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lunedì 17 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 marzo.

Il 17 marzo 1861 veniva ufficialmente proclamato il Regno d'Italia.

«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861».

Queste parole rappresentano il testo della legge n. 4671 del Regno di Sardegna. Pochi giorni dopo quel 17 marzo, lo stesso testo sarebbe diventato la legge n. 1 del Regno d’Italia. Era nato un Regno, era nato uno Stato unitario laddove, appena un paio d’anni prima, ve n’erano addirittura sette.

Il primo dato che emerge dall’analisi del testo è che il numerale che accompagna il nome del sovrano non viene modificato: è sempre Vittorio Emanuele II, non I come avrebbe voluto larga parte dell’opinione pubblica patriottica. Il dato è significativo e tutt’altro che simbolico. “Vittorio Emanuele I” avrebbe sottolineato la specificità e la novità dell’Italia unita. “Vittorio Emanuele II”, invece, significava implicitamente che il nuovo Stato era l’allargamento territoriale del Regno di Sardegna e delle sue istituzioni.

La reazione internazionale alla proclamazione del Regno fu repentina e, in alcuni casi, entusiastica. Il nuovo Stato venne riconosciuto, nel volgere di poche settimane, dai governi svizzero, britannico e statunitense. Questi guardavano infatti con favore alla creazione di uno Stato mediterraneo abbastanza popoloso (oltre 22 milioni di abitanti) che fosse in grado di dare stabilità all’intero continente, attraversato in quegli anni dalla lotta tra Francia e Austria per il controllo dell’Europa meridionale e dalla contrapposizione franco-britannica per il dominio delle rotte mediterranee.

Il Regno d’Italia era stato dunque “generato” da una decisione presa dal Parlamento riunito a Torino, nella sede di Palazzo Carignano. I suoi rappresentanti erano stati eletti pochi mesi prima, nel gennaio dello stesso anno, e la loro provenienza già aveva attestato la realizzazione, de facto, dell’Unità. Le elezioni si erano infatti tenute in tutte quelle regioni che, attraverso i plebisciti, nel corso dell’anno precedente avevano chiesto l’annessione al Regno sabaudo.

In quel Parlamento una grande maggioranza degli eletti si riconosceva apertamente nelle posizioni politiche di Camillo Benso di Cavour. E, infatti, fu proprio il conte piemontese a ricoprire, per primo, la carica di presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia. In quell’esecutivo il conte ricopriva anche i dicasteri della Marina e, soprattutto, degli Esteri. Gli altri ministri erano specchio dell’unità appena dichiarata. Alla Giustizia un piemontese (Cassinis), all’Agricoltura un siciliano (Natoli), alla Guerra un emiliano (Fanti), alle Finanze un livornese (Bastogi) e ai Lavori pubblici un fiorentino (Peruzzi), all’Istruzione un napoletano (De Sanctis).

Ma, improvvisamente, ad appena una decina di settimane dalla proclamazione dell’Unità, Cavour, il principale architetto dell’Unità, moriva a soli 51 anni nella sua residenza di famiglia, probabilmente stroncato dalla malaria (a dispetto delle tesi complottiste succedutesi nel tempo). Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali in piazza San Carlo, a Torino. L’intero  paese aveva perso, forse nel momento di maggior bisogno, uno statista le cui qualità sarebbero state rimpiante da molti.

domenica 16 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 marzo.

Il 16 marzo 2010 un incendio distrugge le tombe di Kasubi in Uganda, uno dei luoghi Patrimonio dell'Umanità UNESCO.

Le tombe di Kasubi si trovavano sulle colline del distretto di Kampala, in Uganda. Quattro tombe reali erano situate in un edificio chiamato Muzibu Azaala Mpanga, di forma circolare e coperto da una cupola di stoppia. Il sito è considerato un importante centro spirituale per gli abitanti della regione e perciò attira un numero considerevole di turisti. Le tombe sono un patrimonio dell'umanità a partire dal 2001. Sono considerate resti esemplari dell'architettura dei popoli del Buganda.

Il recinto reale di Kasubi Hill fu costruito nel 1881. Conosciute anche come tombe dei Ssekabaka, queste sono le tombe reali dove quattro Kabakas sono tuttora sepolti.

I quattro kabakas (re) sepolti al sito sono:

Muteesa I di Buganda (1835–1884)

Mwanga II di Buganda (1867–1903)

Daudi Cwa II di Buganda (1896–1939)

Mutesa II di Buganda (1924–1969)

Il 16 marzo 2010, verso le 20:30 ora locale, le tombe di Kasubi sono state quasi completamente distrutte da un incendio. La causa dell'incendio è ancora sconosciuta. Il regno di Buganda ha promesso di condurre indagini accanto alle forze di polizia nazionali. 

Il 17 marzo 2010, il Kabaka di Buganda, Muwenda Mutebi II, e il Presidente dell'Uganda, Yoweri Museveni, hanno visitato il sito delle tombe. Centinaia di persone hanno viaggiato verso il sito per aiutare a recuperare qualsiasi cosa sia rimasta di esso. Durante la visita del Presidente, sono scoppiati dei tumulti. Le forze di sicurezza hanno ucciso due rivoltosi e cinque sono stati feriti. I soldati ugandesi e la polizia si sono scontrati anche con i rivoltosi nella città-capitale di Kampala. Le forze hanno usato i lacrimogeni per disperdere i rivoltosi del Baganda gruppo etnico.

La distruzione è arrivata sulla scia di un rapporto imbarazzante tra il governo dell'Uganda e il Regno di Buganda, in particolare dopo le sommosse del settembre 2009. In vista di questi disordini, i rivoltosi sono stati arrestati e posti in attesa di giudizio.

Per fortuna, tutto quello che c'era all'interno della struttura è ancora intatto. L'amministrazione del Regno di Buganda ha promesso allora di ricostruire le tombe, e il presidente Museveni ha detto che il governo nazionale parteciperà al restauro.

I lavori, finanziati dal Giappone, hanno avuto inizio nel 2014 e sono terminati a settembre del 2023. 

sabato 15 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 marzo.

Il 15 marzo 2019 milioni di studenti in tutto il mondo scendono in piazza a difesa del clima, ispirati da Greta Thumberg e dai suoi "Fridays for future".

Il movimento ispirato dalla giovane svedese Greta Thunberg porta in piazza i giovani di tutto il mondo per ribadire l’urgenza di interventi che abbiano un reale impatto sul cambiamento climatico e che garantiscano la sostenibilità ambientale.

Sono oltre 1.300 nel mondo le località (e quasi 100 i Paesi) in cui gli studenti sono scesi in piazza, il 15 Marzo 2019, per richiamare gli adulti alle loro responsabilità in materia di cambiamento climatico. Una mobilitazione senza precedenti, soprattutto per l’età media dei partecipanti: andarono in manifestazione bambini dall’età del nido fino all’università. Gli studenti di tutto il mondo hanno risposto in modo inaspettato alla chiamata di chi sa che non c’è più un minuto da perdere.

Il movimento #FridaysForFuture è nato nell’agosto del 2018, su ispirazione della allora 16enne svedese Greta Thunberg che da settembre sostava, ogni venerdì, davanti al Parlamento del suo Paese, per protestare contro la mancanza di iniziative concrete che potessero fermare il cambiamento climatico.

La giovane - che ha una storia personale commovente e che ha trovato nella causa del clima la forza per superare una forma di mutismo selettivo che l’aveva colpita nell’infanzia – è diventata la testimonial di una campagna che sembra acquisire forza giorno dopo giorno e che si propone di andare avanti finché non saranno messe in atto le misure per il contenimento del riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C di aumento previsti dagli accordi di Parigi. 

E l’esempio è ancora più efficace dal momento che Greta Thunberg ha applicato innanzitutto a se stessa i principi di sobrietà che sono necessari a ridurre l’impatto antropico sul clima: è vegana, non viaggia più in aereo ma solo in treno e cerca di ridurre al massimo i consumi non strettamente necessari.

“È in gioco il futuro del Pianeta, il nostro futuro” ha dichiarato. “E non possiamo aspettare che sia la mia generazione a prendere il potere: sarà troppo tardi per la Terra. Dovete agire voi adulti, adesso. Stiamo segando il ramo dell’albero su cui siamo seduti”.

In molti Paesi, soprattutto nel Nord Europa, i dirigenti scolastici hanno aderito ufficialmente alla protesta: i ragazzi sono andati in piazza senza che la loro assenza da scuola venisse conteggiata. In altri, tra cui l’Italia, la mobilitazione è stata lasciata alla libera scelta dei singoli.

Per le scuole, e in generale per il mondo dell’educazione, si è trattata comunque di una grande opportunità per far entrare il tema del cambiamento climatico e della sostenibilità ambientale nelle aule scolastiche, fornendo ai giovani, sempre pronti a mettersi in gioco in prima persona, anche le conoscenze teoriche e pratiche per rendere la loro azione più incisiva.

Le nuove generazioni, dice il movimento #FridaysForFuture, sanno che è necessario agire, e in fretta: gli adulti saranno capaci di ascoltare la saggezza che viene dai più giovani?

venerdì 14 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 marzo.

Il 14 marzo 2004 Vladimir Putin viene rieletto Presidente della Russia.

Il nuovo Zar della Russia? Può darsi, visto l'immane quantità di potere attualmente concentrata nelle sue mani. Dopo aver "liquidato" i cosiddetti nuovi oligarchi, ossia i neo-miliardari che si sono arricchiti con la svendita - voluta dal predecessore Boris Eltsin - delle aziende statali russe e capaci di condizionare fortemente anche la politica, c'è chi indica in Vladimir Putin l'uomo forte che più forte non si può della Grande Madre Russia. Per qualcuno siamo giusto un gradino sotto la dittatura.

Non si può negare che l'istinto del comando circoli come un altro genere di globuli nel sangue di questo piccoletto dal carattere di ferro, uno cresciuto a pane e Kgb e che nessuno, o quasi, ha mai visto ridere. In pubblico la sua espressione è sempre di una serietà patibolare, compassata al limite del "rigor mortis". Al massimo talvolta accenna a qualche benevola alzata di sopracciglia, temperata da un tentativo di sorriso, magari quando si trova al fianco dell'amico Silvio Berlusconi.

