Buongiorno, oggi è il 31 dicembre.
Il 31 dicembre 1855 nasce a San Mauro di Romagna Giovanni Pascoli.
Giovanni Placido Agostino Pascoli all'età di dodici anni perde il padre, ucciso da una fucilata sparata da ignoti; la famiglia è costretta a lasciare la tenuta che il padre amministrava, perdendo quella condizione di benessere economico di cui godeva.
Nell'arco dei sette anni successivi, Giovanni perderà la madre, una sorella e due fratelli. Prosegue gli studi prima a Firenze, poi a Bologna. Nella città emiliana aderisce alle idee socialiste: durante una delle sue attività di propaganda nel 1879 viene arrestato. Consegue la laurea in Lettere nel 1882.
Inizia a lavorare come professore: insegna greco e latino a Matera, Massa e Livorno; suo obiettivo è quello di riunire attorno a sé i membri della famiglia. In questo periodo pubblica le prime raccolte di poesie: "L'ultima passeggiata" (1886) e "Myricae" (1891).
L'anno seguente vince la prima delle sue medaglie d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam; parteciperà varie volte negli anni, vincendo in totale 13 medaglie d'oro.
Dopo un breve soggiorno a Roma si trasferisce a Castelvecchio di Barga, piccolo comune toscano dove acquista una villetta e una vigna. Con lui vi è la sorella Maria - da lui affettuosamente chiamata Mariù - vera compagna della sua vita, considerato che Pascoli non si sposerà mai.
Ottiene un posto per insegnare all'università, prima a Bologna, poi a Messina e infine a Pisa. In questi anni pubblica tre saggi danteschi e varie antologie scolastiche.
La produzione poetica prosegue con i "Poemetti" (1897) e i "Canti di Castelvecchio" (1903). Convertitosi alle correnti nazionaliste, raccoglie i suoi discorsi sia politici, che poetici e scolastici nei "Miei pensieri di varia umanità" (1903).
Ottiene poi la prestigiosa cattedra di Letteratura italiana a Bologna, prendendo il posto lasciato da Giosuè Carducci.
Nel 1907 pubblica "Odi ed inni", a cui seguono "Canzoni di re Enzo" e i "Poemi italici" (1908-1911).
La poesia di Pascoli è caratterizzata da una metrica formale fatta di endecasillabi, sonetti e terzine coordinati con grande semplicità. La forma è classica esternamente, maturazione del suo gusto per le letture scientifiche: a tali studi si ricollega il tema cosmico di Pascoli, ma anche la precisione del lessico in campo botanico e zoologico. Uno dei meriti di Pascoli è stato quello di rinnovare la poesia, toccando temi fino ad allora trascurati dai grandi poeti: con la sua prosa trasmette il piacere delle cose semplici, usando quella sensibilità infantile che ogni uomo porta dentro di se.
Pascoli era un personaggio malinconico, rassegnato alle sofferenze della vita e alle ingiustizie della società, convinto che quest'ultima fosse troppo forte per essere vinta. Nonostante ciò, seppe conservare un senso profondo di umanità e di fratellanza. Crollato l'ordine razionale del mondo, in cui aveva creduto il positivismo, il poeta, di fronte al dolore e al male che dominano sulla Terra, recupera il valore etico della sofferenza, che riscatta gli umili e gli infelici, capaci di perdonare i propri persecutori.
Nel 1912 la sua salute peggiora e deve lasciare l'insegnamento per curarsi. Trascorre i suoi ultimi giorni a Bologna, dove muore il 6 aprile, nella sua casa di Via dell'Osservanza 4.
Venne sepolto nella cappella annessa alla sua dimora di Castelvecchio di Barga, dove sarà tumulata anche l'amata sorella Maria, sua biografa, nominata erede universale nel testamento, nonché curatrice delle opere postume.
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domenica 31 dicembre 2023
sabato 30 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 30 dicembre.
Il 30 dicembre 1968 Frank Sinatra incide "my way", uno dei suoi maggiori successi.
Frank Sinatra nasce a Hoboken, nello stato del New Jersey, il 12 dicembre 1915.
Vive un'infanzia dura e umile: la madre Dolly, di origini liguri (Tasso nel comune di Lumarzo), fa la levatrice e il padre Martin, pugile dilettante di origini siciliane (Palermo), è vigile del fuoco.
Da ragazzino Frank è costretto da esigenze economiche a fare i lavori più umili. Cresciuto per la strada e non sui banchi di scuola, prima fa lo scaricatore di porto e poi l'imbianchino e strillone. A sedici anni, ha una sua band, i Turk.
Frank Sinatra passa alla storia come 'The Voice', per il suo inconfondibile carisma vocale.
Durante la sua carriera incide più di duemiladuecento canzoni per un totale di 166 album, dedicandosi anche, con fortuna, al grande schermo.
Aspetti della sua vita privata si riscontrano proprio nei suoi tanti film di successo.
Famoso latin lover, si sposa quattro volte: la prima a ventiquattro anni, con Nancy Barbato, dal 1939 al 1950, dalla quale ha tre figli: Nancy, Frank Jr. e Christina che, all'epoca della separazione, hanno rispettivamente undici, sette e tre anni.
Poi, dal 1951 al 1957, Sinatra ha un'intensa storia d'amore con Ava Gardner, che riempie le cronache rosa dei giornali del tempo a suon di criticati confetti (per lei lascia la famiglia), di botte e di litigi.
Per soli due anni, dal 1966 al 1968, si unisce in matrimonio con l'attrice Mia Farrow e dal 1976 fino alla sua morte resta a fianco dell'ultima moglie, Barbara Marx.
Ma la stampa continua, anche negli ultimi anni, ad attribuirgli flirt: da Lana Turner a Marilyn Monroe, da Anita Ekberg ad Angie Dickinson.
Da sempre vicino alle cause per i diritti umani, già nei primi anni '50 si schiera a favore dei neri, vicino al suo inseparabile amico Sammy Davies Jr.
Fino all'ultimo non si sottrae dal compiere nobili gesti di beneficenza a favore dei bambini e delle classi disagiate.
La sua stella non conosce ombre.
Solamente tra il 1947 ed i primi anni '50, attraversa una breve crisi professionale dovuta ad un malore che colpisce le sue corde vocali; il momento di appannamento viene superato brillantemente grazie al film di Fred Zinnemann "Da qui all'eternità", con cui conquista l'Oscar come Migliore Attore non Protagonista.
Tra le tante accuse mosse all'interprete più famoso del secolo, come da molti viene considerato, quella di legami con la mafia. Soprattutto con il gangster Sam Giancana, proprietario di un Casinò a Las Vegas.
Ben più sicuri, i nomi dei suoi più cari amici: da Dean Martin a Sammy Davis Jr, a Peter Lawford.
La canzone che forse più lo rappresenta nel mondo è la famosissima "My way", ripresa da moltissimi artisti, e rivisitata in moltissime versioni.
Tra gli ultimi omaggi che l'America tributa a questo grande showman, vi è un regalo speciale per i suoi ottant'anni, nel 1996: per i suoi occhi blu, l'Empire State Building per una notte si illumina d'azzurro tra coppe di champagne e gli inevitabili festeggiamenti, cui The Voice è abituato.
L'omaggio si è ripetuto in occasione della sua morte avvenuta il 14 maggio 1998.
Il funerale fu celebrato il pomeriggio del 20 maggio, nella chiesa cattolica di Beverly Hills, alla presenza di 400 amici. Gregory Peck, Diahann Carroll, Don Rickles, Milton Berle, Debbie Reynolds, Tony Bennett, Joey Bishop, Kirk Douglas, Jack Nicholson, Sophia Loren e molti altri gli resero omaggio un'ultima volta. La bara di Sinatra (scortata in chiesa da una Guardia di Militari, avendo egli ricevuto nel 1997 la prestigiosa Medal of Freedom and the Congressional Gold Medal) venne ornata con una corona di gardenie, mentre per allestire l'intera chiesa furono usati 30.000 fiori. Fu sepolto a fianco dei suoi genitori nel piccolo cimitero di Cathedral City, il Desert Memorial Park, sotto una semplice lapide rettangolare di pietra, sulla quale è inciso "The best is yet to come" (Il meglio deve ancora venire), titolo di uno dei suoi maggiori successi.
In occasione dei suoi tour italiani, Sinatra amava frequentare Genova che sentiva come la città delle sue origini, soprattutto per questioni familiari, ed era tifoso del Genoa. Chiese infatti espressamente di essere sepolto con indosso una cravatta del Genoa.
Il 30 dicembre 1968 Frank Sinatra incide "my way", uno dei suoi maggiori successi.
Frank Sinatra nasce a Hoboken, nello stato del New Jersey, il 12 dicembre 1915.
Vive un'infanzia dura e umile: la madre Dolly, di origini liguri (Tasso nel comune di Lumarzo), fa la levatrice e il padre Martin, pugile dilettante di origini siciliane (Palermo), è vigile del fuoco.
Da ragazzino Frank è costretto da esigenze economiche a fare i lavori più umili. Cresciuto per la strada e non sui banchi di scuola, prima fa lo scaricatore di porto e poi l'imbianchino e strillone. A sedici anni, ha una sua band, i Turk.
Frank Sinatra passa alla storia come 'The Voice', per il suo inconfondibile carisma vocale.
Durante la sua carriera incide più di duemiladuecento canzoni per un totale di 166 album, dedicandosi anche, con fortuna, al grande schermo.
Aspetti della sua vita privata si riscontrano proprio nei suoi tanti film di successo.
Famoso latin lover, si sposa quattro volte: la prima a ventiquattro anni, con Nancy Barbato, dal 1939 al 1950, dalla quale ha tre figli: Nancy, Frank Jr. e Christina che, all'epoca della separazione, hanno rispettivamente undici, sette e tre anni.
Poi, dal 1951 al 1957, Sinatra ha un'intensa storia d'amore con Ava Gardner, che riempie le cronache rosa dei giornali del tempo a suon di criticati confetti (per lei lascia la famiglia), di botte e di litigi.
Per soli due anni, dal 1966 al 1968, si unisce in matrimonio con l'attrice Mia Farrow e dal 1976 fino alla sua morte resta a fianco dell'ultima moglie, Barbara Marx.
Ma la stampa continua, anche negli ultimi anni, ad attribuirgli flirt: da Lana Turner a Marilyn Monroe, da Anita Ekberg ad Angie Dickinson.
Da sempre vicino alle cause per i diritti umani, già nei primi anni '50 si schiera a favore dei neri, vicino al suo inseparabile amico Sammy Davies Jr.
Fino all'ultimo non si sottrae dal compiere nobili gesti di beneficenza a favore dei bambini e delle classi disagiate.
La sua stella non conosce ombre.
Solamente tra il 1947 ed i primi anni '50, attraversa una breve crisi professionale dovuta ad un malore che colpisce le sue corde vocali; il momento di appannamento viene superato brillantemente grazie al film di Fred Zinnemann "Da qui all'eternità", con cui conquista l'Oscar come Migliore Attore non Protagonista.
Tra le tante accuse mosse all'interprete più famoso del secolo, come da molti viene considerato, quella di legami con la mafia. Soprattutto con il gangster Sam Giancana, proprietario di un Casinò a Las Vegas.
Ben più sicuri, i nomi dei suoi più cari amici: da Dean Martin a Sammy Davis Jr, a Peter Lawford.
La canzone che forse più lo rappresenta nel mondo è la famosissima "My way", ripresa da moltissimi artisti, e rivisitata in moltissime versioni.
Tra gli ultimi omaggi che l'America tributa a questo grande showman, vi è un regalo speciale per i suoi ottant'anni, nel 1996: per i suoi occhi blu, l'Empire State Building per una notte si illumina d'azzurro tra coppe di champagne e gli inevitabili festeggiamenti, cui The Voice è abituato.
L'omaggio si è ripetuto in occasione della sua morte avvenuta il 14 maggio 1998.
Il funerale fu celebrato il pomeriggio del 20 maggio, nella chiesa cattolica di Beverly Hills, alla presenza di 400 amici. Gregory Peck, Diahann Carroll, Don Rickles, Milton Berle, Debbie Reynolds, Tony Bennett, Joey Bishop, Kirk Douglas, Jack Nicholson, Sophia Loren e molti altri gli resero omaggio un'ultima volta. La bara di Sinatra (scortata in chiesa da una Guardia di Militari, avendo egli ricevuto nel 1997 la prestigiosa Medal of Freedom and the Congressional Gold Medal) venne ornata con una corona di gardenie, mentre per allestire l'intera chiesa furono usati 30.000 fiori. Fu sepolto a fianco dei suoi genitori nel piccolo cimitero di Cathedral City, il Desert Memorial Park, sotto una semplice lapide rettangolare di pietra, sulla quale è inciso "The best is yet to come" (Il meglio deve ancora venire), titolo di uno dei suoi maggiori successi.
In occasione dei suoi tour italiani, Sinatra amava frequentare Genova che sentiva come la città delle sue origini, soprattutto per questioni familiari, ed era tifoso del Genoa. Chiese infatti espressamente di essere sepolto con indosso una cravatta del Genoa.
venerdì 29 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 dicembre.
Il 29 dicembre 1940 Londra subì uno dei peggiori attacchi della battaglia di Inghilterra, venendo investita da bombe incendiarie sganciate dalla Luftwaffe.
La battaglia d’Inghilterra fu combattuta tra l’estate del 1940 e l’inizio del 1941 tra l’aviazione tedesca e le forze inglesi. Fu una delle più importanti battaglie della seconda guerra mondiale che causò la morte di 23.000 civili inglesi.
Lo scopo della Germania era il controllo della Manica e dell’Inghilterra meridionale come base iniziale per l’invasione del Regno Unito. Questa battaglia è stata la prima ad essere interamente combattuta dalle forze dell’aviazione: La “Luftwaffe” tedesca e la “Royal Air Force” inglese.
I primi bersagli tedeschi furono i porti e gli aeroporti a cui seguirono fabbriche aeronautiche e altre strutture. La tattica adottata dalla Germania era il bombardamento strategico, caratterizzato dallo sgancio di una grande quantità di bombe su larga scala non direttamente sulle forze nemiche, ma sui centri più importanti dei territori attaccati, per distruggere la produzione industriale e togliere al nemico la volontà di combattere.
In questo tipo di bombardamento erano coinvolti anche i civili e per questo era anche chiamato bombardamento terroristico.
Il più terribile degli attacchi effettuati dai tedeschi in questa battaglia avvenne il 29 dicembre del 1940 su Londra, in cui morirono circa 3.000 civili.
Durante quest'ultimo vennero sganciate più di 100.000 bombe sul centro città e sulle zone residenziali, come Islington o Putney.
Per proteggersi dai bombardamenti aerei nemici la popolazione londinese adibì a rifugio antiaereo le stazioni della metropolitana di Londra (come lo scalo di Aldwych, oggi chiuso); si calcola che nelle fermate della Tube di Londra quel giorno dormirono più di 140.000 persone.
Quel giorno, comunque, più di 1.500 incendi dominavano la città, provocando una temperatura superiore a 1.000 °C; i muretti in pietra venivano sbriciolati, le travi di ferro venivano contorte e il vetro si scioglieva, mentre il manto stradale andava in fiamme.
Inizialmente i tedeschi prevedevano una durata di quattro giorni per sconfiggere l’aviazione inglese e circa quattro settimane per distruggere industrie e fabbriche militari. Ma la intera campagna fu costellata da errori strategici e di valutazione da parte della Germania.
Il problema principale fu la scarsa attendibilità di informazioni sull’effettivo apparato difensivo inglese che era molto maggiore e potente di quello stimato.
Il sistema difensivo Dowding e la flotta inglese della RAF riuscirono a reggere, nonostante le enormi perdite, l’attacco tedesco.
Complessivamente la battaglia d’Inghilterra si risolse con la prima vittoria degli alleati sulla Germania che condizionò l’esito della guerra. La Gran Bretagna si confermò roccaforte inespugnabile e ripresasi dalle perdite e i danni subiti si riorganizzò velocemente per il proseguimento delle ostilità.
Infatti divenne in seguito la base d’appoggio per lo sbarco in Normandia, e per i bombardamenti strategici all’interno della Germania, che culminarono nel 1945 con il Bombardamento di Dresda.
Il 29 dicembre 1940 Londra subì uno dei peggiori attacchi della battaglia di Inghilterra, venendo investita da bombe incendiarie sganciate dalla Luftwaffe.
La battaglia d’Inghilterra fu combattuta tra l’estate del 1940 e l’inizio del 1941 tra l’aviazione tedesca e le forze inglesi. Fu una delle più importanti battaglie della seconda guerra mondiale che causò la morte di 23.000 civili inglesi.
Lo scopo della Germania era il controllo della Manica e dell’Inghilterra meridionale come base iniziale per l’invasione del Regno Unito. Questa battaglia è stata la prima ad essere interamente combattuta dalle forze dell’aviazione: La “Luftwaffe” tedesca e la “Royal Air Force” inglese.
I primi bersagli tedeschi furono i porti e gli aeroporti a cui seguirono fabbriche aeronautiche e altre strutture. La tattica adottata dalla Germania era il bombardamento strategico, caratterizzato dallo sgancio di una grande quantità di bombe su larga scala non direttamente sulle forze nemiche, ma sui centri più importanti dei territori attaccati, per distruggere la produzione industriale e togliere al nemico la volontà di combattere.
In questo tipo di bombardamento erano coinvolti anche i civili e per questo era anche chiamato bombardamento terroristico.
Il più terribile degli attacchi effettuati dai tedeschi in questa battaglia avvenne il 29 dicembre del 1940 su Londra, in cui morirono circa 3.000 civili.
Durante quest'ultimo vennero sganciate più di 100.000 bombe sul centro città e sulle zone residenziali, come Islington o Putney.
Per proteggersi dai bombardamenti aerei nemici la popolazione londinese adibì a rifugio antiaereo le stazioni della metropolitana di Londra (come lo scalo di Aldwych, oggi chiuso); si calcola che nelle fermate della Tube di Londra quel giorno dormirono più di 140.000 persone.
Quel giorno, comunque, più di 1.500 incendi dominavano la città, provocando una temperatura superiore a 1.000 °C; i muretti in pietra venivano sbriciolati, le travi di ferro venivano contorte e il vetro si scioglieva, mentre il manto stradale andava in fiamme.
Inizialmente i tedeschi prevedevano una durata di quattro giorni per sconfiggere l’aviazione inglese e circa quattro settimane per distruggere industrie e fabbriche militari. Ma la intera campagna fu costellata da errori strategici e di valutazione da parte della Germania.
Il problema principale fu la scarsa attendibilità di informazioni sull’effettivo apparato difensivo inglese che era molto maggiore e potente di quello stimato.
Il sistema difensivo Dowding e la flotta inglese della RAF riuscirono a reggere, nonostante le enormi perdite, l’attacco tedesco.
Complessivamente la battaglia d’Inghilterra si risolse con la prima vittoria degli alleati sulla Germania che condizionò l’esito della guerra. La Gran Bretagna si confermò roccaforte inespugnabile e ripresasi dalle perdite e i danni subiti si riorganizzò velocemente per il proseguimento delle ostilità.
Infatti divenne in seguito la base d’appoggio per lo sbarco in Normandia, e per i bombardamenti strategici all’interno della Germania, che culminarono nel 1945 con il Bombardamento di Dresda.
giovedì 28 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 dicembre.
Il 28 dicembre 1937 muore, all'età di 62 anni, Maurice Ravel.
Nato il 7 marzo 1875 a Ciboure, paesino dei Pirenei, da padre francese e madre basca, Maurice Ravel subito si trasferisce a Parigi, dove dimostra presto spiccate doti musicali, con una forte propensione per il pianoforte e l'armonia.
Si iscrive al Conservatorio e si dedica dall'età di sette anni allo studio del pianoforte, e dai dodici a quello della composizione, giungendo assai presto a uno stile personale.
Partecipa più volte al Prix de Rome, noto premio francese, risultando spesso perdente; finalmente arriva secondo nel 1901, con la cantata Mirra.
A soli 24 anni ottiene un grande successo di pubblico con la "Pavana pour une infante défunte" (la "pavana" o "padovana" era un'antica danza italiana o spagnola). In seguito collabora con S. Diaghilev, impresario dei Ballets Russes, creando il balletto "Daphnis et Chloé" che consacrerà il suo talento.
Scoppiata la Grande Guerra decide di arruolarsi e dopo grandi insistenze (fu anche scartato dall'aviazione) riesce a prestare servizio come carrista per 18 mesi; Maurice Ravel era convinto che il conflitto mondiale avrebbe completamente cambiato l'assetto del mondo e della società, pertanto la sua sensibilità artistica non poteva mancare un simile evento.
Al termine dell'esperienza militare riprende con successo l'attività di musicista: si esibisce in diverse tournée in Europa e negli Stati Uniti, durante le quali presenta le proprie composizioni, che vengono accolte con entusiasmo da pubblico e critica. Frattanto gli viene conferita una laurea ad honorem a Oxford.
Ravel si propone da subito con un stile straordinariamente moderno ed equilibrato, con lo stesso intento di cambiare le forme classiche di Debussy, ma attraverso un rinnovamento degli elementi della tradizione - melodia, armonia, ritmo e timbro - di estrema piacevolezza e comprensibilità (a differenza dell'altro).
Supera con facilità le iniziali incomprensioni dovute alla novità dello stile e fonda per reazione la Società Musicale Indipendente con altri musicisti, istituzione determinante per la diffusione della musica contemporanea. Conseguendo una continua e crescente simpatia da parte del pubblico, raggiunge il più clamoroso successo con il "Bolero", composto su richiesta della celebre ballerina franco-russa Ida Rubinstein, nel 1928.
Ravel non ne voleva più sapere di balletti dopo che aveva rotto con il mostro sacro dell'epoca in tema di balletti, quel Sergej Pavlovič Djagilev che imperava a Parigi in quegli anni come direttore artistico nonché fondatore dei famosi Balletti russi. Ma cedette alle insistenze della Rubinstein e decise di orchestrare un pezzo del compositore spagnolo Isaac Albéniz, il componimento per pianoforte Iberia, per un balletto. Arrivò presto però la notizia che gli eredi del grande compositore spagnolo non avevano acconsentito a nessuna trascrizione di pezzi del maestro anche perché la partitura della Iberia era già stata orchestrata dal maestro Enrique Fernàndez Arbòs.
Fu a questo punto che Ravel, non scoraggiandosi, prese l'iniziativa di comporre ex novo un pezzo a tempo di bolero, scegliendo dunque un brano dal carattere tipicamente spagnolo. Il Boléro andò in scena all'Opéra national de Paris il 22 novembre 1928, diretto da Walter Straram con le coreografie di Bronislava Nijinska. Il balletto, pur molto innovativo e provocatorio, ottenne un clamoroso successo.
