potomac, appena fuori dalla Capitale statunitense.

I lavori per la realizzazione del Pentagono iniziarono l’11 settembre 1941, sotto la direzione dell’architetto statunitense George Bergstrom. La scelta della posizione fu imposta dalle esigenze organizzative e militari che richiedevano un’area non troppo lontana ai luoghi dirigenziali del governo e alla Casa Bianca ma, che allo stesso tempo, per ovvie ragioni di sicurezza, non fosse pericolosamente vicina ad essi.

Le opere furono portate al termine con molta velocità, anche perché, arrivati ormai inevitabilmente vicini allo scoppio della seconda guerra mondiale, era necessario avere un efficiente quartier generale delle forze armate statunitensi.

L’edificio fu concepito per essere un luogo sicuro ed inespugnabile, che potesse assicurare un rifugio sicuro per il presidente e per tutte le figure fondamentali dello stato, in caso di attacco o invasione da parte di forze armate ostili.

Il Pentagono fu inaugurato il 15 gennaio del 1943 e da allora la sua importanza nel panorama politico statunitense è in continua ascesa.

L’11 settembre del 2001, l’edificio fu colpito da un attacco terroristico che costò la vita a 125 persone che in quel momento si trovavano all’interno della struttura.

Fortunatamente, il volo di linea n. 77 della American Airlines si schiantò contro il lato ovest del Pentagono, un’area che in quel periodo era interessata da lavori di ristrutturazione che miravano ad aumentare la sicurezza del palazzo e questo ridusse notevolmente il numero delle vittime. Subito dopo l’attacco terroristico furono avviate le opere di sistemazione della struttura che furono portate a termine in meno di un anno.

La struttura del Pentagono fu pensata per essere un grande fortino che richiamava le idee di architettura bellica francese di fine Ottocento. Si tratta di un edificio in cemento armato unico composto da cinque pentagoni concentrici separati da pozzi di luce e collegati tra loro da corridoi.

La sua caratteristica forma a cinque lati è davvero imponente e occupa una superficie di 600.000 metri quadrati sviluppati in 5 piani. Attorno a questa colossale struttura, il più grande complesso di uffici del mondo, ogni giorno gravitano circa 40.000 persone, fra militari, addetti alla sicurezza e personale diplomatico.

Il Pentagono vanta più di 17 chilometri di corridoi ma, grazie al modo in cui è stata concepita la struttura, per passare da un punto dell’edificio al suo opposto bastano circa 7 minuti.

I numeri che raccontano questa imponente architettura sono davvero impressionanti: 19 scale mobili e 131 scale; 284 bagni ed è stato stimato che con i fili elettrici che si trovano al suo interno sarebbe possibile fare il giro del mondo quattro volte e mezza!

Per visitare le aree aperte al pubblico, che ogni anno vedono interessati oltre 105000 visitatori, è necessario effettuare una prenotazione attraverso il sito del Pentagono, con almeno 14 giorni di anticipo ma, data la richiesta, vi consigliamo di prenotare con largo anticipo per evitare di non trovare posto.

Il programma del Pentagono Tours vi porterà alla scoperta delle missioni intraprese dalle cinque forze armate degli Stati Uniti. La visita dura circa un’ora e lungo il percorso è possibile vedere foto storiche che raccontano momenti significativi della storia militare americana. Il tour guidato comprende la visita alla 9/11 Memorial Chapel.

martedì 14 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

 

Buongiorno, oggi è il 14 gennaio.

Il 14 gennaio 1900 viene rappresentata per la prima volta a Roma la "Tosca" di Puccini.

Nato a Parigi nel 1831, il giovane insegnante di francese Victorien Sardou si pone in evidenza come apprezzato autore di testi teatrali. La sua copiosa produzione gli conferisce un discreto successo, ma egli è consapevole che si tratta di notorietà effimera che non gli riserverà gloria imperitura nella storia del teatro e, in particolare, della drammaturgia. E così, quando si appresta alla stesura de “La Tosca” – pensata per Sarah Bernhardt – che andrà in scena nel 1887, non immagina che sta invece consegnandosi alla storia non per l’opera teatrale in sé, ma in quanto essa ispirerà il maestro Giacomo Puccini che la convertirà nella celeberrima e omonima opera lirica.

Il primo incontro fra il musicista lucchese e la rappresentazione teatrale avviene tre anni dopo, nel 1890, in occasione della messa in scena de “La Tosca” a Milano. Puccini viene subito attratto dall’idea di tradurla in melodramma, ma esita nella sua realizzazione per alcuni anni fino a quando torna a rivederla, a Firenze, e questa volta si determina alla realizzazione del progetto caldeggiato, peraltro, anche dal poeta e commediografo Ferdinando Fontana.

Investito il suo editore Ricordi si scopre, però, che l’idea era già venuta al compositore Alberto Franchetti e che il librettista Luigi Illica sta già lavorando alla metrica e, contestualmente, alla riduzione della ponderosa stesura originaria in soli cinque atti. Franchetti, tuttavia, rinuncia al lavoro ben lieto di cederlo all’amico Puccini. Ad Illica viene affiancato Giuseppe Giacosa, che cura i momenti più propriamente melodrammatici dell’opera.

Dopo una intricata serie di disaccordi e scontri fra i vari addetti ai lavori – a cominciare dallo stesso compositore – il cui esito, tra l’altro, è l’ulteriore riduzione del numero degli atti a tre – “Tosca” vede finalmente la luce.

L’ambientazione è a Roma, nel giugno dell’Ottocento. La napoleonica Repubblica Romana è appena stata abolita e sono in corso rappresaglie nei confronti degli ex repubblicani. Fra questi Cesare Angelotti, già console della Repubblica che, evaso da Castel Sant’Angelo, trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Qui incontra il suo amico pittore Mario Cavaradossi che gli assicura aiuto e collaborazione. Il colloquio fra i due è interrotto dal sopraggiungere della cantante Floria Tosca, amante del pittore, che si lascia andare ad una scenata di gelosia perché si accorge che il volto di Maria Maddalena che Mario sta dipingendo è quello della marchesa Attivanti. Dopo essere stata rassicurata dal pittore, Tosca lascia la chiesa e i due amici fuggono via.

Il resto della storia si sviluppa intorno al personaggio del barone Scarpia, capo delle Guardie Pontificie il quale, venuto a conoscenza dell’intesa fra il fuggiasco ed il pittore, ordisce una trappola per conseguire il duplice obiettivo di sedurre Tosca e catturare Angelotti. Fa dunque arrestare Cavaradossi con l’accusa di cospirazione e poi costringe Tosca, con la promessa di un salvacondotto per il suo amato, a promettersi a lui ed a rivelare il nascondiglio di Angelotti.

Tosca cede al ricatto ma, non appena ottenuto il documento, estrae un coltello ed uccide Scarpia. Corre dunque a salvare il suo uomo ma giunge tardi perché, nel frattempo, Mario è stato fucilato. Colta dalla disperazione, Tosca si toglie la vita gettandosi nelle acque del Tevere.

I momenti più intensi del melodramma pucciniano sono probabilmente contenuti nelle arie “Vissi d’arte”, nel II atto, ed “E lucevan le stelle”, nel III. In “Vissi d’arte”, romanza divenuta celebre, si coglie la poetica disperazione e lo smarrimento di Tosca che, sotto l’atroce ricatto di Scarpia, si scopre incapace di concepire e di comprendere tanta cattiveria e si rivolge a Dio con toni di supplica ma anche di risentimento: “Vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva!… Nell’ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?”

In “E lucevan le stelle”, romanza ancor più famosa, il pittore Cavaradossi rinchiuso in carcere e consapevole del destino che lo attende di lì a poco, ripercorre con la mente i bei momenti trascorsi con la sua amata in un insieme di nostalgia, passione e scoramento: “… Oh! dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d’amore… L’ora è fuggita… E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!… ”.

Il quadro politico dell’Italia, nei primi del Novecento, è caratterizzato da malcontento e tensioni. Movimenti antiunitari, antimonarchici e anarchici esercitano, ognuno per proprio conto, azioni di disturbo anche attraverso iniziative violente e sanguinarie; a ciò si aggiungano l’ostilità mai sopita del Vaticano che si ostina a non riconoscere il Regno d’Italia, una severa crisi economica e l’isolamento internazionale dell’Italia.

Questo è il clima preoccupante con il quale, nel gennaio 1900, ci si appresta ad accogliere la prima della Tosca di Puccini, e che non mancherà di condizionare l’importante evento. A Roma, la sera del 14 gennaio 1900, infatti, con un Teatro dell’Opera (detto anche Teatro Costanzi) ridondante di pubblico, poco prima dell’apertura del sipario il direttore d’orchestra Leopoldo Mugnone è raggiunto da un funzionario di polizia che lo informa del concreto rischio di un attentato nel corso della serata, cosa già accaduta in altri teatri.

Si paventano iniziative di disturbo da parte dei rivali di Puccini ma, soprattutto, la annunciata presenza in sala della regina Margherita fa temere iniziative terroristiche da parte degli anarchici.

Alla prima saranno inoltre presenti personalità politiche e del mondo culturale di primissimo piano. Con queste premesse e con conseguente pessimo stato d’animo il maestro Mugnone raggiunge dunque il suo posto e la serata ha inizio. Fortunatamente, dopo un iniziale rumoreggiare dei soliti detrattori che determina una breve sospensione dell’esecuzione, la rappresentazione riprende e giunge felicemente a conclusione con un grande successo.