Nato il 7 ottobre 1952 in quella difficile metropoli che è Leningrado (l'attuale San Pietroburgo), nel 1970 Putin si iscrive all'università, studia diritto e lingua tedesca, ma nel tempo libero si dedica alla pratica dello judo, di cui è sempre stato un grande sostenitore. In questo sport, lo zar di ghiaccio ha sempre ritrovato quell'unione fra disciplina del corpo e dimensione "filosofica" che ne fanno una guida per la vita di tutti i giorni. Forse qualcosa di questa disciplina gli è servita quando nel 1975 è entrato a far parte del Kgb, chiamato ad occuparsi di controspionaggio.

Una gran carriera lo attendeva dietro l'angolo. Prima si sposta nel dipartimento estero dei servizi segreti e dieci anni più tardi viene inviato a Dresda, nella Germania dell'Est, dove prosegue la sua attività di controspionaggio politico (prima di partire sposa Lyudimila, una ragazza di otto anni più giovane che gli darà due figlie: Masha e Katya). Grazie al periodo trascorso in Germania, Vladimir Putin ha così la possibilità di vivere fuori dall'Unione Sovietica, anche se, caduto il muro, sarà costretto a tornare nella natìa Leningrado.

Quell'esperienza gli consente di diventare, per le questioni di politica estera, il braccio destro di Anatoli Sobciak, sindaco di Leningrado, che adotta un programma di riforme radicali nel campo politico ed economico. E' Sobciak il promotore del referendum per restituire alla città il vecchio nome di San Pietroburgo. Durante questo periodo Putin introduce la borsa valutaria, apre le aziende cittadine ai capitali tedeschi, cura ulteriori privatizzazioni dei vecchi catafalchi sovietici e diventa vice-sindaco, ma la sua corsa si arresta con la sconfitta di Sobciak alle elezioni del 1996.

In realtà quell'apparente débacle sarà la sua fortuna. Lo chiama a Mosca Anatoli Ciubais, il giovane economista che lo raccomanda a Boris Eltsin. Inizia la scalata di Putin: prima vice del potente Pavel Borodin che gestisce l'impero dei beni immobiliari del Cremlino, poi capo del Servizio Federale di Sicurezza (Fsb), il nuovo organismo che succede al Kgb. Successivamente Putin ricopre la carica di capo del Consiglio di sicurezza presidenziale.

Il 9 agosto 1999 Boris Eltsin si ritira, principalmente a causa dello stato di salute in cui versa. Putin è pronto come un felino a cogliere la palla al balzo e, il 26 marzo 2000, viene eletto presidente della Federazione russa al primo turno con oltre il 50 per cento dei voti, dopo una campagna elettorale condotta nel più totale sprezzo del confronto politico. Vladimir Putin, in quell'occasione, non ha mai accettato forme di discussione con altri esponenti della scena politica russa. Ad ogni modo la sua fortuna politica si basa soprattutto sulle sue dichiarazioni circa la spinosa questione dell'indipendenza cecena, tese a stroncare il magmatico ribellismo della regione. Forte di una larga maggioranza anche alla Duma (il parlamento russo), tenta inoltre di riportare sotto l'autorità centrale di Mosca i governatori regionali che con Eltsin si erano spesso sostituiti al potere centrale.

La maggior parte dei russi appoggia la sua linea dura, e il forte sospetto di un vero e proprio odio etnico, più che il timore di una disgregazione dello Stato, mina alla base la legittimità di questo consenso. I pochi oppositori di Putin d'altronde individuano proprio nella guerra forti elementi di valutazione di un presidente spietato, dittatoriale che lede il rispetto dei diritti umani. Le ultime elezioni russe hanno comunque confermato il suo potere e il pugno di ferro con cui conduce la sua leadership. In uno scenario in cui le voci contrarie alla sua sono ridotte al lumicino, Putin ha incassato i consensi di una vasta maggioranza della popolazione.

Nel marzo del 2004 viene rieletto Presidente per un secondo mandato, con il 71 percento dei voti. Quattro anno più tardi il successore che si insedia al Cremlino è il suo fedelissimo Dmitrij Medvedev: Vladimir Putin torna così alla carica di Primo Ministro da lui già detenuta prima del mandato presidenziale. All'inizio del mese di marzo 2012, come era abbondantemente stato previsto da tutti, viene rieletto per la terza volta Presidente: il consenso supera il 60%. Anche nel 2018, con un consenso record del 75%, resta in carica per un quarto mandato.

giovedì 13 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 marzo.

Il 13 marzo 1996 nel Regno Unito ebbe luogo il massacro di Dunblane.

Il massacro della scuola di Dunblane fu una strage avvenuta il 13 marzo 1996 alla Primary School di Dunblane, in Scozia, dove un uomo armato, Thomas Watt Hamilton, uccise a colpi di pistola 16 scolari di età compresa tra i 5 e i 6 anni e la loro insegnante, prima di suicidarsi. Si tratta di uno dei peggiori massacri di questo genere avvenuti nel Regno Unito.

Alle 9.30 del mattino di mercoledì 13 marzo 1996, un uomo di 42 anni, Thomas Watt Hamilton, armato di quattro pistole e munito di paraorecchie, fece irruzione nella palestra della Primary School di Dunblane, dove 29 bambini della prima elementare avevano da poco cominciato l'ora di ginnastica. Hamilton estrasse una dopo l'altra le pistole che aveva in dotazione, iniziando a sparare quasi immediatamente e facendo fuoco sui bimbi e sul personale docente: la mattanza durò circa due-tre minuti. Compiuta la strage, l'uomo rivolse la pistola contro di sé e si tolse la vita. Si calcola che Hamilton usò in tutto 105 proiettili.

Nel pomeriggio, il portavoce della polizia Louis Mann comunicò che i morti, oltre all'assassino, erano 17, 16 bambini e la loro maestra, Gwen Mayor. L'insegnante, che fu uccisa con sei pallottole (di cui una le aveva sfondato l'occhio destro), e 15 bambini erano morti sul colpo, mentre un altro bambino era deceduto dopo il ricovero in ospedale. I corpi dei bambini morti nel massacro furono portati nella Royal Infirmery di Stirling per il riconoscimento da parte dei genitori. La dozzina di altre persone (in gran parte bambini) rimaste ferite, tre delle quali in gravi condizioni, furono invece condotte all'ospedale di Stirling.

Per questo massacro la regina Elisabetta II d'Inghilterra proclamò il lutto nazionale.

L'esecutore della strage, Thomas Watt Hamilton, covava l'idea di vendicarsi dal 1975, anno in cui, ventunenne, fu cacciato dalla Stirling Scout Group, dov'era capo scout, per il sospetto di "attenzioni particolari" nei confronti dei bambini. Da allora, Hamilton iniziò ad odiare la società  e a dedicarsi all'hobby delle armi da fuoco, anche se in questo passatempo incontrò spesso la diffidenza delle società di tiro, che sovente gli negarono la tessera. Dalla testimonianza di una vicina, che era entrata nella casa dell'assassino, si apprese che nella stanza di quest'ultimo stavano appese foto di ragazzini seminudi. Altri vicini raccontarono di aver visto molti giovani entrare ed uscire ogni giorno dalla casa di Hamilton.

Un vicino, dopo la strage disse:

«Voleva sempre fotografare i ragazzi, a molti diceva di togliersi la camicia o la maglietta perché le foto venissero meglio »

Un altro vicino sottolineò invece il carattere solitario e la passione di Hamilton per le armi da fuoco:

«Viveva solitario, come un lupo. Aveva la passione per le pistole, un giorno ha voluto a tutti i costi mostrarmele »

Lo stesso Hamilton, cinque giorni prima della strage, aveva inviato un messaggio alla regina Elisabetta II, in cui c'era scritto: "Odio il mondo".

Oltre all'assassino suicida, le vittime furono: 

Gwen Mayor (45 anni, insegnante)

Victoria Elizabeth Clydesdale (5 anni)

Emma Elizabeth Crozier (5 anni)

Melissa Helen Currie (5 anni)

Charlotte Louise Dunn (5 anni)

Kevin Allan Hasell (5 anni)

Ross William Irvine (5 anni)

David Charles Kerr (5 anni)

Mhairi Isabel MacBeath (5 anni)

Brett McKinnon (6 anni)

Abigail Joanne McLennan (5 anni)

Emily Morton (5 anni)

Sophie Jane Lockwood North (5 anni)

John Petrie (5 anni)

Joanna Caroline Ross (5 anni)

Hannah Louise Scott (5 anni)

Megan Turner (5 anni)

Il ferito più grave fu un bambino di nome Coll, che rimase a lungo in coma, e che a seguito delle ferite riportate, perse la vista e l'udito all'orecchio destro.

Tra i superstiti della strage, vi furono anche due future star del tennis, i fratelli Andy e Jamie Murray, all'epoca rispettivamente di otto e nove anni. I due fratelli Murray al momento della sparatoria si trovavano in palestra, ma riuscirono a salvarsi, nascondendosi sotto una cattedra. Nel 2004, Andy Murray dedicò la sua vittoria nel torneo juniores di Flushing Meadows proprio alle vittime della strage, che accomunò ai bambini caduti nella strage di Beslan. Il tennista dichiarò:

«Di quel giorno ricordo poco. So che ho realmente capito l'enormità di quello che era successo - ha raccontato - solo tre o quattro anni dopo, quando il peggio era passato, la gente cominciava pian piano a riprendersi e la vita a tornare alla normalità »

Andy Murray tornò a parlare del massacro di Dunblane nella sua autobiografia Hitting Back, pubblicata nel 2009. Parlò dell'omicida in questi termini:

«La cosa più orrenda è che conoscevamo tutti quel ragazzo. Mia madre gli dava spesso un passaggio. È stato nella sua auto. È ovviamente qualcosa di terribile sapere che hai avuto un omicida seduto nella tua auto. Accanto a tua madre »

Andy Murray decise però di raccontare in pubblico quanto successo il 13 marzo 1996 per la prima volta soltanto nel 2013, in un documentario della BBC.

Una messa in ricordo delle vittime fu tenuta nell'ottobre del 1996, mentre all'interno della Cattedrale di Dunblane fu eretta una stele che ricorda il massacro. 