Il balletto originale è una sorta di ballo rituale durante il quale una donna danza in modo seducente su un tavolo, mentre un gruppo di uomini si avvicinano a lei sempre più, con il crescere della musica.
Tra le sue composizioni più conosciute, oltre alle già citate, sono da ricordare: Mamma oca, cinque pezzi infantili per pianoforte a quattro mani e poi per orchestra, ispirata a cinque favole di Charles Perrault, un delizioso mondo fiabesco realizzato in musica; due Concerti per pianoforte e Orchestra, di cui il secondo in re maggiore ha la caratteristica di avere la parte pianistica suonata con la mano sinistra (fu infatti composto per il pianista austriaco P. Wittegenstein, che durante la I guerra Mondiale era rimasto mutilato al braccio destro, ma aveva continuato coraggiosamente la carriera concertistica); L'ora spagnola, per il teatro.
Nel 1933, in seguito ad un incidente d'auto, Maurice Ravel viene colpito da una malattia che paralizzerà progressivamente il suo fisico; muore il 28 dicembre 1937 a Parigi, in seguito ad un'intervento chirurgico al cervello.
George Gershwin ebbe modo di raccontare che quando chiese al maestro francese di poter studiare insieme a lui, Ravel gli rispose: "Perché vuoi diventare un mediocre Ravel, quando puoi essere un ottimo Gershwin?".
Stravinsky, parlando di Ravel, lo definì un "artigiano di orologi svizzeri", riferendosi all'intricata precisione dei suoi lavori.
Il 28 dicembre 1937 muore, all'età di 62 anni, Maurice Ravel.
Nato il 7 marzo 1875 a Ciboure, paesino dei Pirenei, da padre francese e madre basca, Maurice Ravel subito si trasferisce a Parigi, dove dimostra presto spiccate doti musicali, con una forte propensione per il pianoforte e l'armonia.
Si iscrive al Conservatorio e si dedica dall'età di sette anni allo studio del pianoforte, e dai dodici a quello della composizione, giungendo assai presto a uno stile personale.
Partecipa più volte al Prix de Rome, noto premio francese, risultando spesso perdente; finalmente arriva secondo nel 1901, con la cantata Mirra.
A soli 24 anni ottiene un grande successo di pubblico con la "Pavana pour une infante défunte" (la "pavana" o "padovana" era un'antica danza italiana o spagnola). In seguito collabora con S. Diaghilev, impresario dei Ballets Russes, creando il balletto "Daphnis et Chloé" che consacrerà il suo talento.
Scoppiata la Grande Guerra decide di arruolarsi e dopo grandi insistenze (fu anche scartato dall'aviazione) riesce a prestare servizio come carrista per 18 mesi; Maurice Ravel era convinto che il conflitto mondiale avrebbe completamente cambiato l'assetto del mondo e della società, pertanto la sua sensibilità artistica non poteva mancare un simile evento.
Al termine dell'esperienza militare riprende con successo l'attività di musicista: si esibisce in diverse tournée in Europa e negli Stati Uniti, durante le quali presenta le proprie composizioni, che vengono accolte con entusiasmo da pubblico e critica. Frattanto gli viene conferita una laurea ad honorem a Oxford.
Ravel si propone da subito con un stile straordinariamente moderno ed equilibrato, con lo stesso intento di cambiare le forme classiche di Debussy, ma attraverso un rinnovamento degli elementi della tradizione - melodia, armonia, ritmo e timbro - di estrema piacevolezza e comprensibilità (a differenza dell'altro).
Supera con facilità le iniziali incomprensioni dovute alla novità dello stile e fonda per reazione la Società Musicale Indipendente con altri musicisti, istituzione determinante per la diffusione della musica contemporanea. Conseguendo una continua e crescente simpatia da parte del pubblico, raggiunge il più clamoroso successo con il "Bolero", composto su richiesta della celebre ballerina franco-russa Ida Rubinstein, nel 1928.
Ravel non ne voleva più sapere di balletti dopo che aveva rotto con il mostro sacro dell'epoca in tema di balletti, quel Sergej Pavlovič Djagilev che imperava a Parigi in quegli anni come direttore artistico nonché fondatore dei famosi Balletti russi. Ma cedette alle insistenze della Rubinstein e decise di orchestrare un pezzo del compositore spagnolo Isaac Albéniz, il componimento per pianoforte Iberia, per un balletto. Arrivò presto però la notizia che gli eredi del grande compositore spagnolo non avevano acconsentito a nessuna trascrizione di pezzi del maestro anche perché la partitura della Iberia era già stata orchestrata dal maestro Enrique Fernàndez Arbòs.
Fu a questo punto che Ravel, non scoraggiandosi, prese l'iniziativa di comporre ex novo un pezzo a tempo di bolero, scegliendo dunque un brano dal carattere tipicamente spagnolo. Il Boléro andò in scena all'Opéra national de Paris il 22 novembre 1928, diretto da Walter Straram con le coreografie di Bronislava Nijinska. Il balletto, pur molto innovativo e provocatorio, ottenne un clamoroso successo.
Il balletto originale è una sorta di ballo rituale durante il quale una donna danza in modo seducente su un tavolo, mentre un gruppo di uomini si avvicinano a lei sempre più, con il crescere della musica.
Tra le sue composizioni più conosciute, oltre alle già citate, sono da ricordare: Mamma oca, cinque pezzi infantili per pianoforte a quattro mani e poi per orchestra, ispirata a cinque favole di Charles Perrault, un delizioso mondo fiabesco realizzato in musica; due Concerti per pianoforte e Orchestra, di cui il secondo in re maggiore ha la caratteristica di avere la parte pianistica suonata con la mano sinistra (fu infatti composto per il pianista austriaco P. Wittegenstein, che durante la I guerra Mondiale era rimasto mutilato al braccio destro, ma aveva continuato coraggiosamente la carriera concertistica); L'ora spagnola, per il teatro.
Nel 1933, in seguito ad un incidente d'auto, Maurice Ravel viene colpito da una malattia che paralizzerà progressivamente il suo fisico; muore il 28 dicembre 1937 a Parigi, in seguito ad un'intervento chirurgico al cervello.
George Gershwin ebbe modo di raccontare che quando chiese al maestro francese di poter studiare insieme a lui, Ravel gli rispose: "Perché vuoi diventare un mediocre Ravel, quando puoi essere un ottimo Gershwin?".
Stravinsky, parlando di Ravel, lo definì un "artigiano di orologi svizzeri", riferendosi all'intricata precisione dei suoi lavori.
mercoledì 27 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 dicembre.
Il 27 dicembre 1997 viene definitivamente chiuso il carcere dell'Asinara.
L’isola dell'Asinara si trova al largo della punta nord - occidentale della Sardegna.
La sua superficie, di 51 chilometri quadrati, è ricoperta di macchia mediterranea.
È la seconda isola sarda per dimensioni dopo Sant'Antioco, e presenta una forma stretta e allungata in senso Nord-Sud.
L’isola dell’Asinara diventa una colonia penale nel 1885, il modello ispiratore fu quello della colonia penale agricola dell’isola di Pianosa, nata nel 1858.
Furono espropriati i terreni e i fabbricati di 500 isolani, per organizzare il carcere in insediamenti residenziali, detti anche “diramazioni”.
A proporre il disegno di legge fu l’allora ministro dell’Interno Agostino De Pretis, che riteneva il carcere un’utilità per il governo e per i detenuti.
Il governo, facendo lavorare i detenuti sull’isola, non avrebbe dovuto inviare del personale per la costruzione del lazzaretto, e i detenuti avrebbero potuto condurre una vita più attiva, secondo le parole di De Pretis: “…si era riconosciuto conveniente l’impianto di una colonia di coatti, dei quali molti si hanno sempre relegati in località in cui manca assolutamente il modo di occuparli al lavoro…e che pure ad essi si ravviserebbe conveniente trovare produttivo impiego”.
Alla fine del 1888 nella colonia dell’Asinara si trovavano 254 detenuti.
Il 25 giugno del 1971 sbarcano all’Asinara 15 presunti mafiosi.
Cominciano gli anni del supercarcere o carcere di massima sicurezza, in cui, per la durezza e la rigidità dei sistemi di controllo dei detenuti, l’Asinara prenderà il nome di “Cajenna del mediterraneo”.
È il ministero di Grazia e Giustizia, che ha la proprietà dell’isola da un punto di vista giuridico - istituzionale, a avviare dunque un processo di rafforzamento del carcere, anche se il comune di Porto Torres, nella cui giurisdizione territoriale ricade l’Asinara, sperava di svincolare l’isola dal ministero rendendola un Parco naturale.
Il comune dovrà invece pagare 750 lire al giorno per ognuno dei detenuti sospettati di appartenere alla mafia.
Gli anni ’70 saranno i peggiori della storia del carcere dell’Asinara.
Il clima di tensione dei detenuti, le violenze tra loro e verso le guardie, portano anche i direttori del carcere a prendere provvedimenti sin troppo drastici.
Nel 1976 l’allora direttore del carcere Luigi Cardullo fece sparare dagli agenti contro un turista svizzero che aveva inavvertitamente oltrepassato il limite dei 500 metri imposto dalla capitaneria.
Cala d’Oliva era una delle principali diramazioni del carcere dell’Asinara.
Oltre a una struttura carceraria, era l’unica parte dell’isola ad essere abitata.
Qui avevano casa, infatti, le famiglie delle guardie carcerarie, e così attorno al carcere gravitava una piccola cittadina.
Il carcere dell’Asinara era diviso in diverse diramazioni per dei motivi precisi. Ciascuna diramazione era una sorta di piccolo carcere, formato da sobri dormitori, alloggi, dalla caserma delle guardie, da locali di servizio e da stalle per gli animali. Ognuna aveva un suo nome e una sua tipologia, sia per quanto riguarda la sicurezza che per il tipo di vita che i detenuti potevano condurre in base alla loro pena.
Fornelli si trova nella punta Sud dell’isola, era, assieme al carcere di Cala d’Oliva quello più sicuro.
Qui venivano rinchiusi i detenuti più pericolosi e, durante gli anni ’70, i mafiosi (Totò Riina fu rinchiuso in un bunker in cima al colle su cui è costruita Cala d’Oliva).
A Fornelli, infatti, c’erano le celle di massima sicurezza e i cortili chiusi anche sopra la testa da una rete metallica.
A Santa Maria, invece, che da lontano, con i due xilos che sbucano dall’apertura interna, sembra una enorme fattoria, stavano i carcerati meno “pericolosi”, che lavoravano la terra e avevano una maggiore libertà di movimento.
Nella isolata diramazione di Tumbarino (quando l’Asinara era una colonia penale serviva ad accogliere solo 15 condannati per il periodo necessario per l’approvvigionamento di legna e carbone, essendo la zona priva di terreni coltivabili) erano rinchiusi i pedofili, lontani da tutte le altre strutture e privi di qualsiasi anche piccola agevolazione.
Gli altri “settori” della struttura carceraria erano Campu perdu, Elighe Mannu, Trabuccato.
Ma la struttura centrale era Cala Reale, chiamata così perché ospitava l’approdo e le strutture di accoglienza dei Savoia.
Da qui partivano tutti gli ordini e si eseguivano tutte le operazioni di routine, compreso quella di smistare la posta per i detenuti.
Nel 1997 il ministero per i beni culturali e amministrativi riconosceva per l’Asinara il vincolo paesaggistico dovuto alle sue bellezze naturali.
L’Asinara era dunque da una parte un luogo ameno di bellezza e dall’altro la sede di una delle carceri più dure d’Italia. “…il “lager di Stato” dove i detenuti e anche le guardie vi sono tenute in condizioni subumane” (La Nuova Sardegna, 1980).
Negli anni ’80 il carcere si “normalizza”.
I 450 detenuti lavorano e hanno delle condizioni migliori rispetto ai periodi precedenti.
Il 27 dicembre 1997 il carcere viene chiuso e l’Asinara è proclamata ufficialmente Parco naturale.
L’ultimo detenuto ha lasciato l’isola il 28 febbraio 1998.
I detenuti che hanno cercato di fuggire dal carcere dell’Asinara sono stati tanti.
La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto.
In realtà non era né tanto semplice sfuggire alle guardie, perché i controlli avvenivano sia di giorno che di notte su tutta la costa, né poi era semplice buttarsi a mare e sbracciare sino alle coste sarde.
C’erano infatti le correnti, violente e inarrestabili, che impedivano una tranquilla nuotata verso la libertà.
Sono stati tanti i carcerati trovati morti annegati, recuperati giorni dopo la scoperta della loro fuga.
È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barchetta a remi.
Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia.
Solo uno, un bandito sardo, riuscì a organizzare una fuga intelligente e meditata.
Si nascose in una grotta nell’isola. Aveva con sé viveri e una barca, nascosta.
Rimase un mese dentro la grotta, aspettando di poter scappare con la barca, guardie e correnti permettendo. Lo trovarono scorgendo nel terreno vicino alla grotta delle orme. Le sue.
La fuga più nota, però, è quella riuscita, l’unica.
È la fuga di Matteo Boe, che assomiglia tanto all’impresa di “Papillon”, avvenuta il 1° settembre 1986.
Boe, 28 anni, originario di Lula, era detenuto per il sequestro di Sara Niccoli, avrebbe finito di scontare la pena nel 2002.
La permanenza all’Asinara doveva stargli stretta, e così decise di evadere dal carcere con Salvatore Duras, in carcere per furto.
Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto.
Dopo aver tramortito una guardia, i due riescono a raggiungere la costa in una cala dove una donna li aspetta nascosta a bordo di un gommone.
La ragazza, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Matteo Boe all’università.
Duras fu trovato poco tempo dopo.
Boe, invece, riuscì a restare latitante, nascondendosi in Corsica, per sei anni.
Da latitante viene indicato come uno degli artefici del sequestro del piccolo Farouk Kassam. Il 13 ottobre 1992 viene arrestato, su indicazione delle Questure di Nuoro e Sassari, dalla polizia francese a Porto Vecchio in Corsica, dove stava trascorrendo qualche giorno assieme alla compagna Laura Manfredi e ai due figli Luisa e Andrea. Trasferito in carcere a Marsiglia, sotto accusa per possesso d'armi e dichiarazione di false generalità, viene formalmente indicato dalla magistratura italiana come uno dei mandanti e degli esecutori materiali del sequestro Kassam, motivo per il quale viene formulata la richiesta di estradizione.
Nel 1995 viene estradato per il processo relativo al sequestro Kassam, a seguito del quale sarà condannato nel 1996 a venti anni di carcere. Il 25 novembre del 2003 venne uccisa in un agguato la figlia primogenita Luisa Manfredi, di soli 14 anni. L'obiettivo della scarica di pallettoni, che la ferì mortalmente alla tempia mentre per stendere i panni si affacciava al balcone della casa di Lula, secondo gli inquirenti era forse la madre Laura Manfredi, data la notevole somiglianza tra madre e figlia.
A due anni dalla morte, visto il clima di omertà che impediva di dare una svolta alle indagini, Laura Manfredi ha voluto far trasferire la salma di Luisa nel cimitero di Castelvetro di Modena, sua città natale, in Emilia-Romagna, trasferendosi lì insieme agli altri due figli avuti con Matteo Boe.
Il 27 dicembre 1997 viene definitivamente chiuso il carcere dell'Asinara.
L’isola dell'Asinara si trova al largo della punta nord - occidentale della Sardegna.
La sua superficie, di 51 chilometri quadrati, è ricoperta di macchia mediterranea.
È la seconda isola sarda per dimensioni dopo Sant'Antioco, e presenta una forma stretta e allungata in senso Nord-Sud.
L’isola dell’Asinara diventa una colonia penale nel 1885, il modello ispiratore fu quello della colonia penale agricola dell’isola di Pianosa, nata nel 1858.
Furono espropriati i terreni e i fabbricati di 500 isolani, per organizzare il carcere in insediamenti residenziali, detti anche “diramazioni”.
A proporre il disegno di legge fu l’allora ministro dell’Interno Agostino De Pretis, che riteneva il carcere un’utilità per il governo e per i detenuti.
Il governo, facendo lavorare i detenuti sull’isola, non avrebbe dovuto inviare del personale per la costruzione del lazzaretto, e i detenuti avrebbero potuto condurre una vita più attiva, secondo le parole di De Pretis: “…si era riconosciuto conveniente l’impianto di una colonia di coatti, dei quali molti si hanno sempre relegati in località in cui manca assolutamente il modo di occuparli al lavoro…e che pure ad essi si ravviserebbe conveniente trovare produttivo impiego”.
Alla fine del 1888 nella colonia dell’Asinara si trovavano 254 detenuti.
Il 25 giugno del 1971 sbarcano all’Asinara 15 presunti mafiosi.
Cominciano gli anni del supercarcere o carcere di massima sicurezza, in cui, per la durezza e la rigidità dei sistemi di controllo dei detenuti, l’Asinara prenderà il nome di “Cajenna del mediterraneo”.
È il ministero di Grazia e Giustizia, che ha la proprietà dell’isola da un punto di vista giuridico - istituzionale, a avviare dunque un processo di rafforzamento del carcere, anche se il comune di Porto Torres, nella cui giurisdizione territoriale ricade l’Asinara, sperava di svincolare l’isola dal ministero rendendola un Parco naturale.
Il comune dovrà invece pagare 750 lire al giorno per ognuno dei detenuti sospettati di appartenere alla mafia.
Gli anni ’70 saranno i peggiori della storia del carcere dell’Asinara.
Il clima di tensione dei detenuti, le violenze tra loro e verso le guardie, portano anche i direttori del carcere a prendere provvedimenti sin troppo drastici.
Nel 1976 l’allora direttore del carcere Luigi Cardullo fece sparare dagli agenti contro un turista svizzero che aveva inavvertitamente oltrepassato il limite dei 500 metri imposto dalla capitaneria.
Cala d’Oliva era una delle principali diramazioni del carcere dell’Asinara.
Oltre a una struttura carceraria, era l’unica parte dell’isola ad essere abitata.
Qui avevano casa, infatti, le famiglie delle guardie carcerarie, e così attorno al carcere gravitava una piccola cittadina.
Il carcere dell’Asinara era diviso in diverse diramazioni per dei motivi precisi. Ciascuna diramazione era una sorta di piccolo carcere, formato da sobri dormitori, alloggi, dalla caserma delle guardie, da locali di servizio e da stalle per gli animali. Ognuna aveva un suo nome e una sua tipologia, sia per quanto riguarda la sicurezza che per il tipo di vita che i detenuti potevano condurre in base alla loro pena.
Fornelli si trova nella punta Sud dell’isola, era, assieme al carcere di Cala d’Oliva quello più sicuro.
Qui venivano rinchiusi i detenuti più pericolosi e, durante gli anni ’70, i mafiosi (Totò Riina fu rinchiuso in un bunker in cima al colle su cui è costruita Cala d’Oliva).
A Fornelli, infatti, c’erano le celle di massima sicurezza e i cortili chiusi anche sopra la testa da una rete metallica.
A Santa Maria, invece, che da lontano, con i due xilos che sbucano dall’apertura interna, sembra una enorme fattoria, stavano i carcerati meno “pericolosi”, che lavoravano la terra e avevano una maggiore libertà di movimento.
Nella isolata diramazione di Tumbarino (quando l’Asinara era una colonia penale serviva ad accogliere solo 15 condannati per il periodo necessario per l’approvvigionamento di legna e carbone, essendo la zona priva di terreni coltivabili) erano rinchiusi i pedofili, lontani da tutte le altre strutture e privi di qualsiasi anche piccola agevolazione.
Gli altri “settori” della struttura carceraria erano Campu perdu, Elighe Mannu, Trabuccato.
Ma la struttura centrale era Cala Reale, chiamata così perché ospitava l’approdo e le strutture di accoglienza dei Savoia.
Da qui partivano tutti gli ordini e si eseguivano tutte le operazioni di routine, compreso quella di smistare la posta per i detenuti.
Nel 1997 il ministero per i beni culturali e amministrativi riconosceva per l’Asinara il vincolo paesaggistico dovuto alle sue bellezze naturali.
L’Asinara era dunque da una parte un luogo ameno di bellezza e dall’altro la sede di una delle carceri più dure d’Italia. “…il “lager di Stato” dove i detenuti e anche le guardie vi sono tenute in condizioni subumane” (La Nuova Sardegna, 1980).
Negli anni ’80 il carcere si “normalizza”.
I 450 detenuti lavorano e hanno delle condizioni migliori rispetto ai periodi precedenti.
Il 27 dicembre 1997 il carcere viene chiuso e l’Asinara è proclamata ufficialmente Parco naturale.
L’ultimo detenuto ha lasciato l’isola il 28 febbraio 1998.
I detenuti che hanno cercato di fuggire dal carcere dell’Asinara sono stati tanti.
La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto.
In realtà non era né tanto semplice sfuggire alle guardie, perché i controlli avvenivano sia di giorno che di notte su tutta la costa, né poi era semplice buttarsi a mare e sbracciare sino alle coste sarde.
C’erano infatti le correnti, violente e inarrestabili, che impedivano una tranquilla nuotata verso la libertà.
Sono stati tanti i carcerati trovati morti annegati, recuperati giorni dopo la scoperta della loro fuga.
È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barchetta a remi.
Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia.
Solo uno, un bandito sardo, riuscì a organizzare una fuga intelligente e meditata.
Si nascose in una grotta nell’isola. Aveva con sé viveri e una barca, nascosta.
Rimase un mese dentro la grotta, aspettando di poter scappare con la barca, guardie e correnti permettendo. Lo trovarono scorgendo nel terreno vicino alla grotta delle orme. Le sue.
La fuga più nota, però, è quella riuscita, l’unica.
È la fuga di Matteo Boe, che assomiglia tanto all’impresa di “Papillon”, avvenuta il 1° settembre 1986.
Boe, 28 anni, originario di Lula, era detenuto per il sequestro di Sara Niccoli, avrebbe finito di scontare la pena nel 2002.
La permanenza all’Asinara doveva stargli stretta, e così decise di evadere dal carcere con Salvatore Duras, in carcere per furto.
Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto.
Dopo aver tramortito una guardia, i due riescono a raggiungere la costa in una cala dove una donna li aspetta nascosta a bordo di un gommone.
La ragazza, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Matteo Boe all’università.
Duras fu trovato poco tempo dopo.
Boe, invece, riuscì a restare latitante, nascondendosi in Corsica, per sei anni.
