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domenica 31 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 marzo.
Il 31 marzo 1917 gli Stati Uniti, a fronte di un pagamento di 25 milioni di dollari, acquistano le Isole Vergini Americane dalla Danimarca.
La Danimarca ne prese il possesso il 25 marzo del 1718, quando il Governatore delle Indie Occidentali Danesi e della Guinea Company – colonia di St.Thomas – Eric Bradel, accompagnato da cinque soldati, venti agricoltori e sedici schiavi, approdò a Coral Bay, sull'isola di St. John, a nome della Corona Danese. Gli Inglesi, benché si considerassero in quel momento i legittimi proprietari dell’isola, non intrapresero alcuna azione di protesta o di ritorsione contro questa iniziativa del governo danese.
La spedizione del governatore fu solo la sanzione ufficiale di un processo che era già iniziato da tempo: attirati dalla prospettiva degli ottimi introiti ottenibili con la coltivazione della canna da zucchero, privati Danesi si erano stabiliti sull’isola sin dal 1694. Ma la storia di St. John era iniziata già molti secoli prima
Geograficamente le Vergini sono un punto di demarcazione tra le Grandi Antille ad ovest e le piccole Antille ad est e a sud. Le oltre 100 isole, isolotti, atolli e rocce che costituiscono l’arcipelago delle Vergini si dividono in tre gruppi: le Vergini Spagnole – direttamente ad est del territorio USA di Puerto Rico a cui appartengono -, le Isole Vergini Americane – ad est di quelle spagnole – ed infine le Isole Vergini Britanniche che si trovano a nord ed a nord-est delle Vergini USA.
Molto tempo prima dell’arrivo dei Danesi, prima ancora dello sbarco di Colombo che aveva scoperto e dato il nome alle isole, popolazioni provenienti dal Sud America erano sbarcate a St. John tra il 2000 e il 1000 A.C. insediandosi sull’isola stabilmente. Si trattava degli Ortoroid, il primo gruppo etnico di cui oggi si abbiano tracce storiche. Non si sa bene quale sia stato il loro destino, ma, ad un certo punto, la loro cultura si estinse senza che ancora oggi se ne conosca il motivo.
A loro succedettero i Cedrosan Saladoid che dall’America Latina raggiunsero le Vergini intorno al 200 A.C.. Conoscevano la tecnica di lavorazione della ceramica e praticavano l’agricoltura. Crearono dunque degli insediamenti agrari durevoli nel tempo, che diedero loro la possibilità di spingersi oltre la pura economia di sussistenza, come dimostrerebbe la ricercatezza degli artefatti rinvenuti, ricchi di figure ornamentali rappresentanti soggetti legati alla religione, alla casa ed a storie personali.
Tra il 600 e il 1200 D.C. giunse sull’isola una nuova popolazione: gli Osionoid, che cominciarono a sviluppare una cultura ed uno stile dì vita apertamente Caraibico.
Il loro declino ebbe inizio con lo sbarco di Colombo alle Vergini e le successive conquiste coloniali delle potenze Europee. In pochi anni gli indigeni scomparvero quasi del tutto. Si sa tuttavia poco delle diverse dominazioni succedutesi a St. John tra l’arrivo di Colombo e la conquista danese
La prima dominazione europea – quella spagnola – ebbe la sola intenzione di raccogliere le risorse naturali dell’isola e di procurarsi schiavi per le miniere di altre regioni del Nuovo Mondo, senza alcun interesse iniziale per lo sfruttamento agricolo. Non ebbe, perciò, rilevanti ripercussioni permanenti sull’impianto abitativo dell’isola.
Tra il 1508 ed il 1520, quando le risorse di Hispaniola cominciarono a scarseggiare, gli Spagnoli si avventurarono alla conquista di altre isole: Puerto Rico, Cuba e la Giamaica. Fu proprio allora che cominciarono attivamente ad intaccare le risorse umane e naturali delle isole più piccole, come quelle dell’Arcipelago delle Vergini. Sappiamo che verso il 1520 le Isole del nord, le Leewards, con eccezione di St.Kitts e Nevis, così come le isole Windwards, St. Lucia, Tobago e Barbados, furono completamente spopolate. A simile destino andarono incontro le isole lungo la costa Venezuelana, con l’eccezione di quelle dove si era sviluppata un’importante attività di raccolta di perle grazie allo sfruttamento di schiavi nativi. Con la conquista del Messico da parte di Cortez e la circumnavigazione di Capo Horn da parte di Magellano, la Spagna spostò progressivamente la sua attenzione verso aree geografiche più produttive. Nei Caraibi venne mantenuto forte il controllo sulle grandi isole, approdi strategici fondamentali per il rifornimento delle navi Spagnole che nel 17simo secolo solcavano le acque tra il continente Americano ed i maggiori porti iberici. Sulle isole più piccole la presa della corona spagnola si fece invece più lenta, aprendo in questo modo progressivamente la strada ad altre potenze Europee
Inglesi, Francesi, Olandesi, Portoghesi, Spagnoli espatriati, nonché BLACK CARIB, discendenti di razza mista dei sopravvissuti nativi, si alternarono nel controllo a titolo più o meno personale delle piccole isole caraibiche sfruttandone le risorse commerciali ed agricole. Gli Olandesi conquistarono facilmente Aruba nel 1596; seguirono gli Inglesi ed i Francesi che occuparono St. Christopher nel 1620. A metà del 17esimo secolo, quasi tutte le isole orientali dei Caraibi lasciate vacanti dagli Spagnoli furono occupate da altre nazioni Europee.
Le Vergini passarono sotto il labile controllo di molte potenze finché nel 1665 arrivarono i Danesi, guidati da un gruppo di Copenaghen – per lo più mercanti olandesi – che si apprestava alla colonizzazione di St. Thomas per conto della Corona e della bandiera Danese. Eric Nielsen Smit era il comandante della spedizione. All’arrivo dei Danesi l’isola di St. Thomas era scarsamente popolata, nonostante alcune presenze di altri Olandesi e Caribe. La storia di St. John non fu molto diversa. Frequentata sporadicamente per più di 150 anni dagli Spagnoli per l’approvvigionamento d’acqua e per la cattura di Amerindi da rendere in schiavitù, per la pesca, il sale, la selvaggina, le piante medicinali e la legna, sulle sue coste approdarono anche, a turno, Francesi, Olandesi ed Inglesi per esplorarne il territorio e farne una base d’appoggio per spedizioni sulle altre isole vicine: una “no-mens-land”, utilizzata da tutti ma mai occupata stabilmente da nessuno.
Così fu fino all’arrivo della bandiera Danese a Coral Bay nel 1718, con la creazione della proprietà terriera ESTATE CAROLINA. Da quel momento l’espansione delle attività commerciali fu rapida e nel 1733 St John poteva già contare 109 piantagioni di canna da zucchero e di cotone. Ancora oggi, gli antichi nomi delle piantagioni di St. John, quali  Carolina, Enighed ed Adrian, sono usati per identificare le diverse zone dell’isola.
Con lo sviluppo delle coltivazioni crebbe anche il fabbisogno della manodopera e la richiesta di schiavi, che furono forzatamente importati dall’Africa. L’emancipazione degli schiavi – nel 1848 – avvenne in concomitanza con il declino dell’economia delle piantagioni e la conseguente decadenza dello splendido sfarzo coloniale dell’isola. La popolazione diminuì sensibilmente mentre, nel giro di pochi anni, la produzione di rum divenne l’industria primaria dell’isola.
Gli Stati Uniti acquistarono le Vergini nel 1917, ed a partire dagli anni ‘30 l’industria del turismo cominciò ad acquisire un’importanza fondamentale per l’economia delle isole. Nel 1956 il magnate e miliardario Rockfeller, già proprietario di una grande parte della superficie di St. John, chiese al Governo Federale di trasformare l’isola in Parco Nazionale.
Oggi il turismo è l'attività economica principale. Le isole normalmente ospitano 2 milioni di visitatori l'anno, la maggior parte dei quali proveniente dalle navi da crociera.
Il settore manifatturiero consiste principalmente nella distillazione artigianale del rum. L'agricoltura è poco sviluppata e la maggior parte del cibo viene importato. Gli affari internazionali e i servizi finanziari sono una piccola ma crescente parte dell'economia. Gran parte dell'energia è generata grazie al petrolio importato dell'estero, cosa che rende il costo dell'energia quattro o cinque volte più alto che nel resto degli Stati Uniti. L'energia viene utilizzata anche per la desalinizzazione dell'acqua.