L'anno successivo fu interamente demolita la palestra dove avvenne la strage, in seguito alla richiesta unanime dei genitori delle vittime e del corpo insegnanti. 

Inoltre, nel settembre del 2004, fu aperto un centro sportivo intitolato alle vittime della strage. 

mercoledì 12 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi




 Buongiorno, oggi è il 12 marzo.

Alle 23,15 del 12 marzo 1977 a Bologna la polizia sfonda la porta di Radio Alice che, grazie alla presa diretta con le telefonate dei compagni che vi partecipano, ha assicurato una straordinaria copertura degli scontri degli ultimi due giorni. L’irruzione, armi in pugno e giubbetti antiproiettile, come se fosse un covo brigatista, si conclude con la devastazione delle strutture e l’arresto dei 5 ragazzi presenti, che sono selvaggiamente picchiati nei locali della Mobile. L’ultima voce di radio Alice è: “Sono entrati, siamo con le mani alzate”.

Nella notte tra il 13 e il 14 marzo scatta invece il blitz militare voluto da Cossiga, ministro degli Interni. Ecco la ricostruzione del Resto del Carlino in uno speciale del 2010:

"SBUCARONO insieme, da una strada e dall’altra, in uno stridore di cingoli, i fari in ispezione, le sagome tozze, gigantesche e massicce come mostri della notte. «I carrarmati», urlò qualcuno, e la voce si spinse lungo i portici, qua e là, nelle vie della zona universitaria e tutt’intorno. «I carrarmati dei carabinieri», puntualizzò da chissà dove un anonimo solista, in una Bologna sconvolta dal sangue e dalla rabbia. Era il buio tra il 13 e il 14 marzo 1977, le vie del centro, con le vetrine frantumate, le auto ruote all’aria e i cassonetti strategicamente utilizzati come grandi scudi metallici, mostravano i segni di tre giorni di battaglia, e le scritte sui muri ribadivano flash di odio e promesse di vendetta."

Veniva da lontano, l’ordine di affidare ai blindati dell’Arma il compito di spegnere la rivolta degli studenti dell’Autonomia, impegnati in una durissima guerriglia urbana prima contro Comunione e Liberazione, poi in una serie di scontri con le forze dell’ordine, culminati con la morte dello studente Francesco Lorusso. In quel caotico succedersi di focolai di violenza si era inserito l’ultimo, drammatico episodio: l’assalto a un’armeria di via de’ Castagnoli con l’inquietante grisbì di 90 fucili e di un adeguato corredo di pistole. A cosa sarebbero dovute servire quelle armi?

Fu allora che Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, decise per le maniere forti. Il ‘Carlino’ uscì per primo con la notizia dell’entrata in azione dell’esercito. Era stato lo stesso ministro, a volerlo, per scoraggiare i rivoltosi. «Direttore, faccio intervenire i blindati dell’Arma: se crede, pubblichi la notizia», disse al telefono al direttore Franco Di Bella. E allora Roberto Canditi, il collega che aveva già raccontato le cronache degli scontri dovette cambiare l’inizio dell’articolo. «I carri armati all’Università», sparava il titolone. A mezzanotte le prime copie erano già nelle edicole.

Ed eccoli, alle quattro, nel buio della notte, i mostri d’acciaio tra libri, facoltà e biblioteche. Ma fu un’avanzata quasi nel deserto, perché buona parte degli studenti, spaventati, avevano preferito mettersi al sicuro. Così andò in scena lo spettacolare clou di una brutta striscia di sangue cominciata la mattina dell’11 con un ‘innesco’ banale: un’assemblea di Comunione e Liberazione in un’aula universitaria, contestata da alcuni della sinistra extraparlamentare, in arrivo da ‘Medicina’. Il servizio d’ordine di Cl respinse l’attacco, qualcuno avvertì le forze dell’ordine e il fuocherello della rabbia divenne incendio.

SCONTRI, fughe, cariche, molotov e lacrimogeni, slogan e fuggi fuggi. C’erano polvere, fumo e rabbia, nell’aria, quando una molotov incendiò il telone dell’autocarro di testa di una colonna dei carabinieri. E nel chiarore di quel falò il giovane autista Massimo Tramontani, stese il braccio armato sul supporto di un mezzo in sosta e fece fuoco. E lì, tra spari a più mani, molotov, spranghe, urla, slogan, cariche e agguati, lo studente Francesco Lorusso cadde senza vita, in via Mascarella. Il sangue ricaricò la rabbia e diede il via a cortei, ad altre cariche e a nuove occupazioni. In quel clima scese la sera, e in quel clima, su disposizione di Cossiga, i cingolati chiesero strada qualche notte dopo. E nella luce del nuovo giorno, nelle rabbiose scritte sui muri, la C di Cossiga, divenne una K.

martedì 11 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 marzo.

L'11 marzo 1888 una terribile tempesta di neve si abbattè sulla costa orientale degli Stati Uniti d'America.

Nei primi mesi del 1888, negli Stati Uniti d’America, a New York in particolare, non si faceva che parlare di quello che era stato uno degli inverni più caldi degli ultimi anni, soprattutto per la mancanza di neve. Tuttavia il giorno 10 marzo, alle ore 21 per essere precisi, il termometro segnava una temperatura di 10 gradi centigradi.

Il giorno successivo, per quanto il cielo fosse coperto, con qualche rovescio di pioggia, la temperatura si mantenne ancora sopra le medie del periodo.

Nel corso del pomeriggio, però, qualcosa cominciò a cambiare: il vento iniziò a rinforzare sempre di più e i temporali aumentarono d’intensità. Inoltre la pressione atmosferica cominciò a diminuire molto velocemente.

Quell’11 marzo era domenica: il centro meteorologico di New York era quasi deserto e si erano interrotti i collegamenti con il centro meteorologico di Washington D.C.; qui, infatti, la situazione era molto più chiara. Era ormai evidente che la costa orientale degli Stati Uniti stava per essere colpita da una tempesta con venti fortissimi, che avrebbero portato abbondanti nevicate.

La tempesta si generò a causa di masse d’aria dalle caratteristiche profondamente diverse, e dirette una contro l’altra. La prima massa d’aria proveniva dal Golfo del Messico ed era relativamente calda e carica d’umidità; la seconda proveniva dal Canada, diretta a sud, si era formata oltre il circolo polare artico.

Le due perturbazioni s’incontrarono proprio quella domenica pomeriggio; lo scontro fu violentissimo e generò un vero e proprio uragano invernale.

La spaventosa tormenta cominciò a spostarsi verso la costa di New York.

Verso sera le raffiche miste a pioggia raggiunsero velocità intollerabili, tanto da non permettere neanche ai cavalli di poter camminare (furono segnalate carrozze con tiro a sei ribaltate dal vento).

A mezzanotte la pioggia si tramutò in neve; a tutti era chiara la pericolosità della tempesta in corso ma dal centro meteorologico non era stato diramato nessun annuncio di allerta meteo.

New York si risvegliò sotto un’immensa coltre di neve e la bufera non accennava a smettere. Ogni angolo della città e dei territori circostanti era martoriato dalla tempesta.

Molte persone rimasero bloccate nella sopraelevata; delinquenti locali fecero pagare i malcapitati bloccati nelle vetture per poter scendere su scale apposite.

Nel pomeriggio era tutto bloccato: uffici, alberghi, scuole, ecc. Tutto divenne un gigantesco dormitorio per le migliaia di persone uscite al mattino e rimaste bloccate sino al pomeriggio.

Nevicò per due giorni di seguito, sino al martedì; ma ormai la città era irriconoscibile. Si contarono 400 morti, tra cui persone letteralmente sommerse dalla neve o ammazzate dai cornicioni ghiacciati caduti.

La tempesta coinvolse l’intero costa nordest degli Stati Uniti; in seguito a questo evento si decise di abbandonare definitivamente i collegamenti telefonici e telegrafici su palo per metterli sottoterra, abbattendo così la selva di tralicci che abbondavano in ogni dove.

New York ne uscì più moderna dalla bufera di neve, inaugurò inoltre la sua prima metropolitana sotterranea.

lunedì 10 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 marzo.

Il 10 marzo 1945 gli Stati Uniti effettuano l'"operazione Meetinghouse".

L’Operazione Meetinghouse, messa in atto il 10 marzo 1945, è stato il più duro bombardamento statunitense su Tokyo che ha provocato la distruzione di 267.000 edifici, pari al 25% della città, uccidendo quasi 100.000 persone. In generale i bombardamenti di Tokyo avvennero nel corso della seconda guerra mondiale dal 1942 all’estate del 1945 e furono condotti esclusivamente dalle forze aeree statunitensi. Provocarono devastazioni ingenti alla capitale nipponica e centinaia di migliaia di morti.

L’episodio avvenuto nella notte tra il 9 e il 10, in particolare, fu paragonabile ad una tempesta di fuoco che investì Tokyo. 234 bombardieri B-32 rovesciarono sulla città 1.665 tonnellate di bombe incendiarie a cluster, bombe al magnesio, bombe al fosforo bianco antesignane del napalm. L’effetto fu devastante e vennero distrutti circa 41 km² della città, e  si contarono oltre 72.489 civili giapponesi. Il coinvolgimento della popolazione civile, che in Europa si cercò in tutti i modi di evitare, venne ignorato in estremo Oriente. La prima città colpita fu Kobe, il 3 febbraio 1945; fu poi il turno di Tokyo, colpita a più riprese.

Per ottenere il maggior effetto ai danni della popolazione civile, il generale USA Curtis LeMay, comandante del XXI Comando Bombardieri di stanza nelle Marianne, decise di far operare i bombardieri a quote medio basse, di notte e con un carico bellico prevalentemente incendiario, dato che le città giapponesi erano largamente costruite con legno e carta, ovvero materiale altamente combustibile. Inoltre la difesa aerea giapponese era inefficace contro i B29 che volavano a velocità pari a quelle dei caccia giapponesi ed inoltre erano pesantemente armati e corazzati: praticamente irraggiungibili.