Da latitante viene indicato come uno degli artefici del sequestro del piccolo Farouk Kassam. Il 13 ottobre 1992 viene arrestato, su indicazione delle Questure di Nuoro e Sassari, dalla polizia francese a Porto Vecchio in Corsica, dove stava trascorrendo qualche giorno assieme alla compagna Laura Manfredi e ai due figli Luisa e Andrea. Trasferito in carcere a Marsiglia, sotto accusa per possesso d'armi e dichiarazione di false generalità, viene formalmente indicato dalla magistratura italiana come uno dei mandanti e degli esecutori materiali del sequestro Kassam, motivo per il quale viene formulata la richiesta di estradizione.
Nel 1995 viene estradato per il processo relativo al sequestro Kassam, a seguito del quale sarà condannato nel 1996 a venti anni di carcere. Il 25 novembre del 2003 venne uccisa in un agguato la figlia primogenita Luisa Manfredi, di soli 14 anni. L'obiettivo della scarica di pallettoni, che la ferì mortalmente alla tempia mentre per stendere i panni si affacciava al balcone della casa di Lula, secondo gli inquirenti era forse la madre Laura Manfredi, data la notevole somiglianza tra madre e figlia.
A due anni dalla morte, visto il clima di omertà che impediva di dare una svolta alle indagini, Laura Manfredi ha voluto far trasferire la salma di Luisa nel cimitero di Castelvetro di Modena, sua città natale, in Emilia-Romagna, trasferendosi lì insieme agli altri due figli avuti con Matteo Boe.
martedì 26 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 dicembre.
Il 26 dicembre 1606 Shakespeare mette in scena il Re Lear davanti alla corte d'Inghilterra.
La storia che ne fornisce l'intreccio principale affonda le radici nell'antica mitologia britannica. È una tragedia straordinaria a doppio intreccio nella quale la trama secondaria contribuisce a far risaltare e a commentare i vari momenti dell'azione principale.
Lear era un leggendario sovrano della Britannia, benché sia ovvio che la sua vicenda faccia parte del patrimonio folcloristico delle più svariate culture.
Il Lear "storico" sarebbe vissuto poco prima del tempo della fondazione di Roma, ossia nell'VIII secolo a.C.; secondo uno scritto latino Lear, approssimandosi la vecchiaia, aveva deciso di dividere la Britannia fra le sue tre figlie e i mariti che egli avrebbe loro assegnati, pur mantenendo l'autorità regale.
Quando chiede loro di dichiarare l'affetto che gli portano, Cordelia, la figlia minore, disgustata dalla sfacciata adulazione delle sorelle Gonerill e Regan, risponde che il suo affetto è quello dovuto da ogni figlia a ogni padre.
Lear adirato la disereda, mentre dà in moglie le altre due figlie rispettivamente al Duca di Albany e al Duca di Cornovaglia, che diventano governatori ciascuno di metà del suo regno. Poco dopo il Re di Francia, e cioè di un terzo della Gallia, avendo notizia della bellezza di Cordelia, la sposa rinunciando alla dote e la porta con sé.
Molto tempo dopo i due governatori insorgono contro Lear e lo depongono; egli si reca allora presso la figlia in Gallia, dove viene bene accolto.
Il Re di Francia raduna un esercito e conquista l'intera Britannia, restaurando Lear sul suo trono. Dopo altri tre anni, però, in seguito alla morte sia di Lear che del Re di Francia, Cordelia rimane sola regina di Britannia.
Passano altri cinque anni di pacifico governo, allorché il figlio del Duca di Albany ed il figlio del Duca di Cornovaglia si ribellano a Cordelia e dopo una lunga guerra la fanno prigioniera. La regina spodestata si suicida in carcere.
Si direbbe proprio che la coloritura arcadico-cavalleresca del Re Lear abbia indotto Shakespeare a cercare lo spunto per la trama secondaria della sua tragedia in un capolavoro di quel genere letterario. In questo modo Shakespeare ha portato avanti la storia di Gloucester e presentato la macchinazione di Edmund (suo figlio bastardo), il quale è deciso a vendicarsi dell'ingiusta infamia che pesa su di lui dalla nascita comportandosi come se fosse un figlio legittimo contro il suo nobile ma ingenuo fratello Edgard, che è costretto a fuggire attraverso i campi travestito da accattone demente.
È stata una mossa di straordinaria audacia, da parte di Shakespeare, quella di riunire nello stesso dramma Edgardo, che si finge pazzo, Lear, che sta diventando pazzo per davvero, e il buffone (il pazzo); egli è riuscito a tenere separati questi tre livelli di follia.
Shakespeare pone il problema del rapporto che esiste tra ingenuità e forza morale di realizzazione: Edgardo, con la sua ingenua credulità, è la causa della situazione in cui viene lui stesso a trovarsi e della crudele sorte che tocca a suo padre, il Conte di Gloucester.
Così Edmund definisce Edgard: "un nobile fratello così lontano dal fare del male che non sa che significhi sospetto".
Shakespeare ebbe la straordinaria capacità di organizzare un discorso teatrale estremamente articolato e insieme unitario attingendo ai materiali accumulati da tutta una tradizione narrativa, così da creare una nuova struttura autonoma.
L'efficacia drammatica di Lear risiede soprattutto nella forza espressiva dei personaggi.
L'elemento che domina tutta la parte centrale del dramma è la pazzia di Lear, che coincide con la tempesta e lo sconvolgimento della natura; il temporale era presente marginalmente nel dramma di Lear, in funzione di ammonimento celeste a un sicario; ora diviene proiezione a livello cosmico della follia umana di Lear, e d'altra parte tale follia è a sua volta manifestazione di quello sconvolgimento, che coinvolge valori religiosi e sociali.
Le cosiddette leggi divine sono giochi di ragazzi crudeli e la totale sovversione dei ruoli sociali è chiara nella scena della tempesta, con un re spodestato, un conte nella parte di servitore (Kent) e un altro nobile (Edgar, figlio legittimo del Conte di Gloucester ed erede del titolo di Gloucester) in quella di mendicante pazzo; con amara ironia il vecchio Conte di Gloucester, che non è stato ancora accecato e perciò non sa vedere nulla, nel soccorrere il re vuole che sia rispettata la gerarchia, ed offre a quest'ultimo il ricovero di un granaio, ma cerca di scacciare il mendicante in una capanna; solo la pietà per la follia di Lear che - divenuto uomo fra gli uomini - vuole portare con sé il mendicante, lo induce ad acconsentire, ma affida la bisogna di occuparsi del poveretto a Kent che egli crede un servitore. La follia ha permesso a Lear di vedere chiaro, di giungere alla radice della natura umana, all'uomo in sé. Il Matto che si accompagna a Lear, personaggio che non si trova in nessuna delle fonti rappresenta forse la più grande intuizione drammaturgica di Shakespeare: è il caso di una parola che si è incarnata imponendosi come personaggio.
Il Matto è la pazzia di Lear, e cioè la sua saggezza, è anzi la figurazione concreta della coscienza (e consapevolezza) di Lear, coscienza del proprio errore di giudizio, della propria "cecità", e appunto della propria follia - coscienza come rimorso e come illuminazione.
Il Matto è la dimostrazione anche della straordinaria maturità di Shakespeare come uomo di teatro: in una vicenda che comportava l'assenza dalla della principale figura femminile per tutta la parte centrale del dramma, il Matto compensa e sostituisce l'assenza dell'eroina assumendone la funzione.
Lear si fonda sulla figura della metafora. Quando ci si sia resi conto di questo, appare subito chiaro il perché dell'introduzione della trama secondaria assente nelle altre tragedie, e proprio di quella trama attinta ad una fonte che non sembrava aver nulla a che fare con quella della trama principale.
In altre parole, la trama secondaria, la storia di colui che Shakespeare ha chiamato Gloucester, è il referente "reale" di quell'immensa metafora che è la storia di Lear, allo stesso modo che la tempesta è contemporaneamente referente e metafora della condizione umana, e della condizione dell'universo.
Re Lear è strutturato dunque come una catena o una scatola cinese di metafore; da questo punto di vista l'introduzione della trama secondaria serve anche a ridurre l'incidenza dei ruoli femminili.
Essendo Kent un fedele seguace del re, egli è presente in scena più di qualsiasi altro personaggio, Lear compreso; e spetta proprio a Kent presentare gli antefatti di entrambe le trame: la decisione di Lear di dividere il regno, e il rapporto fra Gloucester e il figlio bastardo Edmund.
Più limitato è il ruolo di Oswald, fedele complice di Gonerill, che però diventa mezzano negli intrighi fra le sorelle e Edmund - quegli intrighi che sono l'altro modo con il quale Shakespeare ha intrecciato le due vicende; e Oswald assume alla fine anche la parte di sicario, ma non contro il re, bensì contro Gloucester, la controparte del re nella trama secondaria.
Re Lear è per tre quarti in versi e per un quarto in prosa ma, contrariamente alla convenzione che voleva la prosa riservata ai personaggi di rango inferiore, alle scene comiche, o a quelle ove maggiore è la concitazione dell'azione, in quest'opera (a parte ovviamente le scene del Matto che alternano prosa a filastrocche allusive) versi e prosa si alternano senza tener conto del rango dei parlanti.
In questa tragedia si svolge un gioco paradossale di rapporti tra ragione e pazzia.
Ciò che la tragedia vuole dimostrare è che l'universo morale è più complicato e intimamente contraddittorio di quanto la nostra vita di ogni giorno possa indurci a credere.
Il 26 dicembre 1606 Shakespeare mette in scena il Re Lear davanti alla corte d'Inghilterra.
La storia che ne fornisce l'intreccio principale affonda le radici nell'antica mitologia britannica. È una tragedia straordinaria a doppio intreccio nella quale la trama secondaria contribuisce a far risaltare e a commentare i vari momenti dell'azione principale.
Lear era un leggendario sovrano della Britannia, benché sia ovvio che la sua vicenda faccia parte del patrimonio folcloristico delle più svariate culture.
Il Lear "storico" sarebbe vissuto poco prima del tempo della fondazione di Roma, ossia nell'VIII secolo a.C.; secondo uno scritto latino Lear, approssimandosi la vecchiaia, aveva deciso di dividere la Britannia fra le sue tre figlie e i mariti che egli avrebbe loro assegnati, pur mantenendo l'autorità regale.
Quando chiede loro di dichiarare l'affetto che gli portano, Cordelia, la figlia minore, disgustata dalla sfacciata adulazione delle sorelle Gonerill e Regan, risponde che il suo affetto è quello dovuto da ogni figlia a ogni padre.
Lear adirato la disereda, mentre dà in moglie le altre due figlie rispettivamente al Duca di Albany e al Duca di Cornovaglia, che diventano governatori ciascuno di metà del suo regno. Poco dopo il Re di Francia, e cioè di un terzo della Gallia, avendo notizia della bellezza di Cordelia, la sposa rinunciando alla dote e la porta con sé.
Molto tempo dopo i due governatori insorgono contro Lear e lo depongono; egli si reca allora presso la figlia in Gallia, dove viene bene accolto.
Il Re di Francia raduna un esercito e conquista l'intera Britannia, restaurando Lear sul suo trono. Dopo altri tre anni, però, in seguito alla morte sia di Lear che del Re di Francia, Cordelia rimane sola regina di Britannia.
Passano altri cinque anni di pacifico governo, allorché il figlio del Duca di Albany ed il figlio del Duca di Cornovaglia si ribellano a Cordelia e dopo una lunga guerra la fanno prigioniera. La regina spodestata si suicida in carcere.
Si direbbe proprio che la coloritura arcadico-cavalleresca del Re Lear abbia indotto Shakespeare a cercare lo spunto per la trama secondaria della sua tragedia in un capolavoro di quel genere letterario. In questo modo Shakespeare ha portato avanti la storia di Gloucester e presentato la macchinazione di Edmund (suo figlio bastardo), il quale è deciso a vendicarsi dell'ingiusta infamia che pesa su di lui dalla nascita comportandosi come se fosse un figlio legittimo contro il suo nobile ma ingenuo fratello Edgard, che è costretto a fuggire attraverso i campi travestito da accattone demente.
È stata una mossa di straordinaria audacia, da parte di Shakespeare, quella di riunire nello stesso dramma Edgardo, che si finge pazzo, Lear, che sta diventando pazzo per davvero, e il buffone (il pazzo); egli è riuscito a tenere separati questi tre livelli di follia.
Shakespeare pone il problema del rapporto che esiste tra ingenuità e forza morale di realizzazione: Edgardo, con la sua ingenua credulità, è la causa della situazione in cui viene lui stesso a trovarsi e della crudele sorte che tocca a suo padre, il Conte di Gloucester.
Così Edmund definisce Edgard: "un nobile fratello così lontano dal fare del male che non sa che significhi sospetto".
Shakespeare ebbe la straordinaria capacità di organizzare un discorso teatrale estremamente articolato e insieme unitario attingendo ai materiali accumulati da tutta una tradizione narrativa, così da creare una nuova struttura autonoma.
L'efficacia drammatica di Lear risiede soprattutto nella forza espressiva dei personaggi.
L'elemento che domina tutta la parte centrale del dramma è la pazzia di Lear, che coincide con la tempesta e lo sconvolgimento della natura; il temporale era presente marginalmente nel dramma di Lear, in funzione di ammonimento celeste a un sicario; ora diviene proiezione a livello cosmico della follia umana di Lear, e d'altra parte tale follia è a sua volta manifestazione di quello sconvolgimento, che coinvolge valori religiosi e sociali.
Le cosiddette leggi divine sono giochi di ragazzi crudeli e la totale sovversione dei ruoli sociali è chiara nella scena della tempesta, con un re spodestato, un conte nella parte di servitore (Kent) e un altro nobile (Edgar, figlio legittimo del Conte di Gloucester ed erede del titolo di Gloucester) in quella di mendicante pazzo; con amara ironia il vecchio Conte di Gloucester, che non è stato ancora accecato e perciò non sa vedere nulla, nel soccorrere il re vuole che sia rispettata la gerarchia, ed offre a quest'ultimo il ricovero di un granaio, ma cerca di scacciare il mendicante in una capanna; solo la pietà per la follia di Lear che - divenuto uomo fra gli uomini - vuole portare con sé il mendicante, lo induce ad acconsentire, ma affida la bisogna di occuparsi del poveretto a Kent che egli crede un servitore. La follia ha permesso a Lear di vedere chiaro, di giungere alla radice della natura umana, all'uomo in sé. Il Matto che si accompagna a Lear, personaggio che non si trova in nessuna delle fonti rappresenta forse la più grande intuizione drammaturgica di Shakespeare: è il caso di una parola che si è incarnata imponendosi come personaggio.
Il Matto è la pazzia di Lear, e cioè la sua saggezza, è anzi la figurazione concreta della coscienza (e consapevolezza) di Lear, coscienza del proprio errore di giudizio, della propria "cecità", e appunto della propria follia - coscienza come rimorso e come illuminazione.
Il Matto è la dimostrazione anche della straordinaria maturità di Shakespeare come uomo di teatro: in una vicenda che comportava l'assenza dalla della principale figura femminile per tutta la parte centrale del dramma, il Matto compensa e sostituisce l'assenza dell'eroina assumendone la funzione.
Lear si fonda sulla figura della metafora. Quando ci si sia resi conto di questo, appare subito chiaro il perché dell'introduzione della trama secondaria assente nelle altre tragedie, e proprio di quella trama attinta ad una fonte che non sembrava aver nulla a che fare con quella della trama principale.
In altre parole, la trama secondaria, la storia di colui che Shakespeare ha chiamato Gloucester, è il referente "reale" di quell'immensa metafora che è la storia di Lear, allo stesso modo che la tempesta è contemporaneamente referente e metafora della condizione umana, e della condizione dell'universo.
Re Lear è strutturato dunque come una catena o una scatola cinese di metafore; da questo punto di vista l'introduzione della trama secondaria serve anche a ridurre l'incidenza dei ruoli femminili.
Essendo Kent un fedele seguace del re, egli è presente in scena più di qualsiasi altro personaggio, Lear compreso; e spetta proprio a Kent presentare gli antefatti di entrambe le trame: la decisione di Lear di dividere il regno, e il rapporto fra Gloucester e il figlio bastardo Edmund.
Più limitato è il ruolo di Oswald, fedele complice di Gonerill, che però diventa mezzano negli intrighi fra le sorelle e Edmund - quegli intrighi che sono l'altro modo con il quale Shakespeare ha intrecciato le due vicende; e Oswald assume alla fine anche la parte di sicario, ma non contro il re, bensì contro Gloucester, la controparte del re nella trama secondaria.
Re Lear è per tre quarti in versi e per un quarto in prosa ma, contrariamente alla convenzione che voleva la prosa riservata ai personaggi di rango inferiore, alle scene comiche, o a quelle ove maggiore è la concitazione dell'azione, in quest'opera (a parte ovviamente le scene del Matto che alternano prosa a filastrocche allusive) versi e prosa si alternano senza tener conto del rango dei parlanti.
In questa tragedia si svolge un gioco paradossale di rapporti tra ragione e pazzia.
Ciò che la tragedia vuole dimostrare è che l'universo morale è più complicato e intimamente contraddittorio di quanto la nostra vita di ogni giorno possa indurci a credere.
lunedì 25 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 dicembre.
Nella notte tra il 25 e il 26 Dicembre del 1996 un battello con a bordo centinaia di uomini e donne provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka affonda a poche miglia dalle coste italiane, nei pressi di Portopalo di Capo Passero, la punta più a Sud della Sicilia.
Le vittime di quella che viene ricordata come ‘La strage di Natale’ sono 283; è la più grande tragedia navale nel Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale.
L’imbarcazione ‘Yohan’, capitanata dal libanese Youssef El Hallal, era partita dal porto del Cairo con a bordo quasi 500 persone, costrette a sborsare un migliaio di euro a testa per il viaggio della speranza e a giorni interi di attesa nel porto prima della partenza, per poi essere stipate nella stiva con scarse quantità di cibo ed acqua.
Durante il tragitto la Yohan rimane bloccata in mezzo al mare; viene chiesto l’intervento di un’altra imbarcazione in partenza da Malta (una F714, nave della marina inglese in pessime condizioni risalente al 1944).
All’arrivo della F714 centinaia di persone della Yohan, esasperate dall’attesa e da giorni di viaggio, vi si riversano sopra; durante l’operazione, però, nel vecchio battello inglese si apre una falla nello scafo di cui nessuno sembra accorgersi.
La F714 prosegue il suo viaggio verso le coste siciliane continuando ad imbarcare acqua, mentre dalla stiva centinaia di persone con l’acqua ormai alla gola battono disperate le mani sul ponte chiedendo di uscire.
La Yohan torna indietro per portare soccorso ma il mare è burrascoso e le due imbarcazioni si scontrano; la F714, vecchia, danneggiata e sovraccarica, si spezza e affonda. Si salvano solo una trentina di persone, tra cui il comandante Sheik Thourab.
Per i sopravvissuti, però, la tragedia non è finita: vengono tutti portati in Grecia, segregati e costretti al silenzio; una parte di essi riesce a fuggire e a denunciare l’accaduto alla polizia che però non crede alla loro versione e li arresta perché clandestini.
Nei giorni successivi molti cadaveri giungono sulle coste siciliane, ma nessun pescatore denuncia l’accaduto per timore di sequestri delle imbarcazioni e blocchi della pesca; il 4 Gennaio un’agenzia di stampa fa trapelare quanto dichiarato dai sopravvissuti reclusi in Grecia ma le autorità italiane accolgono la notizia con grande scetticismo e decidono che è meglio che tutta la storia continui a rimanere sotto silenzio.
La strage di Natale rimane a lungo sconosciuta, fino a quando, nel 2001, una indagine internazionale portata avanti con fatica e le pressioni dei familiari delle vittime riescono a mostrare le immagini del relitto della F714 e dei numerosi scheletri ancora imprigionati al suo interno.
L’indagine mette inoltre in luce l’esistenza di un ramificato sistema di mercificazione quotidiana della disperazione di migliaia di persone; un sistema spesso noto tanto alle autorità dei paesi di provenienza dei migranti quanto a quelle europee.
Sheik Thourab e Youssef El Hallal sono stati entrambi condannati solo tra il 2008 e il 2009 dopo più di un decennio di impunità ed assoluzioni.
Nella notte tra il 25 e il 26 Dicembre del 1996 un battello con a bordo centinaia di uomini e donne provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka affonda a poche miglia dalle coste italiane, nei pressi di Portopalo di Capo Passero, la punta più a Sud della Sicilia.
Le vittime di quella che viene ricordata come ‘La strage di Natale’ sono 283; è la più grande tragedia navale nel Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale.
L’imbarcazione ‘Yohan’, capitanata dal libanese Youssef El Hallal, era partita dal porto del Cairo con a bordo quasi 500 persone, costrette a sborsare un migliaio di euro a testa per il viaggio della speranza e a giorni interi di attesa nel porto prima della partenza, per poi essere stipate nella stiva con scarse quantità di cibo ed acqua.
Durante il tragitto la Yohan rimane bloccata in mezzo al mare; viene chiesto l’intervento di un’altra imbarcazione in partenza da Malta (una F714, nave della marina inglese in pessime condizioni risalente al 1944).
All’arrivo della F714 centinaia di persone della Yohan, esasperate dall’attesa e da giorni di viaggio, vi si riversano sopra; durante l’operazione, però, nel vecchio battello inglese si apre una falla nello scafo di cui nessuno sembra accorgersi.
La F714 prosegue il suo viaggio verso le coste siciliane continuando ad imbarcare acqua, mentre dalla stiva centinaia di persone con l’acqua ormai alla gola battono disperate le mani sul ponte chiedendo di uscire.
La Yohan torna indietro per portare soccorso ma il mare è burrascoso e le due imbarcazioni si scontrano; la F714, vecchia, danneggiata e sovraccarica, si spezza e affonda. Si salvano solo una trentina di persone, tra cui il comandante Sheik Thourab.
Per i sopravvissuti, però, la tragedia non è finita: vengono tutti portati in Grecia, segregati e costretti al silenzio; una parte di essi riesce a fuggire e a denunciare l’accaduto alla polizia che però non crede alla loro versione e li arresta perché clandestini.
Nei giorni successivi molti cadaveri giungono sulle coste siciliane, ma nessun pescatore denuncia l’accaduto per timore di sequestri delle imbarcazioni e blocchi della pesca; il 4 Gennaio un’agenzia di stampa fa trapelare quanto dichiarato dai sopravvissuti reclusi in Grecia ma le autorità italiane accolgono la notizia con grande scetticismo e decidono che è meglio che tutta la storia continui a rimanere sotto silenzio.
La strage di Natale rimane a lungo sconosciuta, fino a quando, nel 2001, una indagine internazionale portata avanti con fatica e le pressioni dei familiari delle vittime riescono a mostrare le immagini del relitto della F714 e dei numerosi scheletri ancora imprigionati al suo interno.
