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lunedì 30 aprile 2012
Radice Raphanus Sativum #Foto
Firenze - Mostra dell'Artigianato 2012 - I parte
Eravamo abituati che la Mostra dell'Artigianato iniziasse il 25 aprile e si chiudesse il 1 maggio e invece per il 2012 tutto viene cambiato, orari, programmi, location e colpi di scena come la rapina alla banca interna alla Fiera! Ma andiamo con ordine nel nostro diario di considerazioni libere.
Il 2012 presenta attivi solo due piani del padiglione Spadolini, il terzo, che nel 2011 era dedicato interamente ai prodotti alimentari tipici è deserto.
Che fine hanno fatto gli alimentari?
Semplice sono stati ridistribuiti al primo piano tra scarpe, borse e profumi.
E così nei corridoi aleggiano forti venti di formaggio sardo, misti al profumo d'incenso o di saponetta.
Martellante ed incessante l'odore della sfogliatella napoletana informata dalle 10.00 del mattino alle 21.00 di sera e quello del tartufo, dei salumi e del gorgonzola.
Cosa comporta però questo mescolamento? Che mentre la gran parte della massa si accalca davanti agli stand dove facevano assaggiare un cubettino di formaggio o un cappero, lo standista davanti era costretto a vedere lo spazio del corridoio a lui riservato adibito a corsia unica di transito. Avremmo anche voluto fotografare il produttore di ceramiche che il 25 aprile, giorno in cui si è registrato il massimo afflusso in fiera, non riparava a passare la scopa elettrica per pulire da solo la moquette che lo separava dallo stand delle olive dove, a dimostrazione dell'assoluta inciviltà, i visitatori gettavano cucchiaini e stuzzicadenti usati.
Il 2012 presenta attivi solo due piani del padiglione Spadolini, il terzo, che nel 2011 era dedicato interamente ai prodotti alimentari tipici è deserto.
Che fine hanno fatto gli alimentari?
Semplice sono stati ridistribuiti al primo piano tra scarpe, borse e profumi.
E così nei corridoi aleggiano forti venti di formaggio sardo, misti al profumo d'incenso o di saponetta.
Martellante ed incessante l'odore della sfogliatella napoletana informata dalle 10.00 del mattino alle 21.00 di sera e quello del tartufo, dei salumi e del gorgonzola.
TUTTI INSIEME APPASSIONATAMENTE.
Cosa comporta però questo mescolamento? Che mentre la gran parte della massa si accalca davanti agli stand dove facevano assaggiare un cubettino di formaggio o un cappero, lo standista davanti era costretto a vedere lo spazio del corridoio a lui riservato adibito a corsia unica di transito. Avremmo anche voluto fotografare il produttore di ceramiche che il 25 aprile, giorno in cui si è registrato il massimo afflusso in fiera, non riparava a passare la scopa elettrica per pulire da solo la moquette che lo separava dallo stand delle olive dove, a dimostrazione dell'assoluta inciviltà, i visitatori gettavano cucchiaini e stuzzicadenti usati.
#storia #musica #jazz: " l'essenziale dalle origini ad oggi "::
La musica più inclusiva che si possa ascoltare? Il jazz!
Un’idea che pare illogica e contraddittoria. Eppure questa musica è capace di realizzare in pieno questa idea.
Il jazz è diventato tanto fondamentale e tanto fecondo perché nel corso della sua storia in esso sono confluiti tantissimi altri generi in maniera del tutto spontanea e innovativa. Dal ragtime al blues, dal funk alla musica da ballo, dalla musica colta all’opera teatrale, dal samba alla bossanova.
Come il blues, anche il jazz è nato nelle comunità afro-americane del sud degli Stati Uniti trovando le sue prime espressioni agli inizi del XX secolo. Un genere vitale sin dall’inizio perché oltre alla musica americana, si è fatta portavoce di tradizioni musicali sia africane (soprattutto nel ritmo e nell’improvvisazione) che europee (specie nell’armonia e nella strumentazione). Di certo la caratteristica primaria e quasi onnipresente del jazz è l’improvvisazione.
Ripercorriamo in breve il suo incredibile percorso storico.
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IL JAZZ DELLE ORIGINI
Per la sua struttura e il suo tipico ritmo in 2/4, certamente il ragtime è da considerare come una prima forma embrionale di jazz. Sviluppatosi a cavallo tra l’800 e il 900, ebbe come suo principale esponente il leggendario Scott Joplin
Ma la patria del jazz fu indubbiamente New Orleans. Da lì provengono pionieri come Jelly Roll Morton, Joe “King” Oliver e Buddy Bolden che dopo aver formato una banda nel 1895 viene considerato il primo jazzista della storia. Un ruolo predominante lo ebbe il quartiere di Storyville che tra il 1986 e il 1917 fu teatro di delinquenza, di prostituzione e di una nuova musica che veniva suonata in ogni locale e in ogni angolo di strada. Probabilmente è a questo che si deve la pessima reputazione che nei primi tempi aleggiava sul jazz.
Negli anni ‘10 e ‘20 la migrazione degli afroamericani nelle città del nord porta molto rapidamente alla sua diffusione ma per ironia della sorte, nel 1917 il primo disco jazz ad essere pubblicato è ad opera di un complesso composto da soli bianchi. Si tratta di “Livery Stable Blues” dell’ Original Dixieland Jass Band.
Gli anni ‘20 vedono la definitiva affermazione del jazz anche grazie a musicisti come Louis Armstrong, il primo a rendere predominante la figura del solista e a Fletcher Henderson, pianista fondamentale nel divulgare il ruolo di leader e arrangiatore di un’orchestra. Nel frattempo, le prime tourneé concertistiche in Europa contribuiscono notevolmente alla diffusione del suo verbo oltreoceano.
L’ascesa del jazz è inarrestabile! Viene celebrata in letteratura come nel caso de “Il grande Gatsby” (1925) di Francis Scott Fitzgerald, e viene sublimata al cinema con “Il cantante di jazz” (1927), il primo film sonoro della storia diretto da Alan Crosland e interpretato da Al Jolson. E diviene da subito oggetto di studi con André Schaeffner, musicologo francese che nel 1926 pubblica un libro dal titolo inequivocabile: “Le jazz“.
Verso la fine degli anni ‘20 e fino ai ‘40 si distinguono le big band dirette da musicisti come Benny Goodman, Artie Shaw, Duke Ellington, Count Basie e Glenn Miller. Il successo di questi complessi allargati consente da un lato di mettere in luce molti solisti dotati e dall’altro di accompagnare la diffusione di nuovi balli. Il più celebre di questi balli fu di gran lunga lo swing (che porta l’accento ritmico sul secondo e sul quarto tempo della battuta) tant’è che per riferirsi a quel periodo si parla comunemente di ‘Swing Era’.
IL JAZZ DAL 1940 AD OGGI
L’avvento della seconda guerra mondiale pose fine al periodo delle grandi orchestre, non solo per le ristrettezze economiche. Gli anni ‘40 infatti, segnano un momento cruciale nel processo di maturazione del jazz. A New York, dalle jam session notturne di una nuova generazione di jazzisti, prende avvio la rivoluzione bebop. Il termine deriva dal caratteristico suono di due note che ricorrevano nei brani.
Era una musica basata su piccoli complessi che attraverso un approccio libero e ardito ristrutturava completamente l’idea di jazz dal punto di vista, armonico, ritmico, melodico e sonoro. Furono molti i protagonisti storici di quel periodo. Da Charlie Parker e Dizzy Gillespie (i due esponenti principali del movimento), a Thelonius Monk, Bud Powell, Fats Navarro, Miles Davis, Charles Mingus, Kenny Clarke, Max Roach, John Coltrane e tanti tanti altri nomi fondamentali che di lì a poco entreranno nella mitologia jazzistica.
Nel frattempo con l’avvento dei dischi a microsolco (1949), i jazzisti hanno la possibilità di sperimentare nuove soluzioni e trovare nuove formule per esprimere la loro creatività grazie ai tempi più lunghi. E’ da qui che il jazz abbandona i favori del pubblico di massa per iniziare un incredibile sviluppo artistico che farà degli anni ‘50 e ‘60 un periodo dorato.
Vengono battuti sentieri di straordinaria influenza ed importanza come il cool jazz (dallo stile melodico e rilassato), il jazz modale (basato sulle scale modali di origine greca anziché sulla successione degli accordi) e il free jazz (caratterizzato da metriche irregolari e un anti-schematismo di base che rende tutti e perennemente solisti).
Attraverso un’altra generazione di straordinari musicisti il jazz continua a produrre linfa vitale anche nei decenni successivi (Herbie Hancock, Wayne Shorter, Joe Zawinul, Keith Jarreth, Chick Corea, Pat Metheny, ecc. ). Negli anni ‘70 si diffonde la fusion (o jazz fusion), un nuovo stile che porta alla contaminazione col rock e col funk e all’utilizzo di strumenti elettrici ed elettronici.
Verso la fine degli anni ‘80 nasce l’acid jazz, ennesima forma di integrazione tra elementi jazz e vecchi e nuovi stili che si impongono sulla scena musicale, in particolare hip hop, house e soul. La sua storia continua e, come ha sempre fatto, si insinua in un modo o nell’altro in qualunque altro tipo di musica.