Oltre un milione di persone rimasero senza tetto in quello che è stato senza dubbio il più feroce bombardamento nella storia dell'umanità, e che rappresentò il primo tassello che portò poi alla resa del Giappone sei mesi più tardi.

domenica 9 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi




 Buongiorno, oggi è il 9 marzo.

Il 9 marzo 1976, poco dopo le cinque di pomeriggio, una cabina della funivia che raggiunge l’Alpe Cermis, in Trentino, si staccò dal cavo d’acciaio che la sorreggeva schiantandosi a terra e percorrendo circa 100 metri sul dorso della montagna prima di fermarsi. Morirono 42 delle 43 persone che erano a bordo, in quello che è stato il peggior incidente accaduto a una funivia della storia. A volte l’incidente del 1976, conosciuto anche come “disastro della funivia di Cavalese”, dal nome del comune dove si trovava l’impianto, viene confuso con quello del 1998 che accadde alla stessa funivia 20 anni dopo, quando un aereo militare americano tranciò le funi della funivia durante un volo a bassa quota, facendo cadere una cabina con a bordo 20 persone, che morirono tutte.

L’Alpe del Cermis è una montagna di 2250 metri, sui cui versanti c’è una frequentata stazione sciistica. A collegare il comune di Cavalese e le piste da sci c’era una funivia costruita nel 1964 dalla ditta Hölzl. La funivia si divideva in due tronconi, e l’incidente avvenne nel primo (partendo dal basso), lungo circa due chilometri e mezzo e che portava i passeggeri da un’altitudine di 1000 metri (quella di Cavalese) a 1280 metri. Il primo tratto era suddiviso in due campate da un pilone di cemento, posto circa 1500 metri dopo la stazione di partenza: le cabine della funivia potevano ospitare fino a 40 passeggeri (più il manovratore), e raggiungevano una velocità massima di dieci metri al secondo. Nel punto più alto, le cabine che percorrevano la prima tratta si trovavano a circa 180 metri dal suolo: Cavalese si trova infatti su una piccola altura, e la funivia attraversava il fondovalle della Val di Fiemme.

Sulla cabina che cadde il 9 marzo 1976 erano salite due persone in più della capacità massima, ma tra queste c’erano quindici bambini: il peso complessivo dei passeggeri non era dunque superiore al limite di carico previsto. Le due funi alle quali era attaccata la cabina si accavallarono mentre questa stava scendendo verso Cavalese: una fune tranciò l’altra, e la cabina cadde da un’altezza di diverse decine di metri, schiantandosi al suolo. Dopo l’impatto, la cabina proseguì la sua discesa lungo il versante della montagna, percorrendo un centinaio di metri prima di fermarsi in un prato. Nella caduta, il carrello che collegava la cabina alla fune, che pesava circa tre tonnellate, cadde sulla cabina, schiacciandola. Morirono 42 persone, compresi i 15 bambini: tra i passeggeri c’erano 21 tedeschi di Amburgo, 11 italiani, 7 austriaci e un francese.

Alessandra Piovesana, una ragazza milanese che all’epoca aveva 14 anni, fu l’unica sopravvissuta, e si salvò perché fu protetta nell’impatto dai corpi degli altri passeggeri: rimase comunque gravemente ferita e passò un periodo in ospedale. Le indagini scoprirono che al momento dell’incidente il sistema automatico di sicurezza era stato disinserito per velocizzare il trasporto dei passeggeri: quando le due funi si erano accavallate, la cabina era stata fatta procedere manualmente, provocando la rottura delle funi. Carlo Schweizer, manovratore della funivia, fu condannato nel 1981 in Cassazione come unico responsabile dell’incidente: in carcere trascorse in tutto nove mesi. In un secondo processo venne condannato a tre anni di carcere anche il capo servizio Aldo Gianmoena. Per entrambi l’accusa fu di omicidio colposo.

sabato 8 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 marzo.

L’8 marzo 1964 Mario Napoli scopre la cosiddetta Porta Rosa.

La Porta Rosa è una costruzione del IV secolo a.C., ritrovata nell’area archeologica magnogreca di Elea-Velia, che costituisce il più antico esempio di arco a tutto sesto in Italia.

Più che una porta, Porta Rosa era un viadotto che collegava le due sommità naturali dell’acropoli di Elea: è assente, ad esempio, ogni traccia di cardini. La sua vera natura di viadotto fu scoperta solo a scavi ultimati, quando il nome era già stato attribuito. L’arco, in undici conci di pietra arenaria, oltre a quella di viadotto, svolgeva la funzione di contenimento delle pareti della gola che collegava.

Attorno al III secolo a.C. l’arco fu ostruito e l’intera struttura interrata, ad opera presumibilmente di una frana o perché l’apertura costituiva un punto debole nella difesa della città. L’interramento ne ha probabilmente permesso la perfetta conservazione. Porta Rosa fu riportata alla luce l’8 marzo 1964 dall’archeologo Mario Napoli, il quale la battezzò “Rosa” in omaggio al nome della propria moglie, sorella dell’archeologo Alfonso De Franciscis.

L’area fu chiusa nel 2009 per la caduta di un masso; è stata riaperta nell’agosto 2011 dopo la messa in sicurezza del costone che la sovrasta. Successivamente, in seguito a un incendio, era stata nuovamente chiusa nel 2017. Dopo un lungo restauro è stata riaperta nel luglio 2020.

La Porta Rosa è una costruzione ad arco italica antecedente alla colonizzazione greca prima e romana poi. In Grecia usavano architravi piane (v. la Porta dei Leoni). Le misure con cui fu realizzata sono quelle osco-italiche, in uso in tutto il territorio italico, Etruria compresa, fino alla Lucania. Le misure italiche furono usate dall’antichità fino al IV sec. a.C. Poi dal IV fino al II a.C., in ossequio alla classicità, furono adottate le misure della Grecia classica.

Dal II a.C. infine fu usata la nuova misura romana, non inventata ex novo (perché gli italici degli Appennini seguitarono ad usare sempre la loro misura anche tra i IV e il II sec.a.C.), ma “creata” facendo tre medie matematiche :1) tra la misura italica e quella greca antica;-2) tra la misura italica e quella greca classica;-3) infine facendo la media tra (1) e (2).- L’approssimazione è di 0,0014 sicilicus, quindi quasi zero.

Essa è coperta da una volta di circa 2,70 metri di larghezza, e nel muro sovrastante si nota un secondo arco di scarico. La realizzazione delle mura di Velia è da collocare, nelle sue ultime fasi, a metà del IV secolo a.C. La Porta Rosa può dunque essere considerata tra i primi esempi a noi noti di realizzazioni architettoniche a volta nell’area mediterranea, se non fosse per la visibile differenza nel trattamento della pietra tra la porzione inferiore delle mura e la volta stessa (incluso l’arco di scarico). Ciò può avere differenti spiegazioni per cui non è da escludere che mura e volta siano coeve.

La scoperta del sistema viario che collegava il quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta Rosa e la cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della topografia del sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio Capizzi, a una rilettura affascinante, ma non universalmente accettata, del proemio Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla Natura).

venerdì 7 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 7 marzo.

Il 7 marzo 1912 Roald Amundsen annuncia la scoperta del polo Sud.

Roald Engelbert Amundsen, celebre esploratore, è nato il 16 luglio 1872 a Borge, vicino Oslo. Secondo le aspettative familiari avrebbe dovuto dedicarsi a studi di medicina, invece, guidato da un innato spirito di avventura, è attratto da una vita più movimentata e perigliosa.

Decide dunque di arruolarsi nella Marina, scelta che più tardi gli permetterà di partecipare alla prima spedizione polare della sua vita, quella effettuata con il "Belgica" negli anni che vanno dal 1897 al 1899. La dura vita a bordo della nave tempra il norvegese e gli serve come preparazione alle future avventure in ambiente artico.

Un suo clamoroso successo, a riprova della dote innata che aveva per la soluzione di situazioni estreme, si ha qualche anno dopo, agli inizi del Novecento quando, al comando della nave "Gjöa", riesce a portare a termine, per primo, la rotta attraverso il terribile passaggio di Nord-Ovest e a determinare la posizione del polo magnetico boreale. Questo risultato lo spinge a voler intraprendere altri viaggi e altre esplorazioni. La mente gli corre al Polo Nord, allora terra inesplorata. E' già in procinto di organizzare una spedizione quando scopre di esser stato preceduto da Peary, che raggiunge la meta nel 1909. Conquistato un Polo, però, ne rimaneva pur sempre un altro...

Amundsen cambia allora destinazione ma, stranamente, non pubblicizza la cosa e non ne fa parola con nessuno. Anzi, compra in gran segreto la nave "Fram", già utilizzata nell'artico da Nansen, riempiendosi di debiti e parte appunto per il Polo Sud.

Non sa però di essere in competizione con l'inglese Scott, anche lui partito per la stessa destinazione con una spedizione organizzata fin nei più piccoli particolari e con ben altri mezzi. Inizia a questo punto la sfiancante e terrificante sfida che ha visto protagonisti i due grandi esploratori, decisi a tutto pur di essere i primi a piantare la bandiera del proprio paese all'estremità più inaccessibile del Pianeta Terra.

Il 14 dicembre del 1911 i cinque membri del gruppo piantano la bandiera norvegese al Polo Sud. La foto che immortala il momento è ormai storica. Il 25 gennaio 1912 la spedizione fu di ritorno al campo base dopo aver percorso 2.980 km in 99 giorni; erano rimasti 11 cani su 13 mentre gli uomini avevano patito accecamento da neve, congelamenti e bruciature da vento. Un mese dopo anche Scott arriverà sul posto, trovando un messaggio lasciato dall'equipaggio norvegese. Una brutta fine attende però l'inglese e i suoi compagni: saranno ritrovati morti assiderati nell'inverno del 1913 a soli 18 km dal campo base che avrebbe permesso loro la sopravvivenza.

Soddisfatto di aver realizzato il sogno della sua vita, l'esploratore non è certo pago di questo. Rientrato in patria e pagati i debiti, organizza nuovi viaggi. Nel 1918/20 percorre il passaggio a nord-est sulle tracce del barone Nordenskjold mentre nel 1925 riesce a raggiungere gli 88° Nord in aereo. Nel 1926, insieme all'italiano Nobile e all'americano Ellsworth, sorvola il Polo Nord con il dirigibile Norge.