sabato 30 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 marzo.
Il 30 marzo 1844 nasce il poeta Paul Verlaine.
Paul Marie Verlaine nasce a Metz nella regione della Lorena francese, il giorno 30 marzo 1844, in una famiglia appartenente al ceto piccolo borghese, in cui il capofamiglia, il padre, è capitano dell'esercito francese. La madre aveva avuto precedenti aborti e conserva a lungo, sopra il camino di casa, i vasi con i feti.
All'età di sei anni, il piccolo Paul Verlaine si trasferisce con la famiglia a Parigi dove inizia a frequentare il collegio Institution Landry; i voti a scuola non appaiono eccellenti ma già in questi anni comincia ad appassionarsi alla letteratura. Dopo aver conseguito il baccalaureato in lettere, nel 1862 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza; presto tuttavia abbandona l'ambiente accademico, per cercare un impiego, che trova presso il comune.
Intanto frequenta i caffè e i salotti letterari di Parigi; nel 1866 collabora al primo "Parnasse contemporain" e pubblica i "Poèmes saturniens", opera in cui è possibile apprezzare l'influenza di Charles Baudelaire. Nel 1870 si unisce in matrimonio con Mathilde Mauté, per la quale pubblica "La Bonne Chanson". Nel 1871, anno in cui nasce il figlio Georges Verlaine, Paul partecipa alla breve esperienza insurrezionale della Comune di Parigi, perdendo di conseguenza il suo impiego pubblico.
In questi anni è legato al gruppo che si è costituito attorno al giovane poeta Louis-Xavier de Ricard, incontrato nel 1863, e che allora animava la "Revue du Progrès moral, littéraire, scientifique et artistique", rivista letteraria, filosofica e politica in cui Verlaine pubblica la sua prima poesia proprio nel mese di agosto del 1863.
Tra le sue frequentazioni culturali ci sono Edmond Lepelletier, José-Maria de Heredia, Catulle Mendès, Villiers de l'Isle-Adam, François Coppée e Anatole France.
Il violinista e poeta dilettante Ernest Boutier, mette in contatto Verlaine con Alphonse Lemerre, piccolo libraio specializzato nelle opere religiose, il quale accetta di pubblicare - a spese degli autori - le opere del gruppo dei giovani poeti: questa collezione esce nel 1865 firmata da Louis-Xavier de Ricard e porta il titolo di "Ciel, Rue et Foyer".
Il gruppo lancia lo stesso anno una nuova rivista di taglio letterario dal titolo "L'Art". Sulle pagine di questa pubblicazione settimanale vengono difese le teorie artistiche diametralmente opposte a quelle promosse dalla "Revue de Progrès". Paul Verlaine in questa rivista pubblica due poesie, ma soprattutto un importante studio su Charles Baudelaire.
Dopo la scomparsa de "L'Art", Catulle Mendès spinge per lanciare - è il mese di marzo del 1866 - una nouvelle revue: "Le Parnasse contemporain". I poeti che scrivono per questa rivista condividono lo stesso rifiuto per la poesia sentimentale del periodo romantico.
Nella vita di Verlaine compare il diciassettenne Arthur Rimbaud, da lui chiamato dopo che il giovane ragazzo gli aveva inviato qualche lirica. Rimbaud e Verlaine iniziano una relazione molto intima che li porta a vagabondare. Verlaine decide così di lasciare la moglie e il figlio Georges, per seguire Rimbaud in Inghilterra e in Belgio. Durante questi viaggi Verlaine scrive "Romances sans paroles".
La tumultuosa relazione termina dolorosamente nel 1873, quando i due si trovano a Londra. Verlaine all'improvviso abbandona Rimbaud perché vuole tornare dalla moglie: Verlaine qualora lei non lo riaccettasse in casa, è deciso a spararsi. Trasloca dapprima in un albergo a Bruxelles, dove Rimbaud lo raggiunge. Nel momento in cui Rimbaud lo vuole lasciare, Verlaine, in quel momento ubriaco, esplode due colpi di pistola ferendolo ad una mano solo leggermente. Per quest'azione Verlaine viene rinchiuso in carcere a Mons. Rimbaud raggiunge invece la fattoria di famiglia a Roche, nelle Ardenne, luogo in cui scrive "Una stagione all'inferno".
Verlaine sconta due anni di prigione tra Mons e Bruxelles. E' ancora in galera quando lo raggiunge la notizia che la moglie ha chiesto e ottenuto la separazione. Verlaine trova conforto convertendosi al cattolicesimo: questo momento della sua vita trova realizzazione nella raccolta di poesia "Sagesse" (Saggezza).
Torna successivamente in Inghilterra per ricominciare una nuova vita; si trasferisce infine a Rethel, nelle Ardenne francesi, dove lavora come professore.
Intanto si lega sentimentalmente a Lucien Létinois, un giovane contadino con cui inizia un'altra relazione, tanto appassionata che decide di adottarlo come figlio. Durante il servizio militare, nel 1883, Lucien muore e il poeta si trova ad affrontare un nuovo grande momento di sconforto: piange la sue morte nella raccolta di poesia "Amour" (pubblicata nel 1888).
Nel 1884 pubblica un saggio su tre "poeti maledetti": Stéphane Mallarmé, Tristan Corbière, Arthur Rimbaud.
Nel 1885 divorzia dalla moglie: sempre di più schiavo dell'alcol tenta di strangolare la madre. Viene arrestato e condotto nuovamente in carcere. Mentre la fama comincia a crescere, nel 1887 cade in miseria. Le produzioni letterarie dei suoi ultimi anni hanno il solo scopo di procurargli lo stretto necessario per sopravvivere. In questo contesto nascono le sue poesie fortemente erotiche di "Hombres" (a tematiche omosessuali) e "Femmes" (a tematiche eterosessuali).
Nel 1894 viene incoronato "principe dei poeti" e gli viene elargita una pensione. Paul Verlaine muore a Parigi il giorno 8 gennaio 1896, a soli 52 anni, consumato dall'alcol e dal dolore.
All'indomani del suo funerale diversi quotidiani riportano un fatto curioso: la notte seguente delle esequie, la statua della Poesia, in cima all'Opéra, perde un braccio che, con la lira che sosteneva, va a schiantarsi nel luogo dove il carro funebre di Verlaine era da poco passato.
Riposa nel Cimitero dei Batignolles, a Parigi.