Una storia meravigliosa! Una storia da raccontare ma soprattutto da ascoltare!
fonte web: http://musicarmonica.com/educazione-cultura/breve-storia-del-jazz-lessenziale-dalle-origini-ad-oggi/
#musica: giornata internazionale del jazz
Oggi l'UNESCO invita alla celebrazione della giornata internazionale del jazz. Tante le occasioni in Italia, pensate appositamente o incidentali, tra cui menzioniamo:
Roma: celebrazioni ufficiali all'Auditorium Parco della Musica. Dopo una breve introduzione sulla musica Jazz a cura di Adriano Mazzoletti, uno dei massimi esperti del Jazz in Italia, seguirà il concerto con Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria.
Matera: sono annunciate celebrazioni che culmineranno con l'esibizione del gruppo ''Gianfranco Menzella trio''.
Torino: prosegue il programma del Torino Jazz Festival che, pur non menzionando l'occasione, prevede un concerto commemorativo dedicato a Lionel Hampton e una jam in stile New York City con il sassofonista Paul Jeffrey.
RAI: il palinsesto di Radio3 prevede incursioni e improvvisazioni musicali: i musicisti irromperanno dal vivo durante le trasmissioni.
Pisa: al cinema Arsenale saranno presentati alcuni documentari su musicisti jazz realizzati da Franco Maresco.
Lecce: un'intera giornata di eventi in tutta la città che culminerà in serata con il concerto del Puglia Jazz Factory & Guest.
Tante altre le occasioni che certamente stiamo omettendo. Riferiteci di altre iniziative, le più improvvisate piuttosto che quelle appositamente programmate.
Ci auguriamo che non tanto in ossequio all'invito del prestigioso ente, quanto per testimoniare la valenza dello spirito dichiarato della celebrazione, che sia una giornata di unione spontanea in musica per nutrire il dialogo interculturale.
© 2012 Accademia dei Sensi - Licenza CC BY-NC-ND 3.0
domenica 29 aprile 2012
Un ultimo bacio - #racconto #noir #labbra #amore #delizia #bacio #oblio::
Non è che sia proprio tutto a fuoco. Alcuni degli ultimi avvenimenti sono un po’ confusi.
Dunque.
Sono
sulla mia auto. Direzione: Parigi. Ah, la Ville Lumière! La notte e un
bicchiere di troppo mi pesano sulle palpebre. Sono quasi arrivato.
Mancano forse una cinquantina di chilometri, ma ad una ennesima sbandata
mi decido a fermarmi per riposare. Un Ibis alla prossima area di sosta.
Fantastico. Cazzo.
Mi
fermo. Credo sia mezzanotte passata. Qualche ora di sonno e domani
entro splendido in città. Risolvo tutti i problemi e torno di filato tra
le cosce di mia moglie. Si, come no.
Comunque
entro. Bonsoir, dico. Parlotto con la cessa alla reception. Poi mi giro
e vedo una stanga bionda che legge una rivista.
Ricordo
due gambe infilate in calze a rete nere. Gioia di qualunque uomo sano.
Anch’io mi metto un po’ a sbavare. Poi dalle pagine spuntano due occhi
verdi. Sono perso. Cazzo.
Non
ho tutto chiaro di quei momenti. L’unica cosa che ricordo è lei che
cammina davanti a me in un dondolio di stoffa e culo. Un profumo.
Intenso.
I
corridoi dell’Ibis si dilatano nella mia mente. Gommosi. Infiniti. Lei
cammina ed io non riesco a raggiungerla. Lei non si volta. Mai. Sa che
la sto seguendo come un cane.
Poi buio.
E lingue.
E sudore.
E orgasmi.
Quelli me li ricordo bene. Mai fatta roba del genere.
Va avanti ore. Insaziabile. E io che scodinzolo tentando in tutti i modi di darle lo stesso piacere.
Lei niente.
Ha un forno tra le cosce ma sul viso un’espressione fredda. Quasi distaccata.
Poi un bagliore.
Nei suoi occhi, nell’acciaio. In quel momento si che gli occhi hanno un guizzo.
Dolore.
Cazzo!
Buio.
Mi
sveglio. E penso quanto sono stato coglione. Mentre le palpebre mi
ricadono lente e i pensieri vagano liberi privi di senso e questo
dondolio mi culla come una madre e questa vibrazione mi stordisce con
delizia.
Tutto finisce.
Voci.
Luce.
La rivedo.
Cristo
comincia già a puzzare dice, mentre qualcuno afferra i miei arti e li
getta sparpagliati in un fosso. Lato della strada. Lei mi afferra i
capelli. Scivolando nell’oblio mi pare di sentire sulle labbra un ultimo
bacio.
fonte web: http://racconti-brevi.blogspot.it/2012/01/un-ultimo-bacio-racconto-breve-noir.html#mor
#leggenda #Naru #sole #delfino #amore #mare
Naru era un giovane molto bello e ambito da tutte le ragazze della sua tribù. Il padre lo esortava a sposarsi, ma lui rifiutava.
"Amero' soltanto la figlia del Sole", diceva tra sè.
Visto che tutti lo prendevano in giro, Naru sali' sul monte piu' alto e chiamo' il Sole. Gli voleva chiedere la mano della sua bellissima figlia. Ma il Sole era troppo lontano e non riusciva a sentire i richiami del ragazzo. Naru era disperato perche' se non riusciva nemmeno a parlare con il Sole, come avrebbe potuto convincerlo a concedere la mano della giovane? Gli animali della foresta, che gli volevano bene, cercarono di aiutarlo. La lepre disse che spesso il Sole e sua figlia scendevano dal cielo per tuffarsi nel mare. Ma di solito lo facevano all'ora del tramonto.
"Aspetterò" , pensò Naru
http://www.scienze-naturali.com/wp-content/uploads/2012/03/delfini.jpg |
E infatti quella sera li vide scendere e buttarsi in mare, per divertisi tra le onde. Naru mando' un delfino a consegnare una lettera al Sole. Appena la grande stella lesse il messaggio si stupi' per il coraggio dimostrato da quel giovane.
"Chi e', o delfino, il ragazzo che ti ha consegnato la lettera?", disse il Sole.
Il delfino gli indico' il bellissimo ragazzo che aspettava sulla spiaggia. La lettera era cosi' bella, che il Sole decise di avvicinarsi per conoscere quel temerario. Anche Luce, sua figlia, si era incuriosita e stava gia' fantasticando sul suo innamorato. Ma quando i due sovrani del cielo arrivarono sulla riva del mare, videro gli animali e il ragazzo fuggire veloci. Il calore che accompagnava il Sole era cosi' straordinario, che nessuno poteva sopportarlo. La storia d'amore tra i due giovani non comincio' mai. Entrambi soffrirono molto e anche il Sole provo' dispiacere, perche' capi' che poteva fare del bene agli uomini solo stando molto lontano da loro.
fonte web: http://tavernaelfica.forum-express.net/t1650-naru-e-la-figlia-del-sole
#podomatic #accademia dei sensi #poesia: Primula legge: Monti
http://www.windoweb.it/desktop_temi/foto_montagne/foto_montag |
Autrice: Robbi
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Musica:
Romantic piano
di Fryderyk Chopin
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Le quatto candele: #messaggio #pace #fede #amore #speranza::
Le quattro
candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso,
che si poteva ascoltare la loro conversazione.
La prima diceva:
"IO SONO LA PACE,
ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare
che spegnermi!"
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.
La seconda disse:
"IO SONO LA FEDE
purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me,
non ha senso che io resti accesa".
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.
Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
"IO SONO L'AMORE
non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano
E non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!"
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.
...Un bimbo in quel momento entrò nella stanza
e vide le tre candele spente.
"Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese,
io ho paura del buio!"
E così dicendo scoppiò in lacrime.
Allora la quarta candela, impietositasi disse:
"Non temere, non piangere:
finchè io sarò accesa, potremo sempre
riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA"
Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime,
il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.
CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA
DENTRO IL NOSTRO CUORE...
...e che ciascuno di noi possa essere
lo strumento, come quel bimbo,
capace in ogni momento di riaccendere
con la sua Speranza,
la FEDE, la PACE e l'AMORE.
Il luogo era talmente silenzioso,
che si poteva ascoltare la loro conversazione.
La prima diceva:
"IO SONO LA PACE,
ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare
che spegnermi!"
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.
La seconda disse:
"IO SONO LA FEDE
purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me,
non ha senso che io resti accesa".
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.
Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
"IO SONO L'AMORE
non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano
E non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!"
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.
...Un bimbo in quel momento entrò nella stanza
e vide le tre candele spente.
"Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese,
io ho paura del buio!"
E così dicendo scoppiò in lacrime.
Allora la quarta candela, impietositasi disse:
"Non temere, non piangere:
finchè io sarò accesa, potremo sempre
riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA"
Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime,
il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.
CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA
DENTRO IL NOSTRO CUORE...
...e che ciascuno di noi possa essere
lo strumento, come quel bimbo,
capace in ogni momento di riaccendere
con la sua Speranza,
la FEDE, la PACE e l'AMORE.
http://www.oasidelpensiero.it/storie_e_pens_anima/Messaggio%20di%20speranza/Messaggio_speranza.html
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Ti ho fatta per ritrovarmi #Anne Sexton #La doppia immagine #disturbo bipolare #depressione #suicidio #maternità #ospedale psichiatrico #madre/figlia #poesia #citazione
La Doppia Immagine (Anne Sexton)
Greta Bisandola, Madri e figlie
A novembre compio trent'anni.
Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
turbinano nella pioggia d'inverno,
cadono e s'acquattano. Ed io ricordo
i tre autunni che non hai passato qui.
Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
Ti dico quel che mai saprai davvero:
le congetture mediche
che spiegano il cervello non saranno mai reali
quanto queste foglie abbattute.
Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,
ti avevo dato un nomignolo
appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
poi una febbre t'è rantolata in gola
ed io mi muovevo come una pantomima
attorno al tuo capino.
Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
dicevano, era mia. Facevano gli spioni
come streghe verdi versando nella testa la rovina
come un rubinetto rotto;
come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
un vecchio debito che dovevo accollarmi.
La morte era più semplice di quanto credessi.
Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva
Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
Ho finto d'esser morta
finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,
m'hanno messo senza braccia e slavata
nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.
Oggi le foglie gialle
sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia,
ama il tuo essere dove adesso vive.
Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,
allora perché t'ho fatto crescere altrove.
Tu non riconoscevi la mia voce
quando tornavo a casa a trovarti.
Tutti i superlativi
di alberi di Natale e vischi del futuro
non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
Nel tempo che non amai me stessa
venni in visita a te su marciapiedi spalati,
mi tenevi per un guanto.
Dopo questo fu di nuovo neve.
2.
Mi hanno spedito lettere con tue notizie
e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
Quando cominciai a sopportarmi
andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
Non me ne sono andata.
Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno
venni alla casa di mia madre a Gloucester.
Ed ecco come venni ad abbrancarla,
ed ecco come venni a perderla.
Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
Non l'hai mai potuto.
Ma un ritratto lei m'ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso,
parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
Non mi pareva interessante.
Ma un ritratto mi son fatto.
C'era una chiesa là dove sono cresciuta,
là in bianchi armadi fummo inchiavati
come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
Mio padre passava col piattino per la questua.
Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
E non fui propriamente perdonata.
Ma un ritratto m'hanno fatto.
3.
Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano
a pioggia sull'erba rivierasca.
Parlavamo di siccità
mentre il prato corroso dal salmastro
nuovamente raddolciva.
Per passare il tempo falciavo l'erba
e la mattina mi facevo fare il ritratto,
fissando il sorriso nella formalità.
Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
e una cartolina col Motif number one
come se fosse normale
essere madre ed essersene andata.
Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
del lato nord, che bene mi si addice,
per farmi stare bene.
Soltanto mia madre s'ammalò.
Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
come se la morte si riflettesse,
come se il mio morire l'avesse corrosa.
Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
Il primo settembre mi guardò in faccia
e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
Le mozzarono le colline dolci
e ancora non avevo la risposta.
4.
Quell'inverno lei tornò
parziale ritorno
alla sterile suite
di medici, nauseante
crociera di raggi X,
l'aritmetica delle cellule impazzita.
Parziale intervento,
braccio grasso, prognosi infausta,
li ho sentiti dire.
Durante le burrasche marine
lei si fece fare il ritratto.
Caverna di uno specchio,
appeso al lato sud;
una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
E tu mi assomigliavi sconosciuto
viso mio, tu lo indossavi.
Dopotutto eri mia.
Ho svernato a Boston,
sposa senza figli,
niente di dolce da spartire,
con le streghe a fianco.
Ho perduto la tua infanzia,
tentato un altro suicidio,
subito il secondo hotel dei sigilli.
M'hai fatto un Pesce d'Aprile.
Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.
5.
Per l'ultima volta m'hanno dimesso
il primo maggio;
laureata in casi mentali,
con l'assenso dell'analista,
un libro finito di versi,
la macchina da scrivere e le borse.
Quell'estate imparai a rimettere vita
nelle mie sette stanze,
andavo su barchette a cigno, al mercato,
rispondevo al telefono,
da brava moglie offrivo da bere,
facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.
E tu venivi ogni weekend. No, mento.
Venivi di rado. Fingevo che c'eri
bimba farfalla, porcellina
guance di gelatina,
tre anni di disobbedienza,
ma splendida sconosciuta.
E dovevo imparare
perché volevo morire invece che amare,
perché mi faceva male la tua innocenza,
e perché accumulo le colpe
come un giovane internista
rivela i sintomi e la certa evidenza.
Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester
le colline rosse mi ricordavano
la pelliccia di volpe rossa sdrucita
in cui giocavo da bambina,
immobile come un orso, una tenda,
una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.
Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
il baracchino dove vendono l'esca,
Pigeon Cove, lo Yacht Club,
Squall Hill, verso la casa in attesa
ancora, la casa sul mare.
E due ritratti sono appesi su opposte pareti.
6.
Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
risalta nell'ombra il mio viso ossuto.
Mentre posavo lì cosa avevo sognato
tutta me negli occhi in attesa,
il giovane viso, la zona del sorriso,
trappola per volpi.
Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
le guance vizze come orchidee appassite;
mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
quella testa di morte impietrita
che avevo sopraffatto.
L'artista ci fissò alla svolta;
si sorrideva inquadrate nelle tele
prima di scegliere strade da prima separate.
La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
Mi decompongo sulla parete
come Dorian Grey.
E questa fu caverna di uno specchio,
una donna sdoppiata che si fissa
come se il tempo l'avesse impietrita
- due signore in terra d'ombra assise -
Hai dato un bacio alla nonna,
e lei ha pianto.
7.
Non potevo tenerti
tranne il weekend. Ogni volta venivi
stringendo il disegnino del coniglio
che ti avevo spedito. Per l'ultima volta
disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
La prima volta hai chiesto il mio nome.
Ora rimani per sempre. Dimenticherò
che sbalzavamo cozzandoci come marionette
appese a fili. Non era l'amore
ridursi al weekend.
Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
traballando sul marciapiede piangi e chiami.
Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
che altrove, nei dintorni di Boston, muore.
Ricordo che ti chiamammo Gioia
per poterti chiamare gioia.
Arrivasti come un ospite imbarazzato
allora, tutta fasciata umida meraviglia
alla mia mammella pesante.
Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
da sempre amata, da sempre esuberante
nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
Io, che non fui mai certa d'esser femmina,
avevo bisogno di un'altra vita,
di un'altra immagine per ricordarmi.
E fu questa la mia più grave colpa;
tu non potevi curarla o lenirla.
Ti ho fatta per trovarmi.
Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
turbinano nella pioggia d'inverno,
cadono e s'acquattano. Ed io ricordo
i tre autunni che non hai passato qui.
Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
Ti dico quel che mai saprai davvero:
le congetture mediche
che spiegano il cervello non saranno mai reali
quanto queste foglie abbattute.
Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,
ti avevo dato un nomignolo
appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
poi una febbre t'è rantolata in gola
ed io mi muovevo come una pantomima
attorno al tuo capino.
Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
dicevano, era mia. Facevano gli spioni
come streghe verdi versando nella testa la rovina
come un rubinetto rotto;
come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
un vecchio debito che dovevo accollarmi.
La morte era più semplice di quanto credessi.
Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva
Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
Ho finto d'esser morta
finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,
m'hanno messo senza braccia e slavata
nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.
Oggi le foglie gialle
sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia,
ama il tuo essere dove adesso vive.
Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,
allora perché t'ho fatto crescere altrove.
Tu non riconoscevi la mia voce
quando tornavo a casa a trovarti.
Tutti i superlativi
di alberi di Natale e vischi del futuro
non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
Nel tempo che non amai me stessa
venni in visita a te su marciapiedi spalati,
mi tenevi per un guanto.
Dopo questo fu di nuovo neve.
2.
Mi hanno spedito lettere con tue notizie
e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
Quando cominciai a sopportarmi
andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
Non me ne sono andata.
Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno
venni alla casa di mia madre a Gloucester.
Ed ecco come venni ad abbrancarla,
ed ecco come venni a perderla.
Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
Non l'hai mai potuto.
Ma un ritratto lei m'ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso,
parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
Non mi pareva interessante.
Ma un ritratto mi son fatto.
C'era una chiesa là dove sono cresciuta,
là in bianchi armadi fummo inchiavati
come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
Mio padre passava col piattino per la questua.
Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
E non fui propriamente perdonata.
Ma un ritratto m'hanno fatto.
3.
Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano
a pioggia sull'erba rivierasca.
Parlavamo di siccità
mentre il prato corroso dal salmastro
nuovamente raddolciva.
Per passare il tempo falciavo l'erba
e la mattina mi facevo fare il ritratto,
fissando il sorriso nella formalità.
Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
e una cartolina col Motif number one
come se fosse normale
essere madre ed essersene andata.
Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
del lato nord, che bene mi si addice,
per farmi stare bene.
Soltanto mia madre s'ammalò.
Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
come se la morte si riflettesse,
come se il mio morire l'avesse corrosa.
Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
Il primo settembre mi guardò in faccia
e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
Le mozzarono le colline dolci
e ancora non avevo la risposta.
4.
Quell'inverno lei tornò
parziale ritorno
alla sterile suite
di medici, nauseante
crociera di raggi X,
l'aritmetica delle cellule impazzita.
Parziale intervento,
braccio grasso, prognosi infausta,
li ho sentiti dire.
Durante le burrasche marine
lei si fece fare il ritratto.
Caverna di uno specchio,
appeso al lato sud;
una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
E tu mi assomigliavi sconosciuto
viso mio, tu lo indossavi.
Dopotutto eri mia.
Ho svernato a Boston,
sposa senza figli,
niente di dolce da spartire,
con le streghe a fianco.
Ho perduto la tua infanzia,
tentato un altro suicidio,
subito il secondo hotel dei sigilli.
M'hai fatto un Pesce d'Aprile.
Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.
5.