L’indagine mette inoltre in luce l’esistenza di un ramificato sistema di mercificazione quotidiana della disperazione di migliaia di persone; un sistema spesso noto tanto alle autorità dei paesi di provenienza dei migranti quanto a quelle europee.
Sheik Thourab e Youssef El Hallal sono stati entrambi condannati solo tra il 2008 e il 2009 dopo più di un decennio di impunità ed assoluzioni.
domenica 24 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 dicembre.
Il 24 dicembre 1871 debuttò al Cairo l'Aida, la più classica delle opere verdiane.
Si può definire Aida un'"opera d'occasione"? Se Giuseppe Verdi l'avesse scritta per l'inaugurazione dell'Opera del Cairo - avvenuta nel 1870 - potremmo affermarlo, ma le circostanze che portarono alla realizzazione della più classica opera verdiana furono altre.
Nel 1869, in occasione dei festeggiamenti per l'apertura del Canale di Suez, il Khedive (viceré d'Egitto) commissionò al livornese Pietro Avoscani la progettazione e la costruzione di un teatro d'opera. L'eccezionale impresa, portata a termine in soli sei mesi, esigeva per la sua inaugurazione una rappresentazione che fosse prestigiosa ed inedita. A quel punto il sovrano chiamò in causa il celebre compositore italiano per ideare un'opera all'altezza della circostanza da rappresentare nel nuovo teatro. Verdi rifiutò, non ritenendosi adatto a comporre opere su commissione: all'apertura dell'Opera del Cairo il Khedive dovette perciò accontentarsi di Rigoletto, non abbandonando però il progetto di affidargli un'altra produzione.
Il desiderio del viceré incontrò quello dell'egittologo francese Auguste Mariette che aveva composto un soggetto a carattere egiziano: nulla di più adatto per l'occasione. Mariette approfittò della situazione per contattare Camille Du Locle, direttore dell'Opéra-Comique di Parigi, chiedendogli di trovare un musicista per scrivere un'opera lirica a partire dal suo soggetto. Du Locle vantava una solida amicizia con Verdi e ovviamente sottopose la trama all'amico, il quale si mostrò indeciso. Il direttore dell'Opéra sapeva come convincerlo: gli disse che se non avesse accettato, il Khedive si sarebbe rivolto altrove, forse a quel Richard Wagner che stava conquistando la scena europea con una musica ben diversa da quella verdiana. Il compositore italiano fu colto nel suo punto debole e, perciò, accettò di scrivere Aida.
Il compositore fissò il suo compenso nell'astronomica cifra di 150.000 franchi, s'impegnò a comporre il libretto a sue spese e a pagare un direttore d'orchestra che lo sostituisse al Cairo per dirigere la prima. Il contratto prevedeva che l'opera fosse rappresentata nel gennaio del 1871, ma gli eventi storici lo impedirono. Nel 1870 la successione al trono spagnolo causò infatti una guerra tra Francia e Prussia: all'epoca Mariette si trovava proprio a Parigi impegnato nei lavori per l'allestimento e i costumi di Aida. Quando l'esercito prussiano arrivò ad assediare la capitale francese, l'egittologo si ritrovò prigioniero nella città e fu costretto ad interrompere i preparativi.
Nel frattempo Verdi aveva preso contatti con Antonio Ghislanzoni per la stesura del libretto con la supervisione del compositore e si assicurò della possibilità di rappresentare l'opera in prima nazionale al Teatro alla Scala di Milano.
Verdi compose la musica molto velocemente, incalzando così il lavoro di Ghislanzoni che gli consegnava i versi mano a mano che venivano composti. Dal momento che era molto più interessato alla prima milanese che non a quella del Cairo e non aveva alcuna intenzione di recarsi in Egitto, Verdi orchestrò l'opera nella propria casa a Sant'Agata, appuntando direttamente sulla partitura precise indicazioni per la messa in scena nel teatro egiziano. Grazie alla velocità del lavoro, nel novembre 1870 l'opera era completata.
Non appena l'esercito prussiano entrò nella città, Mariette, scenografie e costumi poterono salpare per il Cairo dove li attendevano gli ultimi preparativi per l'allestimento.
Dopo non poche difficoltà, il 24 dicembre 1871 Aida andò finalmente in scena al Cairo davanti ad un Khedive così soddisfatto da premiare il gran compositore con il titolo di Commendatore dell'Ordine Ottomano. Solo due mesi dopo, l'8 febbraio 1872, l'opera andò in scena alla Scala di Milano con un cast di prim'ordine, tra i quali spiccava il soprano Teresa Stolz. Grazie al debutto milanese, Aida fu richiesta dai maggiori teatri italiani ed europei per esservi rappresentata: fu l'inizio di una serie di allestimenti che consacrarono Aida tra gli assoluti capolavori della lirica verdiana.
La trama: Gli etiopi stanno per attaccare la valle del Nilo e Tebe.
Ramfis, gran sacerdote, annuncia al giovane Radames che gli dei hanno già indicato il guerriero che guiderà gli eserciti egiziani contro gli invasori. Radames spera di essere il prescelto e di coprirsi di gloria per amore della schiava etiope Aida.
Entra in scena Amneris, figlia del faraone, a cui Radames confida la sua speranza, pur senza farle cenno del suo amore per Aida.
All'entrata di Aida, Amneris capisce il nascente amore di Aida per Radames e giura di vendicarsi perché anch'essa è innamorata del guerriero.
Il re seguito dalla corte, viene ad annunciare che Radames è stato designato quale comandante dell'esercito.
Amneris consegna il vessillo col quale Radames dovrà tornare vincitore.
Soltanto Aida è triste: Radames è l'oggetto del suo amore ma anche il nemico degli Etiopi; se egli vincerà, sarà la fine di Amonasro, che ha impugnato le armi per ridonare alla figlia, schiava in Egitto, la patria, la reggia, il nome illustre che è costretta a nascondere.
Un crudele contrasto agita, dunque, il cuore di Aida che invoca il soccorso degli dei, combattuta tra l'amore per Radames e il sentimento che la lega al padre Amonasro e al suo popolo.
Nel tempio si svolgono le cerimonie di propiziazione e preghiera.
I sacerdoti e le sacerdotesse inneggiano alla divinità e Radames viene consacrato, per la guerra e per la vittoria, ricevendo da Ramfis la spada.
La figlia del Faraone è circondata da schiave che l'abbigliano per la festa trionfale: quando entra Aida, essa, con simulata amorevolezza, le rivela che la sorte delle armi fu infausta agli Etiopi e la compiange. Poi le dà la falsa notizia della morte di Radames.
Dal grido che sfugge alla giovane schiava essa scopre il suo segreto d'amore e allora non esita a dirle che Radames è vivo e che essa pure lo ama.
Invano Aida la supplica di aver pietà di lei, sprezzante, Amneris pronunzia crudeli parole di minaccia.
Il Faraone, Amneris, con Aida e altre schiave, ministri, sacerdoti e il popolo tutto attendono Radames, il trionfatore che arriva alla testa delle truppe vittoriose, con i carri di guerra, le insegne, i tesori conquistati.
Radames, incoronato da Amneris fa condurre i prigionieri. Fra loro è Amonasro, re degli Etiopi, padre di Aida. Questa lo riconosce, gli parla, ma Amonasro le impone di non far sapere che egli è il re.
Radames chiede la libertà dei prigionieri ed il Faraone accoglie la richiesta, ma poi, per le proteste dei sacerdoti, decide che Aida e suo padre vengano tenuti in ostaggio e gli altri siano liberati.
Il Faraone offre a Radames la mano di Amneris.
Radames e Aida esprimono il loro segreto, angoscioso dolore per la decisione del Faraone.
Radames non può rifiutare le nozze con Amneris che, alla vigilia delle nozze, si reca a pregare al tempio di Iside per propiziarsi la dea.
Inosservata, giunge Aida, che deve incontrare Radames.
Sopraggiunge, invece, Amonasro che, avendo scoperto la relazione tra la figlia e Radames, le impone brutalmente di farsi rivelare la strada che percorreranno gli egiziani in modo da consentire al popolo etiope, già pronto alle armi, di piombare sul nemico e conquistare così l'ambita vittoria.
Aida si ribella all'idea di tradire Radames, ma Amonasro le impone il sacrificio per il bene del suo paese, poi, non visto, spia il colloquio dei due innamorati che affrontano il problema di coronare il loro sogno d'amore.
Ma come farà Radames a liberarsi di Amneris? Come potranno sfuggire alle ire di lei?
Un solo scampo esiste, dice Aida: la fuga. Radames è pronto a fuggire con lei.
Ma v'è una strada sicura, percorrendo la quale essi potranno raggiungere la libertà senza essere sorpresi dagli armati egizi?
Radames ne fa il nome.
Appare Amonasro e rivela che egli, re degli Etiopi, passerà coi suoi soldati per il sentiero incustodito, nominato da Radames.
Radames comprende di avere, involontariamente, svelato un segreto di guerra.
Dal tempio, Amneris grida al tradimento, Amonasro fa per aggredirla, ma Radames, lo disarma e si consegna al gran sacerdote per espiare il suo tradimento, sia pure involontario.
Amneris è disperata: Aida le è sfuggita, Radames è prigioniero e la morte lo attende.
Sempre innamorata di Radames, lo scongiura di difendersi. Lei implorerà da suo padre la grazia, se Radames le concederà il suo amore.
Radames, incapace di vivere senza Aida, vuole espiare la sua colpa. Condotto davanti al tribunale dai sacerdoti viene condannato ad essere sepolto vivo.
Radames nel suo sepolcro, sulla cui apertura viene calata una grossa pietra, invoca Aida.
Inattesa ecco apparire Aida che lo ha preceduto nel sotterraneo per morire al suo fianco.
Serenamente affrontano insieme la crudele morte, mentre Amneris, nel tempio, leva il suo lamento.
Il 24 dicembre 1871 debuttò al Cairo l'Aida, la più classica delle opere verdiane.
Si può definire Aida un'"opera d'occasione"? Se Giuseppe Verdi l'avesse scritta per l'inaugurazione dell'Opera del Cairo - avvenuta nel 1870 - potremmo affermarlo, ma le circostanze che portarono alla realizzazione della più classica opera verdiana furono altre.
Nel 1869, in occasione dei festeggiamenti per l'apertura del Canale di Suez, il Khedive (viceré d'Egitto) commissionò al livornese Pietro Avoscani la progettazione e la costruzione di un teatro d'opera. L'eccezionale impresa, portata a termine in soli sei mesi, esigeva per la sua inaugurazione una rappresentazione che fosse prestigiosa ed inedita. A quel punto il sovrano chiamò in causa il celebre compositore italiano per ideare un'opera all'altezza della circostanza da rappresentare nel nuovo teatro. Verdi rifiutò, non ritenendosi adatto a comporre opere su commissione: all'apertura dell'Opera del Cairo il Khedive dovette perciò accontentarsi di Rigoletto, non abbandonando però il progetto di affidargli un'altra produzione.
Il desiderio del viceré incontrò quello dell'egittologo francese Auguste Mariette che aveva composto un soggetto a carattere egiziano: nulla di più adatto per l'occasione. Mariette approfittò della situazione per contattare Camille Du Locle, direttore dell'Opéra-Comique di Parigi, chiedendogli di trovare un musicista per scrivere un'opera lirica a partire dal suo soggetto. Du Locle vantava una solida amicizia con Verdi e ovviamente sottopose la trama all'amico, il quale si mostrò indeciso. Il direttore dell'Opéra sapeva come convincerlo: gli disse che se non avesse accettato, il Khedive si sarebbe rivolto altrove, forse a quel Richard Wagner che stava conquistando la scena europea con una musica ben diversa da quella verdiana. Il compositore italiano fu colto nel suo punto debole e, perciò, accettò di scrivere Aida.
Il compositore fissò il suo compenso nell'astronomica cifra di 150.000 franchi, s'impegnò a comporre il libretto a sue spese e a pagare un direttore d'orchestra che lo sostituisse al Cairo per dirigere la prima. Il contratto prevedeva che l'opera fosse rappresentata nel gennaio del 1871, ma gli eventi storici lo impedirono. Nel 1870 la successione al trono spagnolo causò infatti una guerra tra Francia e Prussia: all'epoca Mariette si trovava proprio a Parigi impegnato nei lavori per l'allestimento e i costumi di Aida. Quando l'esercito prussiano arrivò ad assediare la capitale francese, l'egittologo si ritrovò prigioniero nella città e fu costretto ad interrompere i preparativi.
Nel frattempo Verdi aveva preso contatti con Antonio Ghislanzoni per la stesura del libretto con la supervisione del compositore e si assicurò della possibilità di rappresentare l'opera in prima nazionale al Teatro alla Scala di Milano.
Verdi compose la musica molto velocemente, incalzando così il lavoro di Ghislanzoni che gli consegnava i versi mano a mano che venivano composti. Dal momento che era molto più interessato alla prima milanese che non a quella del Cairo e non aveva alcuna intenzione di recarsi in Egitto, Verdi orchestrò l'opera nella propria casa a Sant'Agata, appuntando direttamente sulla partitura precise indicazioni per la messa in scena nel teatro egiziano. Grazie alla velocità del lavoro, nel novembre 1870 l'opera era completata.
Non appena l'esercito prussiano entrò nella città, Mariette, scenografie e costumi poterono salpare per il Cairo dove li attendevano gli ultimi preparativi per l'allestimento.
Dopo non poche difficoltà, il 24 dicembre 1871 Aida andò finalmente in scena al Cairo davanti ad un Khedive così soddisfatto da premiare il gran compositore con il titolo di Commendatore dell'Ordine Ottomano. Solo due mesi dopo, l'8 febbraio 1872, l'opera andò in scena alla Scala di Milano con un cast di prim'ordine, tra i quali spiccava il soprano Teresa Stolz. Grazie al debutto milanese, Aida fu richiesta dai maggiori teatri italiani ed europei per esservi rappresentata: fu l'inizio di una serie di allestimenti che consacrarono Aida tra gli assoluti capolavori della lirica verdiana.
La trama: Gli etiopi stanno per attaccare la valle del Nilo e Tebe.
Ramfis, gran sacerdote, annuncia al giovane Radames che gli dei hanno già indicato il guerriero che guiderà gli eserciti egiziani contro gli invasori. Radames spera di essere il prescelto e di coprirsi di gloria per amore della schiava etiope Aida.
Entra in scena Amneris, figlia del faraone, a cui Radames confida la sua speranza, pur senza farle cenno del suo amore per Aida.
All'entrata di Aida, Amneris capisce il nascente amore di Aida per Radames e giura di vendicarsi perché anch'essa è innamorata del guerriero.
Il re seguito dalla corte, viene ad annunciare che Radames è stato designato quale comandante dell'esercito.
Amneris consegna il vessillo col quale Radames dovrà tornare vincitore.
Soltanto Aida è triste: Radames è l'oggetto del suo amore ma anche il nemico degli Etiopi; se egli vincerà, sarà la fine di Amonasro, che ha impugnato le armi per ridonare alla figlia, schiava in Egitto, la patria, la reggia, il nome illustre che è costretta a nascondere.
Un crudele contrasto agita, dunque, il cuore di Aida che invoca il soccorso degli dei, combattuta tra l'amore per Radames e il sentimento che la lega al padre Amonasro e al suo popolo.
Nel tempio si svolgono le cerimonie di propiziazione e preghiera.
I sacerdoti e le sacerdotesse inneggiano alla divinità e Radames viene consacrato, per la guerra e per la vittoria, ricevendo da Ramfis la spada.
La figlia del Faraone è circondata da schiave che l'abbigliano per la festa trionfale: quando entra Aida, essa, con simulata amorevolezza, le rivela che la sorte delle armi fu infausta agli Etiopi e la compiange. Poi le dà la falsa notizia della morte di Radames.
Dal grido che sfugge alla giovane schiava essa scopre il suo segreto d'amore e allora non esita a dirle che Radames è vivo e che essa pure lo ama.
Invano Aida la supplica di aver pietà di lei, sprezzante, Amneris pronunzia crudeli parole di minaccia.
Il Faraone, Amneris, con Aida e altre schiave, ministri, sacerdoti e il popolo tutto attendono Radames, il trionfatore che arriva alla testa delle truppe vittoriose, con i carri di guerra, le insegne, i tesori conquistati.
Radames, incoronato da Amneris fa condurre i prigionieri. Fra loro è Amonasro, re degli Etiopi, padre di Aida. Questa lo riconosce, gli parla, ma Amonasro le impone di non far sapere che egli è il re.
Radames chiede la libertà dei prigionieri ed il Faraone accoglie la richiesta, ma poi, per le proteste dei sacerdoti, decide che Aida e suo padre vengano tenuti in ostaggio e gli altri siano liberati.
Il Faraone offre a Radames la mano di Amneris.
Radames e Aida esprimono il loro segreto, angoscioso dolore per la decisione del Faraone.
Radames non può rifiutare le nozze con Amneris che, alla vigilia delle nozze, si reca a pregare al tempio di Iside per propiziarsi la dea.
Inosservata, giunge Aida, che deve incontrare Radames.
Sopraggiunge, invece, Amonasro che, avendo scoperto la relazione tra la figlia e Radames, le impone brutalmente di farsi rivelare la strada che percorreranno gli egiziani in modo da consentire al popolo etiope, già pronto alle armi, di piombare sul nemico e conquistare così l'ambita vittoria.
Aida si ribella all'idea di tradire Radames, ma Amonasro le impone il sacrificio per il bene del suo paese, poi, non visto, spia il colloquio dei due innamorati che affrontano il problema di coronare il loro sogno d'amore.
Ma come farà Radames a liberarsi di Amneris? Come potranno sfuggire alle ire di lei?
Un solo scampo esiste, dice Aida: la fuga. Radames è pronto a fuggire con lei.
Ma v'è una strada sicura, percorrendo la quale essi potranno raggiungere la libertà senza essere sorpresi dagli armati egizi?
Radames ne fa il nome.
Appare Amonasro e rivela che egli, re degli Etiopi, passerà coi suoi soldati per il sentiero incustodito, nominato da Radames.
Radames comprende di avere, involontariamente, svelato un segreto di guerra.
Dal tempio, Amneris grida al tradimento, Amonasro fa per aggredirla, ma Radames, lo disarma e si consegna al gran sacerdote per espiare il suo tradimento, sia pure involontario.
Amneris è disperata: Aida le è sfuggita, Radames è prigioniero e la morte lo attende.
Sempre innamorata di Radames, lo scongiura di difendersi. Lei implorerà da suo padre la grazia, se Radames le concederà il suo amore.
Radames, incapace di vivere senza Aida, vuole espiare la sua colpa. Condotto davanti al tribunale dai sacerdoti viene condannato ad essere sepolto vivo.
Radames nel suo sepolcro, sulla cui apertura viene calata una grossa pietra, invoca Aida.
Inattesa ecco apparire Aida che lo ha preceduto nel sotterraneo per morire al suo fianco.
Serenamente affrontano insieme la crudele morte, mentre Amneris, nel tempio, leva il suo lamento.
sabato 23 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 dicembre.
Il 23 dicembre 1339 Simone Boccanegra viene acclamato come doge a vita di Genova.
A Genova nel 1339 sono i tempi dei guelfi e dei ghibellini. Capitani del Popolo sono Galeotto Spinola e Raffaele Doria. E cosa fecero costoro? Pensarono di eleggere per conto proprio l’Abate del Popolo, usurpando così un privilegio delle classi più basse.
Si fomentò così un malcontento che già serpeggiava: il popolo voleva eleggere il suo abate e ottenne quanto richiesto. Si scelsero venti uomini che si riunirono al Palazzo degli Abati. Una folla mormorante attendeva il responso, quando una voce improvvisa si alzò: era un battiloro, un artigiano che lavorava il più prezioso dei metalli. Costui prese ad urlare a gran voce un nome: Simone Boccanegra.
E tutti i presenti si unirono al battiloro, era lui che tutti volevano, i venti designati a scegliere erano concordi e si propose quindi la carica a Simone. Il prescelto discendeva dal Primo Capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra e apparteneva pertanto alla borghesia. Simone, conscio di ciò, rifiutò la carica ma i suoi sostenitori non si arresero e anziché Abate del Popolo, in virtù delle sue origini, lo elessero Doge.
Il primo Doge della Superba, acclamato a furor di popolo, venne condotto in trionfo alla Chiesa di San Siro. Da lì il corteo proseguì verso la casa di Simone in Via della Maddalena. Questo luogo che richiama alla memoria un personaggio così importante per la storia di Genova dovrebbe avere una grande valenza turistica e culturale, è invece uno spicchio di centro storico forse un po’ trascurato, tanto che persino molti genovesi non sanno che nei carruggi ancora esiste la casa del primo Doge della Superba. La Piazza porta il suo nome e si chiama Piazzetta Boccanegra.
Ma torniamo a lui e alla sua elezione. Simone Boccanegra si insedia con un Dogato Perpetuo. I due Capitani del Popolo, i già nominati Galeotto Spinola e Raffaele Doria, tolgono il disturbo e si ritirano in altri lidi, anche per portare a casa la pelle, s’intende. Si affianca a uomini di sua fiducia, è un governo di popolari e ghibellini.
E come primo ordinamento Simone stabilì che nessun nobile potesse essere eletto Doge. Come nel passato, ancora esiste un Podestà che amministra la giustizia criminale, mentre quella civile è affidata a due Consoli di Giustizia. Perdura la carica di Abate del Popolo che rappresenta le tre valli di Bisagno, Voltri e Polcevera. E’ variegato e complesso il sistema amministrativo del tempo ed eviteremo di scendere troppo nel dettaglio.
I nemici del popolo erano i nobili e contro di essi si accesero gli animi, la città era in tumulto. Boccanegra, per sedare i disordini, decretò il taglio della testa per coloro che si fossero macchiati di saccheggio. Fare il doge non era certo un mestiere di tutto riposo, la vita di Simone era in costante pericolo. Più volte si tentò di sbarazzarsi di lui, nel 1340 un gruppo di genovesi, tra i quali diversi nobili e un macellaio di Soziglia, confessarono di aver tramato una congiura per ucciderlo. Molto democraticamente vennero affidati al boia che li mandò tutti quanti al Creatore e il problema venne così brillantemente risolto secondo gli usi del tempo. Simone, onde evitare ulteriori spiacevoli incidenti, si dotò di un nutrito plotone di guardie del corpo, ben 103 cavalieri pisani.
I suoi detrattori lo accusavano di eccessivo sfarzo, si narra infatti che amasse andare in giro vestito di rosso, con un prezioso manto color porpora e un cappello dello stesso colore. A lui va il merito di aver curato i rapporti con gli stati esteri, ma certo questo non bastò ad allontanare i nemici. I nobili fuoriusciti ancora tramavano contro di lui, è del 1341 il tentativo di colpo di stato del Marchese di Finale Giorgio del Carretto, ma Simone riuscì ancora una volta a cavarsela e il Marchese finì rinchiuso in una gabbia nel carcere della Malapaga.