venerdì 29 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 marzo.
Il 29 marzo 1516 a Venezia viene deliberata la creazione del ghetto, il primo in tutta Europa, ove gli ebrei sarebbero stati costretti a risiedere.
La parola ghetto, così diffusa in tutte le lingue, trae origine proprio da qui, dalla parola veneziana “geto”. Anticamente, nel primo medioevo, si trovava infatti in questa parte della città un’antica fonderia (un “geto” in veneziano) che serviva a forgiare le bombarde, i piccoli cannoni delle navi veneziane. Quando, per motivi politici, nel 1516 la Repubblica della Serenissima stabilì per legge che tutti gli ebrei dovessero vivere e risiedere qui, la popolazione proveniva per lo più dall’Europa Centrorientale e fu proprio a causa della loro pronuncia che il termine veneziano “geto”, venne storpiato in “gheto” (letto alla tedesca), originando il termine che oggi usiamo in tutto il mondo.
La presenza ebraica a Venezia è attestata già prima dell’anno mille, anche se bisognerà aspettare il tardo Trecento per poter apprezzare un insediamento consistente e stabile. A poco a poco, nonostante l’alternarsi di permessi e divieti di soggiorno in città, gli ebrei divennero a Venezia un nucleo considerevole e avvertendo la necessità di organizzarne la presenza, il governo della Repubblica, con decreto del 29 marzo 1516, stabilì obblighi e restrizioni per tutta la popolazione ebraica. Si decise così, che tutti, dovessero vivere in una sola zona della città, senza poter uscirne né di notte né durante le festività cristiane.
La zona del ghetto già a quel tempo si presentava come al giorno d’oggi: una piccola isola, circondata da canali, i cui accessi avvengono solo tramite due ponti. In corrispondenza di questi, un tempo, c’erano dei robusti cancelli, che venivano chiusi e sorvegliati di notte, poiché agli abitanti era permesso uscire dal quartiere solo di giorno e con appositi segni distintivi. Se fate attenzione, ancora oggi, si possono vedere i fori dove affondavano i cardini dei cancelli.
L’area del ghetto ebraico è distinta in 3 parti: il gheto vechio, il gheto novo e il gheto novissimo e per quanto possa sembrarci strano il gheto novo è paradossalmente la zona ebraica più antica di Venezia. L’aggettivo vecchio o nuovo non c’entra nulla infatti come anticipato con il periodo storico della zona ma è semplicemente collegato all’età della fonderia (del geto) che vi era ubicata.
Al tempo del decreto, fu infatti, proprio la zona del ghetto nuovo ad essere utilizzata come prima dimora per la popolazione ebraica. Poco tempo dopo, tuttavia, non fu più sufficiente a ospitare tutti e le autorità veneziane si trovarono costrette ad ampliare il ghetto nuovo. Nel 1541 venne aggiunto il ghetto vecchio, concesso ai cosiddetti ebrei Levantini, giunti dalla penisola Iberica e dall’impero Ottomano e nel 1633 venne aperto il ghetto nuovissimo, una piccola area a est del ghetto nuovo, al di là del canale.
Nel campo del gheto novo, incastonato tra le due più antiche sinagoghe veneziane, si trova anche il Museo Ebraico: un piccolo, ma ricchissimo museo fondato nel 1954 dalla Comunità Ebraica veneziana. Il museo visitabile al costo di 8€ è suddiviso in due aree tematiche: la prima dedicata al ciclo delle festività ebraiche ed alla liturgia, contiene libri e manoscritti antichi, manifattura orafa e tessile databile tra il XVI e il XIX secolo e oggetti propri della vita religiosa della comunità; la seconda, racconta la storia del ghetto ebraico e della persecuzione degli ebrei, dalle origini ai campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale, attraverso immagini e oggetti. Aggiungendo pochi euro al prezzo del biglietto è anche possibile visitare con guida alcune delle sinagoghe del ghetto.
Oggi il termine usuraio assume la connotazione negativa che tutti conosciamo, ma un tempo non era così. Nel Medioevo il termine “usura” indicava qualsiasi interesse preteso per prestiti in denaro o in natura.
A Venezia tale attività fu inizialmente svolta dai Cristiani nei Monti di Pietà, quest’ultimi però vennero ben presto considerati contrari ai dettami della religione cristiana e quindi chiusi. La chiusura dei Monti di Pietà rappresentava un importante problema nella città lagunare, in quanto erano numerose le persone che vi facevano uso, per cui tale lavoro venne imposto per legge alla comunità ebraica.
All’interno del ghetto vennero quindi istituiti tre Banchi di Pegno: il Rosso, Verde e Nero, presumibilmente per via del colore delle ricevute che venivano consegnate ai clienti.
Questi tre banchi sopravvissero fino alla fine della Repubblica (1797), poi se ne perse il ricordo. Fortunatamente, oggi è possibile visitare di nuovo uno di questi banchi, il Banco Rosso, che recentemente è stato restaurato e aperto ai visitatori.
Una curiosità: a Venezia, si dice che il termine bancario “andare in rosso”, derivi proprio da questo antico Banco di Pegni veneziano!
Non ci si può accostare all’anima del quartiere ebraico se non partendo dalle sue sinagoghe.
All’ interno del Gheto Novo si possono vedere tre delle cinque sinagoghe del ghetto. La più antica è la sinagoga (o Schola) Tedesca, quella degli ebrei ashkenaziti, che si trova nello stesso edificio del museo ebraico. All’angolo della piazza si trova invece la sinagoga Canton (dell’angolo appunto) e lì vicina la Schola Italiana. Spostandosi nel ghetto vecchio ci sono le due sinagoghe più recenti: quella spagnola e la sinagoga o Schola levantina.
Le sinagoghe del ghetto sono difficilmente riconoscibili dall’esterno, essendo ricavate all’ interno di palazzi preesistenti e si trovano tutte all’ ultimo piano, giacché per religione non può esserci nulla di terreno al di sopra della sinagoga.
La sinagoga è considerata qualcosa di più complesso di un luogo di preghiera. Sono luoghi di aggregazione dove vengono prese le decisioni più importanti per la comunità, si celebrano i passi più importanti per la persona e ci si ritrova per leggere e commentare pezzi del libro sacro, la Torah. Perché le “riunioni” possano avere luogo, è necessario che ci siano almeno 10 uomini presenti. Tutti i presenti possono inoltre leggere pezzi della Bibbia, ma solo il rabbino può commentarli. Le donne che desiderano prender parte a questi incontri possono assistere da una zona separata rispetto agli uomini, in un matroneo sopraelevato o separate da apposite grate.
Se volete calarvi ancor più nello spirito del quartiere e l’ora è quella giusta per una sosta, potreste assaggiare delle specialità tipiche ebraiche presso il ristorante “Gam Gam Kosher”, oppure, per uno spuntino veloce, al “panificio Giovanni Volpe” potrete trovare pane fresco e dolci tipici della tradizione ebraica.
Come segno di rispetto quando si visitano le sinagoghe, è necessario coprirsi il capo con la Kippah, un piccolo cappellino solitamente di stoffa che si trova vicino all’entrata. La popolazione ebraica usa coprirsi la testa non solo nelle sinagoghe, ma anche nella vita quotidiana. Si indossa al mattino con la preghiera del mattino e si toglie  a fine giornata con la preghiera della sera. Ma per quale motivo è tradizione indossare la Kippah? Ecco le parole del rabbino Chabad Abraham Shemtov in risposta al presidente degli Stati Uniti R. Reagan che nel 1984 fece la stessa domanda:
“Signor Presidente, la Kippah per noi è un segno di riverenza. Abbiamo posto la Kippah sul punto più alto del nostro essere – sulla nostra testa, il vascello del nostro intelletto – per ricordare a noi stessi e al mondo che esiste qualcosa che è al di sopra dell’intelletto umano – la sapienza infinita di Dio.”
Nel ghetto, pare che un tempo, ci fosse una certa rivalità tra ebrei di origini diverse. I levantini, ad esempio, gli ultimi arrivati nel ghetto, hanno ricevuto la residenza molto tempo dopo esservi stabiliti. Pare infatti, che gli ebrei “originari”, essendo già il ghetto molto affollato, fecero di tutto, anche con persistenti lettere al doge, per impedire che i levantini ottenessero il permesso di residenza.
LA TORAH che viene letta in sinagoga è scritta rigorosamente a mano, con un inchiostro naturale e con penne speciali che si tramandano da secoli. Chi compie il lavoro di trascrizione, ha un compito sacro e non può sbagliare. Per poter seguire più agevolmente la lettura della Torah in sinagoga, si utilizzano dei bastoncini di argento che segnano il punto a cui si è arrivati con la lettura.

giovedì 28 marzo 2024

Musica rom alla Scala

 Due musicisti Rom di fama internazionale in concerto al Teatro Alla Scala di Milano il 10 aprile.

 

 Sono padre e figlio e sono di Lanciano: Santino Spinelli in arte Alexian e Gennaro Spinelli.
 Ben conosciuti a livello internazionale, suonano nei più importanti teatri europei riscuotendo grandi consensi di critica e di pubblico. Il loro curriculum artistico è lungo e prestigioso.


 Santino Spinelli è stato anche insignito del titolo di Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal Presidente Sergio Mattarella ed è Cittadino Onorario di Laterza (Taranto).
 Gennaro Spinelli è Ambasciatore dell’arte e della cultura romanì nel mondo, insignito dal Presidente dell’International Romani Union, organizzazione non governativa che rappresenta i Rom all’ONU, e presidente dell'Unione delle Comunità Romanès Italiane.
 Dopo essersi esibiti per Papa Benedetto XVI in occasione della Giornata Mondiale della Famiglia, più volte per Papa Francesco, aver tenuto concerti in luoghi istituzionali prestigiosi come il Palazzo del Consiglio D'Europa di Strasburgo, il Parlamento Europeo a Bruxelles e a Palazzo Chigi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e in tante altre occasioni, il 10 aprile esordiranno nel teatro lirico più prestigioso: il Teatro Alla Scala di Milano.
 Terranno un concerto di musica rom sia di ispirazione classica che composizioni originali con i solisti dell'Orchestra della Scala e i solisti dell'Orchestra Sinfonica Gioacchino Rossini di Pesaro. Un evento storico unico e straordinario. In tale occasione sarà presentato anche il nuovo CD Romanó Baśadipé, la magia della musica rom dell'Alexian Group.


 Al Teatro Alla Scala saranno presenti Ministri e Ambasciatori di diversi Paesi, tante personalità del mondo dello spettacolo, della cultura, delle istituzioni e diversi Sindaci. Sono partner e sponsor dell'evento: UNAR-Presidenza del Consiglio dei Ministri, Federazione Italiana delle Associazioni e Club e per l'UNESCO (Galatina), ANPI alla Scala (Milano), Orchestra Sinfonica Rossini, International Romani Union (IRU), Presencia Gitana (Spagna), EPEKA (Slovenia), Udruzenje Romskih Knjizevnika (Serbia), Compagnia Nuove Indye (CNI), Meeting  Etichette Indipendenti (MEI), Comune di Lanciano, Comune di Orsogna, Comune di Fossacesia, Novagro, Tecno-glass S.r.l. unipersonale (Ortona), Tenuta Ulisse,  Consorzio Nova (Trani)  Lions Club-I Marrucini (Chieti), Michele Jannamico s.p.a. (Lanciano), Comunità di Sant'Egidio, I Sentinelli, ARCI, Comitato Artistico Lancianese, SEF Consulting, Accademia dei Sensi.
 L'evento è straordinario: mai prima d'ora il repertorio musicale rom, pur assai importante nella storia  della musica europea e classica, è stata rappresentata da Rom nel teatro milanese. Auguriamo a Gennaro e Santino che sia propizio per diffondere ovunque un repertorio tanto prezioso anche nella forma sinfonica in tanti altri teatri lirici!