Per l'ultima volta m'hanno dimesso
il primo maggio;
laureata in casi mentali,
con l'assenso dell'analista,
un libro finito di versi,
la macchina da scrivere e le borse.
Quell'estate imparai a rimettere vita
nelle mie sette stanze,
andavo su barchette a cigno, al mercato,
rispondevo al telefono,
da brava moglie offrivo da bere,
facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.
E tu venivi ogni weekend. No, mento.
Venivi di rado. Fingevo che c'eri
bimba farfalla, porcellina
guance di gelatina,
tre anni di disobbedienza,
ma splendida sconosciuta.
E dovevo imparare
perché volevo morire invece che amare,
perché mi faceva male la tua innocenza,
e perché accumulo le colpe
come un giovane internista
rivela i sintomi e la certa evidenza.
Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester
le colline rosse mi ricordavano
la pelliccia di volpe rossa sdrucita
in cui giocavo da bambina,
immobile come un orso, una tenda,
una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.
Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
il baracchino dove vendono l'esca,
Pigeon Cove, lo Yacht Club,
Squall Hill, verso la casa in attesa
ancora, la casa sul mare.
E due ritratti sono appesi su opposte pareti.
6.
Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
risalta nell'ombra il mio viso ossuto.
Mentre posavo lì cosa avevo sognato
tutta me negli occhi in attesa,
il giovane viso, la zona del sorriso,
trappola per volpi.
Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
le guance vizze come orchidee appassite;
mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
quella testa di morte impietrita
che avevo sopraffatto.
L'artista ci fissò alla svolta;
si sorrideva inquadrate nelle tele
prima di scegliere strade da prima separate.
La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
Mi decompongo sulla parete
come Dorian Grey.
E questa fu caverna di uno specchio,
una donna sdoppiata che si fissa
come se il tempo l'avesse impietrita
- due signore in terra d'ombra assise -
Hai dato un bacio alla nonna,
e lei ha pianto.
7.
Non potevo tenerti
tranne il weekend. Ogni volta venivi
stringendo il disegnino del coniglio
che ti avevo spedito. Per l'ultima volta
disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
La prima volta hai chiesto il mio nome.
Ora rimani per sempre. Dimenticherò
che sbalzavamo cozzandoci come marionette
appese a fili. Non era l'amore
ridursi al weekend.
Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
traballando sul marciapiede piangi e chiami.
Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
che altrove, nei dintorni di Boston, muore.
Ricordo che ti chiamammo Gioia
per poterti chiamare gioia.
Arrivasti come un ospite imbarazzato
allora, tutta fasciata umida meraviglia
alla mia mammella pesante.
Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
da sempre amata, da sempre esuberante
nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
Io, che non fui mai certa d'esser femmina,
avevo bisogno di un'altra vita,
di un'altra immagine per ricordarmi.
E fu questa la mia più grave colpa;
tu non potevi curarla o lenirla.
Ti ho fatta per trovarmi.
sabato 28 aprile 2012
#amore #tormento #dissapori #gelosia : Eleonora Duse - Gabriele D'annunzio:
“Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato”.
Sono le parole di Eleonora Duse nei confronti di quello che fu l’unico amore della sua vita, anche se il loro rapporto fu parecchio tormentato. La Divina lo amò senza riserve, ma il Vate la tradì non solo dal punto di vista sentimentale, ma anche sul lato professionale. Il Vate si servì della Duse che fu costretta a pagare i tanti creditori del poeta, Gabriele D’Annunzio, amante del lusso, oltreché delle donne. Si contano ben quattromila amanti.
Lui ha cinque anni meno di lei e non se li porta molto bene. Non è mai stato un bell’uomo. Alto 1 metro e 64 aveva persino i denti cariati, ma era un grande affabulatore. Si erano intravisti in un paio di occasioni.
La loro storia comincia con uno scambio epistolare. La Duse che ha appena letto L’innocente convince il Vate a preparare un’opera per lei da portare in scena. Il poeta non ha altro testo pronto che Elegie romane.. Ma è dopo aver letto Il Trionfo della morte che la Duse comincia a sentire per lui un’attrazione morbosa. Lo chiama il poeta infernale. Lui esercita su di lei un fascino ambiguo di attrazione e insieme di ripulsa. “Preferirei morire in un cantone piuttosto che amare un’anima tale. D’annunzio lo detesto, ma lo adoro” confiderà ad Arrigo Boito, poeta, compositore, fino a quel momento l’uomo più importante della sua vita.
D’annunzio si dona, e la Duse si preoccupa di esaudire tutti i suoi capricci. Nell’autunno del 1895 i due amanti stringono il cosiddetto Patto d’Alleanza, come scrive Laura Laurenzi nel suo Amori e Furori (Bur). vagheggiando un teatro dell’avvenire, che non si realizzerà mai.
I due, così, vicini, non lasciano i rispettivi partner. La situazione più complicata è quella del Poeta. “Dopo- scrive Laurenzi- il matrimonio riparatore con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, 18 anni, abbandonata al terzo figlio e l’appassionata relazione con Barbara Leoni, è legato ad una focosa principessa siciliana, che gli ha dato una bambina, Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, già separata e madre di quattro figli. Il marito tradito sfida D’annunzio a duello e lo trascina in tribunale con Maria. Saranno condannati a cinque mesi, ma no non sconteranno la pena per un’amnistia. Secondo alcuni biografi centocinquanta sarebbero state le sue amanti certe. Mezzo migliaio, secondo altri. Addirittura quattromila, quelle che affollarono il suo harem, dove non mancavano sniffate di cocacina.
La Duse, figlia di attori girovaghi, debutta sulle scene a cinque anni nella parte di Cosetta. A 21 anni viene sedotta e abbandonata da Martino Cafiero, giornalista napoletano e deputato, bello e brillante. Qualche anno più tardi Cafiero sarà stroncato dal colera. L’aveva messa incinta.
In tutte le sue disavventure la Divina poteva contare su un’amica vera: Matilde Serao.
Di nuovo in attesa di un bimbo, sposerà, ma senza esserne innamorata un amore di secondo piano Tebaldo Checchi. Da lui avrà Enrichetta, che vivrà sempre lontana dai genitori. I due figli di Enrichetta prenderanno entrambi i voti.
Ad infiammare l’attrice sarà solo D’annunzio, a cui un giorno lei scrive: “Ti amo, ti amo e non oso più dirtelo”. Ma il Vate è sempre sfuggente, capriccioso e soprattutto attivo. Per non dormire assumerà stricnina come stimolante del sistema nervoso. Perché “gli araldi della gloria-diceva - sono l’insonnia e l’attivismo”.
Intanto il suo Sogno di un mattino di primavera, sua opera teatrale andato in scena a Roma è un fiasco. E non viene accolto bene neanche a Parigi. Lui se la prende con Eleonora. Comincia a corteggiare l’attrice Sarah Bernhardt, che egli giudica più celebre e più adatta a soddisfare le sue ambizioni.
Tanta la differenza tra le due. La prima “molto più moderna- scrive Laurenzi- è un’interprete rivoluzionaria , detesta la gestualità ampia” olteché i belletti. L’altra è ottocentesca e trova il Vate parecchio brutto. Sembra abbia confidato ad un amico che gli occhi del Poeta sembravano due piccole cacche.
Per Sarah, 54 anni, D’annunzio scriverà Francesca da Rimini, altra tragedia che riscuote un discreto successo. “Alla Duse - è scritto nel libro di Laurenzi - l’allestimento è costato la cifra esorbitante di 400 mila lire. E quando il Vate, come invasato, scrive la Città morta, la Duse, indebitatissima, accetta una nuova tournèe in America pur di accantonare i fondi necessari a poter mettere in scena la pièce”. Ma una volta tornata, scopre che il ruolo di Anna, la cieca è stato affidato alla Bernhardt.
Cominciano i primi dissapori e il poeta continua a farle del male. Lei sembra più una madre rassegnata che un’amante. A lei toglierà il ruolo di protagonista nella Figlia di Iorio, scritto per la Duse, che invece sarà affidato, ad insaputa della Divina ad Irma Gramatica, più fresca per interpretare Mila di Codra. E’ la rottura. Ma D’annunzio non rimarrà solo. Si innamorerà della marchesa Alessandra di Rudinì, figlia dell’ex presidente del Consiglio.
Nel 1904 Eleonora scrive una lettera al Vate, in cui gli chiede di non scrivere più parole dolci.
A 51 anni ormai malata la Divina torna sul palco. Ma all’età di 66 anni, il lunedì di Pasqua del ’24 muore di tubercolosi. Sola. Anche se nel ’22 si erano rivisti per caso a Milano, dopo diciotto anni.
“Devastato dal rimorso- scrive Laurenzi- D’annunzio dice per la prima volta la verità: E’ morta quella che non meritai”.
Cinzia Ficco
fonte web: http://www.amicidiromeo.com/index.php?le-grandi-storie-d-amore-degli-ultimi-cent-anni_55/amori-tormentati-eleonora-duse-e-gabriele-d-annunzio_69/
http://it.wikipedia.org/wiki/File:Eleonora_Duse.jpg |
Sono le parole di Eleonora Duse nei confronti di quello che fu l’unico amore della sua vita, anche se il loro rapporto fu parecchio tormentato. La Divina lo amò senza riserve, ma il Vate la tradì non solo dal punto di vista sentimentale, ma anche sul lato professionale. Il Vate si servì della Duse che fu costretta a pagare i tanti creditori del poeta, Gabriele D’Annunzio, amante del lusso, oltreché delle donne. Si contano ben quattromila amanti.