Ma il mondo è grande, il mare infinito e a quel tempo era infestato dai terribili saraceni. Costoro minacciavano Alfonso XI di Castiglia e il Doge inviò in suo soccorso le galee genovesi guidate dal fratello di Simone, Egidio Boccanegra. Le galee della Superba, la Dominante dei Mari, espugnarono Algeciras e in seguito furono altrettanto determinanti nella città di Caffa sul Mar Nero, località importantissima per i commerci e per l’economia di Genova. Trionfi e glorie di Simone Boccanegra, ma i nemici sono in agguato.
Sono sempre i nobili fuoriusciti, si insinuano nelle simpatie del popolo e richiedono di rientrare, Simone pone una condizione, chiede che siano disarmati. Loro non ci stanno, richiedono persino che vengano allontanati i soldati, Simone vedendosi con le spalle al muro, si risolve per rinunciare al titolo di Doge. E così nel 1344 restituisce le insegne sulla Piazza di San Lorenzo e parte alla volta di Pisa.
Gli succederà Giovanni di Murta, molti eventi coinvolgeranno i genovesi per mare e per terra. Ma il tempo di Simone Boccanegra ancora non è terminato, andiamo al 1356, anno nel quale su Genova dominano i Visconti. C’era un diffuso malcontento e Simone ne approfittò per tornare alla ribalta. Andò a Milano dai Visconti e propose il suo appoggio. Dev’essere stato convincente, perché gli venne accordata fiducia e tornò a Genova.
Una volta insediatosi riunì in tutta fretta un corpo di armati e a passo di carica si diresse su Palazzo Ducale. I Visconti vennero scacciati e il giorno dopo Simone venne eletto nuovamente Doge. E ricominciò così il lavoro iniziato anni prima, escluse i nobili da tutti le cariche delle quali vennero invece investiti i popolari.
E ebbe successi per terra e per mare, stabilendo il proprio predominio sulla Corsica. Regnerà altri sette anni, sempre nel mirino dei suoi nemici, diverrà inviso anche ai popolari a causa delle imposte elevate. E venne il 3 Marzo 1363, ospite di Pietro Malocello è Pietro, Re di Cipro, in cerca di alleanze per combattere i soliti turchi. Per l’occasione venne allestito un fastoso banchetto in onore del sovrano, tra i convitati c’è anche il Doge Simone Boccanegra. Si mangia e si beve, giunge la notte e nel silenzio della sua stanza il doge accusa forti dolori. Probabilmente avvelenato, durante la notte Simone muore.
Il suo tempo è finito. C’è una piazzetta nei carruggi, lì c’era la sua casa. E lì c’è una targa a ricordo del suo illustre abitante: Simone Boccanegra, il primo Doge della Superba.
Il 23 dicembre 1339 Simone Boccanegra viene acclamato come doge a vita di Genova.
A Genova nel 1339 sono i tempi dei guelfi e dei ghibellini. Capitani del Popolo sono Galeotto Spinola e Raffaele Doria. E cosa fecero costoro? Pensarono di eleggere per conto proprio l’Abate del Popolo, usurpando così un privilegio delle classi più basse.
Si fomentò così un malcontento che già serpeggiava: il popolo voleva eleggere il suo abate e ottenne quanto richiesto. Si scelsero venti uomini che si riunirono al Palazzo degli Abati. Una folla mormorante attendeva il responso, quando una voce improvvisa si alzò: era un battiloro, un artigiano che lavorava il più prezioso dei metalli. Costui prese ad urlare a gran voce un nome: Simone Boccanegra.
E tutti i presenti si unirono al battiloro, era lui che tutti volevano, i venti designati a scegliere erano concordi e si propose quindi la carica a Simone. Il prescelto discendeva dal Primo Capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra e apparteneva pertanto alla borghesia. Simone, conscio di ciò, rifiutò la carica ma i suoi sostenitori non si arresero e anziché Abate del Popolo, in virtù delle sue origini, lo elessero Doge.
Il primo Doge della Superba, acclamato a furor di popolo, venne condotto in trionfo alla Chiesa di San Siro. Da lì il corteo proseguì verso la casa di Simone in Via della Maddalena. Questo luogo che richiama alla memoria un personaggio così importante per la storia di Genova dovrebbe avere una grande valenza turistica e culturale, è invece uno spicchio di centro storico forse un po’ trascurato, tanto che persino molti genovesi non sanno che nei carruggi ancora esiste la casa del primo Doge della Superba. La Piazza porta il suo nome e si chiama Piazzetta Boccanegra.
Ma torniamo a lui e alla sua elezione. Simone Boccanegra si insedia con un Dogato Perpetuo. I due Capitani del Popolo, i già nominati Galeotto Spinola e Raffaele Doria, tolgono il disturbo e si ritirano in altri lidi, anche per portare a casa la pelle, s’intende. Si affianca a uomini di sua fiducia, è un governo di popolari e ghibellini.
E come primo ordinamento Simone stabilì che nessun nobile potesse essere eletto Doge. Come nel passato, ancora esiste un Podestà che amministra la giustizia criminale, mentre quella civile è affidata a due Consoli di Giustizia. Perdura la carica di Abate del Popolo che rappresenta le tre valli di Bisagno, Voltri e Polcevera. E’ variegato e complesso il sistema amministrativo del tempo ed eviteremo di scendere troppo nel dettaglio.
I nemici del popolo erano i nobili e contro di essi si accesero gli animi, la città era in tumulto. Boccanegra, per sedare i disordini, decretò il taglio della testa per coloro che si fossero macchiati di saccheggio. Fare il doge non era certo un mestiere di tutto riposo, la vita di Simone era in costante pericolo. Più volte si tentò di sbarazzarsi di lui, nel 1340 un gruppo di genovesi, tra i quali diversi nobili e un macellaio di Soziglia, confessarono di aver tramato una congiura per ucciderlo. Molto democraticamente vennero affidati al boia che li mandò tutti quanti al Creatore e il problema venne così brillantemente risolto secondo gli usi del tempo. Simone, onde evitare ulteriori spiacevoli incidenti, si dotò di un nutrito plotone di guardie del corpo, ben 103 cavalieri pisani.
I suoi detrattori lo accusavano di eccessivo sfarzo, si narra infatti che amasse andare in giro vestito di rosso, con un prezioso manto color porpora e un cappello dello stesso colore. A lui va il merito di aver curato i rapporti con gli stati esteri, ma certo questo non bastò ad allontanare i nemici. I nobili fuoriusciti ancora tramavano contro di lui, è del 1341 il tentativo di colpo di stato del Marchese di Finale Giorgio del Carretto, ma Simone riuscì ancora una volta a cavarsela e il Marchese finì rinchiuso in una gabbia nel carcere della Malapaga.
Ma il mondo è grande, il mare infinito e a quel tempo era infestato dai terribili saraceni. Costoro minacciavano Alfonso XI di Castiglia e il Doge inviò in suo soccorso le galee genovesi guidate dal fratello di Simone, Egidio Boccanegra. Le galee della Superba, la Dominante dei Mari, espugnarono Algeciras e in seguito furono altrettanto determinanti nella città di Caffa sul Mar Nero, località importantissima per i commerci e per l’economia di Genova. Trionfi e glorie di Simone Boccanegra, ma i nemici sono in agguato.
Sono sempre i nobili fuoriusciti, si insinuano nelle simpatie del popolo e richiedono di rientrare, Simone pone una condizione, chiede che siano disarmati. Loro non ci stanno, richiedono persino che vengano allontanati i soldati, Simone vedendosi con le spalle al muro, si risolve per rinunciare al titolo di Doge. E così nel 1344 restituisce le insegne sulla Piazza di San Lorenzo e parte alla volta di Pisa.
Gli succederà Giovanni di Murta, molti eventi coinvolgeranno i genovesi per mare e per terra. Ma il tempo di Simone Boccanegra ancora non è terminato, andiamo al 1356, anno nel quale su Genova dominano i Visconti. C’era un diffuso malcontento e Simone ne approfittò per tornare alla ribalta. Andò a Milano dai Visconti e propose il suo appoggio. Dev’essere stato convincente, perché gli venne accordata fiducia e tornò a Genova.
Una volta insediatosi riunì in tutta fretta un corpo di armati e a passo di carica si diresse su Palazzo Ducale. I Visconti vennero scacciati e il giorno dopo Simone venne eletto nuovamente Doge. E ricominciò così il lavoro iniziato anni prima, escluse i nobili da tutti le cariche delle quali vennero invece investiti i popolari.
E ebbe successi per terra e per mare, stabilendo il proprio predominio sulla Corsica. Regnerà altri sette anni, sempre nel mirino dei suoi nemici, diverrà inviso anche ai popolari a causa delle imposte elevate. E venne il 3 Marzo 1363, ospite di Pietro Malocello è Pietro, Re di Cipro, in cerca di alleanze per combattere i soliti turchi. Per l’occasione venne allestito un fastoso banchetto in onore del sovrano, tra i convitati c’è anche il Doge Simone Boccanegra. Si mangia e si beve, giunge la notte e nel silenzio della sua stanza il doge accusa forti dolori. Probabilmente avvelenato, durante la notte Simone muore.
Il suo tempo è finito. C’è una piazzetta nei carruggi, lì c’era la sua casa. E lì c’è una targa a ricordo del suo illustre abitante: Simone Boccanegra, il primo Doge della Superba.
venerdì 22 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 dicembre.
Il 22 dicembre 1964 il comico Lanny Bruce veniva nuovamente arrestato per le oscenità dette durante uno dei suoi show.
Due anni più tardi, il 3 agosto 1966, veniva trovato morto per overdose a 40 anni.
L'uomo ha quarant'anni appena, è nudo, sta buttato ai piedi della tazza del cesso. Crepato. Schiattato. Scoppiato. "Era ingrassato enormemente, aveva un ventre obeso, a furia di bibite e dolciumi, e anche la sua mente si era ispessita. Ed era popolata di incubi: sentenze, revisioni di sentenze, ricorsi, certificazioni, certificati di ‘ragionevole dubbio'..." (Dick Schaap, "Playboy"). Ha una siringa, vicino al corpo.
Cosa significa, si sa. "Ma non era un junkie, non era un rottame, uno schiavo della droga. Voleva soltanto, quel 3 agosto 1966, assaggiarne un po'. Fu la sua ultima cena". Ai poliziotti non pare vero di aver finalmente così vicino alle suole delle loro scarpe quel rompicoglioni, quell'assatanato, quello stronzo che li prendeva per il culo sul palco e nelle aule dei tribunali - magari costringendoli semanticamente a ruotare intorno alla parola "bocchinaro" (D. "Agente Ryan, a lei il termine cocksucker, bocchinaro, è familiare, non è vero?". R. "L'ho sentito adoperare, questo è vero"... D. "Dunque lei ha udito adoperare questo termine in un luogo pubblico come un posto di polizia. Orbene, agente Ryan, non c'è nulla di osceno, in sé e per sé, nella parola cock, uccello, vero?"), oppure provocando torcimenti lessicali intorno al verbo venire ("Non venire dentro di me". "Non riesco a venire".
"Perché tu non mi ami, ecco perché". "Non riesci a venire". "Ti amo, invece". "Non riesco a venire, ecco tutto. Ho un complesso"). Nudo e morto, Lenny Bruce adesso sta. Magari, oltre che un po' fessa, la polizia di Hollywood è pure un po' carogna, come la polizia della Hollywood dei romanzi di James Ellroy, tale e quale quella dei ceffi di "L. A. Confidential".
Così, il nudo e morto Lenny Bruce - lì nel cesso, ai piedi del cesso, e ben gli sta, lui che sfotteva e ridicolizzava, "fatto sta che da bambini, a tutti noi, ci hanno messo il complesso del cesso. Ci hanno impartito, al riguardo, un'educazione sbagliata. Siamo venuti su con due fobie: da una parte la polizia, dall'altro il cesso", ben gli sta ancora e per sempre - gli sbirri offrono a giornalisti e fotografi per circa mezz'ora il corpo gonfio e il silenzio, finalmente il silenzio, di Lenny Bruce.
Un quarto di bue appeso, nella macelleria mediatica dell'America di Lyndon Johnson - "Lyndon Johnson potrebbe disquisire sulla filosofia di Schopenhauer, ma quel suo accento sciuperebbe tutto. Il bianco del sud viene preso a calcinculo per l'accento che ha". Ammirate. Fotografate. Il cesso contiene, la polizia consente. Sciacquone. Sipario. Né facile era, Lenny Bruce.
Né simpatico, forse. Sgradevole - di quella sgradevolezza amara e necessaria, sgradevolezza medicamentosa della verità (più o meno). "La verità è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. Ciò che dovrebbe essere è una sporca bugia", diceva.
Ciò che allora disturbava gli sbirri da Los Angeles a New York, e i procuratori da est a ovest, "m'ha sempre dato uggia il sacro sdegno di cui s'infiammano i giudici e i procuratori distrettuali", oggi chissà, parecchio disturbo avrebbe arrecato al casto Facebook (che alla parola "frocio" si turba - pur se la parola "frocio" esiste, come spiegava Lenny Bruce, tale e quale la parola "bocchinaro", a dispetto del locale procuratore, a dispetto del planetario social network) e alla lamentosa e legnosa (del legno dritto dell'umanità essendo fatta) confraternita del politicamente corretto. Bruce era scorretto. Fino all'inverosimile scorretto. Intollerabile. Allora.
Oggi forse è pure peggio. Prendeva Cristo, nel modo sacro e dissacrante in cui prendono Cristo certi che vedono meglio la croce che i fumi dell'incenso circostante che sale. Il Papa, un po'. Il cardinale Spellman, parecchio. Metteva di mezzo gli ebrei, l'ebreo Lenny Bruce (nato Leonard Alfred Schneider: a Mineola, isola di Long Island). Le religioni tutte - certe Madonne di plastica che venivano fabbricate per finanziare scuole segregazioniste. I negri. Gli zingari. Le puttane. I froci. La fica. Le tette. Le seghe.
Il culo - diceva negri e zingari e puttane e froci e fica e tette e seghe e culi, ché a mettere il pannolone alla verità fa sempre un danno più grosso del danno che si vuole evitare. Diceva parolacce con fanciullesca incoscienza: "Levate il diritto di dire ‘vaffanculo' e leverete il diritto di dire ‘vaffanculo il governo'", altro che Vaffa Day. I politicanti - e diceva di peggio. Quelli della televisione. I banditi lenzuolati del Ku Klux Klan. La famiglia. La sbirreria.
La guerra quale vera pornografia, altro che tette e culi e cazzi, ché fece pure quattro anni di guerra nel Mediterraneo, lo sconsiderato, "sono stato un assiduo dei postriboli", da costa a costa, "ho visto preti, dottori e giudici morire di fame. Però ho visto anche tanti principi morali cedere al principio del tornaconto". Però non fece mai la vittima, né l'eroe di nobili cause liberali o libertarie.
Meno che mai l'eroe di guerra. Anzi, umanissima viltà rivendicò. Così spiegava: "Amo il mio paese, e non vorrei scambiare la mia patria con un'altra, né servire sotto un'altra bandiera, ma - se cadessi in mano al nemico insieme a un mio camerata e vedessi che a quest'altro, dopo averlo messo a nudo a culo- a-pizzo, gli ficcano un imbuto tra le chiappe e ci colano dentro piombo fuso incandescente - non avrebbero mica bisogno di mettere a scaldare un altro pentolino, per il sottoscritto. Io gli rivelerei ogni segreto, io mi lustrerei le scarpe con la bandiera americana, io sputerei sulla Costituzione, io gli darei il permesso di ammazzare tutti i miei compatrioti.
Tutto, pur di non farmi fare quel clistere. Lo vedete, dunque, quanto sono vigliacco" (Lenny Bruce, "Come parlare sporco e influenzare la gente", presentazione di Daniele Luttazzi, Bompiani). Per scendere dalla nave e tornare a casa, ebbe una pensata: travestirsi da "tenentessa", del resto senza "cedere all'ovvia tentazione del négligé, delle piume di struzzo, dei boa, delle guaine di lamé e degli abiti a strascico", e andare a passeggiare sul castello di prua sotto la luna, a mezzanotte.
"Finalmente una sera, mentre facevo la Lady Macbeth della flotta, mi saltarono addosso in quattro, incluso il commissario di bordo. Io gridai: ‘Prepotentacci!' Quattro psichiatri lavorarono su di me all'ospedale militare di Newport". Interrogatorio: "Ti piace indossare abiti da donna?". "Qualche volta". "E cioè quando?". "Quando sono della mia taglia". Fu dapprima congedo con disonore. Seguì rettifica.
"Interrogarono l'intera squadra navale e quando risultò che avevo un buon punteggio in virilità (conseguito a pagamento in numerosi bordelli napoletani) mi congedarono onorevolmente". Lo scaltro vinse sulla checca. Così fu che Lenny sbarcò. Da nessuna parte stava (starebbe) bene, Lenny Bruce. In nave o sulla terraferma, in chiesa o all'osteria, a Chicago o a Palm Island. Con le puttane stava bene.
Con Honey, che sposò, "io non voglio una ragazza istruita che ti cita Kerouac; desidero una donna che mi dica: ‘Va' un po' ad aggiustare il rubinetto, dai, che gocciola di nuovo'", ma che poi andò a fare spogliarelli a Las Vegas - "le spogliarelliste erano considerate appena un gradino più su delle mignotte", peraltro. "Sì, fui uomo e, a un certo punto, mi sbarazzai definitivamente di lei. Quando lei mi piantò". I giornalisti accorsero curiosi, e "mi rivolsero la solita domanda cretina" - cos'è successo? "Cos'è successo al nostro matrimonio? Si è sfasciato per colpa di mia suocera".
"Ah ah, la suocera. E com'è andata?". "Mia moglie è tornata a casa dal lavoro prima del solito, una sera, e ci ha trovati a letto insieme". "A letto… che perversione". "Perché? Era sua madre, mica la mia". Il sesso e le donne molto impegnarono, in parole e opere, Lenny Bruce. Fin da piccolo. A otto anni, nascosto sotto il lavandino della cucina - ha raccontato in "Come parlare sporco e influenzare la gente", pubblicato a puntate nei primi anni Sessanta su Playboy - ascoltava le chiacchiere di sua madre con la vedova Janesky, dirimpettaia di mezza età, gran lettrice di libri quali "Come rendere il tuo partner più affiatato" e "Ovidio dio dell'amore".
La vedova spiegava e instradava la mamma di Lenny sul fatto che "i filippini se ne vengono subito", la dotazione dei negri ("il loro uccello sembra il braccio d'un bambino che stringe in pugno una mela", l'esatta specifica), la pettinatura delle lesbiche, sorprendenti segreti d'alcova: "Se non vuoi che il tuo uomo ti pianti, strofinati un po' d'allume sulla passera". La moglie del barbiere Carmine che accendeva il desiderio, "oltre che la manicure, era la puttana della città.
Oggi sono scomparsi (che peccato!) quei simboli della mia fanciullezza e, al posto del medico di campagna, della puttana del paese, dello scemo del villaggio e della famiglia alcolizzata di là dalla ferrovia, abbiamo il junkie, il comunista, il finocchio, il beatnik", i manifesti sulla vetrina del barbiere stesso: "Le prime cose che un datore di lavoro guarda sono i capelli, le unghie e le scarpe" - e un pensiero agitava la giovanile mente di Lenny: "Il capo d'un dipartimento per l'energia atomica che badasse a siffatti requisiti sarebbe probabilmente un finocchio".
Ovunque donne guardava e rimorchiava e studiava. Club e teatri, "ballerine e spogliarelliste che non avevano nient'altro da fare aspettando che gli si asciugasse lo smalto", città e studi televisivi e paesi di provincia - qui con qualche difficoltà in più: "Quanto a ragazze, queste piccole città sono una morte. Il tassinaro lo domanda a te dove può rimediare una scopata. E' un disastro". Giorni di minori cautele, di usuali inconvenienti: "Ma è più forte di me. Odio i preservativi. Sono stupidi. Servono alla prevenzione dell'amore".
Con una teoria che si potrebbe definire della media ponderata: "Tutti noi vorremmo per moglie un incrocio fra una maestrina di scuola parrocchiale e una puttana da 500 dollari a notte". L'esattezza delle parole, soprattutto quando le parole sembrano esagerate. Come quando lo accusano di dire "mignotta" - "avrebbe dovuto usare il termine più preciso di ‘prostituta'".
Replica: "Ma la parola ‘prostituta' è diventata troppo generica: si dice di uno che prostituisce il suo talento, la sua penna, che non sa più scrivere perché troppo si è prostituito in pubblico. Sicché oggi ‘prostituta' non ha più il valore che invece ha ‘mignotta'. Se uno manda a chiamare ‘a prostitute' può vedersi come niente arrivare uno scrittore, con tanto di barba".
Fu arrestato un'infinità di volte, Lenny Bruce. Per droga, per oscenità, per Dio solo sa cosa. "Voi potete adoperarlo come vi pare il corpo che Dio v'ha fatto, ma non venite a raccontarmi storie, che una parte di 'sto corpo sia più opera di Dio che non un'altra, non sta scritto da nessuna parte, nella Bibbia. Eh già. L'ha fatto tutto lui: o è tutto pulito o è tutto sporco".
Arrivava lo sbirro e faceva la faccia feroce e afferrava i polsi. Le sue memorie sono disseminate di "a San Francisco fui arrestato per oscenità", "a Chicago tra l'altro fui arrestato…", "nel 1964 fui denunciato per oscenità…", "fui arrestato per detenzione di stupefacenti…", e così pure a Filadelfia, a Los Angeles… Fu bandito da molte città americane, nel 1966 era fuori dalla maggior parte dei locali del paese, persino in Australia, a Sydney, cercò rogne. Salì sul palco e salutò i presenti: "Che cazzo di bel pubblico!".
Scrissero che "spesso porta le sue teorie alle estreme personali conclusioni, e ciò gli è valso l'appellativo di ‘morboso'. Egli è un uomo feroce che non crede nella santità della maternità o dell'Ordine dei Medici. Ha persino parole scortesi per l'orso Smokey dei cartoni animati". E una rivista cattolica: "Più di qualsiasi altro esponente della nouvelle vague Bruce ha vivo il senso dello spettacolo, e le continue sfide che lancia al pubblico (e a se stesso) sono commiste e intrecciate a irresistibili battute, gag, pantomime eccetera, e colorite da espressioni gergali, dal gergo dei negri, degli ebrei, degli artisti, nonché dal proprio lessico privato.