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 marzo.
Il 28 marzo 1997 una nave albanese si scontra nel canale di Otranto con la corvetta italiana Sibilla e affonda. 81 morti, di cui molti bambini.
Partiamo dalla fine. Sono ottantuno nomi. Uomini, donne e bambini che hanno perso la vita nel Canale d’Otranto. Era il 28 marzo 1997, un venerdì santo, ed erano a bordo della piccola motovedetta albanese Kater i Rades.
Trentuno di loro avevano meno di sedici anni. Tutti si erano ammassati su quella carretta per lasciarsi dietro una guerra civile. Tutti trascinavano speranze e progetti plasmati dall’abbagliante illusione di una vita nuova, sognata grazie alle onde trasmesse dalla piccola scatola al centro di ogni loro casa. Promesse di felicità naufragate a una trentina di miglia dalla costa italiana. Perse in un urto con un’altra imbarcazione, la Sibilla, corvetta della Marina militare italiana. Com’è successo? Com’è potuto accadere che un’imbarcazione impiegata in un’operazione di “contenimento” degli espatri clandestini sia stata la causa di una tale tragedia?
La risposta va cercata nel contesto italiano della politica dei respingimenti; la grammatica dell’epoca, quella “retorica dell’odio buono” praticata da forze politiche che ancora oggi ricorrono al mercato della paura in cerca d’un consenso viscerale e di bassa lega; l’esecuzione di una politica di forza che, non appena messa in campo, si trasforma subito in una strage; le regole d’ingaggio, ovvero le pratiche che gli uomini della Sibilla e delle altre navi presenti nel Canale d’Otranto devono eseguire (operazioni di dissuasione che chiamano harassment o anche, quasi con linguaggio futurista, “azioni cinematiche di disturbo”); la grammatica delle comunicazioni di quel pomeriggio che, dalle trascrizioni degli ordini di comando, parlano della nave albanese come di un “bersaglio”.
Si tratta di un momento importante per la nostra storia recente perché quel Venerdì Santo di morte costituisce un paradigma e uno spartiacque.
Di chi è la responsabilità? All'inizio furono messi sotto inchiesta i vertici della Marina, che avevano impartito le regole di ingaggio per ostacolare gli sbarchi dall'Albania. Poi la loro posizione è stata archiviata. E sul banco degli imputati è rimasto solo il capitano Laudadio, condannato a due anni di carcere mentre il reato di omicidio è stato dichiarato prescritto. L'ufficiale si è sempre difeso sostenendo di avere obbedito agli ordini, che prevedevano quelle manovre di dissuasione. Operazioni comunque ad alto rischio. La Sibilla è una nave da guerra lunga 87 metri, con un dislocamento di 1200 tonnellate: ogni virata solleva onde con effetti molto pericolosi nei confronti di barconi e gommoni. Eppure il governo non si fece scrupoli nel disporre queste attività. Ma nessuno dei politici di allora ha pagato per la decisione di mandare la flotta contro i migranti e l'unica responsabilità è ricaduta sull'ufficiale al timone. Uno scaricabarile che per oltre un decennio ha creato una frattura tra militari e autorità di governo.
La Suprema Corte ha condannato entrambi i comandati delle navi. Quello della Kater I Rades, Namik Xhaferi, salpato senza autorizzazione verso la Puglia, punito con 3 anni e mezzo di carcere. E quello della corvetta Sibilla, Fabrizio Laudadio, che aveva condotto le manovre per ostacolare l'approdo dello scafo.
La sentenza della Cassazione arriva mentre la Marina è impegnata in altre operazioni per fronteggiare l'esodo di migranti e profughi. Ma le regole d'ingaggio sono completamente diverse: non si dissuade, si soccorre. Quello che un Paese civile deve fare. E che la flotta concretizza usando le sue capacità tecniche, senza più mandare navi da guerra addosso agli scafi. 
Ma adesso, la politica degli sbarchi è cambiata ancora, e la gente ha ricominciato a morire in mare.

mercoledì 27 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 marzo.
Il 27 marzo 1933 viene scoperto il Polietilene.
Diciamo spesso che, ormai, il nostro mondo sembra davvero fatto di plastica: la vediamo ovunque, e sembra forse che legno e metallo siano spariti dai materiali utilizzati per creare gli oggetti che usiamo giornalmente. Ma forse non sappiamo che, ogni volta che diciamo la parola “plastica”, con buona verosimiglianza intendiamo dire “polietilene”, abbreviato PE: infatti è questo il materiale plastico con la massima diffusione e produzione mondiale, che raggiunge largamente gli ottanta milioni di tonnellate ogni anno! Con questo materiale si fabbricano oggetti d’ogni sorta e funzione: pellicole, come il film polietilene, contenitori come le bottiglie, e una grande varietà di comuni sacchetti di plastica: ne esistono in effetti svariati tipi, ma tutti hanno alla base la stessa struttura molecolare, ossia lunghissime catene di C2H4. E quel che più è curioso, quasi comico, è che questo materiale che usiamo così tanto… fu scoperto per errore, per ben due volte!
Era infatti il 1898, e un chimico tedesco, di nome Hans von Pechmann, era nel suo studio, intento a riscaldare del diazometano. Per caso, ottenne una strana sostanza bianca e di consistenza cerosa, che i suoi colleghi, Eugen Bamberger e Friedrich Tschimer, analizzarono scoprendola composta di lunghe catene di -CH2-, dandole il nome di Polimetilene.
Fu però solo trentacinque anni dopo che, in ambito industriale, fu commesso il secondo errore che fece riscoprire questo materiale e insieme diede origine al processo industriale per produrlo in maniera regolare. Questa volta avvenne in Inghilterra, alla ICI, dove altri due chimici, Eric Fawcett e Reginald Gibson, stavano sperimentando gli effetti di una pressione elevatissima su una mistura di benzaldeide e etilene, quando un’accidentale infiltrazione di ossigeno (che non fu subito identificata, e rese quindi difficile dapprima replicare il fenomeno) generò di nuovo la sostanza scoperta da Pechmann decenni prima.
Ci vollero due anni perché Michael Perrin, un altro chimico impiegato all’ICI, riuscisse a capire come poter riprodurre a piacimento la procedura, e altri quattro perché venisse formalmente avviata la produzione industriale del Polietilene. Ma le sue vicissitudini non erano ancora finite: durante la seconda guerra mondiale, ne vennero scoperte le caratteristiche schermanti dei segnali radio, e l’esercito inglese ne impose la segretezza, lo ritirò dal mercato, e lo impiegò per la schermatura e l’isolamento dei cavi dei radar. Successivamente, nel ’44, la produzione riprese, ora anche negli Stati Uniti, sempre con licenza ICI. Nondimeno, la grande scoperta che tutti cercavano, un modo per produrre il polietilene a temperature e pressioni meno proibitive, arrivò unicamente negli anni ’50, con l’utilizzo di nuovi catalizzatori, e lo sviluppo dei due metodi principali di fabbricazione, lo Ziegler, in Germania, con parametri ribassati e semplicemente raggiungibili, e il Phillips, più economico e semplice da governare.
Nonostante ne abbiamo elencato vantaggi e pregi, però, non si pensi che il polietilene non abbia anche dei difetti. Quello peggiore, e che genera maggiore apprensione, è il fatto che non sia biodegradabile, e che quindi il suo smaltimento sia un mero ammassamento nell’ambiente, che genera gravissimo inquinamento. Il Giappone, che vive il problema in maniera particolarmente intensa, ha valutato in 90 miliardi di dollari la dimensione del mercato per lo smaltimento delle plastiche, se venisse sviluppata una soluzione reale. Di recente, un giovane Canadese di sedici anni, di nome Daniel Burd, ha fatto una scoperta che lascia ben sperare: l’azione combinata di due batteri pare degradare la massa delle borse in polietilene di una percentuale superiore al 40%, in soli tre mesi.

martedì 26 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 marzo.
Il 26 marzo di ogni anno, in Canada e in altri 100 paesi, si celebra il Purple Day.
Il Purple Day è un evento mondiale che mira ad aumentare la presa di coscienza sull'epilessia.
Il primo evento fu tenuto nel 2008; le persone coinvolte sono incoraggiate ad indossare quel giorno un capo di abbigliamento di color viola. Il viola e la lavanda sono spesso associati all'epilessia, quindi molti indossano sul bavero della giacca un rametto di lavanda.
Cassidy Megan, una bambina allora di 9 anni nata in Nuova Scozia, Canada, ebbe l'idea di inventare questo evento, motivata dalla sua lotta contro l'epilessia. L'obiettivo è quello di aumentare la presa di coscienza sull'epilessia, ed invogliare le persone colpite da essa ad attivarsi nelle proprie comunità su questa gravissima malattia. L'associazione sull'epilessia della Nuova Scozia diede quindi una mano a Cassidy per sviluppare la sua idea, che oggi è diventata la campagna per il Purple Day sull'epilessia.
Nel 2009, l'idea giunse negli Stati Uniti grazie alla Anita Kaufmann Foundation, che si unì all'associazione canadese per lanciare il Purple Day a livello internazionale, ed incrementare il coinvolgimento di molte organizzazioni, scuole, realtà economiche, politici e celebrità in tutto il mondo.
Nel 2012 il Purple Day è stato legalmente riconosciuto in Canada come giorno della presa di coscienza sull'epilessia.
Per avere maggiori informazioni sull'evento che si celebra oggi, si può visitare il sito www.purpleday.org.