Lui ha cinque anni meno di lei e non se li porta molto bene. Non è mai stato un bell’uomo. Alto 1 metro e 64 aveva persino i denti cariati, ma era un grande affabulatore. Si erano intravisti in un paio di occasioni.
La loro storia comincia con uno scambio epistolare. La Duse che ha appena letto L’innocente convince il Vate a preparare un’opera per lei da portare in scena. Il poeta non ha altro testo pronto che Elegie romane.. Ma è dopo aver letto Il Trionfo della morte che la Duse comincia a sentire per lui un’attrazione morbosa. Lo chiama il poeta infernale. Lui esercita su di lei un fascino ambiguo di attrazione e insieme di ripulsa. “Preferirei morire in un cantone piuttosto che amare un’anima tale. D’annunzio lo detesto, ma lo adoro” confiderà ad Arrigo Boito, poeta, compositore, fino a quel momento l’uomo più importante della sua vita.
D’annunzio si dona, e la Duse si preoccupa di esaudire tutti i suoi capricci. Nell’autunno del 1895 i due amanti stringono il cosiddetto Patto d’Alleanza, come scrive Laura Laurenzi nel suo Amori e Furori (Bur). vagheggiando un teatro dell’avvenire, che non si realizzerà mai.
http://it.wikipedia.org/wiki/File:D%27Annunzio_2.jpg |
I due, così, vicini, non lasciano i rispettivi partner. La situazione più complicata è quella del Poeta. “Dopo- scrive Laurenzi- il matrimonio riparatore con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, 18 anni, abbandonata al terzo figlio e l’appassionata relazione con Barbara Leoni, è legato ad una focosa principessa siciliana, che gli ha dato una bambina, Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, già separata e madre di quattro figli. Il marito tradito sfida D’annunzio a duello e lo trascina in tribunale con Maria. Saranno condannati a cinque mesi, ma no non sconteranno la pena per un’amnistia. Secondo alcuni biografi centocinquanta sarebbero state le sue amanti certe. Mezzo migliaio, secondo altri. Addirittura quattromila, quelle che affollarono il suo harem, dove non mancavano sniffate di cocacina.
La Duse, figlia di attori girovaghi, debutta sulle scene a cinque anni nella parte di Cosetta. A 21 anni viene sedotta e abbandonata da Martino Cafiero, giornalista napoletano e deputato, bello e brillante. Qualche anno più tardi Cafiero sarà stroncato dal colera. L’aveva messa incinta.
In tutte le sue disavventure la Divina poteva contare su un’amica vera: Matilde Serao.
Di nuovo in attesa di un bimbo, sposerà, ma senza esserne innamorata un amore di secondo piano Tebaldo Checchi. Da lui avrà Enrichetta, che vivrà sempre lontana dai genitori. I due figli di Enrichetta prenderanno entrambi i voti.
Ad infiammare l’attrice sarà solo D’annunzio, a cui un giorno lei scrive: “Ti amo, ti amo e non oso più dirtelo”. Ma il Vate è sempre sfuggente, capriccioso e soprattutto attivo. Per non dormire assumerà stricnina come stimolante del sistema nervoso. Perché “gli araldi della gloria-diceva - sono l’insonnia e l’attivismo”.
Intanto il suo Sogno di un mattino di primavera, sua opera teatrale andato in scena a Roma è un fiasco. E non viene accolto bene neanche a Parigi. Lui se la prende con Eleonora. Comincia a corteggiare l’attrice Sarah Bernhardt, che egli giudica più celebre e più adatta a soddisfare le sue ambizioni.
Tanta la differenza tra le due. La prima “molto più moderna- scrive Laurenzi- è un’interprete rivoluzionaria , detesta la gestualità ampia” olteché i belletti. L’altra è ottocentesca e trova il Vate parecchio brutto. Sembra abbia confidato ad un amico che gli occhi del Poeta sembravano due piccole cacche.
Per Sarah, 54 anni, D’annunzio scriverà Francesca da Rimini, altra tragedia che riscuote un discreto successo. “Alla Duse - è scritto nel libro di Laurenzi - l’allestimento è costato la cifra esorbitante di 400 mila lire. E quando il Vate, come invasato, scrive la Città morta, la Duse, indebitatissima, accetta una nuova tournèe in America pur di accantonare i fondi necessari a poter mettere in scena la pièce”. Ma una volta tornata, scopre che il ruolo di Anna, la cieca è stato affidato alla Bernhardt.
Cominciano i primi dissapori e il poeta continua a farle del male. Lei sembra più una madre rassegnata che un’amante. A lei toglierà il ruolo di protagonista nella Figlia di Iorio, scritto per la Duse, che invece sarà affidato, ad insaputa della Divina ad Irma Gramatica, più fresca per interpretare Mila di Codra. E’ la rottura. Ma D’annunzio non rimarrà solo. Si innamorerà della marchesa Alessandra di Rudinì, figlia dell’ex presidente del Consiglio.
Nel 1904 Eleonora scrive una lettera al Vate, in cui gli chiede di non scrivere più parole dolci.
A 51 anni ormai malata la Divina torna sul palco. Ma all’età di 66 anni, il lunedì di Pasqua del ’24 muore di tubercolosi. Sola. Anche se nel ’22 si erano rivisti per caso a Milano, dopo diciotto anni.
“Devastato dal rimorso- scrive Laurenzi- D’annunzio dice per la prima volta la verità: E’ morta quella che non meritai”.
Cinzia Ficco
fonte web: http://www.amicidiromeo.com/index.php?le-grandi-storie-d-amore-degli-ultimi-cent-anni_55/amori-tormentati-eleonora-duse-e-gabriele-d-annunzio_69/
#racconto #bambina #donna #mare::
C’era una volta una bambina e il mare.
Da pochi mesi la bambina aveva schiuso le sue braccia al mondo e quando vide il mare, quella grande immensità aprirsi davanti ai suoi occhi, restò terrorizzata. Profondamente terrorizzata.
L’urlo del mare s’infranse contro le grida della bambina in schizzi di lacrime.
Passarono gli anni, cinque anni. E le orme sulla sabbia da quattro divennero due. Due piccoli piedi che le onde piatte e timide tentavano di toccare e sedurre. Ma la bambina, ancora timorosa, restava ferma sulla riva annegando il suo sguardo tra le acque.
E così passarono altri anni, e le due orme sulla sabbia scomparvero nella schiuma delle onde, che finalmente potettero toccarla e baciarla. Baciarla ed entrare dentro di lei. Donna
La madrina di battesimo del figlio aveva fatto dieci volte il giro del mondo per lavoro e per diporto, ma soprattutto per scopare – Il #naufragio esistenziale di #Vivì Cholevas, da #Ioanna Karistiani, #Ritorno a Delfi #narrativa greca #anziani #badanti #decadimento #fatica di vivere #malinconia #citazione
Vivì Cholevas, che si portava addosso cinquantadue anni di stanchezza e settantotto chili di malinconia, si mise all'opera e infilò in lavatrice tre camici bianchi che usava per il lavoro, versò un po' di concime liquido nelle due piante, le innaffiò, sforbiciò i bordi sfilacciati del tendone, telefonò alla bulgara, la vecchia stava benone, finalmente era andata di corpo, l'aveva lavata, profumata e messa a letto come un bambino, telefonò alla bisbetica nipote del generale, Annula, tesoro, domani ricordati di andare alla mutua per farti prescrivere le creme e le altre medicazioni per il decubito, il nonno è in pessime condizioni, la terza, merdosa telefonata la fece alla cliente originaria di Kastorià afflitta dalla stitichezza, mia cara, se mi prometti di prendere il lassativo io ti prometto di pregare per te in tutte le chiese della città, proprio una bella carriera la mia, dalla danza classica alla merda, pensò.
La preoccupava l'idea di affidare i suoi clienti per cinque giorni a mani estranee, lo faceva a malincuore, fino ad allora era stata sempre disponibile, a qualsiasi ora del giorno e della notte, pronta a soccorrere quelle creature con la bocca aperta come una tasca bucata da cui si fosse rovesciato un mucchio di monete tintinnanti, e con gli occhi prima ingialliti e adesso spenti, anche se una volta erano tersi e brillanti come fiori di mandorlo.
Telefonò alla coppia che viveva a Exarchia, parlò con il marito, riguardatevi, disse, poi chiamò il matusa di Creta che le sussurrò il solito stornello edificante e le augurò di divertirsi alle nozze, augurò ogni felicità agli sposini, lei lo ringraziò con le parole che lui adorava, sì, mio prode, quando verrà la tua ora, non mancherò di sbeffeggiare la morte.
Finito il giro dei clienti non riagganciò la cornetta, telefonò all'amminístratore per le spese condominiali, l'ammontare era ancora ignoto, Vivì, sei l'unica che non vede l'ora di pagarle, poi chiamò Ioukaris, te l'ho detto, è tutto a posto, fatti trovare lì alle sette del mattino, Vivì, stai tranquilla e tieni gli occhi ben aperti.
Soltanto aperti?, pensò mentre si alzava. Ripose gli abiti e la biancheria intima nella valigia, preparò il borsone di Linos, la cosa più difficile fu riprenderne in mano le scarpe nuove, appoggiò i due bagagli accanto alla porta d'ingresso.