In seguito ad alcune polemiche sorte dopo il viaggio, Amundsen e Nobile non si rivolgono più la parola. Eppure, quando Nobile si schianterà sul pack con il dirigibile Italia, dopo aver raggiunto il Polo Nord, l'esploratore norvegese non esiterà a partire in suo soccorso.

Amundsen decolla, senza più tornare, da Tromsø il 17 giugno del 1928 a bordo del Latham 47, con un aereo messo a disposizione dal governo francese. Alcuni mesi più tardi venne trovato un relitto del suo aeroplano a nord delle coste settentrionali della Norvegia. Di Roald Amundsen non si ebbe più notizia.

La base scientifica internazionale del Polo Sud porta il nome Amundsen-Scott, in onore ai due sfortunati esploratori.

 

giovedì 6 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 6 marzo.

Il 6 marzo 1978 Joseph Paul Franklin spara all'editore della rivista pornografica Hustler, Larry Flynt.

"Volevo scatenare una guerra tra razze, la sopravvivenza della razza bianca era a rischio". Con questa delirante motivazione, il suprematista Joseph Paul Franklin sparò tra gli altri al re del porno Larry Flynt, costringendolo su una sedia a rotelle. Correva l'anno 1978. Il 20 novembre 2013, a 35 anni da quel tentativo di omicidio Franklin è stato giustiziato. Perché giudicato colpevole di un altro omicidio, questa volta eseguito, compiuto nel 1977 fuori da una sinagoga a St.Louis, in Missouri.

L'uomo è stato messo a morte per iniezione letale ed è deceduto alle 6,17 ora locale (le 13,17 ora italiana), dopo che la corte d'appello aveva revocato la sospensiva accordatagli nella notte da un giudice del Missouri. Franklin ha rifiutato l'ultimo pasto e non ha voluto rilasciare una dichiarazione finale.

Accusato di una serie di omicidi a sfondo razzista tra il 1977 e il 1980, il suprematista era stato giudicato colpevole di altri sette assassinii in diverse zone del Paese, e lui stesso aveva ammesso l'uccisione di una ventina di persone. Dalla prigione, Franklin aveva anche imputato alla sua infanzia povera e agli abusi in famiglia la sua deriva.

Larry Flynt, editore della famosa rivista erotica Hustler, fu ferito gravemente a colpi d'arma da fuoco e da allora costretto sulla sedia a rotelle. Proprio Flynt il mese prima, con l'avvicinarsi della data dell'esecuzione, aveva scritto di voler vedere il suo attentatore pagare per quello che aveva fatto, ma di non essere interessato alla sua morte. Puntando il dito contro il desiderio di "vendetta e non di giustizia", Flynt si era schierato contro la pena di morte: "Credo fermamente che un governo che proibisce le uccisioni tra i suoi cittadini non dovrebbe essere lui stesso responsabile dell'uccisione delle persone", aveva affermato in una lettera aperta sull'Hollywod Reporter.

Franklin aveva dato il via alla sua lotta per la salvezza della razza bianca, derubando 16 banche in giro per l'America per finanziarsi. Nel luglio di quello stesso anno aveva messo una bomba nella sinagoga di Chattanooga, in Tennessee, senza fare vittime, per poi darsi agli omicidi, spesso colpendo da lontano come cecchino. Tra le sue vittime preferite, le coppie interrazziali. L'8 ottobre 1977, si era appostato fuori dalla sinagoga di Kneseth Israel a St. Luois e, al termine di un bar mitzvah, aveva aperto il fuoco sugli invitati che stavano andando via, uccidendo il 42enne Gordon.

La scia di sangue era continuata per altri tre anni, fino a quando non venne preso dopo aver ucciso due giovani neri che facevano jogging con due coetanee bianche a Salt Lake City nell'agosto 1980. Il suo avvocato, nell'ultimo tentativo di evitargli la pena capitale, aveva attaccato il medicinale usato, il 'pentobarbital', sostenendo che violava l'ottavo emendamento della Costituzione contro le punizioni crudeli.

Una tesi accolta dal giudice distrettuale Nanette Laughrey che martedì aveva ordinato una sospensione dell'ordine di esecuzione di fronte all'alto rischio di "un dolore prolungato e non necessario oltre quello richiesto per raggiungere la morte". Una seconda sospensiva era stata accordata dal magistrato Carol Jackson, ma contro entrambi i verdetti la procura aveva fatto ricorso, ottenendo dalla corte d'appello il via libera a procedere.

Larry Flynt è morto nel sonno per insufficienza cardiaca il 10 febbraio 2021. 

mercoledì 5 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 marzo.

Il 5 marzo 1918 la neonata Unione Sovietica sposta la capitale da San Pietroburgo a Mosca.

Mosca (in russo Москва́, Moskva), splendida capitale della Russia, sorge ai piedi della Moscova. Con i suoi dieci milioni e mezzo di abitanti, è la città più popolosa della Russia e tra le più grandi città al mondo. Il cuore di Mosca è il Cremlino e la Piazza Rossa con la Cattedrale di San Basilio. Il suo aspetto attuale è il risultato di una radicale trasformazione urbanistica realizzata negli anni '30 del XX secolo. E' una delle principali città d'arte e, ancora oggi, è uno dei più importanti centri culturali mondiali, con più di 60 teatri, 100 musei, gallerie d'arte, università e migliaia di biblioteche.

Anche se la zona del Cremlino fu probabilmente abitata fin dall'XI secolo, la nascita di Mosca viene fatta risalire ufficialmente al 1147, ad opera del principi di Suzdal, Yury Dolgoruky. Nel 1237-38 venne saccheggiata dai Tartari con a capo da Batu, nipote di Genghis Khan, che stabilirono la loro capitale a Saray, passando alla storia con il soprannome di Orda d'Oro.

Grazie alla sua felice posizione Mosca divenne ben presto un principato indipendente. Solo alla fine del Quattrocento, con il principe Ivan III detto 'il Grande', la città riuscì a liberarsi dell'obbligo dei tributi all'Orda e, mentre volgeva al termine il regno di Ivan, riuscendo ad acquisire il controllo su un territorio molto vasto. Ivan chiamò alla sua corte architetti italiani per realizzare le cattedrali del Cremlino e si proclamò 'signore di tutta la Russia'.

Ivan IV (detto 'il Terribile') continuò l'opera di espansione fino alla Siberia. Verso la fine del XVI secolo, Mosca era già una delle città più grandi al mondo. Dopo carestie e invasioni, venne occupata dai Polacchi.

Cacciati gli invasori, venne eletto zar il sedicenne Mikhail, primo rappresentante della famiglia dei Romanov che regnerà sulla Russia per tre secoli. A cavallo del XVII e XVIII secolo, Pietro il Grande fece costruire dal nulla Pietroburgo, costringendo la nobiltà russa a trasferirsi nella nuova capitale. Mosca rimase tuttavia una città importante. Durante la campagna napoleonica nel 1812, le truppe dell'imperatore francese si scontrarono con l'esercito russo nella battaglia di Borodino, 130 km a ovest di Mosca: i russi abbandonarono la città al suo destino e consentirono a Napoleone di lanciarsi alla sua conquista di Mosca. La notte in cui l'imperatore la raggiunse un vastissimo incendio distrusse la maggior parte degli edifici costringendo i francesi a lasciare poco dopo la città distrutta.

La città fu ricostruita rapidamente e la sua popolazione aumentò enormemente fino a sfiorare il milione e mezzo alla viglia della Prima Guerra Mondiale. Con la Rivoluzione del 1917, Mosca diventò la capitale dell'impero sovietico. La città subì una radicale riorganizzazione urbanistica, con la realizzazione di nuovi quartieri, piazze, palazzi e infrastrutture (la prima linea della metropolitana venne completata nel 1935). Durante il secondo conflitto mondiale, l'esercito tedesco venne fermato a pochi chilometri dal centro di Mosca (nel dicembre del 1941). Nel secondo dopoguerra è continuata l'espansione della città con la costruzione di enormi quartieri residenziali in periferia. Molti edifici e impianti sportivi sono stati realizzati in occasione delle Olimpiadi del 1980.

Ci sono molte cose da vedere, visitando Mosca.

Cremlino: è la cittadella fortificata posta al centro di Mosca, sulla riva sinistra della Moscova, sulla collina Borovickij; antico centro della città, è sede delle istituzioni governative della Russia, nonché uno dei più importanti complessi artistici e storici del paese (cattedrale dell'Annunciazione, cattedrale dell'Arcangelo Michele, cattedrale dell'Assunzione, Gran Palazzo del Cremlino).

Piazza Rossa: bellissima e gigantesca piazza nel cuore della città, unica piazza storica ad essere chiusa al traffico; a ovest è limitata dalla muraglia del Cremlino, sotto la quale si trova il Mausoleo di Lenin; dalla parte opposta si trovano l'edificio del GUM e il Museo Storico di Stato, inaugurato nel 1883. Musei d'arte: Museo delle arti figurative "A.S. Pushkin", Galleria Tret'jakov.

Chiese: Cattedrale di San Basilio, Cattedrale Uspenskij. Metropolitana: è una delle attrattive di Mosca. La ricchezza dei materiali impiegati (granito, porfido, rodonite, onice e persino labradorite) fanno di ogni fermata un'opera d'arte. I complessi sotterranei sono ornati con mosaici, statue, vetrate, dipinti di celebri artisti del paese. Una delle più belle stazioni e' la "Majakovskaja", inaugurata nel 1938.

martedì 4 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 marzo.

Il 4 marzo 1877 debutta a Mosca il balletto "il lago dei cigni" di Pëtr Il'ič Čajkovskij.

"Il lago dei cigni", oggi forse il balletto più famoso del mondo, al suo debutto nel 1877 fu un fiasco, tanto che pare che lo zar stesso abbia abbandonato la sala anzitempo. Anche le rappresentazioni successive non ottennero il successo sperato tanto che il compositore morì senza aver mai ricevuto il giusto tributo per questa sua composizione (l'allestimento che raccolse il consensi di critica e pubblico risale appena al 1895, quasi vent'anni dopo la prima esecuzione).