Ma, al fondo, egli persegue una ricerca di valori che siano ben più che amuleti e coperte-di-Linus". Gli scrisse il Rev. Sidney Lanier, vicario della chiesa di San Clemente, NY: "E' chiaro per me che il suo intento non è quello di eccitare la sensualità né di vilipendere, bensì di scuoterci e svegliarci alla realtà dell'odio sociale, delle varie assurdità circolanti sul sesso, la vita e la morte… e muoverci a compassione e sanità.
E' chiaro che lei è fieramente sdegnato contro le nostre ipocrisie (le sue come le mie) e contro quel mellifluo buonsenso che passa per saggezza… Che Dio la benedica". Ogni tanto, quando lo arrestavano, attori famosi e famosi intellettuali firmavano appelli, da Liz Taylor a Paul Newman, Saul Bellow ed Henry Miller, Allen Ginsberg e Gregory Corso - per dire e garantire che "attore popolare ancorché controverso, opera nel settore della satira sociale e si inserisce nella tradizione di Swift, Rabelais e Mark Twain".
Ma lui concedeva poco a tutti: "Il fascismo in America prospera sulla mania di persecuzione della sinistra. ‘I liberali bevono qualsiasi cosa scrivano i fanatici e i bigotti'. Se Norman Thomas, il decano dei socialisti americani, venisse eletto presidente, dovrebbe trovarsi una minoranza da odiare".
A un certo punto, prima del successo, per sbarcare il lunario, ebbe una pensata: "Mi sarei fatto prete, o frate, o rabbino, o quel che diavolo fosse necessario all'uopo di compiere il miracolo di trasferire del denaro dalle altrui alle mie tasche, pur restando dentro i confini della legge". Si procurò un abito talare, che nell'armadio pendeva da una stampella, "alquanto incongruamente, accanto a una guêpière" di Honey, a adesso "la mia divisa da prete incuteva rispetto più di quella del generale Eisenhower".
Cercò una buona causa per spillar soldi a certe danarose vecchie carampane. "Lo scolo! Nessuno aveva mai sfruttato lo scolo, finora. Non è mai successo che sia venuto a battere alla tua porta uno per la Campagna Nazionale Antiscolo... Eppure lo scolo si porta bene in classifica, fra le malattie. O la pensate come quei subintellettuali che direbbero: ‘Be', no, io per lo scolo non caccio un soldo perché solo i barboni se lo beccano. E i comunisti'. Sicuro: sette milioni di eroici reduci, tutti quanti barboni e comunisti". Optò alla fine per la più pratica lebbra nella Guyana britannica.
Bussò in case che sapevano di "olio di lino" e fu comprensivo verso sperimentate tardone: "Entrò. Era sui sessanta, aveva una pelle leggermente oleosa, lustra come i suoi mobili. Probabilmente usava, per la propria preservazione, qualche costosissima pomata a base di pancreas di scimmie, e con indubbio successo: le sue rughe erano ottimamente preservate".
Col sistema prete bellimbusto casa per casa, porta a porta, mise insieme ottomila dollari: tenne le spese, più o meno, diciamo così, ma duemila e cinquecento presero davvero la strada dei lebbrosi bisognosi. Una volta Bob Dylan salì sul taxi con lui - e scrisse una canzone in memoria, molti anni dopo: "Sono stato in taxi una volta con lui, / avremo fatto un paio di chilometri, a me sono sembrati due mesi. / Lenny Bruce è andato altrove e, come quelli che lo uccisero, adesso non c'è più". Sapeva, il compagno di corsa di Dylan, come funzionano certe cose: "La pubblicità è più forte del buonsenso: con un lancio adeguato, i peli sotto le ascelle delle cantanti potrebbero divenire un feticcio nazionale".
Ora hanno sottratto quel corpo nudo, abbracciato al cesso di casa sua, allo sguardo di fotografi e cronisti e altri sbirri gongolanti. Adesso c'è una cerimonia in memoria. Gli amici di Lenny Bruce, radunati presso la Judson Memorial Church di New York. "Molti i diseredati e gli emarginati, i negri, i kikes (ebrei) e gli invertiti… Il poeta Allen Ginsberg e il suo compagno Peter Orlovsky intonarono un canto funebre indù, molto adatto invero per un ebreo in una chiesa protestante".
Il reverendo Moody, pastore della stessa chiesa: "La sua distruttività, il suo insopportabile moralismo, la sua generosa testardaggine". Dick Schaap, su Playboy, chiuse la cronaca con una famosa frase: "Un'ultima parolaccia per Lenny. Morto. A 40 anni. Che oscenità". Lenny che prima di morire diceva che da ogni secondo vissuto da sveglio era stato influenzato: nel suo scintillante inciampare e volare e schiantarsi tra la tazza e il bidet all'8825 di Hollywood Boulevard. "Non sono un comico. Sono Lenny Bruce". Che davvero mica è poco - per un fottutissimo e afoso 3 di agosto, laggiù a Hollywood.
Il 22 dicembre 1964 il comico Lanny Bruce veniva nuovamente arrestato per le oscenità dette durante uno dei suoi show.
Due anni più tardi, il 3 agosto 1966, veniva trovato morto per overdose a 40 anni.
L'uomo ha quarant'anni appena, è nudo, sta buttato ai piedi della tazza del cesso. Crepato. Schiattato. Scoppiato. "Era ingrassato enormemente, aveva un ventre obeso, a furia di bibite e dolciumi, e anche la sua mente si era ispessita. Ed era popolata di incubi: sentenze, revisioni di sentenze, ricorsi, certificazioni, certificati di ‘ragionevole dubbio'..." (Dick Schaap, "Playboy"). Ha una siringa, vicino al corpo.
Cosa significa, si sa. "Ma non era un junkie, non era un rottame, uno schiavo della droga. Voleva soltanto, quel 3 agosto 1966, assaggiarne un po'. Fu la sua ultima cena". Ai poliziotti non pare vero di aver finalmente così vicino alle suole delle loro scarpe quel rompicoglioni, quell'assatanato, quello stronzo che li prendeva per il culo sul palco e nelle aule dei tribunali - magari costringendoli semanticamente a ruotare intorno alla parola "bocchinaro" (D. "Agente Ryan, a lei il termine cocksucker, bocchinaro, è familiare, non è vero?". R. "L'ho sentito adoperare, questo è vero"... D. "Dunque lei ha udito adoperare questo termine in un luogo pubblico come un posto di polizia. Orbene, agente Ryan, non c'è nulla di osceno, in sé e per sé, nella parola cock, uccello, vero?"), oppure provocando torcimenti lessicali intorno al verbo venire ("Non venire dentro di me". "Non riesco a venire".
"Perché tu non mi ami, ecco perché". "Non riesci a venire". "Ti amo, invece". "Non riesco a venire, ecco tutto. Ho un complesso"). Nudo e morto, Lenny Bruce adesso sta. Magari, oltre che un po' fessa, la polizia di Hollywood è pure un po' carogna, come la polizia della Hollywood dei romanzi di James Ellroy, tale e quale quella dei ceffi di "L. A. Confidential".
Così, il nudo e morto Lenny Bruce - lì nel cesso, ai piedi del cesso, e ben gli sta, lui che sfotteva e ridicolizzava, "fatto sta che da bambini, a tutti noi, ci hanno messo il complesso del cesso. Ci hanno impartito, al riguardo, un'educazione sbagliata. Siamo venuti su con due fobie: da una parte la polizia, dall'altro il cesso", ben gli sta ancora e per sempre - gli sbirri offrono a giornalisti e fotografi per circa mezz'ora il corpo gonfio e il silenzio, finalmente il silenzio, di Lenny Bruce.
Un quarto di bue appeso, nella macelleria mediatica dell'America di Lyndon Johnson - "Lyndon Johnson potrebbe disquisire sulla filosofia di Schopenhauer, ma quel suo accento sciuperebbe tutto. Il bianco del sud viene preso a calcinculo per l'accento che ha". Ammirate. Fotografate. Il cesso contiene, la polizia consente. Sciacquone. Sipario. Né facile era, Lenny Bruce.
Né simpatico, forse. Sgradevole - di quella sgradevolezza amara e necessaria, sgradevolezza medicamentosa della verità (più o meno). "La verità è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. Ciò che dovrebbe essere è una sporca bugia", diceva.
Ciò che allora disturbava gli sbirri da Los Angeles a New York, e i procuratori da est a ovest, "m'ha sempre dato uggia il sacro sdegno di cui s'infiammano i giudici e i procuratori distrettuali", oggi chissà, parecchio disturbo avrebbe arrecato al casto Facebook (che alla parola "frocio" si turba - pur se la parola "frocio" esiste, come spiegava Lenny Bruce, tale e quale la parola "bocchinaro", a dispetto del locale procuratore, a dispetto del planetario social network) e alla lamentosa e legnosa (del legno dritto dell'umanità essendo fatta) confraternita del politicamente corretto. Bruce era scorretto. Fino all'inverosimile scorretto. Intollerabile. Allora.
Oggi forse è pure peggio. Prendeva Cristo, nel modo sacro e dissacrante in cui prendono Cristo certi che vedono meglio la croce che i fumi dell'incenso circostante che sale. Il Papa, un po'. Il cardinale Spellman, parecchio. Metteva di mezzo gli ebrei, l'ebreo Lenny Bruce (nato Leonard Alfred Schneider: a Mineola, isola di Long Island). Le religioni tutte - certe Madonne di plastica che venivano fabbricate per finanziare scuole segregazioniste. I negri. Gli zingari. Le puttane. I froci. La fica. Le tette. Le seghe.
Il culo - diceva negri e zingari e puttane e froci e fica e tette e seghe e culi, ché a mettere il pannolone alla verità fa sempre un danno più grosso del danno che si vuole evitare. Diceva parolacce con fanciullesca incoscienza: "Levate il diritto di dire ‘vaffanculo' e leverete il diritto di dire ‘vaffanculo il governo'", altro che Vaffa Day. I politicanti - e diceva di peggio. Quelli della televisione. I banditi lenzuolati del Ku Klux Klan. La famiglia. La sbirreria.
La guerra quale vera pornografia, altro che tette e culi e cazzi, ché fece pure quattro anni di guerra nel Mediterraneo, lo sconsiderato, "sono stato un assiduo dei postriboli", da costa a costa, "ho visto preti, dottori e giudici morire di fame. Però ho visto anche tanti principi morali cedere al principio del tornaconto". Però non fece mai la vittima, né l'eroe di nobili cause liberali o libertarie.
Meno che mai l'eroe di guerra. Anzi, umanissima viltà rivendicò. Così spiegava: "Amo il mio paese, e non vorrei scambiare la mia patria con un'altra, né servire sotto un'altra bandiera, ma - se cadessi in mano al nemico insieme a un mio camerata e vedessi che a quest'altro, dopo averlo messo a nudo a culo- a-pizzo, gli ficcano un imbuto tra le chiappe e ci colano dentro piombo fuso incandescente - non avrebbero mica bisogno di mettere a scaldare un altro pentolino, per il sottoscritto. Io gli rivelerei ogni segreto, io mi lustrerei le scarpe con la bandiera americana, io sputerei sulla Costituzione, io gli darei il permesso di ammazzare tutti i miei compatrioti.
Tutto, pur di non farmi fare quel clistere. Lo vedete, dunque, quanto sono vigliacco" (Lenny Bruce, "Come parlare sporco e influenzare la gente", presentazione di Daniele Luttazzi, Bompiani). Per scendere dalla nave e tornare a casa, ebbe una pensata: travestirsi da "tenentessa", del resto senza "cedere all'ovvia tentazione del négligé, delle piume di struzzo, dei boa, delle guaine di lamé e degli abiti a strascico", e andare a passeggiare sul castello di prua sotto la luna, a mezzanotte.
"Finalmente una sera, mentre facevo la Lady Macbeth della flotta, mi saltarono addosso in quattro, incluso il commissario di bordo. Io gridai: ‘Prepotentacci!' Quattro psichiatri lavorarono su di me all'ospedale militare di Newport". Interrogatorio: "Ti piace indossare abiti da donna?". "Qualche volta". "E cioè quando?". "Quando sono della mia taglia". Fu dapprima congedo con disonore. Seguì rettifica.
"Interrogarono l'intera squadra navale e quando risultò che avevo un buon punteggio in virilità (conseguito a pagamento in numerosi bordelli napoletani) mi congedarono onorevolmente". Lo scaltro vinse sulla checca. Così fu che Lenny sbarcò. Da nessuna parte stava (starebbe) bene, Lenny Bruce. In nave o sulla terraferma, in chiesa o all'osteria, a Chicago o a Palm Island. Con le puttane stava bene.
Con Honey, che sposò, "io non voglio una ragazza istruita che ti cita Kerouac; desidero una donna che mi dica: ‘Va' un po' ad aggiustare il rubinetto, dai, che gocciola di nuovo'", ma che poi andò a fare spogliarelli a Las Vegas - "le spogliarelliste erano considerate appena un gradino più su delle mignotte", peraltro. "Sì, fui uomo e, a un certo punto, mi sbarazzai definitivamente di lei. Quando lei mi piantò". I giornalisti accorsero curiosi, e "mi rivolsero la solita domanda cretina" - cos'è successo? "Cos'è successo al nostro matrimonio? Si è sfasciato per colpa di mia suocera".
"Ah ah, la suocera. E com'è andata?". "Mia moglie è tornata a casa dal lavoro prima del solito, una sera, e ci ha trovati a letto insieme". "A letto… che perversione". "Perché? Era sua madre, mica la mia". Il sesso e le donne molto impegnarono, in parole e opere, Lenny Bruce. Fin da piccolo. A otto anni, nascosto sotto il lavandino della cucina - ha raccontato in "Come parlare sporco e influenzare la gente", pubblicato a puntate nei primi anni Sessanta su Playboy - ascoltava le chiacchiere di sua madre con la vedova Janesky, dirimpettaia di mezza età, gran lettrice di libri quali "Come rendere il tuo partner più affiatato" e "Ovidio dio dell'amore".
La vedova spiegava e instradava la mamma di Lenny sul fatto che "i filippini se ne vengono subito", la dotazione dei negri ("il loro uccello sembra il braccio d'un bambino che stringe in pugno una mela", l'esatta specifica), la pettinatura delle lesbiche, sorprendenti segreti d'alcova: "Se non vuoi che il tuo uomo ti pianti, strofinati un po' d'allume sulla passera". La moglie del barbiere Carmine che accendeva il desiderio, "oltre che la manicure, era la puttana della città.
Oggi sono scomparsi (che peccato!) quei simboli della mia fanciullezza e, al posto del medico di campagna, della puttana del paese, dello scemo del villaggio e della famiglia alcolizzata di là dalla ferrovia, abbiamo il junkie, il comunista, il finocchio, il beatnik", i manifesti sulla vetrina del barbiere stesso: "Le prime cose che un datore di lavoro guarda sono i capelli, le unghie e le scarpe" - e un pensiero agitava la giovanile mente di Lenny: "Il capo d'un dipartimento per l'energia atomica che badasse a siffatti requisiti sarebbe probabilmente un finocchio".
Ovunque donne guardava e rimorchiava e studiava. Club e teatri, "ballerine e spogliarelliste che non avevano nient'altro da fare aspettando che gli si asciugasse lo smalto", città e studi televisivi e paesi di provincia - qui con qualche difficoltà in più: "Quanto a ragazze, queste piccole città sono una morte. Il tassinaro lo domanda a te dove può rimediare una scopata. E' un disastro". Giorni di minori cautele, di usuali inconvenienti: "Ma è più forte di me. Odio i preservativi. Sono stupidi. Servono alla prevenzione dell'amore".
Con una teoria che si potrebbe definire della media ponderata: "Tutti noi vorremmo per moglie un incrocio fra una maestrina di scuola parrocchiale e una puttana da 500 dollari a notte". L'esattezza delle parole, soprattutto quando le parole sembrano esagerate. Come quando lo accusano di dire "mignotta" - "avrebbe dovuto usare il termine più preciso di ‘prostituta'".
Replica: "Ma la parola ‘prostituta' è diventata troppo generica: si dice di uno che prostituisce il suo talento, la sua penna, che non sa più scrivere perché troppo si è prostituito in pubblico. Sicché oggi ‘prostituta' non ha più il valore che invece ha ‘mignotta'. Se uno manda a chiamare ‘a prostitute' può vedersi come niente arrivare uno scrittore, con tanto di barba".
Fu arrestato un'infinità di volte, Lenny Bruce. Per droga, per oscenità, per Dio solo sa cosa. "Voi potete adoperarlo come vi pare il corpo che Dio v'ha fatto, ma non venite a raccontarmi storie, che una parte di 'sto corpo sia più opera di Dio che non un'altra, non sta scritto da nessuna parte, nella Bibbia. Eh già. L'ha fatto tutto lui: o è tutto pulito o è tutto sporco".
Arrivava lo sbirro e faceva la faccia feroce e afferrava i polsi. Le sue memorie sono disseminate di "a San Francisco fui arrestato per oscenità", "a Chicago tra l'altro fui arrestato…", "nel 1964 fui denunciato per oscenità…", "fui arrestato per detenzione di stupefacenti…", e così pure a Filadelfia, a Los Angeles… Fu bandito da molte città americane, nel 1966 era fuori dalla maggior parte dei locali del paese, persino in Australia, a Sydney, cercò rogne. Salì sul palco e salutò i presenti: "Che cazzo di bel pubblico!".
Scrissero che "spesso porta le sue teorie alle estreme personali conclusioni, e ciò gli è valso l'appellativo di ‘morboso'. Egli è un uomo feroce che non crede nella santità della maternità o dell'Ordine dei Medici. Ha persino parole scortesi per l'orso Smokey dei cartoni animati". E una rivista cattolica: "Più di qualsiasi altro esponente della nouvelle vague Bruce ha vivo il senso dello spettacolo, e le continue sfide che lancia al pubblico (e a se stesso) sono commiste e intrecciate a irresistibili battute, gag, pantomime eccetera, e colorite da espressioni gergali, dal gergo dei negri, degli ebrei, degli artisti, nonché dal proprio lessico privato.
Ma, al fondo, egli persegue una ricerca di valori che siano ben più che amuleti e coperte-di-Linus". Gli scrisse il Rev. Sidney Lanier, vicario della chiesa di San Clemente, NY: "E' chiaro per me che il suo intento non è quello di eccitare la sensualità né di vilipendere, bensì di scuoterci e svegliarci alla realtà dell'odio sociale, delle varie assurdità circolanti sul sesso, la vita e la morte… e muoverci a compassione e sanità.
E' chiaro che lei è fieramente sdegnato contro le nostre ipocrisie (le sue come le mie) e contro quel mellifluo buonsenso che passa per saggezza… Che Dio la benedica". Ogni tanto, quando lo arrestavano, attori famosi e famosi intellettuali firmavano appelli, da Liz Taylor a Paul Newman, Saul Bellow ed Henry Miller, Allen Ginsberg e Gregory Corso - per dire e garantire che "attore popolare ancorché controverso, opera nel settore della satira sociale e si inserisce nella tradizione di Swift, Rabelais e Mark Twain".
Ma lui concedeva poco a tutti: "Il fascismo in America prospera sulla mania di persecuzione della sinistra. ‘I liberali bevono qualsiasi cosa scrivano i fanatici e i bigotti'. Se Norman Thomas, il decano dei socialisti americani, venisse eletto presidente, dovrebbe trovarsi una minoranza da odiare".
A un certo punto, prima del successo, per sbarcare il lunario, ebbe una pensata: "Mi sarei fatto prete, o frate, o rabbino, o quel che diavolo fosse necessario all'uopo di compiere il miracolo di trasferire del denaro dalle altrui alle mie tasche, pur restando dentro i confini della legge". Si procurò un abito talare, che nell'armadio pendeva da una stampella, "alquanto incongruamente, accanto a una guêpière" di Honey, a adesso "la mia divisa da prete incuteva rispetto più di quella del generale Eisenhower".
Cercò una buona causa per spillar soldi a certe danarose vecchie carampane. "Lo scolo! Nessuno aveva mai sfruttato lo scolo, finora. Non è mai successo che sia venuto a battere alla tua porta uno per la Campagna Nazionale Antiscolo... Eppure lo scolo si porta bene in classifica, fra le malattie. O la pensate come quei subintellettuali che direbbero: ‘Be', no, io per lo scolo non caccio un soldo perché solo i barboni se lo beccano. E i comunisti'. Sicuro: sette milioni di eroici reduci, tutti quanti barboni e comunisti". Optò alla fine per la più pratica lebbra nella Guyana britannica.
Bussò in case che sapevano di "olio di lino" e fu comprensivo verso sperimentate tardone: "Entrò. Era sui sessanta, aveva una pelle leggermente oleosa, lustra come i suoi mobili. Probabilmente usava, per la propria preservazione, qualche costosissima pomata a base di pancreas di scimmie, e con indubbio successo: le sue rughe erano ottimamente preservate".
Col sistema prete bellimbusto casa per casa, porta a porta, mise insieme ottomila dollari: tenne le spese, più o meno, diciamo così, ma duemila e cinquecento presero davvero la strada dei lebbrosi bisognosi. Una volta Bob Dylan salì sul taxi con lui - e scrisse una canzone in memoria, molti anni dopo: "Sono stato in taxi una volta con lui, / avremo fatto un paio di chilometri, a me sono sembrati due mesi. / Lenny Bruce è andato altrove e, come quelli che lo uccisero, adesso non c'è più". Sapeva, il compagno di corsa di Dylan, come funzionano certe cose: "La pubblicità è più forte del buonsenso: con un lancio adeguato, i peli sotto le ascelle delle cantanti potrebbero divenire un feticcio nazionale".
Ora hanno sottratto quel corpo nudo, abbracciato al cesso di casa sua, allo sguardo di fotografi e cronisti e altri sbirri gongolanti. Adesso c'è una cerimonia in memoria. Gli amici di Lenny Bruce, radunati presso la Judson Memorial Church di New York. "Molti i diseredati e gli emarginati, i negri, i kikes (ebrei) e gli invertiti… Il poeta Allen Ginsberg e il suo compagno Peter Orlovsky intonarono un canto funebre indù, molto adatto invero per un ebreo in una chiesa protestante".
Il reverendo Moody, pastore della stessa chiesa: "La sua distruttività, il suo insopportabile moralismo, la sua generosa testardaggine". Dick Schaap, su Playboy, chiuse la cronaca con una famosa frase: "Un'ultima parolaccia per Lenny. Morto. A 40 anni. Che oscenità". Lenny che prima di morire diceva che da ogni secondo vissuto da sveglio era stato influenzato: nel suo scintillante inciampare e volare e schiantarsi tra la tazza e il bidet all'8825 di Hollywood Boulevard. "Non sono un comico. Sono Lenny Bruce". Che davvero mica è poco - per un fottutissimo e afoso 3 di agosto, laggiù a Hollywood.
giovedì 21 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 dicembre.