lunedì 25 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 marzo.
Il 25 marzo 1957 vengono firmati i Trattati di Roma: nasce il Mercato Comune Europeo (MEC), antenato dell'Unione Europea.
I Trattati di Roma sono due tra i documenti più importanti della storia dell’Unione Europea. Furono firmati il 25 marzo del 1957 nella Sala degli Orazi e Curiazi di Palazzo dei Conservatori, a Roma, che attualmente ospita i Musei capitolini: erano presenti i rappresentanti dei governi di Francia, Repubblica Federale di Germania (la Germania Ovest), Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Fuori, sotto la pioggia, una folla di persone aspettava che la firma venisse ufficializzata per festeggiare. Fu un momento molto importante, da molti considerato alla stregua della nascita dell’Unione Europea, che si realizzò nel 1992 con il Trattato di Maastricht.
I Trattati di Roma furono il secondo grande passo avanti del processo d’integrazione europea. Il primo era stato completato sei anni prima, il 18 aprile 1951, a Parigi: quel giorno i governi di Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo – gli stessi che firmarono poi i Trattati di Roma – istituirono la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. L’idea che stava alla base della CECA si era sviluppata da un celebre discorso dell’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman, che l’anno precedente aveva parlato della necessità di mettere insieme le risorse industriali e minerarie di Francia e Germania, una delle ragioni che avevano portato i due paesi a farsi la guerra. Se si fosse sottratto il controllo esclusivo di queste risorse dai due governi, pensava Schuman, sarebbe stato possibile evitare altre guerre in Europa.
Da quel discorso nacque il cosiddetto “approccio funzionalista”, che caratterizzò per moltissimi anni il processo di integrazione europea: significa in sostanza spingere i paesi europei a mettere in comune alcuni settori delle loro economie nazionali, facendoli poi gestire da un’autorità imparziale e terza, l’Europa per l’appunto. Dopo la firma del trattato di Parigi, nel 1951, i paesi europei provarono però qualcosa di diverso, rispetto all’approccio funzionalista in ambito economico: tentarono di sviluppare l’idea di un progetto sovranazionale di stampo federalista – cioè un progetto con molta integrazione politica – e avviarono la creazione di un esercito comune, cioè una Comunità europea di difesa (Ced), due temi che periodicamente ritornano ancora oggi nel dibattito pubblico. Entrambi i tentativi però fallirono – la Ced fu affossata dal Parlamento francese – spingendo i paesi coinvolti nella CECA a riprendere “l’approccio funzionalista” e a concentrarsi sul mercato comune e sull’energia atomica. Fu così che si arrivò alla firma dei Trattati di Roma.
I Trattati di Roma sono due, e istituiscono rispettivamente la Comunità economica europea (Cee) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Il più importante è il primo: come suggerisce il nome, questo nuovo organismo avrebbe avuto un ruolo prevalentemente economico, e serviva a promuovere una crescita stabile e duratura dei paesi che vi avevano aderito attraverso la formazione del mercato comune e l’armonizzazione delle leggi economiche statali. Il provvedimento più importante previsto nel trattato fu l’eliminazione dei dazi doganali fra gli stati membri, cosa che consentì la creazione del cosiddetto “mercato unico” e fu la base per la successiva unità politica. Il trattato, considerato ancora oggi una delle “colonne” della legislazione europea, fu poi modificato una prima volta dopo il Trattato di Maastricht del 1992, e una seconda con il Trattato di Lisbona del 2007.
Il secondo trattato, quello che istituì l’Euratom, aveva invece come scopo quello di coordinare i programmi di ricerca degli stati membri relativi all’energia nucleare e assicurare che venisse usata per scopi pacifici: fu firmato dagli stessi stati che firmarono il primo ed è ancora vigente.

domenica 24 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 marzo.
Il 24 marzo 2015 un aereo della Germanwings si schianta contro una montagna, uccidendo tutti, equipaggio e passeggeri.
Un ennesimo incidente aereo in Europa. Il volo 9525 della compagnia tedesca Germanwings, operato mediante un aereo Airbus A320-200, che da Barcellona, in Spagna viaggiava a Düsseldorf, in Germania, alle ore 10:47 del 24 marzo 2015 si è schiantato in Francia, sulle Alpi di Provenza, in una zona impervia compresa tra le località di Prads-Haute-Bléone e Barcelonnette. Si trattava di un volo low cost ed è il primo incidente aereo con vittime di una compagnia low cost.
Tutti i media del mondo danno la colpa della tragedia al copilota Andreas Lubitz. Tutti i giornali titolano: “E’ stato lui!” È stato lui a far cadere l’Airbus 320, con 150 persone a bordo, 144 passeggeri e 6 membri dell’equipaggio. La ricostruzione di come sarebbero andati i fatti è stata resa nota dal procuratore di Marsiglia, Brice Robin in una conferenza stampa. Prima di questa conferenza stampa, il New York Times aveva già rivelato che pochi minuti prima dello schianto uno dei due piloti era chiuso nella cabina e l’altro era fuori che cercava di entrare.
L’aereo decolla da Barcellona alle ore 10:01 (ora CET, ovvero l’orario dell’Europa Centrale, che include anche l’ora della Spagna, della Germania, della Francia ed anche dell’Italia), che corrisponde alle 9:01 ora UTC, ovvero il Tempo Coordinato Universale, derivato dal tempo medio di Greenwich. Il volo è partito in ritardo rispetto all’orario previsto, le 9:35 (ora CET). Alle 10:30 l’ultimo contatto accertato; alle 10:31 abbandona l’altitudine assegnata (38.000 piedi) e comincia una discesa di circa 17,8 metri al secondo. La torre di controllo cerca invano di contattare il pilota. Alle 10:36 dichiarano l’emergenza; si alza in volo un Mirage dall’aeroporto di Marsiglia e raggiunge lo spazio aereo in cui si trova l’airbus 320. Alle 10:47 lo schianto contro la montagna a 700 km all’ora.
Gli investigatori dichiararono che il Airbus A320-211 era precipitato a seguito delle azioni volontariamente intraprese dal copilota e che le indagini erano volte in particolare a studiare le mancanze procedurali che hanno causato il disastro, con particolare attenzione agli aspetti medici che hanno portato all'incidente e ai sistemi di sicurezza adottati per le porte delle cabine di pilotaggio dopo gli avvenimenti dell'11 settembre 2001.
Emerse che il copilota, Andreas Lubitz, approfittando dell'uscita dalla cabina del comandante, Patrick Sondenheimer, vi si barricò all'interno per pilotare il velivolo contro il suolo. Nella traccia audio delle scatole nere vennero registrati, a partire dalle ore 9:34 UTC, i tentativi del comandante di rientrare in cabina culminati alle 9:40 con violenti colpi alla porta della cabina di pilotaggio.
Il copilota era il tedesco Andreas Lubitz, nato il 18 dicembre 1987 a Montabaur, in Renania, 27 anni, 919 ore di volo all'attivo e in forza alla Lufthansa dal settembre 2013; formatosi nelle migliori scuole di pilotaggio di Brema in Germania e di Phoenix negli Stati Uniti, nel 2009 aveva sospeso per circa 11 mesi l'addestramento a causa di una grave depressione e manifestazioni di impulsi suicidi, ma aveva poi superato brillantemente i test medici e psicologici.
Tre giorni dopo il disastro, Il 27 marzo 2015, gli investigatori tedeschi perquisirono la casa di Lubitz a Montabaur sequestrando un computer e alcuni oggetti, senza però trovare alcun indizio che potesse suggerire una qualsivoglia motivazione per l'azione suicida e la strage perpetrata.
In un bidone dei rifiuti venne però rinvenuto un certificato medico in cui si attestava che Lubitz sarebbe stato "inabile al lavoro" il giorno dell'incidente. La Germanwings affermò di non aver ricevuto alcuna informazione in merito. In base al diritto tedesco un datore di lavoro non può avere accesso alle cartelle cliniche dei dipendenti e i certificati medici prodotti per giustificare l'assenza di un lavoratore non possono dare informazioni sulla diagnosi, ma solo sulla prognosi.
A fronte dei tragici sviluppi della vicenda, numerose compagnie aeree hanno ripristinato la regola secondo cui, nella cabina di pilotaggio, deve esserci la presenza continua e obbligatoria di due membri dell'equipaggio, in modo che quando un pilota lascerà la cabina dovranno comunque essere presenti due persone. Questa norma era già valida negli Stati Uniti e per le compagnie spagnole Iberia e Vueling. Il 27 marzo l'autorità aeronautica europea (EASA) ha sollecitato gli operatori aerei ad adottare delle procedure che garantiscano la presenza di almeno due persone nella cabina di pilotaggio per tutta la durata del volo.