La trama, decisamente romantica, racconta la storia della principessa Odette che un perfido sortilegio del malefico mago Rothbart, a cui la principessa ha negato il suo amore, costringe a trascorrere le ore del giorno sotto le sembianze di un cigno bianco. La maledizione potrà essere sconfitta soltanto da un giuramento d'amore.

Il principe Sigfrid si imbatte nottetempo di Odette, se ne innamora e promette di salvarla.

Ad una festa nella reggia di Sigfrid il mago presenta sua figlia che ha assunto le sembianze di Odette al principe che, convinto di trovarsi al cospetto della sua amata, le giura eterno amore.

A quel punto Il mago rivela la vera identità della fanciulla e Odette, destinata alla morte, scompare nelle acque del lago. Sigfrid, disperato, decide di seguirla: è proprio questo suo gesto a rompere l'incantesimo consentendo ai due giovani innamorati di vivere per sempre felici e contenti.

Il lago dei cigni è una pietra miliare nel repertorio classico; numerose sono state, nel corso dei decenni, le interpretazioni a questo pezzo, alcune delle quali rivisitate persino in chiave psicoanalitica. In ogni caso, dopo più di un secolo, il balletto conserva inalterato tutto il suo fascino romantico.

È un balletto molto interessante per la forte compenetrazione fra la musica e la storia e per l'intensità del simbolismo che lo percorre: la lotta fra il bene e il male, l'opposizione fra bianco e nero, l'arcano della donna trasformata in cigno, gli abbandoni languidi e di struggente dolcezza della musica, pronti improvvisamente a sfumare in accenti crudi e misteriosi, quasi si alzassero assieme alle brume incantate del lago…

Lo spettacolo si apre sui ricchi festeggiamenti per il ventunesimo compleanno del Principe Sigfrido: la festa è nel parco del castello e il precettore Wolfgang introduce gli ospiti invitati al ballo. Giunge la regina madre che desidera che il figlio si scelga una fidanzata: perciò al ricevimento della sera seguente a corte gli verranno presentate le pretendenti. Sigfrido è turbato dalle raccomandazioni della madre: non è ancora attratto dall'amore. Malinconico, al calar della sera, vedendo uno stormo di cigni volare in cielo, decide di andare a caccia per distrarsi. In riva ad un lago tende la sua balestra verso un gruppo di cigni che improvvisamente si trasformano in giovani donne, e fra tutte rimane affascinato dalla principessa Odette che gli confida il sortilegio del mago Rothbart, di cui è vittima: le fanciulle si trasformano ogni giorno in cigni per poi riprendere le loro vere sembianze al calar della notte. L'incantesimo potrà essere spezzato solo se qualcuno giurerà loro eterno amore. Il principe, conquistato da tanta bellezza, le giura eterno amore.

Il secondo atto è ambientato nella sala da ballo del castello dove la regina madre e Sigfrido accolgono le fanciulle candidate alla sua mano: il giovane principe danza con loro ma non decide per nessuna di esse perché ha ormai nel cuore Odette. La festa viene interrotta dall'improvviso arrivo di un misterioso cavaliere che accompagna una fanciulla vestita di nero. La ragazza è la figlia del cavaliere ed è identica a Odette. Ammaliato, Sigfrido la sceglie fra tutte come consorte ma subito gli è svelato l'inganno: il cavaliere non è altri che Rothbart con la figlia Odile e il destino della povera Odette è segnato. Sulle rive del lago Odette è disperata. Sigfrido, sconvolto dal dolore, la raggiunge implorando il suo perdono e sconfigge il malefico Rothbart. L'incantesimo è spezzato: le fanciulle cigno sono libere. L'alba illumina i due giovani che, insieme all'amore, hanno conquistato la desiderata felicità.


lunedì 3 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

 


Buongiorno, oggi è il 3 marzo. Il 3 marzo 1953 nasce in Brasile Zico.

Il suo vero nome è Arthur Antunes Coimbra ma tutti lo conoscono come Zico. Il giocatore brasiliano piu famoso della storia dopo Pelè nasce a Rio de Janeiro il 3 marzo del 1953. Ha una sorella e 4 fratelli maschi. I 5 fratelli Antunes Cimbra seguiti dal padre formano una formidabile squdra di calcio a 5 che imperversa per le strade di Quintino, un lontano sobborgo di Rio. Zico è l’ultimo aggregato, più giovane e più gracile di tutti ma ha un talento che brilla anche tra il calcio polveroso e violento del quartiere. La sua forza di volontà è ricompensata. A 17 anni il passerotto è un ragazzo normale, ha guadagnato 11 centimetri in altezza e 16 chili di peso. Non sarà mai un colosso e la sua muscolatorua resterà fragile ma ora è pronto per gettarsi nella mischia dei professionisti.

Nel 1973/74 Zico conquisterà definitivamente la maglia numero 10 del Flamengo. La partita della consacrazione si ha contro gli jugoslavi dello Zelecnicar (3-1 con una sua doppietta dopo la quale lo scrittore e cronista Nelson Rodriguez scrive: «Zico è un giocatore che è sulla strada di una furiosa pienezza. E’ entrato in quella fase in cui un giocatore fa con il pallone tutto ciò che vuole». Nasce la leggenda del Galinho, il galletto. Il campione è definitivamente sbocciato, impossibile non accorgersene. Zico si segnala ben presto anche con la casacca verdeoro della Nazionale. Una delle prime vittime è l’Italia. Nel 1976 è suo uno dei 4 gol con cui il Brasile sconfigge gli azzurri negli Stati Uniti al torneo del bicenetenario americano.

Nel frattempo il nuovo decennio inizia come meglio non si potrebbe: nel 1980 Zico vince con il Flamengo il suo primo campionato brasiliano e in una tourneé di primavera il Brasile impressiona tutto il mondo sportivo. Il 12 maggio 1981 la selecao si presenta a Londra per affrontare l’Inghilterra nel tempio del calcio, lo stadio di Wembley. Qui il Brasile non vince da 60 anni. Il gol della vittoria giallo-oro è suo. La critica lo sottopone ad un termine di paragone importante: Zico diventa il Pelé bianco, l’erede legittimo del giocatore più forte della storia.

Nel novembre del 1981 il Flamengo affronta la squadra cilena del Cobreloa per la conquista della Coppa Libertadores, la coppa dei campioni sudamericana. Ci vogliono 3 finali per decidere il vincitore. Nella prima sfida il Flamengo si impone per 2-1 e Zico segna entrambi i gol. Nella finale di ritorno in Cile è il calcio violento del Cobreloa ad avere la meglio e i rossoneri sono sconfitti 1-0. Nell’ultimo incontro in campo neutro Zico è il protagonista assoluto siglando la doppietta decisiva (la seconda rete con una splendida punizone dal limite) e porta il Flamengo in cima al Sudamerica.

Non è che l’inizio di un periodo straordinario costituito dalle tre settimane più emozionanti del club carioca. Il 6 dicembre il Flamengo sconfigge il Vasco per 2-1 dopo tre sfide consecutive valide per il titolo di campione carioca. Zico ispira il secondo gol. Sette giorni dopo il Flamengo vola in Giappone per giocarsi la Coppa Intercontinentale contro il Liverpool. A Tokio si gioca in un’atmosfera un pò surreale con un pubblico ancora digiuno di calcio. Il Liverpool è frastornato dal palleggio, dalla tecnica e dalla fantasiosa velocità dei brasiliano. Alla fine del primo tempo il risultato è già acquisito: 3-0. Zico è il perno del gioco d’attacco, ispiratore di tutte le reti brasiliane ed alla fine è premiato con una Toyota come miglior giocatore della partita. Per il club rossonero è il terzo titolo conquistato in poco più di 20 giorni, l’apice di quella che la torcida del Flamengo ricorda ancora come l’era-Zico.

E arriviamo in Spagna per i Mondiali del 1982. Osservando le gare del primo girone non si vede proprio chi possa competere con una nazionale così scintillante come quella brasiliana guidata da Telé Santana. 2-1 sull’URSS, 4-1 sulla scozia e 4-0 sulla Nuova Zelanda. Sono goleade alle quali Zico partecipa con 3 realizzazioni. Nel secondo turno la selecao dei marziani si trova ad affrontare l’Argentina di Maradona e l’Italia di Bearzot in un girone a tre valido per accedere alla semifinale. La pima sfida è Brasile-Argentina e il Galinho fa il mattatore. Nel finale il numero 10 manda in rete Junior con un filtrante da manuale: il risultato è 3-1 per i brasiliani.

L’incontro decisivo per approdare in semifinale è quello con l’Italia. Al Brasile basterebbe un pareggio per qualificarsi. Il 10 brasiliano viene seguito come un’ombra da Claudio Gentile. La sfida verrà tramandata in patria come la tragedia del Sarrià perché nessuno poteva pensare ad un epilogo quale quello che si consumò nello stadio di Barcellona. L’enorme delusione per il mondiale perduto produce due effetti contrastanti in Zico. Da un lato quel che non ha dato l’avventura in nazionale viene riscattato dai successi con il club. Nel 1983 il Flamengo trionfa ancora una volta nel torneo nazionale e nella finalissima contro gli eterni rivali del Santos non può mancare la firma del Galinho fra le reti che fissano il risultato sul 3-0.

Ma compiuti i 30 anni e avendo vinto tutto in rossonero, l’idolo assoluto del Maracanà sente il bisogno di intraprendere una nuova esperienza e di cimentarsi proprio nel paese che gli ha fatto versare le lacrime più amare della sua carriera. Ci sono già stati contatti con grandi club italiani, il Milan, la Roma, la Juventus.Tutte società ricche che possono offrire quel che il Flamengo chiede per privarsi del suo giocatore pià prestigioso. Nessuno poteva immaginare che sarebbe stata l’Udinese a riuscire nel miracolo di comprare uno dei campioni più venerati del pianeta.

Sei miliardi di lire. E’ la cifra con cui l’Udinese del presidente Lamberto Mazza e del general manager Franco Dal Cin si aggiudica Zico. E’ una somma importante che mette in grande preoccupazione i vertici del calcio italiano e anche il governo. Zico arriva in Italia in pompa magna, l’accoglienza all’aereoporto di Ronchi dei Legionari è da grande capo di stato. In 7 giorni viene organizzata una simbolica amiochevole tra Flamengo e Udinese per il passaggio della maglia. Zico gioca solo pochi minuti, quanto basta per far venire i brividi ai tifosi friuliano.