Tra le opere di Puccini, la “Tosca” rimarrà la più maltrattata nelle recensioni della stampa specializzata. Scriverà Colombani, sul “Corriere della Sera”:

“…Con tutta la deferenza pel grande drammaturgo francese, io vorrei affermare che il suo lavoro fu migliorato prima dall’Illica e dal Giacosa, che ne affinarono i principali elementi, poi dal Puccini che con una tavolozza delicata e aristocratica ne nobilitò la rappresentazione. Ma – per quanto abilmente mascherato – il difetto originale del dramma a tinte troppo forti, e povero di ogni elemento psicologico, rimane visibile ostacolo ad una libera estrinsecazione della fantasia musicale di Giacomo Puccini…”.

Di tenore analogo sono i commenti del “Secolo” e di altri quotidiani, che trovano l’opera musicalmente poco originale e la trama eccessivamente appesantita da torture, assassini e suicidi. Nonostante le perplessità della critica, però, la “Tosca” viene promossa a pieni voti dal pubblico ed inizia a fare il giro del mondo, dall’Europa all’intero continente americano passando per Costantinopoli e Il Cairo, fregiandosi negli anni delle più prestigiose interpreti fino a Maria Callas, nel 1941.

“Tosca”, insieme a “Manon Lescaut” (1893), “La Bohème” (1896), “Madama Butterfly” (1904), “Turandot” (1926), costituiscono solo una parte della copiosa produzione pucciniana che fa del maestro lucchese uno dei massimi rappresentanti della nuova scuola operistica italiana e lo iscrive fra più grandi compositori della storia della musica.


lunedì 13 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 gennaio.

Il 13 gennaio 1953 il maresciallo Josip Tito diventa presidente della Jugoslavia.

Il mattino del 12 gennaio 1980, dopo aver presieduto una riunione dei suoi collaboratori, il maresciallo Tito entrava nella migliore clinica di Lubiana, per un intervento chirurgico alla gamba sinistra, colpita da una infiammazione. L' operazione ebbe luogo il giorno successivo, ma a parere dei medici era ormai troppo tardi: per evitare la cancrena fu deciso un ulteriore e più drastico intervento con l' amputazione della gamba. Il maresciallo sembrò riprendersi ma a partire da metà febbraio le sue condizioni cominciarono a peggiorare. Le cure intensive cui fu sottoposto ritardarono solo la fine che sopravvenne alle ore 15 del 4 maggio (tre giorni dopo avrebbe compiuto 88 anni). Con la morte di Josip Broz (il vero nome di Tito) la Jugoslavia, una delle tante invenzioni della conferenza di pace di Versailles, perse il suo dispotico padrone che l'aveva tenuta unita, grazie al carisma di cui godeva e all'occhiuta e asfissiante vigilanza della polizia politica. Del resto lo stesso Tito sapeva che con la sua scomparsa quella effimera costruzione statale non gli sarebbe sopravvissuta. Già nel 1978 ad uno dei suoi più fedeli collaboratori che gli chiedeva "Cosa c' è che non va in Jugoslavia?" aveva risposto "La Jugoslavia non esiste". Facile previsione: nemmeno due mesi dopo la sua morte la signora Jovanka, ultima moglie, che per 25 anni gli era stata a fianco come first lady, fu sfrattata dalla residenza privata del maresciallo, in quanto proprietà dello Stato, e le venne sottratto persino il brillante che portava al dito. Una conferma che non solo Tito ma lo stesso "titismo" era per sempre finito. Eppure la figura di questo straordinario croato, oggi più che mai dopo i quattro anni di sconvolgenti carneficine nelle terre ex jugoslave, appare per certi versi unica nel panorama dei grandi personaggi emersi dal cataclisma della seconda guerra mondiale. Hitler, Mussolini, Stalin, Churchill, Roosevelt, per non parlare che dei maggiori protagonisti, preesistevano a quegli anni tremendi: Tito invece emerse dal nulla, un fantasma dai molti nomi e contornato dalle più incredibili leggende, che si materializzò nella primavera del 1942 quando i tedeschi, già duramente impegnati dalla guerriglia partigiana, svelarono che il capo delle formazioni combattenti comuniste altri non era che Josip Broz, nato in Croazia, a Kumrovec, nel maggio 1892, soldato austriaco nella prima guerra mondiale, che soggiornò in Russia negli anni della rivoluzione e della guerra civile, poi detenuto dal 1928 al 1934 nelle prigioni croate per le sue attività sovversive. Insomma, pareva allora, uno dei tanti oscuri militanti costretti a un' esistenza clandestina e randagia dalla messa fuori legge dei vari partiti comunisti. In realtà quel signor nessuno -come ci ricorda Jasper Ridley in una accattivante biografia edita da Mondadori (Tito, sottotitolo "Genio e fallimento di un dittatore", pagg. 442), nella quale rifugge, secondo i canoni dello storicismo anglosassone, da ogni visione demonizzante e aprioristica - aveva già a quell' epoca un burrascoso e ricco passato. Come molti comunisti costretti all' emigrazione in Urss era sopravvissuto alle tremende purghe staliniane, diventando segretario del partito jugoslavo nel 1937. Riuscì a salvarsi grazie alla spiccata avversione per le dispute ideologiche, da lui profondamente disprezzate, e ad un carattere gioviale che gli consentiva di stabilire buoni rapporti con i freddi e spietati esponenti del Comintern. E nella primavera del 1940 fu rispedito da Mosca in Jugoslavia a dirigere il lavoro illegale del partito, sostenendo sempre disciplinatamente il punto di vista sovietico, in quel periodo contraddistinto dall'alleanza fra Stalin e Hitler: la guerra scatenata dal dittatore tedesco contro gli anglo-francesi doveva ritenersi difatti come uno scontro fra opposti imperialismi. Ma il 6 aprile 1941 il ciclone nazista colpì anche la Jugoslavia: la fragile costruzione dello Stato crollò miseramente di fronte alla fulminea invasione della Wehrmacht. Quando i tedeschi entrarono il 10 aprile a Zagabria vennero accolti dall' entusiasmo della popolazione croata che vedeva in loro i "liberatori" dall' oppressivo dominio del centralismo serbo. L' ala oltranzista del nazionalismo, sotto la guida di Ante Pavelic, non tardò nemmeno un giorno nel mettere in atto una spaventosa pulizia etnica: in pochi mesi circa 250mila tra serbi, ebrei e zingari vennero massacrati in un gigantesco genocidio, benedetto dai nazisti e dalle autorità cattoliche croate. Le esitazioni e i contorcimenti ideologici che sino allora avevano spinto i comunisti a giustificare l' accordo tra Stalin e Hitler vennero definitivamente spazzati dall' aggressione nazista all' Urss il 22 giugno di quello stesso anno. Senza attendere gli ordini di Mosca già il 27 giugno Tito veniva nominato dal politburo del partito comunista comandante in capo delle forze di liberazione nazionale. Cominciava così quella straordinaria pagina del secondo conflitto mondiale costituita dalla guerra partigiana jugoslava, l' unica che in tutta Europa riuscì ad impegnare severamente in termini militari l' esercito d'occupazione tedesco. Il tutto in un caotico quadro di contrasti politici e di odi razziali che videro sanguinosamente contrapposti gli "ustascia" fascisti di Pavelic, i "cetnici" ultranazionalisti serbi di Draza Mihailovic, spesso alleati degli occupanti tedeschi e italiani, e i "comunisti" di Tito. Fu in questo drammatico clima che s'impose l' abilità politica del "maresciallo", il tener fede cioè, malgrado gli obiettivi "comunisti" fissati ai suoi partigiani, all'identità jugoslava, contro le visioni particolaristiche. Che Tito avesse conquistato sul campo il diritto alla guida del movimento di liberazione venne dapprima confermato dagli stessi tedeschi: fu contro le sue brigate partigiane che essi lanciarono una serie di offensive, costringendole a combattere ininterrottamente, ma senza mai riuscire a scompaginarle in modo risolutivo. E successivamente dagli stessi anglo-americani, che dopo aver puntato sui "cetnici" di Mihailovich si resero conto che solo aiutando Tito avrebbero avuto un efficace concorso nella lotta armata contro i nazisti. Il pragmatismo, l'astuzia, il realistico senso dei rapporti di forza da lui messi in mostra avrebbero finito per catturare persino la benevolenza di Churchill, il quale grazie al suo sottile intuito aveva subito compreso come Tito fosse, tutto sommato, un comunista "diverso". La Jugoslavia, grazie ai partigiani del maresciallo, riuscì difatti a liberarsi da sola e l' arrivo dell' Armata Rossa nei suoi territori non fece che sancirne il successo. Dal l944 al 1948, anno della rottura clamorosa con Stalin, i rapporti fra Belgrado e Mosca conobbero momenti di grandi intese e di sotterranee contrapposizioni, ma sempre in ogni circostanza Tito seppe mantenere una posizione di parità e di sostanziale indipendenza. Che il dittatore sovietico non potesse a lungo tollerare posizioni così lontane dall' acquiescente subordinazione accettata da tutti gli altri Stati satelliti del suo impero era nel fatale ordine delle cose. Fu uno scontro, quello con Stalin, che si protrasse sino alla morte di questi e proseguì anche dopo sia con Krusciov che con Breznev. La Jugoslavia non venne mai meno al suo ruolo di equidistanza fra i due blocchi che si contrapposero per decenni nel corso della guerra fredda e che fecero di Tito il leader indiscusso dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Ai grandi successi internazionali il maresciallo non seppe aggiungerne di analoghi sul piano interno. La Jugoslavia rimase una federazione di serbi, croati,sloveni, bosniaci, montenegrini e macedoni, come nei tempi prebellici ma senza riuscire a fondersi in una vera nazione. Il fuoco nazionalistico continuava a covare sotto la cenere e la dittatura comunista a malapena celava il ricostituirsi di un predominio serbo. Sul piano economico le pur coraggiose varianti al tradizionale "socialismo" di matrice sovietica - quali l'autogestione e un moderato collettivismo agrario - non seppero appianare le contraddizioni fra un nord industriale e più strettamente collegato all' Europa ed un sud arretrato e balcanico. E la Jugoslavia poté evitare il crollo del proprio sistema solo grazie ai massicci aiuti dell' Occidente. In quei lunghi anni di dominio Tito visse come un re del passato. Ininterrotti viaggi all' estero per trovare continue legittimazioni, interminabili partite di caccia, periodi di riposo nelle sue lussuose ville alternati alle poche decisioni di governo nelle quali intendeva impegnarsi (per non venir meno al ruolo di grande "moderatore" dei contrasti), mentre la polizia segreta teneva i cittadini in riga. Insomma un dittatore "morbido", certo non paragonabile al modello staliniano, che riteneva la democrazia un lusso non confacente al suo paese. Un satrapo che viaggiava su un "treno blu", fumando oltre cento sigarette al giorno e dotato di un appetito formidabile (il proprietario di un albergo del sud della Francia che l' aveva ospitato era rimasto allibito "nel vedere che Tito, a colazione, alle sei del mattino, mangiava zuppa di cavoli, salsicce, carne bollita e pollo arrosto"). Nel 1971 un sinistro scricchiolio nell' edificio jugoslavo denotò come la costruzione di Versailles riattata da Tito non avrebbe avuto vita lunga. In Croazia il movimento indipendentista e nazionalista riemerse alla luce con tutta la sua forza, e solo le energiche misure di polizia e l' autorità di cui ancora godeva il leader riuscirono a bloccarlo. Ma era la riprova che lo spaventoso bagno di sangue patito tra il 1941 e il 1945, quando croati, serbi, bosniaci si erano fra loro massacrati, non avrebbe impedito ulteriori drammatiche lacerazioni. Ciò che è puntualmente avvenuto sotto gli occhi di un mondo distratto, e tutto sommato indifferente per meschini calcoli politici, in questi ultimi anni. Il regime di Tito, questa la lezione della storia, non poteva dunque sopravvivergli. Ma oggi - conclude Jasper Ridley - "la popolazione di quella che era un tempo la Jugoslavia pensa a Tito con maggior simpatia di qualche anno fa. A Sarajevo e Mostar, molti dicono che era preferibile vivere in un sistema in cui i leader politici potevano venire arrestati arbitrariamente piuttosto che in un paese dove in due anni sono state trucidate trecentomila persone... Oggi, la gente apprezza più di un tempo i giorni in cui era governata da Belgrado da Josip Broz Tito, e si diceva che la Jugoslavia aveva sei repubbliche, cinque etnie, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un partito".