Tirò fuori il portafoglio dalla borsa, contò di nuovo i soldi, otto biglietti da cento euro, quattro da cinquanta, qualche spicciolo, la tessera del bancomat, le due carte d'identità. Lo rimise a posto, accanto c'erano i due astucci con gli occhiali da sole, i due opuscoli preistorici, i tre ritagli piegati in quattro, la busta con le quattro fotografie, qualche effetto femminile e l'agendina con i numeri di telefono utili, peraltro pochi, che conosceva tutti a memoria.
Si recò in cucina, prese il pestello di metallo e il coltello per affettare il formaggio, li infilò nella borsa, ci stavano comodamente entrambi, ma alla fine vi lasciò soltanto il pestello, il coltello lo rimise nel cassetto.
Il pestello lo aveva acquistato a Komotinì durante un ponte festivo di venti e rotti anni prima, non l'aveva mai usato, l'aveva messo su una mensola in alto insieme ad altri due utensili di rame, una lucerna a olio e un'oliera, e li usava come soprammobili, tempo per spolverarli e tantomeno per lucidarli non ne aveva, erano tutti coperti da una patina grigiastra. Anche se le ricordavano un momento felice, a salvarli dai continui repulisti e dai frequenti traslochi era il fatto che finivano sempre su qualche scaffale fuori mano.
Fece ritorno nell'ingresso, appese la borsa all'appendiabiti proprio sopra i due bagagli e pensò, non per la prima volta, che da dieci anni i quattro ganci di quell'appendiabiti ospitavano esclusivamente capi di vestiario e altre cianfrusaglie appartenenti a lei, il cappotto, l'impermeabile, l'ombrello, i sacchetti, la sciarpa logora che indossava durante le veglie estive sul balconcino.
Da questa posizione girò il collo e la testa per osservare il salotto adibito a ripostiglio. Ormai era troppo tardi per rimetterlo in sesto, non intendeva mai più abbellirlo con tendine ricamate o con vasi di fiori illudendosi che tutto fosse come prima.
Paul Gaguin, Nudo di donna che cuce
Non è facile trovare il coraggio per virare il timone della vita, pensò consultando l'orologio, erano le nove di sera, tutto era pronto, e adesso via in cucina.
Mise il bricco sul fuoco, immerse per la terza volta nell'acqua bollente la stessa bustina di tè, com'era solita fare da tre anni a quella parte, prese la tazza contenente la broda e un pezzo di pane, e raggiunse il divano. Ripeté sottovoce e con cura le frasi mandate a memoria, un sorso, un boccone e un paragrafo, il rilievo delle amazzonomachie scolpito sul frontone del Tesoro degli Ateniesi, la celeberrima Sfinge dei Nassi innalzata su un piedistallo ionico.
Probabili domande: chi erano i genitori della Sfinge? Tifone ed Echidna. E i suoi fratelli? Cerbero, l'Idra di Lerna e altri mostri. Dieci e lode.
Si appoggiò sullo schienale, si sfiorò un angolo del labbro superiore con il mignolo, ci risiamo, mi è tornato l'herpes. Il sangue le saltellava nelle vene come un ranocchio, la testa somigliava a un cespo di lattuga senza foglie, la mente se l'erano mangiucchiata i vermi, li sentiva strisciare, poppare, gonfiarsi.
Doveva bloccare il flusso dei pensieri, il cervello non va mai in vacanza, non si concede mai una sosta.
Allora. L'ambra si estrae sulle rive del Baltico. Venti metri sotto il pelo dell'acqua ci sono pietre trasparenti, gialle, rosse, marroni, che racchiudono all'interno foglioline o insetti provenienti da un remoto passato. La più costosa è quella più chiara, anche millecinquecento dollari al pezzo.
Quando il mare si trasforma in ghiaccio, i pescatori di ambra rotti a tutte le intemperie praticano una serie di fori e vi infilano dei tubi, l'acqua comincia a scorrervi all'interno con vigore e rimesta i fondali facendone staccare le leggerissime, preziose pietre del sole, è così che le chiamano. I polacchi di Danzica creano collane di ambra che appendono al collo dei loro bambini, una era stata Rodo a regalargliela, la madrina di battesimo del figlio aveva fatto dieci volte il giro del mondo per lavoro e per diporto, ma soprattutto per scopare, nella sua collezione c'erano cazzi provenienti dai cinque continenti.
L'attenzione di Vivì Cholevas si aggrappò all'ambra verso le dieci, se ne sganciò verso le dieci e mezzo, esplorò altre possibilità, si avvinghiò per qualche istante alla manutenzione dell'automobile, costata duecento euro tondi tondi, passò allo scaldabagno nuovo, costato duecento euro anche quello, più altri centottanta per comprare le scarpe nuove di Linos, più cinquanta per le bomboniere, conta che ti riconta, il tempo passò senza che se ne accorgesse.
Rimase seduta sul divano fino alle due del mattino, irrigidita nella stessa posizione, incuneata tra un mucchio di sacchetti e una montagna di scatoloni, accanto alla radio spenta, di fronte al televisore spento, inchiodata al silenzio del suo appartamento e al crutch-crutch del vicino, un settantottenne titolare di un Alzheimer di prima categoria che cercava per l'ennesima volta di aprire la serratura per andarsene a passeggio. Da giovane aveva vissuto in Africa e lo chiamavano La Tigre, guadagnava cifre da capogiro grazie al commercio dell'avorio e del pellame, poi, tornato in patria, aveva fatto carriera come quadro aziendale, adesso, vedovo e in bolletta, era stato affidato alle cure di Uliana, un'ucraina che, non potendone più di inseguirlo in tutta la città, aveva fatto mettere la porta blindata e si era appesa le chiavi nuove al collo rifilando alla Tigre quelle vecchie, cosicché questi si incaponiva a grattare la porta, cercava di infilare le chiavi una dopo l'altra, ancora e ancora, senza fine, giorno e notte, per settimane e mesi.
Alle assemblee condominiali l'argomento era sempre all'ordine del giorno, Vivì ne faceva volentieri a meno, dal primo piano udiva una quindicina di forsennati riuniti nell'androne dell'ingresso che coprivano l'ucraina di contumelie. Quanto a Vivì, aveva fatto l'abitudine ai rumori che attraversavano le pareti sottili proprio come ci si abitua al tarlo che divora il buffet di legno, le tenevano compagnia nella solitudine delle sue serate, quando tornava dal lavoro, sollevava le gambe gonfie, le appoggiava sul bracciolo del divano e abbracciava il suo mondo con lo sguardo, cataste di pannoloni, alcune velette-regalo sopravvissute all'avventura del Tutù e una serie di altri oggetti che si identificavano con quanti li avevano donati, gli ultimi superstiti in attesa di sbarazzarsi anche di loro.
Un vaso di opalina rosa, enorme come un pancione al nono mese, appartenuto a Rodo, fungeva da salvadanaio, e poi puntine da disegno, graffette e biglietti da visita, la sedia cretese artigianale, dono di nozze dei colleghi del marito, ormai negletta causa lombaggine, l'abat-jour canadese con la foglia rossa, capovolto per tenere celate le conseguenze del pugno assestato due giorni prima durante uno sfogo solitario, e una quantità di carabattole, un portasigarette a forma di basilica di Santa Sofia e un posacenere a forma di gatto, new entry già appartenuta a un cliente deceduto di infarto, fumatore che più fumatore non si può, il quale sembrava deciso a fumare anche nel mondo dei più.
Anche quella sera si concesse il solito vagabondaggio dello sguardo, era una specie di controllo di routine volto a ottenere la conferma che le prove di un naufragio esistenziale si trovassero ciascuna al suo posto.
(Ioanna Karistiani, Ritorno a Delfi, Edizioni eo, Roma, 2011, pp. 11 ss.)
La montagna racconta - storia di donne coraggiose #donne #coraggio #montagna::
L’altra notte mentre ero lassù nel silenzio delle vette la montagna sembrava dirmi qualcosa,pareva quasi ironicamente rimproverami,sembrava che mi dicesse:tu passi sui miei colli e sali sulle mie vette solo per svago,per divertirti ma se sapessi… poi il suo mormorio si fece più serio ed incominciò a mormorarmi qualcosa che dovevo sapere,ma venne giorno,con esso il risveglio della natura che coprì il suo sussurrare. Ma i monti non possono tacere quando vogliono far sapere quello che accadde un dì… Si da il caso che ultimamente ho avuto la fortuna di conoscere un’anziana signora,che un giorno parlandole di montagne li ho risvegliato i suoi ricordi di tempi di tribolazioni ,ella escamò:Ah! Se la mie montagne potessero parlare!nessuno immaginerebbe le vite grame che facemmo...E la Montagna per mezzo di lei parlò,ed incominciò a raccontarmi con un velo di nostalgia le lunghe e durissime traversate alpine che fece non per divertimento ma per necessità.
Questa è la storia di Mireio,allora una giovane ventenne e di tante altre sue coetanee, (la chiamerò così come l’eroina del poema di Federic Mistral.) Gli eventi bellici e la carestia aveva reso queste donne di montagna forti e coraggiose dallo spirito indomabile cui li furono affidato un ruolo fondamentale per la sopravivenza della valle. Dovete sapere che in quel tempo,tempo di guerra mancava di tutto,ma mancava soprattutto il sale,senza il sale non si “guardava la roba”ma soprattutto era indispensabili per le bestie (mucche e pecore) per carenza di sale esse finivano per mangiare la terra fino a morire, quelle poche creature erano la loro unica ricchezza, davano il latte, quindi tome e formaggi,cui alimentarsi in quei tempi cui ,allora si era disposti a fare qualsiasi sacrificio pur di aver un po’ di quel prezioso prodotto della natura.