sabato 23 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 marzo.
Il 23 marzo 1919 Mussolini fonda i Fasci Italiani di Combattimento.
Nell'immediato primo dopoguerra, la situazione italiana era molto difficile, infatti nonostante la vittoria le condizioni sociali e politiche del nostro Paese erano tutt'altro che rosee. Vi era per prima cosa la difficile situazione dei reduci della Grande Guerra che dovevano fare i conti oltre che con le ferite fisiche, le mutilazioni (tanto è vero che molti furono quelli curati presso l'istituto Rizzoli di Bologna) anche con un difficile reinserimento post-bellico nella vita quotidiana, un reinserimento tutt'altro che agevole vista anche la grave crisi economica in cui versava l'Italia a causa dei debiti contratti con le spese belliche.
 In primis vi era la situazione dei contadini, i quali erano l'ossatura del nostro esercito e ai quali il Generale Diaz aveva promesso come incentivo, a guerra finita la terra, o meglio una equa distribuzione delle terre che avesse "accontentato" tutti; ma ciò si scontrava con l'opposizione dei grandi proprietari terrieri, gli agrari i quali sostenevano che le terre vanno date ai contadini quando si perde una guerra e non quando la si vince. Tutto ciò finì col fare da catalizzatore ad una situazione già tesa, tanto che gli ex combattenti senza terra in molte regioni invasero i latifondi incolti, insieme con i contadini più poveri. Se quindi nelle campagne la situazione era al limite, meglio certamente non andava nelle città, infatti il costo della vita aumentava a dismisura anche a fronte di provviste scarse, i salari allo stesso tempo rimanevano fissi e addirittura in qualche caso diminuivano; tutto ciò portò anche al saccheggio di molti negozi da parte di persone allo stremo, ridotte alla fame.
Gli operai abbinavano alle loro rivendicazioni economiche ideologie politiche sull'esempio della rivoluzione russa, tutto ciò avrebbe portato al "biennio rosso" (1919-1920) caratterizzato dall'occupazione delle fabbriche da parte degli operai che in alcuni casi cercarono di ispirarsi al motto diffusosi in quegli anni in tutta Europa, "fare come in Russia". Paradossalmente chi risentì maggiormente della difficile situazione economica, furono i cosiddetti "ceti medi", tra i quali figuravano molti complementari dell'esercito e anche generali, senza dimenticare il malcontento degli "arditi di guerra" un gruppo di assalto costituito negli ultimi anni di guerra, che ora si trovava a disagio nel nuovo clima di democrazia e di pace.
E' in questo scenario che si inserisce la figura di Benito Mussolini, che fino allo scoppio della prima guerra mondiale era dirigente socialista e, dal 1912, addirittura direttore de l'Avanti!. Dopo un'iniziale adesione alla linea di neutralismo del partito, Mussolini divenne interventista e allora il 20 ottobre del 1914 si dimise dalla direzione del giornale. In novembre realizzò un suo quotidiano, "Il popolo d'Italia", ultranazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa. Espulso immediatamente dal Psi, qualche anno dopo, nel '18, ruppe anche gli ultimi legami ideologici con l'originaria matrice socialista, in nome di un superamento dei tradizionali antagonismi di classe. Finita la guerra, nel 1919 fondò i fasci di combattimento. Il nuovo movimento era inizialmente noto come "sansepolcristi" (da P.zza San Sepolcro a Milano, dove il 23 Marzo 1919 furono fondati i "fasci italiani di combattimento" e fu emanato il "programma di San Sepolcro") che non a caso fece leva sul disagio diffuso soprattutto tra i ceti medi, i militari e gli ex combattenti, per ottenere un consenso sempre maggiore, rivendicando inoltre la cosiddetta "vittoria mutilata" in cui l'Italia non aveva ottenuto il giusto riconoscimento ai suoi sacrifici, bellici e umani, che aveva sostenuto.
Analizzando il "Programma di San Sepolcro" possiamo notare tra gli altri punti trattati da Mussolini e i "sansepolcristi", una serie di provvedimenti volti a cercare di risolvere la difficile situazione sociale instauratasi nel Paese all'indomani della fine della guerra: tra le altre cose si chiede una legge che sancisca la giornata legale di otto ore di lavoro, una modifica alla legge sull'assicurazione e sulla vecchiaia (la pensione potremmo dire) con abbassamento del limite di età da 65 a 55 anni. Da questo momento cominciò l'escalation dei fascisti che avrebbero fatto largo uso della violenza squadrista per prendere il controllo, prima con il "fascismo agrario" con squadre fasciste che, pagate dai proprietari terrieri, cercavano di far tornare nelle loro mani il controllo dei latifondi in cui le cosiddette "leghe rosse" sembravano aver preso il potere, obbligando tra l'altro i proprietari terrieri ad accettare condizioni come l'imponibile di manodopera (ovvero erano le stesse leghe rosse a imporre al proprietario la lista dei lavoratori per quel certo latifondo). Tra gli squadristi più rappresentativi del fascismo agrario, va senza dubbio ricordato Roberto Farinacci "ras" di Cremona.
Quindi la situazione si profilava sempre più favorevole ai fascisti che tra l'altro già nel 1919 avevano assaltato la sede del giornale socialista "Avanti" e che giunsero anche all'occupazione militare di ampie zone del nord Italia nel corso del 1921 grazie alla connivenza allo stesso tempo delle forze dell'ordine, come è dimostrato da molti documenti. Divenuto deputato al Parlamento con le elezioni del 1921, Mussolini si avvicinò maggiormente alla monarchia (mentre il suo programma originario era di fedeltà agli ideali repubblicani) con il discorso di Udine (20 settembre 1922). In quel 1921, un'accelerata agli eventi fu molto probabilmente svolta dalla conclusione dell'occupazione di Fiume, città a maggioranza abitata da italiani che era stata data con un accordo siglato dal governo Giolitti alla Jugoslavia, da parte delle truppe o meglio dei volontari guidati dal poeta Gabriele D'Annunzio (Gabriele Rapagnetta) che già durante il conflitto mondiale aveva dimostrato tutto il suo coraggio con diverse azioni tra le quali il famoso volo su Vienna; molto probabilmente il grande consenso acquisito dai "fiumani" di D'Annunzio, portò Benito Mussolini a voler prendere l'iniziativa, anche perché il futuro Duce non nascondeva il timore per il consenso sempre maggiore ottenuto da D'Annunzio che si proponeva come, possiamo dire, "capo naturale". del fascismo.
Così il 24 ottobre del 1922 a Perugia fu formato un quadrumvirato composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Mario Rossi tra gli altri, che aveva il compito di coordinare la "marcia su Roma"; il 28 ottobre 1922 bande non molto organizzate di fascisti cominciarono a confluire su Roma e qui il Re, preso atto della situazione, invece di allertare l'esercito per disperdere i fascisti, non firmò lo stato d'assedio, ma anzi il giorno seguente affidò a Mussolini, che nel frattempo era giunto a Roma comodamente in treno, il compito di formare il nuovo governo; così il Duce cominciava quel cammino che avrebbe condotto l'Italia ad una dittatura ventennale e ad una guerra disastrosa.