domenica 12 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

 



Buongiorno, oggi è il 12 gennaio.

Il 12 gennaio 1988 la Mafia uccide l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco.

Giovanni Falcone in un indimenticabile convegno alle soglie degli anni Novanta affermò: “Gli omicidi Insalaco e Parisi (imprenditore ucciso il 23 febbraio '85, ndr) costituiscono l'eloquente conferma che gli antichi ibridi connubi fra la criminalità mafiosa e occulti centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta piena luce su moventi e mandanti dei nuovi come dei vecchi omicidi eccellenti, non si potranno fare molti passi avanti”. Parole che diventano pietre davanti al fior fiore delle autorità presenti, ma che hanno ragione d'essere all'indomani dell'eliminazione di Peppuccio Insalaco, il sindaco dei cento giorni nato e cresciuto tra le fila della Democrazia cristiana, scaricato dallo stesso partito quando dimostrò di voler rappresentare un movimento di rinnovamento in casa Dc. E che cinque volte andò dallo stesso Falcone per riempire altrettanti verbali. Tornando col pensiero agli scritti di Insalaco trovati post mortem che fecero tremare Palermo – un articolato dossier su mafia e politica e, poco dopo, il suo diario – si suppone che il sindaco ucciso il 12 gennaio 1988 avesse a disposizione una notevole quantità di materiale di interesse per il giudice Falcone. 

Giuseppe Insalaco, figlio di carabiniere ma pupillo dell'allora ministro degli Interni Francesco Restivo – una volta diventato sindaco decise di fare a modo suo: alla prima occasione – che si presentò con l'anniversario dell'omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo – si presentò sul luogo dell'eccidio con tanto di fascia tricolore. Ed era solo l'inizio. Fece tappezzare la città con manifesti dell'amministrazione comunale, denunciando l'escalation sanguinaria mafiosa, in cui per la prima volta compariva la parola mafia. Poco dopo, il 5 maggio 1984, eccolo a Roma in occasione di una manifestazione contro la mafia e la Camorra. Il suo progetto, appena sedutosi sulla poltrona da primo cittadino, era quello di cambiare le cose tra le fila della Democrazia cristiana. Senza però che quest'ultima, che risentiva fortemente del peso del corleonese Vito Ciancimino e relativi sostenitori, fosse intenzionata a farlo. Così l'ascesa di Peppuccio, raccontata da Saverio Lodato nel suo “Quarant'anni di mafia”, divenne un'inesorabile caduta libera. Quindi denunciò, in un'intervista rilasciata a Saverio Lodato: “Ci sono gruppi economici e affaristici (…) i cui interessi spesso coincidono con quelli della pubblica amministrazione. Per il loro peso e i loro intrecci riescono spesso a condizionare scelte che in situazioni normali dovrebbero essere di competenza della classe politica”. 

Prima di essere ucciso, il sindaco dei cento giorni lasciò in eredità alla sua città una marea di carte, documentazioni e materiale scottante pubblicato da Saverio Lodato per L'Unità e Attilio Bolzoni per La Repubblica, che fece gran scalpore nella Palermo bene. Insalaco accusava duramente, in quel carteggio, noti personaggi come l'eurodeputato Salvo Lima, i finanzieri Nino e Ignazio Salvo, gli “esattori” di Cosa nostra, Bruno Contrada, funzionario del Sisde, lo stesso Vito Ciancimino. Su su fino a Giulio Andreotti. Nel testo di un'intervista a Insalaco mai pubblicato prima della morte quest'ultimo, alla domanda “quali sono gli uomini del potere occulto, chi comanda a Palermo”, rispondeva: “Non c'è un potere occulto. Parlarne è un comodo equivoco; è un potere alla luce del sole esercitato in modo visivo. Un potere che bisognerebbe vedere come viene esercitato, le sue connivenze, le sue colleganze”. Nel diario poi rinvenuto scrisse di Aristide Gunnella, repubblicano e ministro per gli Affari regionali, dei giudici Salvatore Palazzolo e Carmelo Carrara a suo parere coinvolti nelle sue disavventure giudiziarie (Insalaco fu accusato di aver intascato una tangente e poi di violazione della legge sulle armi), quindi indicò in Arturo Cassina, signore degli appalti comunali e cavaliere del Santo Sepolcro, il volto che si celava dietro la “congiura contro di lui”. Descrisse in tempi ancora non sospetti un legame a doppio filo tra la mafia e la politica degli anni '80, capace di inserirsi nel controllo della cosa pubblica. Tirò in ballo personaggi che, anni dopo, avrebbero trovato posto nelle inchieste su quei patti e accordi degli anni '90 che presero il nome di “trattativa Stato-mafia”, consumata pochi anni dopo l'omicidio politico di Insalaco, i cui registi sappiamo chi sono. 

Ma quel memoriale del rampollo della Dc che poi si rivoltò alle sue logiche di potere costituì un ideale tassello che Falcone raccolse per cominciare a parlare pubblicamente di “ibridi connubi”, di “gioco grande”, e di quelle “menti raffinatissime” che il giudice descrisse all'indomani del fallito attentato all'Addaura. 

Insalaco, nelle cui memorie resta una dura denuncia contro quel mondo in cui nacque, salvo esserne poi rimasto vittima, può essere considerato il primo vero Pentito di Stato nel momento in cui si presenta davanti a Falcone e inizia a squarciare il velo che celava il gioco in atto tra mafia, pezzi di Stato, imprenditoria e alta finanza. Forse l'unico che finora può definirsi tale. Certamente, uno di cui ci sarebbe bisogno oggi: qualcuno che descriva con occhio “interno” al mondo delle istituzioni degli scheletri nell'armadio e del marcio ereditato da decenni di convivenza con la mafia.

sabato 11 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 gennaio.

L'11 gennaio 1908 viene creato il Grand Canyon National Park.

La storia di come si è formato il Grand Canyon è tanto affascinante quanto misteriosa, tant’è che ancora gli studiosi non si sono messi d’accordo su molti aspetti: soprattutto la profondità e l’ampiezza della gola costituiscono a oggi ancora dei veri e propri misteri a cui si è cercato di dare spiegazione in vari modi.