Se in valle il sale non si trovava,se ne poteva procurare oltre confine,ma a prezzo di enormi rischi e fatiche,ovviamente non c’erano soldi ma vigeva il baratto,se di qua mancava il sale ,nei villaggi oltre confine non avevano olio, pasta, riso ed altri prodotti di prima necessità,beni preziosi che in tempo di guerra non era facile accumulare perché era in vigore la tessera, erano razionati,ma questa tenace gente di montagna con inenarrabili economie riuscivano ad risparmiare questo piccolo tesoro per cambiarlo con il sale.
La via del sale,la più frequentata passava per il colle dell’Agnello” vecchio” per andare a Fongillarde (Fountgijardo) come dicono lassù,ma quella più redditizia era la più lontana Ceillac,perché il cambio era migliore. Un tragitto così, oggi sarebbe impensabile, pensate che allora queste ragazze lo facevano quasi tutto di notte per non essere “beccate”,di qua dai repubblichini e dall’altra, dalla gendarmerie.
Vi sarete chiesti;ma perchè questo compito così rischioso era affidato a queste giovani donne da sposare? Semplice! Perché se venivano prese le sequestravano solamente la roba e poi le mandavano a casa,ma se fossero stati degli uomini li spedivano al fronte ,magari in Russia.Per lo più a volte erano accompagnate da un paio di giovani pastori ancora più giovani di loro,non soggetti alla leva e pratici dei posti. Si partiva da Sampeyre che era ancora notte,con il favore delle tenebre con i loro zaini colmi di generi alimentari di prima necessità,passavano per sentieri alternativi per evitare Casteldelfino dove c’erano i posti di blocco per arrivare all’alba a Chianale, dove ad attenderli c’era un pastore,che offriva loro un fienile per riposarsi un po’. Verso sera si partiva per l’attraversata,si doveva raggiungere il colle dell’Agnello “vecchio” all’imbrunire,in modo che da Fontgillarde vedessero che stavano arrivando,quindi gli abitanti li venivano incontro. A notte inoltrata si trovavano in una stalla alla periferia del villaggio dove avveniva lo scambio,poi subito di ritorno,bisognava riattraversare il colle con uno zaino di 25 kg. di prezioso sale, per arrivare a Chianale prima che facesse giorno. Faccio presente che allora era rischioso usare la pila,sarebbero stati avvistati, si affidavano al chiaror della luna e delle stelle,quando era sereno, altrimenti… l’occhio allenato al buio faceva scorgere il colore biancastro della ghiaia del sentiero. Arrivate a Chianale c’era già una mula con il carro ad attenderle, perché mandavano avanti qualcuno ad avvertire che arrivano,quindi si procedeva scarichi fino presso Rabioux,dove arrivavano alle prime luci dell’alba. Sempre per evitare Casteldelfino,si mettevano di nuovo gli zaini in spalla,e rifacevano a ritroso il cammino ai margini dell’Alevè,mentre la mula accompagnata da una di loro andava giù a vuoto, più a valle passati il pericolo, trovavano l’animale da tiro che pazientemente li attendeva. Con grande sollievo per le spalle, mettevamo gli zaini sul carro per l’ultima parte del tragitto poi ognuna riprendeva il suo pesante fardello ed arrivavano alle loro case,eravamo sfinite! In quel tempo la meglio gioventù era mandata al massacro,non c’erano uomini,quindi non avevano tempo per riposarsi, c’era sempre qualcosa di più urgente fare,le mucche dovevano essere munte,l’erba da tagliare il fieno da rivoltare o raccoglierlo in fretta prima che venisse a piovere,altrimenti si “guastava”Il fieno era una cosa importantissima, bisognava farne una bella scorta per tutto il lungo periodo invernale,altrimenti le mucche non avevano di che mangiare,con tutte le conseguenze… quindi più delle volte dopo aver fatto la lunghissima e faticosa attraversata si saliva agli alpeggi per la fienagione.
Mireio,continuando il suo racconto mi ha detto che in una notte di pioggia,una notte da lupi,si tornava dal colle dell’Agnello,la pioggia inzuppava gli zaini inumidendo il sale quindi divenivano sempre più pesanti. Quando di notte piove non si vede più nulla perché i sentieri con la ghiaia bagnata perdono la loro sfumatura biancastra,allora si andava giù “al tuc”. Erano tutte bagnate fino al midollo,erano sfinite,la fortuna volle che si imbatterono presso una baita di alpeggio abitata da una donna ed un pastore,chiesero ospitalità per la notte,allora non c’era il culto dell’accoglienza,poiché la vita dura dei monti aveva reso la gente degli alpeggi ancora più dura e diffidente,tuttavia questa donna fece entrare loro nella stalla,che era anche camera da letto,erano bagnate come pulcini,le fecero sedere su una panca vicino ad una branda, sfinite,qualcuna incominciò a sonnecchiare ed appoggiò la testa sul giaciglio,intervenne questa donna dura e insensibile per rimetterle sull’”attenti”per salvaguardare le sue povere cose li disse imperiosamente:” Pougesse pas a qui! ca me inumidì lou drap!”(non appoggiatevi quì perché mi bagnate la coperta) Passarono tutta la notte a schiena diritta seduti su quella panca,senza aver il diritto a prendere sonno! Al mattino le domandarono un pò di latte prima di partire,che pagarono,questa donna dura di cuore diede loro del latte avariato,che fece stare tutte male. Non si poteva mica dare il latte fresco! serviva all’alpeggio….
Continuando la sua storia,Mireio,mi racconta di quando andò a Ceillac:C’erano da passare diversi colli, mi dice,arrivammo alla periferia del villaggio di notte dove in una stalla scambiammo la roba poi via verso le pas de la Cula,ma venne un ragazzo incontro gridando che c’erano i gendarmi,allora bisognava attendere. Si rifugiarono in una baita di alpeggio,passò il giorno e la notte,intanto cambiò il tempo, venne giù mezzo metro di neve,faceva un freddo terribile,battevamo i denti,mi dice,si accese un fuoco improvvisato bruciando un pò di paglia e qualche ramaglia,a questo punto del racconto Mireio fa una pausa,poi mi dice:ho ancora un terribile “ringret” (rimorso)… in quella notte abbiamo bruciato quella paglia e qualche pezzo di legno per scaldarci,sottraendolo a quella povera gente…
Al mattino ci mettemmo in marcia, sui colli per tutta la piana del col Longet si sprofondava nella neve fino alle cosce,con grande fatica riuscivamo ad ogni passo uscire da quella trincea per risprofondare al passo successivo,fu una cosa sconvolgente, una fatica disumana,perché ad ogni passo che sprofondavamo dovevamo rialzare la schiena piegata dal pesantissimo zaino . Per fortuna quella volta con noi avevamo due giovani ragazzi che avevano le “ ciastre” ,marciando prima di noi ci disgrossavano già il passaggio,altrimenti non c’è l’avremmo fatta. Ci mettemmo una giornata intera per raggiungere i laghi blu,un sole caldissimo sulla neve fresca ci screpolò i volti rendendoci irriconoscibili. In valle chi ci aspettava vedendo il ritardo e la neve caduta ci davano già per perduti. Ricordo che quattro giorni dopo riuscimmo a raggiungere le nostre case. Quando io arrivai vidi mia madre stava zappando,quando mi vide fece un sobbalzo, era incredula, lasciò cadere la zappa e scoppiò in lacrime,non ci sperava più nel mio ritorno,ero sfigurata dallo sfinimento,le porsi lo zaino con il suo carico di sale e di sofferenze, ricordo ancora che le dissi: questo sale non venderlo per nulla al mondo perché non c’è prezzo che lo paghi,piuttosto regalalo a chi ne ha più bisogno di noi!
Quando questa signora terminò il suo racconto coinvolgente facendomi viaggiare anch’io in quei tempi lontani,aveva gli occhi lucidi,mi disse: come sono cambiati in meglio i tempi!ma narra queste vite grame che abbiamo dovuto fare,in modo che si conservi la memoria,in modo che tutte queste vicissitudini non cadano nell’oblio,in modo che questo triste e duro passato, anche se in modo diverso, non ritorni…
Autore: Jacolus
fonte web: http://www.lafiocavenmola.it/modules/news/article.php?storyid=4923
Irena Svenson, che potrebbe essere mia figlia #Josef Škvoreckný #Il racconto dell'ingegnere delle anime umane #narrativa ceca #università #studentesse #docenti universiatri #citazione
Dovrei davvero pensare ad averci una storia con Irena Svensson. Manifesta tutti i sintomi dell'attesa. Certo che potrebbe essere mia figlia, ma in fondo io qui sono circondato dall'aureola dell'uomo che ha passato la propria vita sotto il giogo delle dittature poliziesche e che durante la guerra ha fatto parte della resistenza antinazista. Quando mi ci pavoneggio davanti alle ragazzine di Chitagooga e delle Yellow Pants, sto furbescamente attento a non dire resistence group, bensì guerrilla group: è questa l'espressione che loro conoscono meglio, e l'associano alle bombe. Quest'uomo interessante ha inoltre esercitato il mestiere di scrittore, nelle dittature poliziesche così rischioso. Gli hanno giustiziato il suo migliore amico: logicamente faccio del compagno Hubert Stein il mio migliore amico, sebbene lui non mi abbia mai avuto troppo in simpatia. Ma la storia della sua esecuzione è la pura (o meglio: la sporca) verità, a cui quel pizzico di fantasia in più non guasta. Infine, quest'uomo è stato mandato in esilio lontano dalla sua patria dall'arrivo dei carri armati sovietici, dal punto di vista fisico i suoi quarantotto anni se li porta bene e ha i capelli ondulati in maniera naturale, con striature argentee che – grazie al dry look – scintillano del più interessante dull shine.