Il 21 dicembre 1988 in Scozia ha luogo la strage di Lockerbie.
Il 21 dicembre del 1988, alle 19.03, il volo Pan Am 103 partito da Londra e diretto a New York esplose in volo a causa di una bomba contenuta in una valigia. Morirono tutte le 259 persone che si trovavano a bordo dell’aereo. Altre undici morirono quando i rottami dell’aereo si schiantarono sulla cittadina di Lockerbie, in Scozia.
Fu il più grave attentato terroristico avvenuto in Europa in tempi recenti. Abdelbaset al-Megrahi, un ex agente dei servizi segreti libici, fu l’unico ad essere condannato per la strage. Megrahi venne estradato dalla Libia nel 1999, dopo lunghissime trattative e sanzioni internazionali. Negli anni successivi affiorarono molti dubbi sulle prove e sulle testimonianze che portarono alla condanna di Megrahi, che è morto di cancro in Libia nel 2012, dopo essere stato liberato per motivi di salute nel 2009. Tutt’oggi in molti, tra cui numerosi parenti delle vittime dell’attentato, non credono alla spiegazione ufficiale.
Alle ore 19.02 e 50 secondi, una bomba contenuta in un mangianastri Toshiba esplose a bordo del volo Pan Am 103. Il mangianastri si trovava all’interno di una valigia Samsonite marrone, in mezzo a molti vestiti. L’esplosivo plastico Semtex creò un buco nella fusoliera del diametro di circa mezzo metro, proprio sotto la “P” del logo Pan Am.
A causa della differenza di pressione tra l’esterno e l’interno, l’aereo si disintegrò in volo. Otto secondi dopo l’esplosione, i radar mostrarono che i frammenti dell’aereo erano sparsi in cielo nel raggio di circa due chilometri. Il muso dell’aereo fu uno dei primi pezzi a staccarsi, mentre la forza della pressione allargava il buco causato dall’esplosione. In circa tre secondi l’intera parte frontale dell’aereo venne strappata via.
Altri pezzi si staccarono dall’aereo mentre precipitava. Le prime ad arrivare al suolo furono le parti collegate alle ali: entrambe precipitarono sulla cittadina di Lockerbie alla velocità di circa 800 chilometri all’ora. Le 91 tonnellate di carburante che contenevano si incendiarono ed esplosero, distruggendo diverse abitazioni e creando un cratere largo 47 metri. L’impatto fece registrare ai sismografi un evento sismico di magnitudo 1.6 sulla scala Richter.
La maggior parte delle persone morirono nell’impatto su Lockerbie. Altri vennero sbalzati fuori dai sedili e precipitarono per nove chilometri. I loro resti, così come i rottami dell’aereo, vennero ritrovati in un’area di circa 2 chilometri quadrati. In tutto morirono 270 persone, tra cui 189 cittadini americani e 43 britannici.
Già il 22 dicembre diverse organizzazioni rivendicarono l’attentato, telefonando a giornali e agenzie di stampa negli Stati Uniti e in Europa. Gran parte delle dichiarazioni furono ritenute inaffidabili, come quella che chiamava in causa il Mossad, il servizio segreto israeliano, quella di un’organizzazione terroristica libanese e quella della Ulster Defence League, un’organizzazione contraria all’indipendenza dell’Irlanda del Nord. La CIA ne giudicò soltanto una più credibile delle altre: quella che attribuiva la responsabilità dell’esplosione ai Guardiani della Rivoluzione Islamica, l’organizzazione militare iraniana meglio nota con il nome di pasdaran.
Le indagini, però, portarono ad una pista diversa. C’erano sostanzialmente tre elementi principali che nei mesi e negli anni successivi all’attentato permisero agli investigatori di individuare un colpevole. Il primo era un frammento di vestito bruciacchiato contenuto nella valigia che trasportava la bomba.
Su questo frammento, lungo alcuni centimetri, gli investigatori trovarono le parole “Yorkie”. Da questo nome risalirono alla Yorkie Clothing, un’azienda che produceva vestiti in Irlanda e a Malta. Seguendo questa pista gli investigatori arrivarono fino al negozio maltese di un grossista, Tony Gauci. Gauci confermò che un uomo, pochi giorni prima dell’attentato, aveva comprato una serie di vestiti con l’aria di uno a cui non importava molto quel che sceglieva. Gauci disse anche di aver visto più volte l’uomo sull’isola.
Il secondo elemento fu un frammento del timer della bomba. Dopo averlo analizzato, gli investigatori riuscirono a risalire a un fabbricante di componenti elettronici svizzero, Meister & Bollier. Uno dei titolari, Edwin Bollier, raccontò che nel 1985 aveva venduto alcuni di quei timer all’esercito libico e che aveva anche assistito a una dimostrazione del loro funzionamento nel deserto del Sahara. Bollier disse che nei suoi viaggi in Libia aveva conosciuto in particolare due uomini. Il primo era Abdelbaset al-Megrahi, un ufficiale dell’intelligence libica che usava come copertura l’incarico di direttore della sicurezza delle linee aeree libiche. Secondo Bollier, Megrahi aveva un amico e compagno di affari di nome Lamin Khalifah Fhimah, direttore delle linee aeree libiche a Malta.
Il terzo elemento fu la strada percorsa dalla valigia che conteneva la bomba. Secondo gli investigatori, la valigia era stata caricata all’aeroporto di Malta e quindi, tramite il sistema di trasporto valigie senza passeggero, era stata spedita a Francoforte e quindi sul Pan Am 103. In quello stesso giorno, secondo gli investigatori, Megrahi era arrivato a Malta con un volo da Tripoli. Quando infine Gauci riconobbe una foto di Megrahi e disse che era lui il misterioso cliente che aveva comprato i vestiti nel suo negozio poco prima del disastro, la polizia scozzese chiese l’arresto di Megrahi e Fhimah.
La Libia si rifiutò per quasi dieci anni di consegnare Megrahi e Fhimah. Ci furono lunghissimi negoziati, sanzioni internazionali e altre pressioni in seguito alle quali, nel 1999, la Libia accettò di estradare i due uomini. Il processo cominciò nel maggio del 2000 a Camp Zeist, nei Paesi Bassi, e venne portato avanti da un tribunale scozzese. Nel gennaio del 2001 Megrahi venne condannato all’ergastolo, mentre Fhimah venne prosciolto.
La corte stessa scrisse che le prove a sostegno dell’accusa erano “circostanziali”, ma che comunque non c’era alcun dubbio che Megrahi fosse colpevole. In realtà, già pochi mesi dopo la conclusione del processo, cominciarono ad emergere una serie di dettagli che fecero traballare le basi dell’accusa e portarono Hans Köchler, osservatore dell’ONU al processo, a definirlo “uno spettacolare errore giudiziario”.
Emerse ad esempio che Gauci aveva più volte sbagliato a identificare Megrahi e a collocare il giorno esatto in cui secondo lui era avvenuto l’acquisto di vestiti. Anche l’affidabilità di Bollier come testimone venne messa in dubbio. Nel 2007, uno dei suoi impiegati ammise di aver mentito nel corso del processo e di aver fornito agli investigatori del caso Lockerbie un tipo di timer particolare, diverso da quello trovato sul luogo del disastro, e che avrebbe aiutato l’accusa a condannare Megrahi.
Tutti questi elementi spinsero nel 2008 Megrahi a chiedere per la seconda volta una revisione del processo (la prima era stata respinta nel 2002). Pochi mesi dopo, però, Megrahi rinunciò alla possibilità di fare appello in cambio della liberazione per motivi umanitari. Era infatti malato di tumore e in fase terminale. Venne liberato nell’agosto del 2009 e ritornò in Libia, dove venne accolto come un eroe.
Nel 2003 il colonnello Muhammar Gheddafi riconobbe la “responsabilità” della strage di Lockerbie, ma negò il coinvolgimento diretto del suo governo. Contemporaneamente, accettò di pagare 2,7 miliardi di dollari in compensazione alle famiglie delle vittime (altri soldi andarono in quegli anni ai parenti dei morti in un altro attentato, quello al volo UTA 772, che li usarono per un particolarissimo memoriale nel deserto). In molti ritennero la mossa di Gheddafi soltanto un modo per interrompere l’isolamento diplomatico internazionale che da anni colpiva il suo paese. Molte famiglie delle vittime rifiutarono il risarcimento, dichiarando che la Libia non era responsabile dell’attacco e che Megrahi era stato incastrato. Le famiglie delle vittime che non credono alla pista libica hanno creato un sito molto ricco di informazioni.
Sull’attentato di Lockerbie, negli anni, si sono diffuse moltissime teorie della cospirazione. Alcuni accusano i servizi segreti israeliani, altri la CIA o i servizi segreti britannici. C’è un’altra ipotesi, però, che ha sempre il successo maggiore, anche se non sono mai state trovate le prove per supportarla: la pista iraniana. Secondo questa ricostruzione, il Pan Am 103 venne distrutto come rappresaglia per l’abbattimento di un volo di linea iraniano da parte di una nave da guerra americana nel Golfo Persico, durante la guerra tra Iran e Iraq. Ad eseguire materialmente l’attentato sarebbero stati terroristi palestinesi e agenti dei servizi segreti libici pagati dall’Iran. Per quanto questa teoria non sia mai stata provata, il coinvolgimento degli iraniani e dei palestinesi nell’attentato è rimasto a lungo nei titoli di giornale che si sono occupati della vicenda.
Nei primi mesi del 2011, in Libia, scoppiò una guerra civile che portò in poco tempo alla caduta e alla morte di Gheddafi. Durante i combattimenti, diverse importanti personalità abbandonarono il regime. Tra questi ci fu anche Mustafa Abdul Jalil, ministro della giustizia, che dichiarò di avere le prove che lo stesso Gheddafi aveva ordinato a Megrahi di compiere l’attentato. Saif Gheddafi, uno dei figli del colonnello, ha dichiarato in più occasioni che la Libia non aveva responsabilità nell’attacco e che accettò di pagare risarcimenti alle famiglie delle vittime soltanto per ottenere un alleggerimento delle sanzioni. Megrahi si è sempre dichiarato innocente. È morto a Tripoli il 20 maggio del 2012.
Il 21 dicembre 1988 in Scozia ha luogo la strage di Lockerbie.
Il 21 dicembre del 1988, alle 19.03, il volo Pan Am 103 partito da Londra e diretto a New York esplose in volo a causa di una bomba contenuta in una valigia. Morirono tutte le 259 persone che si trovavano a bordo dell’aereo. Altre undici morirono quando i rottami dell’aereo si schiantarono sulla cittadina di Lockerbie, in Scozia.
Fu il più grave attentato terroristico avvenuto in Europa in tempi recenti. Abdelbaset al-Megrahi, un ex agente dei servizi segreti libici, fu l’unico ad essere condannato per la strage. Megrahi venne estradato dalla Libia nel 1999, dopo lunghissime trattative e sanzioni internazionali. Negli anni successivi affiorarono molti dubbi sulle prove e sulle testimonianze che portarono alla condanna di Megrahi, che è morto di cancro in Libia nel 2012, dopo essere stato liberato per motivi di salute nel 2009. Tutt’oggi in molti, tra cui numerosi parenti delle vittime dell’attentato, non credono alla spiegazione ufficiale.
Alle ore 19.02 e 50 secondi, una bomba contenuta in un mangianastri Toshiba esplose a bordo del volo Pan Am 103. Il mangianastri si trovava all’interno di una valigia Samsonite marrone, in mezzo a molti vestiti. L’esplosivo plastico Semtex creò un buco nella fusoliera del diametro di circa mezzo metro, proprio sotto la “P” del logo Pan Am.
A causa della differenza di pressione tra l’esterno e l’interno, l’aereo si disintegrò in volo. Otto secondi dopo l’esplosione, i radar mostrarono che i frammenti dell’aereo erano sparsi in cielo nel raggio di circa due chilometri. Il muso dell’aereo fu uno dei primi pezzi a staccarsi, mentre la forza della pressione allargava il buco causato dall’esplosione. In circa tre secondi l’intera parte frontale dell’aereo venne strappata via.
Altri pezzi si staccarono dall’aereo mentre precipitava. Le prime ad arrivare al suolo furono le parti collegate alle ali: entrambe precipitarono sulla cittadina di Lockerbie alla velocità di circa 800 chilometri all’ora. Le 91 tonnellate di carburante che contenevano si incendiarono ed esplosero, distruggendo diverse abitazioni e creando un cratere largo 47 metri. L’impatto fece registrare ai sismografi un evento sismico di magnitudo 1.6 sulla scala Richter.
La maggior parte delle persone morirono nell’impatto su Lockerbie. Altri vennero sbalzati fuori dai sedili e precipitarono per nove chilometri. I loro resti, così come i rottami dell’aereo, vennero ritrovati in un’area di circa 2 chilometri quadrati. In tutto morirono 270 persone, tra cui 189 cittadini americani e 43 britannici.
Già il 22 dicembre diverse organizzazioni rivendicarono l’attentato, telefonando a giornali e agenzie di stampa negli Stati Uniti e in Europa. Gran parte delle dichiarazioni furono ritenute inaffidabili, come quella che chiamava in causa il Mossad, il servizio segreto israeliano, quella di un’organizzazione terroristica libanese e quella della Ulster Defence League, un’organizzazione contraria all’indipendenza dell’Irlanda del Nord. La CIA ne giudicò soltanto una più credibile delle altre: quella che attribuiva la responsabilità dell’esplosione ai Guardiani della Rivoluzione Islamica, l’organizzazione militare iraniana meglio nota con il nome di pasdaran.
Le indagini, però, portarono ad una pista diversa. C’erano sostanzialmente tre elementi principali che nei mesi e negli anni successivi all’attentato permisero agli investigatori di individuare un colpevole. Il primo era un frammento di vestito bruciacchiato contenuto nella valigia che trasportava la bomba.
Su questo frammento, lungo alcuni centimetri, gli investigatori trovarono le parole “Yorkie”. Da questo nome risalirono alla Yorkie Clothing, un’azienda che produceva vestiti in Irlanda e a Malta. Seguendo questa pista gli investigatori arrivarono fino al negozio maltese di un grossista, Tony Gauci. Gauci confermò che un uomo, pochi giorni prima dell’attentato, aveva comprato una serie di vestiti con l’aria di uno a cui non importava molto quel che sceglieva. Gauci disse anche di aver visto più volte l’uomo sull’isola.
Il secondo elemento fu un frammento del timer della bomba. Dopo averlo analizzato, gli investigatori riuscirono a risalire a un fabbricante di componenti elettronici svizzero, Meister & Bollier. Uno dei titolari, Edwin Bollier, raccontò che nel 1985 aveva venduto alcuni di quei timer all’esercito libico e che aveva anche assistito a una dimostrazione del loro funzionamento nel deserto del Sahara. Bollier disse che nei suoi viaggi in Libia aveva conosciuto in particolare due uomini. Il primo era Abdelbaset al-Megrahi, un ufficiale dell’intelligence libica che usava come copertura l’incarico di direttore della sicurezza delle linee aeree libiche. Secondo Bollier, Megrahi aveva un amico e compagno di affari di nome Lamin Khalifah Fhimah, direttore delle linee aeree libiche a Malta.
Il terzo elemento fu la strada percorsa dalla valigia che conteneva la bomba. Secondo gli investigatori, la valigia era stata caricata all’aeroporto di Malta e quindi, tramite il sistema di trasporto valigie senza passeggero, era stata spedita a Francoforte e quindi sul Pan Am 103. In quello stesso giorno, secondo gli investigatori, Megrahi era arrivato a Malta con un volo da Tripoli. Quando infine Gauci riconobbe una foto di Megrahi e disse che era lui il misterioso cliente che aveva comprato i vestiti nel suo negozio poco prima del disastro, la polizia scozzese chiese l’arresto di Megrahi e Fhimah.
La Libia si rifiutò per quasi dieci anni di consegnare Megrahi e Fhimah. Ci furono lunghissimi negoziati, sanzioni internazionali e altre pressioni in seguito alle quali, nel 1999, la Libia accettò di estradare i due uomini. Il processo cominciò nel maggio del 2000 a Camp Zeist, nei Paesi Bassi, e venne portato avanti da un tribunale scozzese. Nel gennaio del 2001 Megrahi venne condannato all’ergastolo, mentre Fhimah venne prosciolto.
La corte stessa scrisse che le prove a sostegno dell’accusa erano “circostanziali”, ma che comunque non c’era alcun dubbio che Megrahi fosse colpevole. In realtà, già pochi mesi dopo la conclusione del processo, cominciarono ad emergere una serie di dettagli che fecero traballare le basi dell’accusa e portarono Hans Köchler, osservatore dell’ONU al processo, a definirlo “uno spettacolare errore giudiziario”.
Emerse ad esempio che Gauci aveva più volte sbagliato a identificare Megrahi e a collocare il giorno esatto in cui secondo lui era avvenuto l’acquisto di vestiti. Anche l’affidabilità di Bollier come testimone venne messa in dubbio. Nel 2007, uno dei suoi impiegati ammise di aver mentito nel corso del processo e di aver fornito agli investigatori del caso Lockerbie un tipo di timer particolare, diverso da quello trovato sul luogo del disastro, e che avrebbe aiutato l’accusa a condannare Megrahi.
Tutti questi elementi spinsero nel 2008 Megrahi a chiedere per la seconda volta una revisione del processo (la prima era stata respinta nel 2002). Pochi mesi dopo, però, Megrahi rinunciò alla possibilità di fare appello in cambio della liberazione per motivi umanitari. Era infatti malato di tumore e in fase terminale. Venne liberato nell’agosto del 2009 e ritornò in Libia, dove venne accolto come un eroe.
Nel 2003 il colonnello Muhammar Gheddafi riconobbe la “responsabilità” della strage di Lockerbie, ma negò il coinvolgimento diretto del suo governo. Contemporaneamente, accettò di pagare 2,7 miliardi di dollari in compensazione alle famiglie delle vittime (altri soldi andarono in quegli anni ai parenti dei morti in un altro attentato, quello al volo UTA 772, che li usarono per un particolarissimo memoriale nel deserto). In molti ritennero la mossa di Gheddafi soltanto un modo per interrompere l’isolamento diplomatico internazionale che da anni colpiva il suo paese. Molte famiglie delle vittime rifiutarono il risarcimento, dichiarando che la Libia non era responsabile dell’attacco e che Megrahi era stato incastrato. Le famiglie delle vittime che non credono alla pista libica hanno creato un sito molto ricco di informazioni.
Sull’attentato di Lockerbie, negli anni, si sono diffuse moltissime teorie della cospirazione. Alcuni accusano i servizi segreti israeliani, altri la CIA o i servizi segreti britannici. C’è un’altra ipotesi, però, che ha sempre il successo maggiore, anche se non sono mai state trovate le prove per supportarla: la pista iraniana. Secondo questa ricostruzione, il Pan Am 103 venne distrutto come rappresaglia per l’abbattimento di un volo di linea iraniano da parte di una nave da guerra americana nel Golfo Persico, durante la guerra tra Iran e Iraq. Ad eseguire materialmente l’attentato sarebbero stati terroristi palestinesi e agenti dei servizi segreti libici pagati dall’Iran. Per quanto questa teoria non sia mai stata provata, il coinvolgimento degli iraniani e dei palestinesi nell’attentato è rimasto a lungo nei titoli di giornale che si sono occupati della vicenda.
Nei primi mesi del 2011, in Libia, scoppiò una guerra civile che portò in poco tempo alla caduta e alla morte di Gheddafi. Durante i combattimenti, diverse importanti personalità abbandonarono il regime. Tra questi ci fu anche Mustafa Abdul Jalil, ministro della giustizia, che dichiarò di avere le prove che lo stesso Gheddafi aveva ordinato a Megrahi di compiere l’attentato. Saif Gheddafi, uno dei figli del colonnello, ha dichiarato in più occasioni che la Libia non aveva responsabilità nell’attacco e che accettò di pagare risarcimenti alle famiglie delle vittime soltanto per ottenere un alleggerimento delle sanzioni. Megrahi si è sempre dichiarato innocente. È morto a Tripoli il 20 maggio del 2012.
mercoledì 20 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 dicembre.
Il 20 dicembre 1924 Adolf Hitler viene rilasciato dal carcere di Landsberg. Durante questa prigionia aveva scritto il "Mein Kampf".
Figlio di un padre autoritario e repressivo, Adolf Hitler nasce nella piccola cittadina austriaca di Braunau am Inn nel 1889. La precoce morte della madre (a cui era estremamente legato), lascia profonde ferite nel suo animo.
Iscrittosi alla scuola Reale di Linz, è un allievo problematico e dal rendimento non certo brillante. Fatica ad integrarsi, a studiare e ad avere un rapporto armonico con studenti e professori. Il risultato di questo disastroso "iter" scolastico è che di lì a qualche anno abbandona l'istituto. Si trasferisce allora a Vienna cercando di entrare all'Accademia di Belle Arti, spinto da certe velleitarie tendenze artistiche (testimoniate anche da numerosi quadri). L'Accademia però lo respinge per ben due anni consecutivi, generando in lui notevole frustrazione, alimentata anche dal fatto che, non possedendo una licenza superiore, è impossibilitato a iscriversi alla facoltà di Architettura, possibile nobile ripiego alle bocciature in Accademia.
Il suo quadro psicologico, così, tende a farsi preoccupante. Sono anni bui, segnati fra l'altro da episodi di vagabondaggio e di isolamento sociale (senza contare il grave decadimento fisico a cui questo stile di vita lo stava conducendo). Si racconta che girasse, ironia della sorte, nei ghetti ebraici come un fantasma, vestito di un soprabito nero e sformato (donatogli da un occasionale amico ebreo) ed estremamente trascurato nell'aspetto.
Negli anni di Vienna, comincia a sviluppare il suo odioso e ossessivo antisemitismo. Per campare, deve rassegnarsi a fare l'impiegato, mentre nel tempo libero discute di politica con amici e conoscenti, con una veemenza tale da lasciare spesso esterrefatti gli interlocutori. I suoi discorsi, spesso fluviali e monologanti, sono contrassegnati da estrema decisione, punti di vista privi di sfumature e da un'esaltazione della violenza come soluzione per i problemi che affliggono la società.
In particolare, contesta ferocemente le teorie marxiste e bolsceviche, soprattutto per il loro rifiuto dei valori borghesi e capitalistici. Il solo sentir parlare di comunismo gli provoca crisi isteriche. A odio si aggiunge odio quando scopre che tra i principali fautori e divulgatori di tali idee si cela gran parte dell'intellighentia ebraica. Nel suo delirio, comincia ad addossare agli ebrei le colpe più assurde. Di essere internazionalisti e materialisti (quindi contro la supremazia dello stato nazionale), di arricchirsi a scapito dei cittadini di altre religioni, di minare la supremazia della razza tedesca nell'Impero, ecc.