Ciò che è certo è che si tratta di una storia lunga, originata da un processo iniziato lontano nel tempo, circa 2 miliardi di anni fa.

In origine, dove adesso si trova l’area desertica dell’Arizona, si ergevano montagne alte 9600 metri, che formavano una catena montuosa paragonabile all’odierno Himalaya. Nei successivi 500 milioni di anni, glaciazioni e disgeli formarono spaccature sui fianchi delle montagne e numerose inondazioni (almeno 8) coprirono più volte l’intera area.

Visitando il Grand Canyon, uno degli aspetti che saltano più facilmente all’occhio sono gli strati rocciosi delle pareti verticali, ognuno caratterizzato da una sfumatura di colore differente.

Ogni strato corrisponde a inondazioni di epoca diversa, che nei vari periodi hanno depositato tipologie differenti di roccia. Sul posto si notano facilmente almeno 3 strati: uno di arenaria, uno di scisto scuro e un altro di calcare chiaro, che corrispondono rispettivamente a precedenti depositi di sabbia, fango e resti calcificati di organismi marini. Il colore dominante rimane comunque il rosso, che deriva dal ferro ossidato presente in tutte le rocce.

Sulle rocce sono individuabili anche segni di una forte attività vulcanica, che ha contribuito non poco alla formazione del canyon. In tutto il parco si contano un centinaio di montagne coniche su cui si rintracciano con facilità colate di roccia scura calcificate che scendono dai bordi. Si tratta di fenomeni vecchi di circa 725000 anni e sono facilmente osservabili ad esempio da Toroweap Point. L’ultima eruzione che ha portato la lava sul fondo del canyon risale a 100000 anni fa e alcuni geologi credono che i vulcani siano ancora attivi e potenzialmente pericolosi.

Quando l’acqua si ritirò definitivamente dall’area portò allo scoperto una pianura immensa e sterminata che, a causa delle collisioni delle placche, si elevò fino a diventare un altopiano. A questo punto l’area era completamente emersa, ma ancora del Grand Canyon non c’era traccia.

Se l’inizio di tutto il processo affonda in un passato remoto le origini del Grand Canyon sono a quanto pare relativamente più recenti: il famoso strapiombo dell’Arizona nasce “solamente” 5 milioni e mezzo di anni fa, scavato dall’azione del fiume Colorado che, trasportando rocce e detriti, ha inciso e modificato profondamente la conformazione naturale dell’altopiano.

Questo dato è stato dedotto datando alcuni detriti dell’area con strumenti sofisticati; questo implicherebbe che il canyon sia stato scavato a un ritmo di 200 metri ogni milione di anni (3 centimetri ogni secolo!). Vi sembra ci abbia messo tanto? In realtà, per i ritmi geologici si tratta di una velocità notevole!

Ecco che allora si sono poste una serie di domande che hanno messo gli studiosi a dura prova:

Come ha potuto il fiume Colorado scavare il canyon così velocemente?

Come può la gola essere così profonda e lunga?

Perché il fiume Colorado compie proprio questo percorso? E come ha fatto a scavarlo?

Ovviamente le teorie si moltiplicano, tra cui quella della Teoria della Tracimazione, elaborata nel 2000 dal geologo John Douglas.

Secondo lo studioso, il Colorado River, proseguendo il suo corso dalle Montagne Rocciose, aveva riempito un bacino conosciuto come Bidahoci Lake, trasformandolo in un immenso lago (ormai prosciugato) da cui straripò il fiume, fino a scavare nella roccia il primo solco di quello che sarebbe diventato il Grand Canyon.

La velocità di escavazione e la profondità della gola sarebbero da attribuire alla pendenza del letto del fiume, testimoniata dalle numerose rapide, mentre l’ampiezza del varco è da imputare alle numerose frane di crollo provocate dall’indebolimento degli strati rocciosi meno resistenti (scisto) a contatto con gli agenti atmosferici (una volta indebolite le rocce cedono alla forza di gravità e franano).

L’aspetto più affascinante è che la storia non è ancora finita: il Grand Canyon è infatti in perenne trasformazione. A chi lo visita con occhio curioso questa meraviglia della natura è in grado di svelare 2 miliardi di anni di storia geologica della terra.

venerdì 10 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 gennaio.

Il 10 gennaio 1936 nasce la Olimpia Pallacanestro Milano.

L’Olimpia nacque nel 1936 sotto il segno del successo. Il primo campionato identificato dal nome Olimpia fu subito un trionfo. In realtà la storia è molto più complicata e confusa. La squadra nacque su iniziativa del Conte Borletti che la considerava una specie di dopolavoro aziendale. Secondo le cronache dell’epoca il club sarebbe stato fondato nel 1930 ma anni dopo il presidente storico Adolfo Bogoncelli decise che la data corretta era 1936. Oggi il 1936 è riportato nel logo della società sotto la scritta Olimpia. La data coincide con quella del primo scudetto, con capitano Enrico Castelli, allenatore Giannino Valli. L’anno dopo arriva Sergio Paganella, uno dei primi grandi pivot del basket italiano. Il Borletti vince quattro scudetti consecutivi, la Ginnastica Triestina ne ferma la marcia nella stagione 1939/40 e un anno dopo con una squadra rinnovata e dopo la scomparsa di Borletti la squadra crolla nei bassifondi della graduatoria. Risale ma sono gli anni della guerra, nel 1943 addirittura si giocheranno solo tre partite e dopo il conflitto la squadra non sarà più la stessa e cambierà anche lo storico coach Giannino Valli.

Ma intanto l’Olimpia che conosciamo oggi sta fermentando. Adolfo Bogoncelli, trevigiano di nascita ma triestino a tutti gli effetti, si innamora del basket a Modena e con i soldi del Partito d’Azione fonda una squadra e dopo il trasferimento a Milano la chiama Triestina. Dopo la guerra il finanziamento cessa, la squadra si trasferisce a Como. Intanto il Borletti retrocede in B e il colpo di genio di Bogoncelli è fondere le due società e dar vita a quella che effettivamente può finalmente chiamarsi Olimpia ovvero la società nata dalla fusione del Borletti con la Triestina. Il Borletti diventerà sponsor del club, Bogoncelli l’illuminato presidente che nel 1949 acquista da Venezia il cannoniere Sergio Stefanini, che ha vinto già due scudetti e prolunga la collana di imprese a Milano.  Ad allenare la squadra è Cesare Rubini. Bogoncelli e Rubini formeranno il primo grande binomio presidente-allenatore della storia del basket italiano.

Bogoncelli è stato un dirigente innovativo, geniale. Ha inventato le sponsorizzazioni prima con il Borletti poi con quella storica del Simmenthal, ha praticamente creato un vero mercato per i giocatori, ha diffuso il verbo del basket portando in Italia gli Harlem Globetrotters negli anni in cui erano la squadra più famosa e anche più forte al mondo per la presenza dei giocatori di colore – praticamente banditi dalla NBA – tra cui il fenomenale Wilt Chamberlain. Bogoncelli ha inventato Rubini allenatore-giocatore, poi sotto la sua ala c’è stato il primo grande binomio allenatore-assistente ovvero Rubini il grande motivatore carismatico e Sandro Gamba, lo scienziato del basket. Nel 1966 Bogoncelli ha portato a Milano come straniero di coppa Bill Bradley, il giocatore universitario dell’anno, trasferitosi a Oxford per studiare rinviando l’ingresso nella NBA di due anni. L’ultimo grande colpo della sua straordinaria carriera dirigenziale è l’ingaggio di Dan Peterson come allenatore dopo che già aveva scelto Toni Cappellari quale manager all’addio di Rubini creando un’altra grande coppia: Cappellari-Peterson.

Bogoncelli uscì dal basket aprendo le porte alla famiglia Gabetti nel 1980. In quel momento l’Olimpia aveva vinto 19 scudetti, gli ultimi 15 sotto la sua ala magica.

Dan Peterson da Evanston, Illinois, alle porte di Chicago, non era stato in America un coach di grande successo. Aveva fatto bene da assistente allenatore a Michigan State, aveva allenato bene l’università del Delaware ma era ancora in attesa della sua grande occasione quando con un coraggio leonino accettò di allenare la Nazionale del Cile, un progetto di difficoltà inaudita e in condizioni complicate. Era il coach cileno quando la Virtus Bologna scelse come nuovo allenatore Rollie Massimino, origini siciliane, un giovane promettente. Ma Massimino ricevette in extremis l’offerta della Villanova University – dove avrebbe vinto il titolo NCAA del 1985 – lasciando la Virtus nei guai. L’agente americano Richard Kaner si attivò per trovare un’alternativa e attraverso il grande Chuck Daly – coach del primo Dream Team – arrivò a Peterson che in quel periodo dell’anno era uno dei pochi tecnici americani in grado contrattualmente di accettare la proposta dell’avvocato bolognese Porelli. Fu così che cominciò la sua avventura italiana.

A Bologna vinse lo scudetto, si affermò come allenatore, imparò la lingua e conquistò il cuore del movimento. Ma Bologna gli stava stretta e quando venne chiamato a Milano, che in quel momento nel basket aveva più storia di Bologna ma non il suo presente, non esitò ad accettare. “Per me, americano, Milano era un po’ come New York”. Il resto è storia: la famosa Banda Bassotti milanese raggiunse un’insperata finale scudetto, persa contro la Virtus, che riportò il pienone nel palasport di San Siro, la squadra venne costruita attorno al genio di Mike D’Antoni e pescando a piene mani nel settore giovanile che fruttò i gemelli Boselli, Francesco Anchisi e Vittorio Gallinari. Fu così che il grande ciclo dell’Olimpia degli anni ’80 venne generato.