Dovrei dunque smetterla di esitare con Irena Svensson. Secondo la pubblica opinione, le ragazze canadesi di oggi sono facilmente disposte a tutto. Non che io lo sappia per esperienza diretta: per il momento, a soddisfare appieno i miei bisogni in tal senso c'è Margitka. Ma da quando ho parlato con Larry MacAlear, ho cominciato a nutrire qualche dubbio su tale loro disponibilità. Larry si era infatti ritrovato per sbaglio a un corso per matricole, dove una serie di promesse del mondo accademico aveva difficoltà già solo a pronunciare la parola ratiocination, mentre Larry per divertirsi leggeva Finnegans Wake. Mi si era piantato nello studio e aveva cominciato a parlarne. Io non potevo certo dirgli che a me Finnegans Wake mi annoia, cambiavo quindi ogni volta discorso, passando da Joyce alle compagne di corso di Larry. Larry era un tipo barbuto, ben piazzato, i capelli pettinati come Cristo, rosso, con dei perfetti jeans strappati che facevano intravedere, sul sedere, i jockey shorts, per cui aveva un suo sex appeal. "Non è che sia proprio così tutta rose e fiori come si racconta", aveva detto. "Solo che quello che si racconta è più newsworthy, you know. Di fatto, però, la maggior parte di loro si tiene ben stretta la propria..." – e con l'assoluta naturalezza della sua disinibita generazione, per indicare l'organo genitale femminile aveva utilizzato la nota parolina di quattro lettere. Per quanto riguarda la lingua, qui non esistono davvero inibizioni, e sono convinto che neanche Irena Svensson si sarebbe tirata indietro di fronte a quella parola. Se si fosse dovuti invece giungere alla manipolazione fisica di quella parte del corpo di quattro lettere, allora... – "...perché a quasi tutte interessa soprattutto ottenere il loro bel titolo accademico. Sa a quale mi riferisco?" "M.A. Dottoressa in lettere?", avevo azzardato, perché – nonostante i criteri estremamente democratici dell'Edenvale College – la maggior parte delle ragazze non aveva certo l'aria di poter aspirare a un qualche dottorato. "M.R.S.", aveva dichiarato il barbuto, ammiccando furbescamente. Sulle prime non avevo capito bene a cosa si riferisse. Ma era stata solo questione di un attimo. Poi c'ero arrivato. Pur non nutrendo alcuna particolare fiducia (lo conosciamo bene il Women's Lib), sapevo però che tutti i movimenti radicali fanno un baccano spropositato rispetto al numero reale dei loro adepti. Ovvio, era il titolo di Mrs.
Per cui, chissà. Ma un pensierino dovrei incominciare a farcelo. Lei mi osserva in continuazione coi suoi occhi splendidamente scoloriti di Kiruna, dove pare che un tempo avesse un nonno proprietario di miniere di ferro, in quella città dal sole di mezzanotte. E come doveva rifrangersi bene in quelle pupille di tenero acciaio, sui capelli biondi. A differenza dei salici piangenti della maggioranza uniforme, lei li porta sempre accuratamente e costosamente arricciati. Non alza mai la mano per farsi interrogare. Quando la chiamo, risponde dando l'impressione di avere realmente letto i libri da me assegnati, e di essere stata persino a sgobbare sui volumi di critica. La sua bocca è sempre sprezzante, ma non denigra più E.A.P. Di recente ha addirittura partecipato alla discussione (in via del tutto eccezionale, aveva alzato la mano da sola), osservando che Poe era un eccellente artista visivo, e con ciò – aveva dichiarato – non intendo certo riferirmi alle sue descrizioni romanticheggianti di interni immaginari, bensì alle sue realistiche percezioni visive. Come esempio aveva riportato la descrizione dell'esplosione del Jane Guy sull'isola di Tsalal. L'ho lodata, riflettendo se per caso non avesse addirittura una sensibilità davvero letteraria, quasi da scrittrice... magari quest'anno i suoi paper se li scrive davvero da sola, io per lo meno non mi ricordavo alcuna analisi di quella scena in nessuno dei libri degli specialisti. Dipenderà forse dal fatto che, quanto alla loro lettura, non è che io sia proprio tra i più eruditi, ma mentre più tardi mi stavo dirigendo verso casa attraverso il deserto bianco, grigio e nero di Edenvale, incontro alle torri scintillanti del downtown di Toronto, all'improvviso mi era venuto in mente che quella scena l'avevo elogiata io stesso l'anno passato al corso per le matricole. Ma se anche, in tal modo, veniva ridimensionata l'intelligenza letteraria di Irena, nella stessa misura ne guadagnava in interesse la sua persona.
Solo che ora non è più tanto facile. Un tempo mi accendevo facilmente di passione, e mi consumavo con un certo piacere. Oggi non è più possibile. E a prendersi buona cura della mia salute c'è Margitka.
(Josef Škvoreckný, Il racconto dell'ingegnere delle anime umane. Entertainment su vecchi temi: la vita, le donne, il destino, i sogni, la classe operaia, le spie, l'amore e la mort,e Roma, Fandango, 2010, pp. 26 ss.)
Avevo messo incinta una ragazza #Dan Turèll, #Assassinio di lunedì #thriller #gravidanza #maternità
Avevo messo incinta una ragazza. Storia vecchia, e non crediate che ne andassi particolarmente fiero: qualunque fattorino avrebbe potuto fare lo stesso, se non meglio. Solo che quella era opera mia e di conseguenza un mio problema.
Benché certo, considerate le leggi di natura, più un suo problema che mio.
E lei, Gitte Bristol, l'avvocato dalla nera chioma fulgente con cui mi «accompagnavo» da sei mesi, ossia da quando ci eravamo incontrati su un aereo per Rodby, (senza che il nostro rapporto fosse molto progredito in tutto quel tempo), era piena di dubbi. Non era sicura che le piacesse l'idea di avere un figlio da me. Non era sicura che le piacesse l'idea di un figlio in generale. A dirla tutta, non era neppure sicurissima che le piacessi io.
I pronostici erano tra i più difficili.
Così alternava stati di depressione, in cui sembrava un po' persa nel vuoto, ad altri di rabbia e furore, spesso contro il mondo intero, talvolta specialmente contro di me, in quanto ne ero parte molto invadente. Non la più invadente in assoluto, si capisce, ma certo più facile da aggredire dell'essere sconosciuto che se ne stava rannicchiato nel suo ventre, in attesa.
Cambiava idea a intervalli di qualche giorno, come influenzata da un imprevedibile ciclo ormonale. Ora voleva il «suo» bambino, ora pensava di provare ad avere il «nostro» bambino, ora decideva di abortire.
La furia e l'isteria delle donne, come dicono gli americani, sono right as rain.
Al lavoro però era sempre la stessa: determinata, efficiente, precisa. Con quelle vette disumane di deontologia professionale che solo le donne molto consapevoli riescono a sostenere.
Quella sera, naturalmente, aveva dato di matto. Date le circostanze non mi sentivo di biasimarla. E avendo lei manifestato il desiderio di «rimanere un po' sola», un modo di dire che le ragazze della sua educazione adoperano con la massima naturalezza, io mi ero ritrovato fuori, sotto la pioggia, e avevo preso in maniera più o meno inconsapevole la via di casa: quella casa che mantenevo tuttora, pur vivendo per metà del mio tempo – o almeno pernottando spesso – da lei. Vagavo, dunque, e intanto pensavo, se non è una parola troppo grossa.
Pensai alla prima volta che l'avevo vista, nel ristorante del mio amico cinese Ho Ling Fung. Mangiava da sola, e mi fece un effetto travolgente, mai provato. Pensai alla prima volta che le avevo parlato, all'aeroporto di Rodby, grazie alla riprovevole mancanza di carrelli di quell'aeroporto di provincia. Pensai – tremando leggermente per la pioggia e al ricordo – alla notte all'Hotel Rodby in cui mi aveva «aperto la porta».
Pensai alla sua vita, alle scuole francesi, alla famiglia di giuristi in cui era cresciuta. Il padre, giudice pomposo, e quel passerotto succube della madre, eternamente indaffarata tra le tazze da caffè in un salotto chesterfield immerso nel fumo di sigaretta. Pensai al suo primo matrimonio fallito accorgendomi che, se ci pensavo come al primo, mi stavo evidentemente già candidando per il secondo.
Infatti io l'amavo. Più di quanto avessi amato nessun altro.
Contrariamente a quanto affermano i mediocri oratori della domenica, l'amore non rende affatto ciechi. È vero l'esatto opposto: l'amore apre gli occhi. Chi ama vede cose che sfuggono a tutti gli altri, e si comporta spesso in maniera più logica e coerente di chi agisce a sangue freddo.
Di conseguenza io vedevo benissimo il fatto lampante di non essere il partito ideale per lei. Se è vero, come dice il proverbio, che «chi si somiglia si piglia» noi non avremmo dovuto neppure sognare di metterci a giocare ad acchiapparella.
(Dan Turèll, Assassinio di lunedì, Milano, Iperborea, 2010, pp. 11 ss.)
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