venerdì 22 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 marzo.
Il 22 marzo 1885 Re Umberto I posa la prima pietra del monumento dedicato a suo padre: Il Vittoriano.
Contestato al suo nascere e paragonato ad una torta o ad una macchina da scrivere, se trovi il coraggio di salire uno dopo l’altro i gradini che ti portano in cima, sei quasi in cielo, ti trovi allo stesso livello del volo dei gabbiani, e tutt’intorno i tetti di Roma sono quasi ai tuoi piedi, unici colossi a sovrastare la città, con le loro architetture, sono i simboli del potere religioso, politico e laico, che vivono e palpitano nel cuore di Roma.
Qui con l’Urbe , finalmente capitale d’Italia, ecco sorgere il monumento, simbolo della conclusione delle guerre d’indipendenza, della raggiunta unità tanto vagheggiata del suolo italiano, celebrazione della casa regnante che aveva reso possibile il sogno di tanti italiani, e poi mausoleo del Milite Ignoto, di quel soldato senza nome, morto come tanti altri per dare alla Nazione le terre irredenti.
Il Vittoriano, che prende il nome da Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, ha troneggiato nel cuore di Roma per tanti anni senza troppo amore da parte della cittadinanza che l’ha visto come la colossale imposizione marmorea di una dinastia straniera, che ha rivoluzionato il piano urbanistico della città, abbattendo case e palazzi nobiliari (Torlonia) per farlo sorgere, ma lontani dai furori dell’epoca, dai fautori e detrattori, il monumento ha finito con il conquistare il cuore dei romani per i simboli che rappresenta.
La costruzione fu decisa pochi mesi dopo la morte del re, promulgata la legge nel 1878 che accoglieva il progetto del ministro Zanardelli d’erigere a Roma un monumento nazionale alla memoria, furono banditi ben due concorsi, e si scelse l’area a fianco del Campidoglio come zona densa di significato storico e la prima pietra fu posata da re Umberto I nel 1885.
Non doveva essere un monumento da poco, si voleva un fondale scenografico che si stagliasse con il suo biancore all’orizzonte di via del Corso, per chi entrava a nord della città, da piazza del Popolo. Qualcuno malignamente insinuò che si volesse occultare la prepotente presenza clericale della chiesa di S. Maria in Aracoeli. Per ottenere un’opera imponente, si progettò una costruzione a terrazze, che ricordava l’architettura dei grandi santuari ellenistici come l’altare di Pergamo e ripresa nelle città latine da Palestrina e Tivoli, privilegiando la radice classica dell’arte nazionale, piuttosto che l’eclettismo che allora imperversava in Europa.
Inoltre l’abbellimento statuario serviva a nobilitare le virtù civili in cui fortemente si credeva essere il presupposto di una nazione sana e forte.
I lavori si protrassero per ben mezzo secolo, sia per cause di natura economica (lo stato sabaudo aveva già investito notevoli risorse per portare avanti le guerre d’indipendenza e gli altri stati italiani liberati dallo ”straniero” per uniformarsi alle regole dei Savoia ed amalgamarsi tra di loro non se la cavavano meglio, anzi forse stavano peggio di prima!) inoltre si sono incontrate difficoltà a livello tecnico, a causa delle pendici del colle che non erano compatte e solide come si credeva, al punto che si apportarono delle modifiche nella dimensione e nelle proporzioni del progetto originario. La direzione dei lavori fu assunta da Giuseppe Sacconi e in successione da Gaetano Koch, Pio Piacentini e Manfredo Manfredi. Tutti personaggi famosi come gli artisti ai quali furono commissionate le sculture, in particolare quelle delle città furono eseguite da artisti delle rispettive località. Fu inaugurato nel cinquantenario dell’Unità da Vittorio Emanuele III, anche se con l’inserimento del Milite ignoto (1921) fu rimodellato e nuovamente inaugurato nel 1995 come Altare della Patria.
Alla fine della I guerra mondiale si sparse a macchia d’olio l’idea di un Altare della Patria, e anche l’Italia ha voluto avere il suo. Qualcosa era cambiato nel modo di vedere la guerra e il soldato che moriva per la patria, dal tempo della rivoluzione francese e da quella franco-prussiana, da quando insomma tra i combattenti ci furono molti volontari, per non parlare delle nostre guerre d’indipendenza; sicché nel 1871 si ebbe il primo cimitero militare tedesco, e nel 1915 la Francia sancì il dovere di seppellire i morti, sulla cui tomba venne posta una croce, simbolo di risurrezione, il nome e una pietra. Ma anche il milite ignoto deve avere la sua glorificazione, e quindi si scelsero luoghi simbolo della propria nazione: in Francia fu sepolto sotto l’Arc de Triomphe, in Inghilterra nella abbazia di Westminster, in Italia lo si volle a Roma, da pochi decenni capitale del regno, e fu collocato nel monumento più significativo per l’epoca: il Vittoriano.
Ormai c’è. Nessuno ricorda più come erano un tempo le pendici del Campidoglio, il monumento spicca nel cuore della città con il biancore abbagliante del calcare di botticino bresciano, che brilla ancor di più grazie alla luce cristallina dell’azzurro cielo romano, un bianco che contrasta con quello più pacato del travertino locale, tipico dei monumenti romani, sin dall’antichità classica.
Sia il museo risorgimentale, che custodisce cimeli preziosi, sia il monumento di per sé, sono sempre affollati di turisti che salgono le sue gradinate, perché dalla sommità ti si offre il paesaggio della città, a tutto tondo, con tutte le sue bellezze artistiche; panorama che si può godere gratuitamente a differenza di altri monumenti in altrettanti capitali europee. Su tabelle descrittive, site in loco, è possibile scoprire la configurazione di architetture più famose viste da un punto di osservazione diverso. A vista d’occhio si può vedere la Roma del potere: a sinistra c’è quella antica con i mercati traianei, il foro e in lontananza il Colosseo. C’è poi la Roma del potere spirituale, quello della cristianità rappresentata, tra le tante cupole, da quella di san Pietro. E’ ben visibile un altro potere religioso, la cupola della Roma Ebraica. Svetta poi nell’azzurro cielo romano la bandiera tricolore del Quirinale, simbolo del potere temporale, prima dei papi, poi della monarchia ed infine della Repubblica. Infine sul colle del Gianicolo, ad imperitura memoria, si vede il monumento equestre a Garibaldi, e a mezzogiorno si può perfino sentire arrivare il suono dello sparo del cannone a ricordo di quella Roma laica, che ha combattuto per strappare la città ai Papi ed ha lottato in proprio, con i suoi volontari per conquistarla, e con la sua presenza vuole ricordarci che esiste.

giovedì 21 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 marzo.
Il 21 marzo 1960 in Sudafrica ha luogo il massacro di Sharpeville.
Sono passati 64 anni dal massacro di Sharpeville, in Sudafrica. A quei tempi non esisteva internet e ogni avvenimento, tragico e non, non aveva la stessa cassa di risonanza di oggi, motivo per cui questa tragedia non è conosciuta da molti, malgrado sia una delle pagine più tristi della storia dell’uomo.
Il 21 marzo del 1960, in pieno periodo Apartheid in Sudafrica, il Pan Africanist Congress (PAC), organizzò una manifestazione per protestare contro il decreto governativo denominato Urban Areas Act, che prevedeva l’obbligo per i cittadini sudafricani neri di esibire uno speciale permesso qualora fossero stati fermati dalla polizia in un’area riservata ai bianchi. I lasciapassare venivano concessi solo ai neri che avevano un impiego regolare nell’area in questione.
I manifestanti, stimati in un numero compreso tra i 5000 e i 7000, si radunarono intorno alle 10 del mattino, dinanzi alla stazione di polizia di Sharpeville, nell’attuale Gauteng, dichiarandosi sprovvisti del citato lasciapassare e chiedendo alla polizia di essere arrestati.
Le autorità usarono diverse forme di intimidazione cercando di disperdere la folla: addirittura furono adoperati caccia militari in volo radente e veicoli blindati. I manifestanti però non si fecero intimorire. Qualche ora più tardi, intorno alle 13.15, la polizia aprì il fuoco sulla folla sempre più numerosa. I dati ufficiali parlarono di 69 morti tra i manifestanti, tra cui 8 donne e 10 bambini e più di 180 feriti.
A lungo si indagò sui motivi che spinsero la polizia ad aprire il fuoco. L’ufficiale in comando dichiarò che i  manifestanti cominciarono a lanciare sassi verso la polizia e che alcuni agenti meno esperti persero il controllo della situazione, iniziando a sparare senza che fosse stato impartito nessun ordine in tal senso. Un certo grado di nervosismo nelle file della polizia poteva essere dovuto al fatto che poche settimane prima alcuni poliziotti erano stati uccisi a Cato Manor.
Le indagini della Commissione per la verità e la riconciliazione stabilirono però un’altra verità: la decisione di aprire il fuoco era stata in qualche misura deliberata e venne anche sottolineato come vi era stata, citando testualmente il rapporto della Commissione, una “grossolana violazione dei diritti umani, in quanto era stata usata una violenza eccessiva e non necessaria per fermare una folla disarmata“. La polizia infatti continuò a sparare anche mentre i dimostranti fuggivano, e molte delle vittime furono colpite alla schiena.
I fatti ovviamente portarono ad un sostanziale aumento della tensione tra cittadini neri e governo bianco nel Paese; il governo dichiarò la legge marziale e vi furono più di 18 mila arresti.
Qualche giorno più tardi, il 1° aprile, le Nazioni Unite condannarono ufficialmente l’operato della polizia con la risoluzione 134.
Il tragico evento, contribuì alla sensibilizzazione internazionale sul problema dell’Apartheid, terminato poi nel 1994 con Nelson Mandela Presidente. Proprio dal 1994, il 21 marzo si celebra in Sudafrica la “Giornata dei diritti umani”. Inoltre, in onore delle vittime del massacro, dal 2005 il 21 marzo si celebra la “Giornata Internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale”, istituita dall’ONU, segno tangibile che anche se ancora c’è molto da fare per eliminare ogni forma di discriminazione razziale, il sacrificio di quelle coraggiose persone non è stato vano.