Il primo scudetto dell’era Peterson arrivò nel 1982, non a caso nella prima stagione con Dino Meneghin sul campo. Veneto di Alano di Piave ma cresciuto a Varese, era stato un fenomeno di precocità quando lasciò il lancio del peso per diventare il più grande centro nella storia del basket italiano. A Varese esordì giovanissimo in Serie A e cominciò a vincere subito firmando un’epoca accanto a giocatori come Bob Morse, Aldo Ossola, Ivan Bisson. La Varese delle 10 finali europee consecutive di cui cinque vinte era la sua squadra. In quelle vesti, Meneghin diventò un avversario storico per l’Olimpia, in pratica l’avversario per eccellenza.

Ma l’epopea di Varese finì nell’estate del 1981 con l’uscita di scena di Giovanni Borghi che determinò in automatico la cessione di Meneghin. E Gianmario Gabetti, da poco proprietario dell’Olimpia, ne fece una questione di principio. Così Meneghin passò da Varese a Milano, da una rivale all’altra anche se di fatto senza di lui e senza Morse (passato ad Antibes), i varesini non potevano più aspirare al titolo. L’Olimpia invece cambiò volto: con Meneghin centro (la sua prima stagione cominciò in ritardo per un infortunio al ginocchio), costruì una squadra alta, grossa e potente che utilizzava come ala piccola Vittorio Ferracini o Vittorio Gallinari, John Gianelli da ala forte e due tiratori da alternare come Franco Boselli e Roberto Premier, prelevato da Gorizia. In regia Mike D’Antoni giocava fino allo sfinimento: quando usciva, c’era Marco Lamperti, prodotto del vivaio milanese.

L’avvio fu difficilissimo: l’Olimpia perse in casa contro Rieti al debutto, a fine novembre perse 110-65 a Pesaro, la squadra di Dragan Kicanovic e Meneghin debuttò solo il 6 dicembre, a Rieti, con un’altra sconfitta fragorosa, 88-67. Perse anche a Varese, nel ritorno di Meneghin sul suo campo, nella sua città. Ma vinse 12 delle ultime 13 partite della stagione regolare, giocò un quarto di finale sofferto contro Brescia vincendo gara 3 nel finale. In semifinale vinse a Torino gara 1 (20 punti di Franco Boselli) ma solo di uno gara 2 a San Siro. La finale fu con la Scavolini dell’ex Mike Sylvester. Il Billy giocò una grande gara nelle Marche vincendola 89-86 e poi si salvò in gara 2 – conquistando il ventesimo titolo ovvero la seconda stella – quando John Gianelli stoppò il tiro della vittoria di Sylvester in una memorabile partita che vide il coach pesarese Pero Skansi partire con Kicanovic dalla panchina. Gianelli segnò 39 punti nelle due gare della finale, conquistandosi un posto d’onore nella galleria dei grandi americani dell’Olimpia: era bianco, poco appariscente, lento ma dotato di grande mano, intelligente e difensore straordinario.

Lo scudetto fu l’inizio di una nuova era. La stagione successiva, l’Olimpia raggiunse di nuovo la finale di Coppa dei Campioni perdendola a Grenoble di un punto contro la Ford Cantù (Boselli ebbe il pallone della vittoria ma sbagliò il tiro dalla media che avrebbe completato la rimonta) e perse anche la finale scudetto contro Roma, trascinata dall’immenso Larry Wright. Nel 1984 a battere l’Olimpia in finale fu la Knorr Bologna di Roberto Brunamonti e Renato Villalta. Su quella serie resta una macchia indelebile: Bologna vinse gara 1 a Milano, ma l’Olimpia si riprese il vantaggio del campo in gara 2 quando Dino Meneghin fu espulso per proteste e squalificato tre giornate. Senza Meneghin in campo in gara 3, la Virtus ebbe la meglio.

La maledizione dei secondi posti cessò nel 1985, la stagione del crollo del palazzone di San Siro, il cui tetto venne sbriciolato dalla neve. L’Olimpia partì con Russ Schoene e Wally Walker come americani. All’inizio a faticare era il primo, giovane e poco quotato, ma al momento di firmare il grande Joe Barry Carroll, coach Peterson cambiò idea, rinunciò all’esperto Walker e tenne Schoene. Grande idea: Schoene diventò protagonista, firmò la vittoria in Coppa Korac e diventò un altro dei grandi americani dell’Olimpia. Carroll venne a Milano nell’ambito di una disputa salariale con i Golden State Warriors. Ex prima scelta assoluta, aveva mani fantastiche, talento e poca intensità. Lo soprannominarono Joe Barely Cares, ovvero Joe “Senefrega”. Ma a Milano entrò in sintonia con l’ambiente, giocò una stagione straordinaria e portò l’Olimpia al titolo senza sconfitte nei playoff. Nel 1986 Carroll tornò nella NBA, Schoene restò e Milano vinse ancora lo scudetto. Dopo Pesaro toccò a Caserta cedere alle truppe di Dan Peterson, la Caserta del giovane Nando Gentile e del terrificante bomber Oscar Schmidt. Dopo il secondo scudetto di fila, il terzo dell’era Peterson-D’Antoni-Meneghin, era però venuto il momento di tornare a vincere nell’Europa che conta.

giovedì 9 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 gennaio.

Il 9 gennaio 1878 Umberto I sale al trono d'Italia in seguito alla morte del padre Vittorio Emanuele II.

Figlio del primo Re di Italia, Vittorio Emanuele II, e della regina del Regno di Sardegna, Maria Adelaide d'Asburgo-Lorena, Umberto nasce a Torino il 14 marzo 1844. I suoi nomi di battesimo sono: Umberto Raniero Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio. La nascita di Umberto, che assicura la discendenza maschile, viene accolta con gioia sia dalla famiglia reale che dal popolo piemontese. Durante l'infanzia ad Umberto e il fratello Amedeo viene impartita un'educazione di tipo militare, che ne forma il carattere e influenzerà il futuro regno. Tra gli insegnanti del futuro monarca vi è anche il generale Giuseppe Rossi. 

Nel 1858 Umberto si avvia alla carriera militare, partecipando nel 1859 alla Seconda guerra di indipendenza. Subito dopo la proclamazione del Regno d'Italia, avvenuta nel 1861, diventa maggiore generale e l'anno dopo assume il ruolo di tenente generale. Negli stessi anni ha la possibilità di viaggiare all'estero, visitando città come Lisbona e Londra. In quello stesso periodo, nel 1865, a Torino infiamma la protesta perché la capitale del regno viene trasferita a Firenze. Nel 1866 sia Umberto che il fratello Amedeo partecipano alla Terza guerra di indipendenza. 

Al fronte Umberto si distingue per il valore, poiché riesce a respingere gli attacchi austriaci con grande coraggio. Per questo gli viene conferita la medaglia d'oro al valore militare. Il 22 aprile 1868 Umberto convola a nozze con Margherita di Savoia. Naturalmente si tratta di un matrimonio combinato da Vittorio Emanuele II, che in occasione delle nozze istituisce il Corpo dei Corazzieri reali e l'Ordine della Corona d'Italia. I futuri monarchi visitano alcune città italiane durante il viaggio di nozze, poi raggiungono Bruxelles e Monaco di Baviera. Ovunque gli sposi ricevono una calorosa accoglienza. La coppia poi si stabilisce a Napoli. Qui la principessa da alla luce il figlio Vittorio Emanuele, nominato principe di Napoli. 

La scelta di restare nella città partenopea è motivata dal fatto di avvicinare la dinastia dei Savoia al popolo meridionale, ancora legato al ricordo dei Borboni. Si racconta che Margherita, impossibilitata ad avere altri figli, avesse in realtà dato alla luce una bambina, subito sostituito da un maschio per assicurare la successione. Nonostante il lieto evento, il matrimonio tra Umberto e Margherita comincia a vacillare. Umberto, che ha un debole per le belle donne, viene scoperto dalla moglie a letto con una sua amante. Su ordine del suocero Margherita è costretta a restare con Umberto, anche se la sua volontà è di divorziare da lui. Il matrimonio di facciata viene mantenuto in piedi soprattutto per fini politici. 

I due festeggiano le nozze d'argento il 22 aprile 1893. Le nozze servono a mantenere un certo equilibrio all'interno dell'aristocrazia. Pare che proprio Margherita, grazie alla sua diplomazia, sia riuscita a mettere d'accordo le diverse fazioni dell'aristocrazia romana: quella nera, che fa riferimento al Papa Pio IX, e quella bianca, con idee più liberali. 

Una curiosità: a Margherita, in visita a Napoli, si deve l'origine del nome della storica pizza. 

Il 9 gennaio 1878 Vittorio Emanuele II muore, lasciando come successore al trono il figlio Umberto I. Il 19 Gennaio dello stesso anno il nuovo sovrano presta il solenne giuramento sullo Statuto Albertino, in presenza di deputati e senatori riuniti nell'aula di Montecitorio. Una volta diventato sovrano, Umberto I è chiamato a risolvere una serie di problemi: il Vaticano è ostile nei confronti del Regno d'Italia, vi sono dei fermenti repubblicani da parte di alcuni circoli culturali e politici, sono necessarie le riforme sociali per venire incontro alle classi disagiate, la politica estera deve essere rilanciata, come pure l'economia nazionale. 