Qualcosa però va storto e le cose si complicano. Viene sospeso temporaneamente dalla Federcalcio l’acquisto di Zico assieme al suo compagno di nazionale Toninho Cerezo, approdato alla Roma. Udine reagisce duramente, il sogno impossibile di sentirsi grandi di colpo viene spezzato da un diktat delle autorità. La reazione di piazza è vibrante. In certi slogan e striscioni si inneggia sino al desiderio di passare all’Austria se il campione carioca non otterrà il via libera dalla Federazione. Quando finalmente gli ostacoli verranno rimossi dopo un mese di passione e suspence la piazza si ritroverà per festeggiare il primo discorso di Zico osannato alla stregua di un Re con tanto di simbolica incoronazione.

Poi lo si va ad ammirare sul campo e il Monarca non tradisce. Contro gli jugoslavi dell’Hajduk l’Udinese vince 3-1 e il brasiliano firma la rete del 2-0. Le prime apparizioni del Galinho fanno luccicare gli occhi. Quel che si vede è meraviglia pura. Le amichevoli fanno registrare il pienone al Friuli e Zico offe continui saggi di spettacolo. Persino il Real Madrid paga dazio e perde 2-1 dopo essere passato in vantaggio con il bomber Santillana. A capovolgere il risultato intervengono poi Zico e Causio, una coppia «brasiliana» che funziona a meraviglia fin da subito. Il precampionato si chiude poi con un rotondo 3-0 sui brasiliano del Vasco de Gama.

L’attesa per il campionato che sta per iniziare non è mai stata così vibrante nella regione. Il battesimo nel campionato di calcio 1983/84 avviene il 12 settembre a Marassi. L’Udinese sconfigge il Genoa con un 5-0 che non ammette repliche e Zico va in rete una volta per tempo. La prima invenzione è una finta di corpo che ubriaca i suoi controllori, il secondo è un classico del suo repertorio: il calcio di punizione. Alla seconda giornata, nell’esordio casalingo contro il Catania, Zico si ripete con modalità quasi identiche. I bianconeri friulani vincono per 3-1. Il Galinho mette a segno ancora una doppietta invertendo solo l’ordine dei fattori senza che il prodotto cambi, il calcio di punizione stavolta arriva prima.

I tiri da fermo di Arthur Antunes Coimbra diventano una partita nella partita, il vero centro di interesse dei 90 minuti. Anche quando l’Udinese perde, come accade nella terza giornata ad Avellino, il pubblico rimane incantato per l’ennesimo exploit disegnato con una traiettoria imprendibile. Il primo grande big match del campionato Zico la vive all’ottava giornata. Al Friuli arriva la Roma di Falcao e Cerezo, forte della posizione di capolista nonchè di campione in carica. La sfida vive i suoi momenti più esaltanti nel finale. A 5 minuti dal termine i giallorossi hanno con Pruzzo il pallone buono per sbloccare l’incontro ma falliscono l’opportunità. L’antica legge del calcio trova un immediata applicazione: gol sbagliato, gol incassato. Brini da la palla a Galparoli sulla fascia detra, allungo a Causio, due passi, passaggio di 40 metri a Zico che coglie l’attimo vincente e batte Tancredi

Il girone di ritorno prende l’avvio con una piacevole similitudine con quanto visto all’inizio del campionato. Zico va in gol su punizione in diverse occasioni. Al di là di quanto ogni singola prodezza incida sui risultati quel che ha valore assoluto è quanto succede al Cibali da Catania quando si assiste ad un intero stadio avversario che fa il tifo per lui: un paradosso mai visto prima in un campo di serie A.

La società però sbanda tra litigi e incerte prospettive di futuro determinate dalle dimissioni di Dal Cin e dalla mancata riconferma dell’allenatore Ferrari per l’anno successivo. Infine sfuma in extremis l’ingresso in Europa. L’Udinese termina al nono posto, i progetti ambiziosi legati all’arrivo dell’asso brasiliano sembrano poca cosa a conti fatti. Restano le cifre personali però, e quelle non mentono assolutamente: Zico chiude con 19 gol, un record per uno straniero esordiente, ad una sola lunghezza da Platini. Ma nell’ambiente la sensazione che il giocattolo stia per rompersi è palpabile.

La stagione 1984/85 ha ben altri presupposti, sogni tricolori non se ne fanno più. La parola d’ordine è quella di salvarsi e al massimo navigare in acque tranquille. La squadra ha cambiato pelle. Se ne sono andati via elementi come Causio e Virdis. Eppure Zico brilla e non sembra scontento di militare in una squadra dalle ambizioni molto più limitate. Determinante è però un infortunio patito dal Galinho a gennaio che lo terrà fermo per lungo tempo. Rientra in tempo per segnare due gol a Inter e Juventus prima di risolvere anticipatamente il contratto con la società. Ai problemi sul campo si aggiungono quelli fuori con le accuse mosse dalla giustizia italiana di evasione fiscale ed esportazione illegale di valuta.

Per spiegare il particolare rapporto tra Zico e Udine si potrebbero spendere dotte analisi sociologiche o studiare i comportamenti indagando la psicologia di massa, o ricorrere anche al bisogno di un territorio di avere eroi ed al piacere di cercarseli nello sport, e pure provenienti da molto lontano. Si potrebbe pensare che la natura intima di questo rapporto nasca proprio dall’affinità tra essere friulano e essere Zico, lavoratore schivo, umile e generoso che sa unire il sorriso alla fatica. Oppure ci si potrebbe limitare a vedere nel galinho nient’altro che un campione talmente ammaliante nella sua tecnica e nella sua carica umana che sarebbe stato semplicemente impossibile che le cose fossero andate in un altro modo.

Quel che è certo è che l’affetto tra il brasiliano e la città non è mai finito, è qualcosa rimasto dentro iscritto quasi come un codice genetico di una tifoseria e di un luogo.

Cosi Zico ricorda il suo breve ma intensissimo periodo bianconero: “Conservo ancora un ottimo ricordo della mia esperienza friulana. Sono sempre stato trattato benissimo da quelle parti. Sono specialmente contento di un aspetto: che la gente ha apprezzato il mio modo di essere e la mia famiglia. Sono cose che ti segnano. Credo che anche sul campo corrisposi alle attese. Fu veramente un peccato che la dirigenza dell’epoca ebbe dei problemi e le lotte tra il presidente Mazza e Dal Cin indebolirono la squadra. Dal Cin aveva un’ottima visione del calcio italiano e progetti per costruire una buona squadra. Quando fu costretto a lasciare il club eravamo tra i primi in classifica ma poi fummo abbandonati a noi stessi, includendo anche problemi di arbitraggio“.

Dopo l’esperienza italiana Zico non può che tornare al suo primo amore: il Flamengo. Il progetto non ha ambiguità, ha una direzione di marcia precisa e punta verso il Messico dove si disputa il mondiale del 1986, l’ultima occasione del Galinhio per passare alla storia con la nazionale. Agosto 1985: il cammino è reso arduo da un infortunio patito in campionato. Un entrata assassina del difensore dl bangu Marcio gli procura una forte contusione al ginocchio sinistro che lo costringe a stare fuori a lungo e subire un intervento chirurgico. Ma Zico non molla e riesce a rientrare in febbraio per la fase finale del Campionato carioca, quello dello stato di Rio. Ma il rientro trionfale è una gioia effimera, il ginocchio fa ancora male e Zico si ferma di nuovo. Torna nella selecao ad Aprile contro la Jugoslavia. Il Brasile vince 4-2 e Zico fa tre gol, un rigore e due pezzi da antologia.

La sua classe appare irrinunciabile per la nazionale giallooro. Ma i guai al ginocchio non sono passati, c’è bisogno di una nuova operazione che vorrebbe dire saltare il mondiale. Zico è convinto a rimandare, a stringere i denti per sbarcare in Messico con la Selecao del ct Tele Santana. Il tecnico però non lo schiera mai titolare limitando il suo utilizzo a scampoli di partita. Nella sfida dei quarti contro la forte Francia di Platini le squadre sono ferme sull’1-1 quando alla mezz’ora del secondo tempo esce Muller ed entra Zico. In campo da poco più di un minuto tocca il suo primo pallone e pesca in area Branco che viene steso dal portiere francese Bats: rigore.

Il tripudio del popolo carioca viene messo a tacere quando proprio il galinho fallisce clamorosamente l’occasione facendosi respingere il tiro. In campo Zico non si abbatte e trascina l’attacco brasiliano su tutte le azioni più pericolose in una gara ricca di emozioni. Ma il risultato resta in parità e si va ai rigori dove questa volta il Galinho non fallisce. Il suo coraggio e la personalità non bastano. Nella sfida che sarà ricordata anche per gli errori di Socrates, Platini e Julio Cesar, sono i bleus a prevalere. Per Artur il terzo titolo sfumato racconta con precisione qual’è il limite della sua carrierea: non avere mai giocato una finale mondiale pur avendo fatto parte di una generazione di campioni senza eguali.

Dopo l’amare estate del 1986 Zico deve saldare anche i conti in sospeso con il suo ginocchio. Si opera due volte senza mai pensare neppure per un attimo di mollare. Un anno esatto dopo la partita con la Francia lo spettacolo può ricominciare. Nella fase conclusiva del campionato brasiliano Zico torna e segna contro l’Atletico Mineiro e nella finale contro l’Internacional va su tutti i palloni con la sua classe intatta e il coraggio di un ragazzino. Il Flamengo è in vantaggio per 1-0 e quando Zico deve uscire prima della fine, l’intero Maracanà acclama il suo nome. Alla fine i rossoneri trionfano e la folla richiama il campione dallo spogliatoio per il giro d’onore.

Il 27 marzo 1989 Zico torna ad Udine per giocare una gara tra il Brasile e il resto del Mondo: è il suo addio alla Selecao. I guai giudiziari sono stati archiviati e Zico è risultato estraneo ai fatti, per lui questo ritorno è anche un riscatto umano. La città risponde con entusiasmo e lo accompagna dall’arrivo in aereporto fino alla partita disputata in un Friuli in festa che torna a gustarsi le giocate di un campione ormai considerato un amico di vecchia data.