Nel 1913 decide di partire per Monaco e nel 1914, dinanzi al Consiglio di revisione a Salisburgo, viene riformato per cattive condizioni di salute. Quando, il 1° agosto 1914, c'è la dichiarazione di guerra, Hitler è addirittura felice e non vede l'ora di partecipare all'"impresa". Scoppiata quindi la prima guerra mondiale si distingue sul campo guadagnandosi numerosi riconoscimenti militari. Nel 1918 però la Germania viene sconfitta e la cosa lo getta nello sconforto. Naufragavano quell'Impero e quella vittoria, per i quali aveva appassionatamente combattuto per quattro anni. Bisogna rilevare, per una comprensione maggiore della cause che porteranno la Germania a scatenare il successivo conflitto e per capire fino a che punto egli fosse in grado di intercettare gli umori dei suoi connazionali, che questo senso di frustrazione e di umiliazione per la sconfitta era comune a tutti i tedeschi del tempo.
Successivamente, sempre a Monaco (siamo nel 1919), inizia la sua attività politica vera a propria costituendo l'anno seguente il Partito Nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP). Gli esordi sono burrascosi, tanto che in seguito alle sue attività di agitatore viene arrestato. Durante la prigionia scrive il "Mein Kampf" orrendo manifesto della sua ideologia, infarcita di nazionalismo, razzismo, convinzioni circa la superiorità di una presunta "razza ariana", odio contro ebrei, marxisti e liberali. Scarcerato dopo soli 9 mesi, torna alla guida del NSDAP. La grande crisi economica del 1929 permette a Hitler e al suo movimento di far leva sul malcontento di alcune frange della popolazione esasperate da disoccupazione e tensioni sociali. Alle elezioni del 1930 il suo partito cresce di molto guadagnando oltre un centinaio di seggi in parlamento. Intanto Hitler impiega le sue camicie brune, una vera e propria organizzazione paramilitare, negli scontri di piazza. L'ascesa del nazismo è iniziata.
Nel 1932 Hitler perde le elezioni per pochissimi voti ma l'anno seguente il partito nazista è già il primo partito della Germania. Il consolidamento del potere di Hitler avviene con l'eliminazione degli avversari all'interno e all'esterno del partito. Come primo provvedimento dichiara fuorilegge il partito comunista arrestandone i leader principali, poi scioglie tutti i partiti tranne il NSDAP. Nel 1934, nella celebre quanto sanguinaria e terrificante "notte dei lunghi coltelli" fa eliminare con un massacro oltre un centinaio di camicie brune, divenute scomode e di difficile controllo. L'anno seguente ottiene il potere assoluto proclamandosi Fuhrer (capo supremo del Terzo Reich), e istituendo un apparato militare di controllo e repressione di burocratica ferocia. A capo di questo apparato vi sono le famigerate SS che, insieme alla Gestapo (polizia di Stato con pieni poteri), istituirono il sistema dei campi di concentramento per eliminare gli oppositori.
Le persecuzioni cominciano a colpire con virulenza gli ebrei espulsi in massa dai loro incarichi lavorativi e, con le leggi antirazziali del 1935, privati della cittadinanza tedesca e in seguito deportati nei campi di sterminio. Sul piano della politica estera il programma prevedeva l'unione di tutte le popolazioni germaniche in un'unica grande nazione con il compito di colonizzare l'Europa e distruggere i sistemi comunisti. Alla luce di questo progetto imperialista, nonostante i patti internazionali, Hitler comincia una corsa al riarmo, mentre in contemporanea stringe un Patto d'Acciaio prima con Mussolini e in seguito con il Giappone.
Nel 1939 si annette l'Austria con un colpo di mano ancora in qualche modo "politico" (ossia con il consenso sostanziale degli stessi austriaci) mentre Francia e Inghilterra, quasi stordite, rimangono a guardare. Senza più freni inibitori e in preda ad un delirio di onnipotenza, invade la Polonia, malgrado avesse stipulato un patto di non aggressione poco prima, poi la Cecoslovacchia. A quel punto, le potenze europee, consce dell'enorme pericolo che si andava profilando, dichiarano finalmente guerra alla Germania, ormai però preparatissima alla guerra, suo reale e nient'affatto recondito scopo.
Scoppia dunque la cosiddetta seconda guerra mondiale. In un primo momento, fra l'altro, stringe paradossalmente alleanza con la Russia di Stalin (il celebre patto Molotov-Ribbentrop), patria degli odiati bolscevichi. Nel 1940 invade la Francia mentre De Gaulle si rifugia in Inghilterra per organizzare la resistenza, poi l'Africa del Nord. L'avanzata della Germania a questo punto sembra inarrestabile. Solo l'Inghilterra, forte di un "alleato" naturale come la Manica, che tante volte l'ha protetta anche in passato, ancora resiste e anzi sconfigge un primo tentativo di invasione di Hitler.
Nel 1941, in preda alle sue mire espansionistiche e nonostante i patti che aveva stipulato con l'URSS decide di invadere anche la Russia. Sul fronte europeo la Germania è impegnata anche nella difficile e logorante guerra con l'Inghilterra, un vero osso duro, ma stranamente Hitler trascura e relega in secondo piano questo conflitto. Inizialmente poi, la campagna di Russia sembra a lui favorevole e l'avanzata tedesca vittoriosa e inarrestabile. I contadini russi attuano però una strategia difensiva di grande intelligenza, bruciando ogni cosa dietro di sé in attesa dell'arrivo del grande inverno russo, sapendo che è quest'ultimo il vero, importante alleato. Intanto, inaspettatamente gli USA entrano in guerra in difesa dei Russi. La Germania si trova dunque ad essere attaccata su due fronti, ad Est dai Sovietici e a Ovest dagli Alleati. Nel 1943 avviene la disastrosa ritirata dalla Russia, poi la perdita dei territori africani; gli alleati sbarcavano poi in Normandia e liberavano la Francia (1944). Il Giappone veniva bombardato con le armi atomiche e costretto in questo modo alla resa.
Nel 1945 il cerchio di fuoco si chiude intorno a Berlino. Hitler, sconfitto ed isolato nel bunker della Cancelleria dove tenta ancora una strenua difesa, si toglie la vita dopo aver sposato la sua amante, Eva Braun (suicida anch'essa insieme a lui), e redatto le sue ultime volontà. I loro cadaveri, frettolosamente bruciati dopo essere stati cosparsi di benzina, saranno rinvenuti dalle truppe sovietiche.
Il 20 dicembre 1924 Adolf Hitler viene rilasciato dal carcere di Landsberg. Durante questa prigionia aveva scritto il "Mein Kampf".
Figlio di un padre autoritario e repressivo, Adolf Hitler nasce nella piccola cittadina austriaca di Braunau am Inn nel 1889. La precoce morte della madre (a cui era estremamente legato), lascia profonde ferite nel suo animo.
Iscrittosi alla scuola Reale di Linz, è un allievo problematico e dal rendimento non certo brillante. Fatica ad integrarsi, a studiare e ad avere un rapporto armonico con studenti e professori. Il risultato di questo disastroso "iter" scolastico è che di lì a qualche anno abbandona l'istituto. Si trasferisce allora a Vienna cercando di entrare all'Accademia di Belle Arti, spinto da certe velleitarie tendenze artistiche (testimoniate anche da numerosi quadri). L'Accademia però lo respinge per ben due anni consecutivi, generando in lui notevole frustrazione, alimentata anche dal fatto che, non possedendo una licenza superiore, è impossibilitato a iscriversi alla facoltà di Architettura, possibile nobile ripiego alle bocciature in Accademia.
Il suo quadro psicologico, così, tende a farsi preoccupante. Sono anni bui, segnati fra l'altro da episodi di vagabondaggio e di isolamento sociale (senza contare il grave decadimento fisico a cui questo stile di vita lo stava conducendo). Si racconta che girasse, ironia della sorte, nei ghetti ebraici come un fantasma, vestito di un soprabito nero e sformato (donatogli da un occasionale amico ebreo) ed estremamente trascurato nell'aspetto.
Negli anni di Vienna, comincia a sviluppare il suo odioso e ossessivo antisemitismo. Per campare, deve rassegnarsi a fare l'impiegato, mentre nel tempo libero discute di politica con amici e conoscenti, con una veemenza tale da lasciare spesso esterrefatti gli interlocutori. I suoi discorsi, spesso fluviali e monologanti, sono contrassegnati da estrema decisione, punti di vista privi di sfumature e da un'esaltazione della violenza come soluzione per i problemi che affliggono la società.
In particolare, contesta ferocemente le teorie marxiste e bolsceviche, soprattutto per il loro rifiuto dei valori borghesi e capitalistici. Il solo sentir parlare di comunismo gli provoca crisi isteriche. A odio si aggiunge odio quando scopre che tra i principali fautori e divulgatori di tali idee si cela gran parte dell'intellighentia ebraica. Nel suo delirio, comincia ad addossare agli ebrei le colpe più assurde. Di essere internazionalisti e materialisti (quindi contro la supremazia dello stato nazionale), di arricchirsi a scapito dei cittadini di altre religioni, di minare la supremazia della razza tedesca nell'Impero, ecc.
Nel 1913 decide di partire per Monaco e nel 1914, dinanzi al Consiglio di revisione a Salisburgo, viene riformato per cattive condizioni di salute. Quando, il 1° agosto 1914, c'è la dichiarazione di guerra, Hitler è addirittura felice e non vede l'ora di partecipare all'"impresa". Scoppiata quindi la prima guerra mondiale si distingue sul campo guadagnandosi numerosi riconoscimenti militari. Nel 1918 però la Germania viene sconfitta e la cosa lo getta nello sconforto. Naufragavano quell'Impero e quella vittoria, per i quali aveva appassionatamente combattuto per quattro anni. Bisogna rilevare, per una comprensione maggiore della cause che porteranno la Germania a scatenare il successivo conflitto e per capire fino a che punto egli fosse in grado di intercettare gli umori dei suoi connazionali, che questo senso di frustrazione e di umiliazione per la sconfitta era comune a tutti i tedeschi del tempo.
Successivamente, sempre a Monaco (siamo nel 1919), inizia la sua attività politica vera a propria costituendo l'anno seguente il Partito Nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP). Gli esordi sono burrascosi, tanto che in seguito alle sue attività di agitatore viene arrestato. Durante la prigionia scrive il "Mein Kampf" orrendo manifesto della sua ideologia, infarcita di nazionalismo, razzismo, convinzioni circa la superiorità di una presunta "razza ariana", odio contro ebrei, marxisti e liberali. Scarcerato dopo soli 9 mesi, torna alla guida del NSDAP. La grande crisi economica del 1929 permette a Hitler e al suo movimento di far leva sul malcontento di alcune frange della popolazione esasperate da disoccupazione e tensioni sociali. Alle elezioni del 1930 il suo partito cresce di molto guadagnando oltre un centinaio di seggi in parlamento. Intanto Hitler impiega le sue camicie brune, una vera e propria organizzazione paramilitare, negli scontri di piazza. L'ascesa del nazismo è iniziata.
Nel 1932 Hitler perde le elezioni per pochissimi voti ma l'anno seguente il partito nazista è già il primo partito della Germania. Il consolidamento del potere di Hitler avviene con l'eliminazione degli avversari all'interno e all'esterno del partito. Come primo provvedimento dichiara fuorilegge il partito comunista arrestandone i leader principali, poi scioglie tutti i partiti tranne il NSDAP. Nel 1934, nella celebre quanto sanguinaria e terrificante "notte dei lunghi coltelli" fa eliminare con un massacro oltre un centinaio di camicie brune, divenute scomode e di difficile controllo. L'anno seguente ottiene il potere assoluto proclamandosi Fuhrer (capo supremo del Terzo Reich), e istituendo un apparato militare di controllo e repressione di burocratica ferocia. A capo di questo apparato vi sono le famigerate SS che, insieme alla Gestapo (polizia di Stato con pieni poteri), istituirono il sistema dei campi di concentramento per eliminare gli oppositori.
Le persecuzioni cominciano a colpire con virulenza gli ebrei espulsi in massa dai loro incarichi lavorativi e, con le leggi antirazziali del 1935, privati della cittadinanza tedesca e in seguito deportati nei campi di sterminio. Sul piano della politica estera il programma prevedeva l'unione di tutte le popolazioni germaniche in un'unica grande nazione con il compito di colonizzare l'Europa e distruggere i sistemi comunisti. Alla luce di questo progetto imperialista, nonostante i patti internazionali, Hitler comincia una corsa al riarmo, mentre in contemporanea stringe un Patto d'Acciaio prima con Mussolini e in seguito con il Giappone.
Nel 1939 si annette l'Austria con un colpo di mano ancora in qualche modo "politico" (ossia con il consenso sostanziale degli stessi austriaci) mentre Francia e Inghilterra, quasi stordite, rimangono a guardare. Senza più freni inibitori e in preda ad un delirio di onnipotenza, invade la Polonia, malgrado avesse stipulato un patto di non aggressione poco prima, poi la Cecoslovacchia. A quel punto, le potenze europee, consce dell'enorme pericolo che si andava profilando, dichiarano finalmente guerra alla Germania, ormai però preparatissima alla guerra, suo reale e nient'affatto recondito scopo.
Scoppia dunque la cosiddetta seconda guerra mondiale. In un primo momento, fra l'altro, stringe paradossalmente alleanza con la Russia di Stalin (il celebre patto Molotov-Ribbentrop), patria degli odiati bolscevichi. Nel 1940 invade la Francia mentre De Gaulle si rifugia in Inghilterra per organizzare la resistenza, poi l'Africa del Nord. L'avanzata della Germania a questo punto sembra inarrestabile. Solo l'Inghilterra, forte di un "alleato" naturale come la Manica, che tante volte l'ha protetta anche in passato, ancora resiste e anzi sconfigge un primo tentativo di invasione di Hitler.
Nel 1941, in preda alle sue mire espansionistiche e nonostante i patti che aveva stipulato con l'URSS decide di invadere anche la Russia. Sul fronte europeo la Germania è impegnata anche nella difficile e logorante guerra con l'Inghilterra, un vero osso duro, ma stranamente Hitler trascura e relega in secondo piano questo conflitto. Inizialmente poi, la campagna di Russia sembra a lui favorevole e l'avanzata tedesca vittoriosa e inarrestabile. I contadini russi attuano però una strategia difensiva di grande intelligenza, bruciando ogni cosa dietro di sé in attesa dell'arrivo del grande inverno russo, sapendo che è quest'ultimo il vero, importante alleato. Intanto, inaspettatamente gli USA entrano in guerra in difesa dei Russi. La Germania si trova dunque ad essere attaccata su due fronti, ad Est dai Sovietici e a Ovest dagli Alleati. Nel 1943 avviene la disastrosa ritirata dalla Russia, poi la perdita dei territori africani; gli alleati sbarcavano poi in Normandia e liberavano la Francia (1944). Il Giappone veniva bombardato con le armi atomiche e costretto in questo modo alla resa.
Nel 1945 il cerchio di fuoco si chiude intorno a Berlino. Hitler, sconfitto ed isolato nel bunker della Cancelleria dove tenta ancora una strenua difesa, si toglie la vita dopo aver sposato la sua amante, Eva Braun (suicida anch'essa insieme a lui), e redatto le sue ultime volontà. I loro cadaveri, frettolosamente bruciati dopo essere stati cosparsi di benzina, saranno rinvenuti dalle truppe sovietiche.
martedì 19 dicembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 dicembre.
Il 19 dicembre 2004 muore, a 82 anni, Renata Tebaldi.
Renata Ersilia Clotilde Tebaldi, una delle più affascinanti voci di soprano degli ultimi cento anni, protagonista della stagione d'oro di rinascita del bel canto nel secondo dopoguerra nasce a Pesaro il giorno 1 febbraio 1922. Dotata di una bellezza vocale prorompente, limpida e purissima, è rimasta ineguagliata per splendore vocale, dolcezza della linea espressiva e del porgere, nonché per l'adamantina intonazione.
Colpita dalla poliomielite all'età di tre anni, dopo anni di cure si rimetterà completamente. La malattia la prostra notevolmente, com'è comprensibile ma, sebbene non lasci traccia sotto il profilo fisico, contribuisce a fortificare il suo carattere.
Dapprima studia da soprano con i maestri Brancucci e Campogalliani al conservatorio di Parma e poi con Carmen Melis al Liceo Rossini di Pesaro. Nel 1944 debutta a Rovigo nel ruolo di Elena nel Mefistofele di Arrigo Boito.
Nel 1946, terminata la guerra, partecipa al concerto di riapertura della Scala sotto la direzione del maestro Arturo Toscanini, il quale nell'occasione la definisce "Voce d'angelo", un appellativo che la seguirà per tutto il resto della carriera. Pochi sanno però che il primo concerto di Renata Tebaldi, tenutosi ad Urbino, venne diretto nientemeno che da Riccardo Zandonai, che come Toscanini rimase letteralmente inebriato dalla voce della ragazza.
Nel 1948 esordisce all'Opera di Roma e all'Arena di Verona e da quell'anno fino al 1955 si è esibirà ripetutamente alla Scala, spaziando in un repertorio vastissimo attinto nel genere lirico-drammatico, nelle opere principali del suo repertorio (tra le altre, Faust, Aida, Traviata, Tosca, Adriana Lecouvreur, Wally, La forza del destino, Otello, Falstaff e Andrea Chénier).
Dal 1951 canta ogni anno al Metropolitan di New York, di cui è membro stabile dal 1954 al 1972. Sempre in questi anni, Renata Tebaldi si esibisce anche a Parigi, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Barcellona, Chicago, S. Francisco e Los Angeles.
La sua carriera è percorsa dal costante confronto-scontro con la voce di Maria Callas, tanto che qualcuno le affibbierà l'appellativo di anti-Callas.
Nel 1958 esordisce alla Staatsoper di Vienna e nella stagione 1975-76 compie numerose tournée nell'Unione Sovietica.
Nel 1976 lascia definitivamente il palcoscenico, dopo una serata di beneficenza alla Scala per i terremotati del Friuli.
Nella sua carriera Renata Tebaldi ha collaborato con oltre 70 direttori d'orchestra (tra i più noti, figurano autentici giganti della musica come De Sabata, Giulini, Toscanini, Solti, Karajan).
Come ha scritto il musicologo ed esperto di voci Rodolfo Celletti: "...la Tebaldi è stata la cantante che ha trasferito nella seconda metà del Novecento un modo di eseguire il repertorio lirico maturato nel cinquantennio precedente. Anche in certi vezzi (l'abbandono che porta a rallentare i tempi, l'indugio voluttuoso su note di dolcezza paradisiaca), costei è parsa, fra i soprani odierni, lo specchio di una tradizione che si è probabilmente esaurita con lei, così come, fra i tenori, si è esaurita con Beniamino Gigli".
Renata Tebaldi si è spenta il 19 dicembre 2004 nella sua casa di San Marino, all'età di 82 anni; riposa a Mattaleto di Langhirano.
Il 19 dicembre 2004 muore, a 82 anni, Renata Tebaldi.
Renata Ersilia Clotilde Tebaldi, una delle più affascinanti voci di soprano degli ultimi cento anni, protagonista della stagione d'oro di rinascita del bel canto nel secondo dopoguerra nasce a Pesaro il giorno 1 febbraio 1922. Dotata di una bellezza vocale prorompente, limpida e purissima, è rimasta ineguagliata per splendore vocale, dolcezza della linea espressiva e del porgere, nonché per l'adamantina intonazione.
Colpita dalla poliomielite all'età di tre anni, dopo anni di cure si rimetterà completamente. La malattia la prostra notevolmente, com'è comprensibile ma, sebbene non lasci traccia sotto il profilo fisico, contribuisce a fortificare il suo carattere.
Dapprima studia da soprano con i maestri Brancucci e Campogalliani al conservatorio di Parma e poi con Carmen Melis al Liceo Rossini di Pesaro. Nel 1944 debutta a Rovigo nel ruolo di Elena nel Mefistofele di Arrigo Boito.
Nel 1946, terminata la guerra, partecipa al concerto di riapertura della Scala sotto la direzione del maestro Arturo Toscanini, il quale nell'occasione la definisce "Voce d'angelo", un appellativo che la seguirà per tutto il resto della carriera. Pochi sanno però che il primo concerto di Renata Tebaldi, tenutosi ad Urbino, venne diretto nientemeno che da Riccardo Zandonai, che come Toscanini rimase letteralmente inebriato dalla voce della ragazza.
Nel 1948 esordisce all'Opera di Roma e all'Arena di Verona e da quell'anno fino al 1955 si è esibirà ripetutamente alla Scala, spaziando in un repertorio vastissimo attinto nel genere lirico-drammatico, nelle opere principali del suo repertorio (tra le altre, Faust, Aida, Traviata, Tosca, Adriana Lecouvreur, Wally, La forza del destino, Otello, Falstaff e Andrea Chénier).
Dal 1951 canta ogni anno al Metropolitan di New York, di cui è membro stabile dal 1954 al 1972. Sempre in questi anni, Renata Tebaldi si esibisce anche a Parigi, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Barcellona, Chicago, S. Francisco e Los Angeles.
La sua carriera è percorsa dal costante confronto-scontro con la voce di Maria Callas, tanto che qualcuno le affibbierà l'appellativo di anti-Callas.
Nel 1958 esordisce alla Staatsoper di Vienna e nella stagione 1975-76 compie numerose tournée nell'Unione Sovietica.
Nel 1976 lascia definitivamente il palcoscenico, dopo una serata di beneficenza alla Scala per i terremotati del Friuli.
Nella sua carriera Renata Tebaldi ha collaborato con oltre 70 direttori d'orchestra (tra i più noti, figurano autentici giganti della musica come De Sabata, Giulini, Toscanini, Solti, Karajan).
Come ha scritto il musicologo ed esperto di voci Rodolfo Celletti: "...la Tebaldi è stata la cantante che ha trasferito nella seconda metà del Novecento un modo di eseguire il repertorio lirico maturato nel cinquantennio precedente. Anche in certi vezzi (l'abbandono che porta a rallentare i tempi, l'indugio voluttuoso su note di dolcezza paradisiaca), costei è parsa, fra i soprani odierni, lo specchio di una tradizione che si è probabilmente esaurita con lei, così come, fra i tenori, si è esaurita con Beniamino Gigli".
Renata Tebaldi si è spenta il 19 dicembre 2004 nella sua casa di San Marino, all'età di 82 anni; riposa a Mattaleto di Langhirano.
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