A livello internazionale, la crisi nei Balcani, provocata dalla guerra tra Turchia e Russia, è un problema molto complicato da risolvere. Per dipanare la matassa viene convocato il "Congresso di Berlino" dal cancelliere tedesco Bismarck. Una delle decisioni prese nel Congresso è che l'occupazione dell'Austria in Bosnia può durare soltanto nove mesi. I delegati italiani restano impotenti di fronte a tale decisione, e presentano una domanda di chiarimento, alla quale gli si risponde che è meglio accettare tale statuizione, per far sì che l'Italia mantenga l'amicizia con tutti gli Stati. 

Uno dei delegati, il ministro degli Esteri Luigi Corti viene attaccato per non essere riuscito a portare risultati concreti e favorevoli all'Italia dal Congresso di Berlino. Per questo egli si dimette dall'incarico il 16 ottobre 1878. 

Durante un viaggio per l'Italia con la regina Margherita, il monarca subisce un primo tentativo di assassinio, da parte dell'anarchico Giovanni Passanante. Per fortuna Umberto I riesce a sventare l'attentato, riportando soltanto una lieve ferita al braccio. A questo episodio seguono momenti di tensione e scontro tra anarchici e forze dell'ordine. Il poeta Giovanni Pascoli compone una poesia a favore dell'anarchico lucano autore dell'attentato, e per questo motivo viene arrestato. 

Altri gravi problemi che emergono durante gli anni del regno umbertino sono: l'abolizione della tassa sul macinato, il corso forzoso della moneta e la riforma elettorale. I primi due vengono risolti rispettivamente nel 1880 e nel 1881. La riforma elettorale, invece, viene approvata il 22 gennaio 1882 e prevede l'allargamento della base elettorale (si può votare a ventuno anni, con obbligo di licenza scolastica e un censo compreso tra 40 e 19 lire annue). 

In politica estera, Umberto sostiene apertamente la Triplice Alleanza. Assicurarsi l'appoggio dell'Austria è molto utile per l'Italia, quindi Umberto I decide di rinsaldare i rapporti con una serie di iniziative diplomatiche, prime fra tutte la visita ai monarchi austriaci. Inoltre appoggia con entusiasmo l'occupazione della Somalia e dell'Eritrea. Nel 1889 viene stabilito il protettorato dell'Italia in Somalia: qui nascono le prime colonie italiane. 

Riguardo alla politica nazionale, Umberto I si lascia affiancare nel governo da Francesco Crispi, che riveste il ruolo di Presidente del Consiglio. L'attività politica di Umberto I, piuttosto conservatrice e autoritaria, è condizionata da una serie di avvenimenti gravi, come moti ed insurrezioni, che portano il monarca a prendere provvedimenti drastici. Nel 1893, il re viene coinvolto nello scandalo della Banca Romana, insieme a Giovanni Giolitti. Il 22 aprile 1897 Umberto I subisce un altro attentato di matrice anarchica; l'esecutore si chiama Pietro Acciarito. Anche questa volta rimane illeso, riuscendo con destrezza ad evitare il peggio. L'anarchico Acciarito viene arrestato e condannato al carcere a vita. Vengono arrestate e messe in carcere anche altre persone sospettate di avere avuto qualche rapporto con l'esecutore dell'attentato. 

Il 29 luglio 1900 Umberto I si trova a Monza a presiedere una cerimonia sportiva. Mentre attraversa la folla, qualcuno spara tre colpi di pistola che raggiungono i suoi organi vitali. L'attentatore si chiama Gaetano Bresci, e dopo essere individuato viene immediatamente arrestato. Ma questa volta per il re non c'è nulla da fare. 

Nel luogo in cui il monarca perde la vita sorge una Cappella, costruita per volontà del re Vittorio Emanuele III, nel 1910. Umberto I, re D'Italia, muore a Monza il giorno 29 luglio 1900, all'età di 56 anni. La sua salma riposa nel Pantheon di fianco a quella del padre.

mercoledì 8 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 gennaio.

L'8 gennaio 1324 muore a Venezia Marco Polo.

Marco Polo nasce a Venezia nel 1254. Mercante, viaggiatore italiano, al suo nome è legata l'opera passata alla storia come "Il Milione". Si tratta, a parere unanime degli storici, del compendio più importante e prezioso che il Medioevo, prima della scoperta dell'America e della successiva epoca delle grandi esplorazioni, abbia mai lasciato in merito ai territori d'Oriente, comprendendo con questa espressione anche un'ampia moltitudine di popoli e geografie che la civiltà occidentale, fino a quel momento, non aveva mai esplorato.

Cittadino della cosiddetta Serenissima, come viene chiamata a quei tempi la Repubblica di Venezia, Marco Polo nasce in una famiglia tipica della Laguna, benché originaria di Sebenico, Dalmazia.

Appartenente all'alta borghesia veneziana, figlio di Niccolò, mercante da cui apprende gran parte dei segreti del mestiere, nipote di Matteo Polo, fratello di suo padre e anch'egli mercante, all'età di diciassette anni il giovane Marco intraprende un lungo viaggio insieme con i due familiari. È il viaggio della sua vita, che consegna il suo nome alla storia.

In realtà, sono proprio Niccolò e Matteo ad invogliare il giovane Marco ad intraprendere la carriera di commerciante all'estero. Nei mesi intorno alla sua nascita infatti, i due si sono spinti già nelle terre d'Oriente, stabilendo i propri mercati prima a Costantinopoli e poi a Soldaia, nella Crimea. I due fratelli Polo durante questi viaggi entrano nelle grazie del grande Qubilai, il conquistatore e unificatore della Cina, ottenendo fruttuosi privilegi, oltre che una probabile dignità nobiliare.

Tornati a Venezia nel 1269, forti dell'esperienza appena trascorsa, dopo nemmeno due anni decidono di rimettersi in viaggio. Con loro, c'è anche Marco Polo, il quale insieme con suo padre Niccolò e suo zio Matteo, nella primavera del 1271 parte per l'Asia. Qui, stando ai primi resoconti dell'esperienza, i commercianti veneziani si guadagnano la fiducia del Gran Khan del Katai, in Cina. Questi, affida loro alcune missioni nelle province più remote del suo impero, dandogli la possibilità di intraprendere viaggi in terre impervie, alla stregua di popolazioni e culture fino a quel momento nemmeno immaginate dall'uomo occidentale. Tutta l'esperienza dura quasi venticinque anni e, successivamente e con dovizia di particolari, costituisce il corpus centrale dell'opera di Polo: "Il Milione", appunto.

Secondo i documenti riportati di seguito, i Polo sarebbero giunti a Pechino alla corte del Gran Kahn intorno al maggio del 1275.

Il giovane e intraprendente viaggiatore veneziano, su incarico dall'Imperatore, ispeziona le regioni al confine del Tibet e lo Yün-nan fregiandosi del titolo di "Messere". È un'onorificenza che lo pone a stretto contatto con la figura del sovrano, facendo di lui un rappresentante e informatore, oltre che ambasciatore di Stato. Svolge inoltre attività amministrative e si guadagna la stima delle alte sfere della società mongola.

Nel 1278 poi, Marco Polo viene nominato Governatore di Hang-chou, già capitale, sotto la dinastia dei Sung, del reame dei Mangi. È il massimo riconoscimento per la sua abilità e per l'impegno profuso alla corte del Kahn.

Nel 1292, a ventun anni dalla partenza da Venezia, il mercante divenuto governatore inizia il viaggio di ritorno salpando dal porto di Zaitun. Dopo tanto peregrinare, nel 1295 rientra a Venezia.

L'idea di mettere nero su bianco quanto visto e appreso durante la sua traversata in Oriente non lo sfiora minimamente, coinvolto com'è in alcune vicissitudini che riguardano la sua Repubblica. Tre anni dopo pertanto, nel 1298, Polo viene fatto prigioniero dai genovesi, durante la battaglia navale di Curzola, cui prende parte per difendere la sua Serenissima.

In carcere però, durante la sua prigionia, fa la conoscenza di un mediocre letterato, tale Rustichiello da Pisa, che fino a quel momento si è guadagnato da vivere compilando avventure cavalleresche. Questi però, ha la brillante idea di farsi raccontare da Marco Polo tutta l'esperienza passata in Oriente insieme con i suoi parenti, con il fine di rendere su carta quanto appreso e diffonderla a tutti. Le regioni di cui racconta il viaggiatore veneziano, ancora del tutto ignote agli europei, sono quelle della Valle del Pamir, del deserto di Lop e del deserto di Gobi. Il testo che ne viene fuori non denuncia fratture e testimonia la piena osmosi avvenuta tra racconto orale e composizione scritta, tra oratore e narratore.

Il libro viene redatto, in origine, in lingua francese, sebbene non ignorasse alcune forme lessicali e sintattiche italianizzanti, perlopiù volgare veneto e toscano. Dei primi esemplari composti, tutti andati perduti, si segnalano alcune varianti di quello che in principio doveva essere il titolo originale dell'opera, come detto in lingua francese, ossia: "Divisament dou monde". A questo, si aggiungono versioni intitolate "Livres des merveilles du monde" o, in latino, "De mirabilibus mundi". Smarrite le copie originali, restano però diverse traduzioni dell'opera, in molte lingue, e quasi tutte con il titolo giunto fino ai nostri giorni: "Il Milione".