Il 6 febbraio del 1990 Zico, con la maglia del Flamengo, dà l’addio anche allo stadio che lo cullato per tutta la vita, il Maracanà, dopo 730 presenze e 508 gol in campionato. Ma il desiderio di Zico è di non stare troppo lontano dai campi. Così all’inizio degli anni 90 solo chi non lo conosce bene si stupisce nel vederlo giocare nel campionato giapponese ocn la formazione dei Kashima Antlers. E sono ancora 88 partite assolutamente importanti perchè gli permettono di far crescere il calcio giapponese con l’esempio di una classe inimitabile che lo porta ad inventare un pezzo assolutamente originale come il «gol dello scorpione», quello che lui stesso definirà il più bel gol della sua vita: proiettatosi con eccessivo slancio su un cross, supera il pallone , ma recupera con una capriola all’indietro, spedendo faccia a terra in rete al volo il pallone di tacco.

Nel 1994 Zico chiude anche in Giappone la sua carriera di giocatore ponendo la sua pluridecennale esperienza al servizio di nuove cause, che siano la nascita di una scuola calcio o l’incarico di commissario tecnico della nazionale giapponese; pur di affermare il suo amore per il calcio il brasiliano si è trasformato nell’uomo dei tre continenti: Sudamerica, Europa e Asia.

Quasi a dire che Arthur Antunes Coimbra è un nome riconoscibile nella sua origine ma Zico è ormai diventato un vocabolo di un lingaggio universale, quello dello sport.

domenica 2 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 2 marzo.

Il 2 marzo 1818 l'esploratore Giovanni Maria Belzoni riesce ad entrare nella piramide di Chefren.

La piramide di Chefren si trova in quel magnifico complesso situato nella piana di Giza, a circa 20 Km da Il Cairo, in Egitto: la necropoli di Giza. Dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1979, questo complesso eretto da abili costruttori egizi, è situato sulla riva occidentale del fiume Nilo. La necropoli comprende anche la piramide di Cheope e di Micerino, che formano con quella di Chefren il famoso allineamento delle tre piramidi, che suscitano l’impressione di voler sfidare l’eternità.

Circondate da altre minori piramidi secondarie e templi funerari, è anche il luogo dove sorge la Grande Sfinge. L’imponenza di tutto il complesso è aumentata dal fatto che è stato eretto su un pianoro roccioso sopraelevato.

La piramide di Chefren fu fatta erigere come monumento sepolcrale dal faraone della IV dinastia egizia, Chefren appunto, in carica nell’Antico Regno ed incoronato nel 2560 a.C. circa. E’ la piramide posta nel mezzo fra quella di Cheope (la più grande) e Micerino. Denominata Wr Kafre, ovvero “Grande è Kafre”, è di base quadrata, con un lato di 215,25 metri ed appare più grande di quella di Cheope, anche se non lo è, poiché è stata eretta su un terreno più elevato.

La sua particolarità, rispetto alle sue altre due compagne, è quella di essere l’unica ad aver conservato sulla sommità la copertura di calcare bianco di Tura, località egiziana nota per le sue cave, che in origine ricopriva tutta la piramide. L’accurata levigatura del materiale le conferiva l’aspetto di un gigantesco e lucente solido geometrico. La base è rivestita di granito rosso e grigio di Assuan. L’altezza totale originaria della piramide era di 143,5 metri, oggi ridotti a 136,4 metri a causa dell’erosione e dei crolli avvenuti durante i secoli.

Per 4500 anni, vi fu la convinzione che la piramide di Chefren fosse priva sia dell’ingresso che della camera mortuaria, a seguito di inutili tentativi di accedervi; che fosse quindi un imponente e massiccio monumento impenetrabile. Nel gennaio del 1818, Giovanni Battista Belzoni, esploratore ed avventuriero padovano appassionato di viaggi, non rinunciò alla sua teoria dell’esistenza di una camera sepolcrale e così, con tenacia, studiò, confrontò le piramidi e ne esaminò le pareti.

Su quella settentrionale notò qualcosa che riteneva essere molto interessante: vi era accumulato un ammasso di materiali caduti ed i detriti non parevano essere compatti come in altre parti. All’inizio di febbraio si cominciarono i lavori di scavo, ma i detriti risultarono essere molto più compatti di quanto l’intuito gli aveva inizialmente suggerito.

Dopo numerosi giorni di duro lavoro, venne scoperto un cunicolo, probabilmente opera di ladri, nei pressi di una fessura tra due pietre sulla facciata nord, ma il pericolo di crolli costrinse Belzoni a chiudere il cantiere temporaneamente. Ripresi i lavori, per tutto il mese di febbraio continuarono gli scavi e le supposizioni. Verso la fine del mese, fu portato alla luce un masso inclinato con una pendenza uguale a quella del corridoio dell’altra piramide e successivamente tre pietre in posizioni diverse dalle altre, con inclinazione corrispondente.

Entusiasmo e gioia divamparono quando l’ingresso fu scoperto, il 2 marzo 1818. Grazie alla caparbietà di Belzoni e alla sua capacità di non arrendersi, in un mese era riuscito in un’impresa risultata soltanto utopia per molti esploratori venuti nei secoli prima di lui. All’interno della piramide di Chefren Belzoni appose, servendosi del nerofumo, la scritta: “Scoperta da G. Belzoni. 2. mar. 1818“.

Numerose sono le opere d’arte egizie riportate alla luce grazie alla precisione ed al metodo di Belzoni: ad Abu Simbel riuscì ad entrare nel tempio; eseguì scavi nella valle dei Re, a Luxor, dove scoprì numerose tombe, tra cui quella del faraone Seti I; scoprì monumenti e statue di grande valore; prelevò un obelisco che in seguito si rivelò fondamentale per la decifrazione della scrittura geroglifica.

Belzoni ha il merito di essere riuscito a rievocare il prestigio e la magia di una della più misteriose ed affascinanti civiltà di tutti i tempi, quella egizia.


sabato 1 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il primo marzo.

Era il III secolo a.C., precisamente il il primo marzo 222, quando presso Clastidium (Casteggio nell’Oltrepò Pavese, nda) l’esercito di Roma, guidato dal Console Marco Claudio Marcello, chiudeva definitivamente la partita con i Galli Insubri ed i Geti, portando a compimento la conquista della penisola italica; tanti piccoli villaggi di capanne che punteggiavano i colli nei pressi del Tevere in poco più di cinquecento anni ponevano il proprio controllo politico e militare su un territorio di oltre 100.000 km2, Roma diveniva per la prima volta nella storia punto di riferimento formale per l’intera penisola, inaugurando, forse inconsapevolmente, la sua bimillenaria storia di capitale.

Le legioni che sconfisse Viridomaro, re dei Gesati e guida delle tribù galliche con capitale Maediolanum consentì ai romani di raggiungere l’alta valle del Po, annettendo di fatto l’ampia pianura tra le odierne regioni storiche di Emilia e Lombardia.

L’esercito romano di questa lontanissima epoca storica era strutturato secondo il modello manipolare tramandatoci in modo dettagliato da Polibio: i legionari erano reclutati annualmente sul Campidoglio tra tutti i cives sottoposti agli obblighi di leva, in particolare ogni cittadino tra i 18 ed i 46 anni, con un reddito non inferiore alle 400 dracme, aveva l’obbligo di compiere da un minimo di 10 campagne militari annue, per i coscritti in cavalleria, ad un massimo di 16 campagne militari l’anno, per gli individui inquadrati nella fanteria. Il reclutamento avveniva attraverso un complesso procedimento che combinava elezioni e selezione dai più giovani ad i più anziani per giungere, a conclusione del complicatissimo meccanismo formale, ad avere la Legione quale unità tattica costituita, in base a regole anagrafiche e di censo, in quattro gruppi denominati velites, hastati, princeps e triarii, con un totale di 4200 uomini a cui andavano aggiunti 10 squadroni di cavalieri (turmae) per un totale di 300 unità a montate. Tale forza di manovra veniva sempre più spesso accompagnata da auxilia numericamente equivalenti, ma con compiti complementari a quelli della legione romana e mai come rincalzo o rinforzo.

Tornando a Clastidium, la massa legionaria romana, quando furono maturi i tempi, guidata dal console Marco Claudio Marcello mosse verso la città fortificata di Acerrae, nell’area attualmente compresa tra Cremona e Lodi, casus belli fu la pericolosa offensiva condotta tre anni prima dai Galli Insubri presso Talamone, evento che necessitava di essere vendicato in nome dell’integrità di un’Urbe che si faceva sempre più ampia secondo il principio per cui l’integrità del proprio nucleo centrale, situato sulle rive del Tevere, dovesse essere salvaguardato attraverso azioni espansionistiche.

Al fine di alleggerire la pressione su Acerrae gli insubri, supportati da forze mercenarie di Geti provenienti dal Rodano, puntarono su Clastidium, città nelle mani dei Marici, popolazione Ligure alleata dei romani. Venuti a conoscenza dell’azione diversiva ideata dai galli e dai propri alleati i romani non caddero nella trappola e inviarono contro i celti unità di cavalleria che attraverso azioni rapide di avvolgimento spinsero i nemici verso un corso d’acqua, probabilmente il Coppa, ove molti di questi trovarono la morte, tra essi cadde anche il re Viridomaro e per Roma fu spianata la via in direzione di Milano.

Al Console Marcello fu conferito l’onore del trionfo per la schiacciante vittoria che realizzerà le premesse alla successiva unificazione del territorio italico sotto il segno di Roma.

La cittadinanza a tutti gli abitanti della penisola verrà formalmente concessa solo con la Lex Roscia del 49 a.C., estensione della più nota Lex Papiria dell’89 a.C., tuttavia Clastidium porrà politicamente le premesse logiche per le predette definizioni normative, probabilmente realizzate ancora prima del 49 se solo i celti, nel 218 a.C., non avessero sostenuto la campagna italica di Annibale in nome di una effimera riscossa che si infrangerà contro le legioni redivive di Capua, riunitesi a Zama per lo scontro decisivo, ma questa è un’altra storia.

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