Contrariamente a quanto si pensi, questa fortunatissima traduzione dell'opera deriva da un'aferesi del nome Emilione, il quale i Polo protagonisti del viaggio usavano, nella città lagunare, per distinguersi dagli altri Polo, assai numerosi in quel di Venezia.

In italiano, l'opera ha avuto come felice traduzione del suo titolo quella di "Ottimo", diffusa soprattutto intorno agli inizi del '300, ma di sicuro prima del 1309. L'intellettuale Ramusio, successivamente, nel 1559, è noto per aver curato la prima edizione a stampa dell'opera famosa.

A conti fatti, "Il Milione" resta un documento fondamentale per comprendere sia l'Oriente medievale, sia la mentalità mercantile italiana verso la fine del '200. La sua struttura, di impianto trattatistico e romanzesco insieme, si mantiene unitaria, nonostante convivano nell'opera elementi apparentemente discordanti, quali l'amore per il fiabesco e il gusto per l'osservazione diretta e precisa, oltre all'attenzione ad alcuni aspetti tecnici economici e sociali propri di un esperto mercante. Le tre anime insomma, derivanti da due personalità in carne ed ossa, sono ravvisabili e, in ogni caso, non cozzano tra loro. C'è il cronista fantasioso, il viaggiatore attento e il mercante, abile nell'apprendere i meccanismi più vicini alla quotidianità di un popolo e di una terra fino ad allora sconosciuta.

Marco Polo muore a Venezia nel 1324, a settant'anni. In Italia il suo volto campeggia sulla banconota da 1.000 lire in uso dal 1982 al 1988.

martedì 7 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 gennaio. Il 7 gennaio 2015 ha luogo la strage al giornale satirico "Charlie Hebdo".

Due terroristi, "nel nome di Allah", hanno aperto il fuoco e ucciso dodici persone facendo irruzione nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo, a qualche centinaio di metri dalla Bastiglia. I killer Said e Cherif, due fratelli jihadisti franco-algerini di 32 e 34 anni, erano tornati in Francia dalla Siria. Con loro un complice, Amid, di appena 18 anni. 

La Francia è sconvolta, il presidente Francois Hollande - subito accorso sul posto - è apparso sotto shock. Ha definito le vittime "i nostri eroi", caduti per l'idea che si erano fatti della Francia, "la libertà". Sono caduti sotto i colpi del commando di terroristi Charb, il direttore, e i popolarissimi disegnatori satirici Wolinski, Cabu e Tignous. Li hanno cercati, uno per uno, in particolare Charb, autore di un'ultima vignetta tragicamente profetica, in cui scherzava su possibili attacchi terroristici imminenti in Francia. I testimoni parlano invece di un periodo di difese stranamente un po' allentate al giornale, da anni nel mirino del fanatismo per le sue provocazioni contro gli estremismi religiosi di ogni tipo. "Allah Akbar", hanno gridato i terroristi uscendo, filmati dall'alto in un video che - a partire da Le Monde - i media francesi si sono  impegnati a non diffondere o a pubblicare depurato delle scene più crude.

"Abbiamo vendicato il profeta", "abbiamo ucciso Charlie Hebdo, siamo di Al Qaida": queste le altre urla deliranti dei terroristi, i quali durante alcuni interminabili minuti hanno compiuto una mattanza scientifica, chiedendo ai giornalisti il loro nome prima di giustiziarli. Sotto i colpi, sono caduti anche l'economista Bernard Maris, che aveva una rubrica su Charlie Hebdo, con lo pseudonimo di Oncle Bernard, un addetto alla portineria, un poliziotto accorso in bicicletta dal commissariato vicino e un altro che era di guardia all'interno della redazione. I killer sono fuggiti su un'auto, poi l'hanno dovuta abbandonare dopo uno scontro con un veicolo guidato da una donna, hanno minacciato un altro automobilista e si sono allontanati con la sua auto. E proprio nell'auto gli agenti hanno trovato le loro carte d'identità. Nella banlieue nord di Parigi si è subito scatenata una caccia all'uomo senza precedenti.

Si concludono con altro sangue i tre giorni più lunghi per la Francia, cominciati con la strage in redazione a Charlie Hebdo e finiti con un doppio, simultaneo assalto dei reparti speciali francesi. Morti i tre terroristi, che hanno inneggiato ad al Qaida e all'Isis, morto un loro probabile fiancheggiatore. Morte anche quattro persone, ostaggio in un supermercato di prodotti kosher. "Usciremo da questa prova ancora più forti", ha detto il presidente Francois Hollande in tv, provando a risollevare i francesi atterriti da un incubo interminabile. Ma poi ha subito aggiunto che "per la Francia le minacce non sono finite".

Il terribile attacco ai vignettisti di Charlie Hebdo, poi il crudele assassinio di una giovane poliziotta, infine la fuga dei tre terroristi braccati come animali, i due fratelli integralisti Cherif e Said Kouachi e l'ultrà islamico di origine maliana Amedy Coulibaly. Nella fuga i due Kouachi avevano tentato di rubare un'auto, si sono scontrati con la polizia e, infine, si sono asserragliati in una tipografia della zona industriale della Seine-et-Marne, a est di Parigi, a ridosso dell'aeroporto Charles de Gaulle di Roissy. Contemporaneamente, si stringeva il cerchio attorno a Coulibaly, del quale non si era saputo più nulla dopo l'assassinio della giovane agente: fermati i genitori, un mandato veniva spiccato nei confronti suoi e della sua compagna, Hayat Boumeddiene.

I fratelli Kouachi non si erano resi conto di avere con loro un ostaggio. Dopo ore, sentendosi perduti e privi di potere di scambio con la polizia che li assediava, sono usciti dallo stabilimento sparando contro la polizia, alle 16.57. Seguendo gli ordini impartiti direttamente dal presidente Hollande, i reparti speciali hanno risposto al fuoco e hanno "neutralizzato" la minaccia. I due fratelli, che avevano fatto sapere di voler morire "da martiri", sono stati uccisi nello scontro a fuoco. Nel primo pomeriggio, intanto, era riemerso Coulibaly, di cui non si avevano notizie da ore. Era braccato, ha saputo dei suoi genitori fermati, ha sentito che era arrivato alla fine ed è passato al gesto estremo: kalashnikov in pugno, è entrato in un supermercato di prodotti kosher a Vincennes, periferia residenziale di Parigi, prendendo in ostaggio una decina di persone, fra cui donne e bambini, e gridando ai primi poliziotti arrivati: "sapete chi sono, sapete chi sono!".

Le ricostruzioni dicono che abbia ucciso subito quattro degli ostaggi, minacciando poi un massacro se fossero stati toccati i fratelli Kouachi. Ha avuto la calma e la concentrazione di telefonare alla redazione di BFMTV per mettere in chiaro che la sua azione era coordinata con i fratelli terroristi, che avrebbero dovuto occuparsi "loro di Charlie Hebdo, io dei poliziotti". Dopo essersi detto appartenente allo Stato islamico, si è preparato alla fine cominciando a pregare (i redattori di BFMTV hanno ascoltato le sue preghiere dal cellulare rimasto staccato). Anche a Vincennes, per ordine di Hollande, le teste di cuoio sono passate all'azione, esattamente tre minuti dopo Dammartin-en-Goele: fuoco e granate lacrimogene sul supermercato, irruzione ed esplosioni, poi il silenzio. Lentamente sono usciti i superstiti, mentre i soccorritori si dedicavano ai feriti. Cinque i morti accertati: Coulibaly e quattro ostaggi. Alcuni riferiscono però che tra le quattro vittime ci potrebbe essere un possibile complice del killer.


lunedì 6 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 gennaio.

Il 6 gennaio 1661 alcuni esponenti del "fifth monarchy man" tentano di prendere il controllo di Londra.

I Fifth Monarchy Men o Fifth Monarchists (Quinto-monarchisti) furono un movimento religioso millenarista inglese, attivo dal 1649 dal 1661, cioè per tutto il periodo del Commonwealth del Lord Protettore Oliver Cromwell (1599-1658). Il nome di quinto-monarchisti della setta prese origine dall'episodio del libro di Daniele, nell'Antico Testamento, dove il profeta interpretò il sogno del re Nabucodonosor, profetizzando l'avvento di un quinto regno, fatto sorgere da Dio e che avrebbe distrutto i precedenti e sarebbe durato per sempre.

Questi riferimenti al millenarismo furono molto frequenti durante gli anni 1640-1660, il ventennio della storia inglese che comprendeva la guerra civile, la decapitazione del re Carlo I (1625-1649), e il successivo interregno, periodo nel quale proliferarono sette e pubblicazioni apocalittiche, come il popolare The personal reign of Christ upon Earth (il regno personale di Cristo in terra) del 1642, scritto dal reverendo Henry Archer, il quale profetizzò la conversione dei giudei e la distruzione di turchi nel 1650 e la parusia (seconda venuta in terra di Cristo) per il 1700.

La setta generò intorno al 1649 da alcuni predicatori laici e religiosi indipendenti e battisti, che avevano in comune lo spirito millenarista, il cui messaggio era di prepararsi alla parusia, riformando il parlamento ed il governo inglese. Altri elementi erano l'amore fraterno per i poveri, il rilascio dal carcere dei debitori, l'abolizione delle tasse.

Il un primo momento i quinto monarchisti appoggiarono Oliver Cromwell, con la speranza che egli avrebbe riformato la società corrotta, e in ciò essi si allinearono alle attese del levellers di John Lilburne, ma quando Cromwell decise di perseguitare i levellers e di reprimere un tentativo di ammutinamento di solidarietà nell'esercito, usando la parte rimastagli fedele del New Model Army [l'esercito parlamentare, comandato da Sir Thomas Faifax (1601-1671)], nella battaglia di Burford del maggio 1649, essi si trovarono ad essere l'unica forza di opposizione al futuro Lord Protettore. Cromwell tuttavia li isolò progressivamente, dapprima sciogliendo nel dicembre 1653 il parlamento Barebone [chiamato così dal nome da uno dei suoi più influenti membri: Praise-God Barebone (ca.1596-1680)], dove i quinto monarchisti avevano un notevole appoggio dai delegati radicali, poi varando un nuovo parlamento e governo favorevoli alla sua politica.

Alfiere della protesta del movimento fu l'ex generale di brigata Thomas Harrison (1610-1660), deputato nel parlamento Barebone ed amico intimo di Cromwell. Forte della sua immagine di eroe nazionale, Harrison poté parlare a nome della setta, aiutando la loro causa, ma Cromwell spazzò via anche la sua opposizione, facendolo degradare ed arrestare per ben due volte pretestuosamente per sovversione. Ironia della sorte, Harrison fu fatto impiccare, e poi squartare mentre era ancora moribondo, non da già Cromwell, bensì nel 1660 dai realisti di Carlo II (1649-1685), che non gli avevano mai perdonato di aver firmato nel 1649 la condanna a morte di Carlo I.

Alla morte di Harrison, la leadership dell'ala più oltranzista della setta fu assunta dal commerciante in botti Thomas Venner (m.1661), che aveva già organizzato dei complotti, falliti, contro Cromwell nel 1657 e 1659. Venner tentò una disperata insurrezione nel gennaio 1661, ma, com'era prevedibile, il colpo fallì e Venner e gli altri capi della rivolta furono decapitati. Le successive repressioni stroncarono definitivamente il movimento, oltre a perseguitare anche altre sette, a causa delle loro dottrine simili, come i quaccheri, i giacobiti e i sabbatariani.

domenica 5 gennaio 2025

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 5 gennaio.

Il 5 gennaio 1984 la Mafia uccide il giornalista Giuseppe Fava.

Giuseppe Fava, detto Pippo, nasce il 15 settembre 1925 a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, figlio di Elena e Giuseppe, maestri in una scuola elementare. Trasferitosi a Catania nel 1943, si laurea in Giurisprudenza e diventa giornalista professionista: collabora con diverse testate, sia locali che nazionali, tra cui il "Tempo illustrato di Milano, "Tuttosport", "La Domenica del Corriere" e "Sport Sud".

Nel 1956 viene assunto dall'"Espresso sera": nominato caporedattore, scrive di calcio e cinema, ma anche di cronaca e politica, intervistando boss di Cosa Nostra come Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini. Nel frattempo, comincia a scrivere per il teatro: dopo l'inedito "Vortice" e "La qualcosa" (ideato a quattro mani con Pippo Baudo), nel 1966 crea "Cronaca di un uomo", che si aggiudica il Premio Vallecorsi, mentre quattro anni più tardi "La violenza", dopo aver vinto il Premio IDI, viene portato in tournée in tutta Italia (con debutto al Teatro Stabile di Catania).

Pippo Fava si dedica anche alla saggistica (nel 1967 pubblica per Ites "Processo alla Sicilia") e alla narrativa ("Pagine", sempre con la stessa casa editrice) prima di dare vita, nel 1972, a "Il proboviro. Opera buffa sugli italiani". In seguito, si avvicina al cinema, visto che Florestano Vancini dirige "La violenza: Quinto potere", trasposizione cinematografica del primo dramma di Fava. Mentre Luigi Zampa porta sul grande schermo "Gente di rispetto", il suo primo romanzo, Pippo Fava continua a lasciarsi ispirare dalla sua vena creativa: scrive per Bompiani "Gente di rispetto" e "Prima che vi uccidano", senza rinunciare alla passione per il teatro con "Bello, bellissimo", "Delirio" e "Opera buffa"; quindi lascia l'"Espresso sera" e si trasferisce a Roma, dove per Radiorai conduce la trasmissione radiofonica "Voi e io".

Mentre prosegue le collaborazioni con il Corriere della Sera e Il Tempo, scrive "Sinfonia d'amore", "Foemina ridens" e la sceneggiatura del film di Werner Schroeter "Palermo or Wofsburg", tratto dal suo libro "Passione di Michele": la pellicola conquista l'Orso d'Oro al Festival di Berlino nel 1980. Nello stesso anno, il giornalista e scrittore siciliano diventa direttore del "Giornale del Sud": accolto con un certo scetticismo nei primi tempi, progressivamente dà vita a una redazione giovane che comprende, tra gli altri, Rosario Lanza, Antonio Roccuzzo, Michele Gambino, Riccardo Orioles e suo figlio Claudio Fava.

Sotto la sua direzione, il quotidiano cambia rotta, e tra l'altro denuncia gli interessi di Cosa Nostra nel traffico di droga a Catania. L'esperienza al "Giornale del Sud", tuttavia, finisce nel giro di poco tempo: sia per l'avversione di Pippo Fava nei confronti della realizzazione di una base missilistica a Comiso, sia per il sostegno all'arresto del boss Alfio Ferlito, sia per il passaggio del quotidiano a una cordata di imprenditori (Giuseppe Aleppo, Gaetano Graci, Salvatore Costa e Salvatore Lo Turco, quest'ultimo in contatto con il boss Nitto Santapaola) dai profili non molto trasparenti.

Fava, all'inizio degli anni Ottanta, scampa a un attentato messo in pratica con una bomba realizzata con un chilo di tritolo; poco dopo il giornale viene censurato prima della stampa di una prima pagina dedicata alle attività illecite di Ferlito. Pippo, quindi, viene definitivamente licenziato, nonostante l'opposizione dei suoi colleghi (che occupano la redazione per una settimana, ricevendo ben poche attestazioni di solidarietà), e rimane senza lavoro.

Con i suoi collaboratori, dunque, decide di dare vita a una cooperativa, denominata "Radar", che si propone di finanziare un progetto editoriale nuovo: il gruppo pubblica il primo numero di una nuova rivista, intitolata "I Siciliani", nel novembre del 1982, pur non avendo mezzi operativi (due sole rotative Roland usate, comprate con cambiali). La rivista, con cadenza mensile, diventa un punto di riferimento per la lotta alla mafia, e le inchieste che vi vengono pubblicate attirano l'attenzione dei media di tutta Italia: non solo storie di delinquenza ordinaria, ma anche la denuncia delle infiltrazioni mafiose e l'opposizione alle basi missilistiche sull'isola.

Il primo articolo firmato da Pippo Fava si chiama "I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa", ed è una circostanziata denuncia delle attività illegali di quattro imprenditori catanesi, cavalieri del lavoro: Francesco Finocchiaro, Mario Rendo, Gaetano Graci e Carmelo Costanzo avrebbero legami diretti con il clan di Nitto Santapaola. Proprio due di loro, Graci e Rendo, nel 1983 tentano di comprare il giornale (insieme con Salvo Andò) per cercare di controllarlo: le loro richieste, però, vanno a vuoto. Il 28 dicembre del 1983 Fava rilascia un'intervista a Enzo Biagi per il programma "Filmstory" in onda su Raiuno, in cui rivela la presenza di mafiosi in Parlamento, al governo, nelle banche.

E' quello il suo ultimo intervento pubblico prima del suo assassinio che va in scena il 5 gennaio 1984: è il secondo intellettuale, dopo Giuseppe Impastato, a essere ucciso da Cosa Nostra. Alle nove e mezza di sera, il giornalista si trova in via dello Stadio a Catania, e si sta dirigendo al Teatro Verga per andare a prendere la nipote, impegnata a recitare in "Pensaci, Giacomino!": viene freddato da cinque colpi, proiettili calibro 7,65, che lo colpiscono alla nuca.

In principio la polizia e la stampa parlano di un delitto passionale, evidenziando che la pistola impiegata per l'omicidio non è tra quelle usate di norma negli eccidi mafiosi. Il sindaco Angelo Munzone, invece, sostiene l'ipotesi di motivi economici alla base dell'omicidio: anche per questo motivo evita l'organizzazione di cerimonie pubbliche.

Il funerale di Pippo Fava si tiene nella chiesa di Santa Maria della Guardia in Ognina, alla presenza di poche persone: la bara viene accompagnata soprattutto da operai e giovani, e le uniche autorità presenti sono il questore Agostino Conigliaro (uno dei pochi a credere alla pista del delitto di mafia), il presidente della Regione Sicilia Santi Nicita e alcuni membri del Partito Comunista Italiano. La rivista "I Siciliani" continuerà a uscire anche dopo la morte del fondatore. Il processo Orsa Maggiore 3, conclusosi nel 1998, individuerà come organizzatori dell'assassinio di Giuseppe Fava, Marcello D'Agata e Francesco Giammauso, come mandante il boss Nitto Santapaola e come esecutori Maurizio Avola e Aldo Ercolano.

 

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