mercoledì 20 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 marzo.
Il 20 marzo 1800 Alessandro Volta rende nota l'invenzione della sua pila.
Alessandro Volta fu uno dei più famosi fisici della storia: visse tra il Settecento e l’Ottocento, inventò e perfezionò la pila elettrochimica e scoprì caratteristiche e potenzialità del metano, ancora oggi uno dei gas più utilizzati per le attività umane. Volta fu uno studioso e un inventore molto prolifico e si applicò soprattutto allo studio dei fenomeni elettrici, mettendo in discussione parte delle teorie e delle conoscenze sull’argomento del suo tempo. Il nome di Alessandro Volta è legato per sempre a quello dell’elettricità, che ha tra le sue unità di misure il “volt” (V), in onore di una delle persone che più contribuirono al suo sviluppo nel Diciannovesimo secolo.
Alessandro Giuseppe Antonio Anastasio Volta nacque a Como il 18 febbraio del 1745 in una famiglia altolocata. A 13 anni iniziò studi umanistici alla scuola dei gesuiti di Como e nel 1761, dopo essere entrato nel Regio Seminario Benzi di Como, fu invece incoraggiato a studiare soprattutto le materie scientifiche, assecondando i suoi interessi. Ad Alessandro Volta fu messo a disposizione il gabinetto di scienze naturali del Seminario, una specie di laboratorio ante litteram, dove condusse numerosi esperimenti e abbandonò definitivamente il progetto che i suoi avevano per lui: che diventasse sacerdote.
A partire dalla fine degli anni Sessanta del Settecento Volta iniziò a scrivere memorie e lettere sulle sue attività di ricerca, mettendo in discussione alcune delle interpretazioni più accreditate all’epoca sui fenomeni elettrici. Dopo avere ricevuto un importante incarico presso le Regie Scuole di Como, nel 1775 mise a punto la sua prima invenzione notevole: l’elettroforo perpetuo. Era costituito da un disco con un manico perpendicolare per impugnarlo, come un batticarne, ed era utilizzato insieme a una superficie isolante e a un panno di lana per ottenere una carica elettrica da usare in particolari esperimenti. L’invenzione e gli studi prodotti fino ad allora valsero a Volta la nomina a professore di fisica sperimentale alle scuole di Como.
Alessandro Volta negli anni seguenti dimostrò di essere interessato soprattutto alla ricerca pratica: partendo dagli studi di diversi contemporanei, realizzò tantissime invenzioni che permettevano di sfruttare i fenomeni elettrici. Ottenne una cattedra presso l’Università di Pavia nel 1778 e negli anni seguenti inventò il condensatore, che serviva per accumulare al suo interno energia elettrica tenendo separate cariche elettrostatiche. Seguirono altre invenzioni importanti per misurare in modo più scientifico e accurato l’elettricità, con la proposta di introdurre misure standard.
Tra il 1799 e il 1800 Alessandro Volta realizzò e perfezionò l’invenzione che lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo: la pila. Non fu una trovata improvvisa ma derivò dagli anni di studi e osservazioni precedenti, soprattutto sull’elettricità animale e sulle relative teorie di un altro italiano, Luigi Galvani. Semplificando, Galvani sosteneva che gli animali fossero attraversati da un “fluido elettrico” e che questa elettricità “intrinseca” fosse prodotta dal cervello e poi portata dai nervi ai muscoli dove veniva immagazzinata. Galvani lo aveva dedotto durante alcuni esperimenti con le rane: un contatto metallico applicato tra i nervi lombari e i muscoli degli arti inferiori portava a una contrazione delle loro zampe. Galvani pensò che il fenomeno fosse dovuto al fatto che il contatto metallico formasse un circuito elettrico in cui fluiva la sua “elettricità animale”.
Alessandro Volta contestò l’ipotesi di Galvani e intuì che la rana non potesse essere la causa diretta del passaggio di corrente. Ci arrivò notando come il movimento della rana fosse molto più accentuato quando per l’esperimento venivano usati metalli diversi tra loro. Questa intuizione fu fondamentale per lo sviluppo della pila. Volta elaborò diversi esperimenti per produrre una batteria che fosse in grado di produrre una corrente elettrica costante. La versione definitiva era costituita da una colonna di dischi di zinco alternati a dischi di rame, con uno strato intermedio di cartone imbevuto di acqua salata (o resa acida). Collegando i due poli con un conduttore elettrico si realizzava un circuito in cui passava corrente continua.
La pila di Alessandro Volta fu il primo sistema per generare elettricità con una corrente costante nel tempo. Il nome deriva dal fatto che i dischi metallici che la facevano funzionare erano impilati uno sull’altro. Nel sistema, ogni disco crea una differenza di potenziale tra il metallo e la soluzione, nel caso dello zinco e del rame è il primo ad assumere il potenziale più negativo. Questo squilibrio permette il passaggio di una corrente elettrica dal rame allo zinco quando i due elettrodi sono collegati da un filo conduttore.
Volta comunicò la sua invenzione alla Royal Society di Londra con una lettera datata 20 marzo 1800, che gli diede grande fama:
L’apparecchio di cui vi parlo e che senza dubbio vi meraviglierà non è che l’insieme di un numero di buoni conduttori di differente specie, disposti in modo particolare, 30, 40, 60 pezzi o più di rame […] applicati ciascuno a un pezzo di […] zinco, e un numero uguale di strati d’acqua, o di qualche altro umore che sia migliore conduttore dell’acqua semplice, come l’acqua salata […]: di tali strati interposti a ogni coppia o combinazione di due metalli differenti, una tale serie alternata, e sempre nel medesimo ordine, di questi tre pezzi conduttori, ecco tutto ciò che costituisce il mio nuovo strumento.
Tra i tanti riconoscimenti che ricevette negli anni successivi alla sua invenzione ce ne furono anche di politici, come la nomina a senatore del Regno d’Italia da parte di Napoleone nel 1809. Tornato a Como per vivere gli ultimi anni in compagnia della famiglia, Alessandro Volta morì a Camnago il 5 marzo 1827 a 82 anni, dopo essere stato uno dei più importanti protagonisti della ricerca sull’elettricità. In parte è anche grazie a lui se ora potete leggere questo articolo sul vostro smartphone, mentre aspettate alla fermata del bus.

martedì 19 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 marzo.
Il 19 marzo è tradizionalmente la festa del papà, nel giorno in cui la Chiesa Cristiana celebra San Giuseppe.
Il nome Giuseppe è di origine ebraica e sta a significare “Dio aggiunga”, estensivamente si può dire “aggiunto in famiglia”. Può essere che l’inizio sia avvenuto col nome del figlio di Giacobbe e Rachele, venduto per gelosia come schiavo dai fratelli. Ma è sicuramente dal padre putativo, cioè ritenuto tale, di Gesù e considerato anche come l’ultimo dei patriarchi, che il nome Giuseppe andò diventando nel tempo sempre più popolare. In Oriente dal IV secolo e in Occidente poco prima dell’XI secolo, vale a dire da quando il suo culto cominciava a diffondersi tra i cristiani. Non vi è dubbio tuttavia che la fama di quel nome si rafforzò in Europa dopo che nell’Ottocento e nel Novecento molti personaggi della storia e della cultura lo portarono laicamente, nel bene e nel male: da Francesco Giuseppe d’Asburgo a Garibaldi, da Verdi a Stalin, da Garibaldi ad Ungaretti e molti altri ancora.
  San Giuseppe fu lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque, misteriosamente per opera dello Spirito Santo, Gesù figlio del Dio Padre. E orientando la propria vita sulla lieve traccia di alcuni sogni, dominati dagli angeli che recavano i messaggi del Signore, diventò una luce dell’esemplare paternità. Certamente non fu un assente. È vero, fu molto silenzioso, ma fino ai trent’anni della vita del Messia, fu sempre accanto al figliolo con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i piani di Dio. Cominciò a scaldarlo nella povera culla della stalla, lo mise in salvo in Egitto quando fu necessario, si preoccupò nel cercarlo allorché dodicenne era “sparito’’ nel tempio, lo ebbe con sé nel lavoro di falegname, lo aiutò con Maria a crescere “in sapienza, età e grazia”. Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” iniziasse la vita pubblica, spirando serenamente tra le sue braccia. Non a caso quel padre da secoli viene venerato anche quale patrono della buona morte.
  Giuseppe era, come Maria, discendente della casa di Davide e di stirpe regale, una nobiltà nominale, perché la vita lo costrinse a fare l’artigiano del paese, a darsi da fare nell’accurata lavorazione del legno. Strumenti di lavoro per contadini e pastori nonché umili mobili ed oggetti casalinghi per le povere abitazioni della Galilea uscirono dalla sua bottega, tutti costruiti dall’abilità di quelle mani ruvide e callose.
  Di lui non si sanno molte cose sicure, non più di quello che canonicamente hanno riferito gli evangelisti Matteo e Luca. Intorno alla sua figura si sbizzarrirono invece i cosiddetti vangeli apocrifi. Da molte loro leggendarie notizie presero però le distanze personalità autorevoli quali San Girolamo (347 ca.-420), Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso d’Aquino (1225-1274). Vale la pena di riportare soltanto una leggenda che circolò intorno al suo matrimonio con Maria. In quella occasione vi sarebbe stata una gara tra gli aspiranti alla mano della giovane. Quella gara sarebbe stata vinta da Giuseppe, in quanto il bastone secco che lo rappresentava, come da regolamento, sarebbe improvvisamente e prodigiosamente fiorito. Si voleva ovviamente con ciò significare come dal ceppo inaridito del Vecchio Testamento fosse rifiorita la grazia della Redenzione.
  San Giuseppe non è solamente il patrono dei padri di famiglia come “sublime modello di vigilanza e provvidenza” nonché della Chiesa universale, con festa solenne il 19 marzo. Egli è oggi anche molto festeggiato in campo liturgico e sociale il 1° maggio quale patrono degli artigiani e degli operai, così proclamato da papa Pio XII. Papa Giovanni XXIII gli affidò addirittura il Concilio Vaticano II. Vuole tuttavia la tradizione che egli sia protettore in maniera specifica di falegnami, di ebanisti e di carpentieri, ma anche di pionieri, dei senzatetto, dei Monti di Pietà e relativi prestiti su pegno. Viene addirittura pregato, forse più in passato che oggi, contro le tentazioni carnali.
  Che il culto di San Giuseppe abbia raggiunto in passato vette di popolarità lo dimostrano anche le dichiarazioni di moltissime chiese relative alla presenza di sue reliquie. Per fare qualche esempio particolarmente significativo: nella chiesa di Notre-Dame di Parigi ci sarebbero gli anelli di fidanzamento, il suo e quello di Maria; Perugia possiederebbe il suo anello nuziale; nella chiesa parigina dei Foglianti si troverebbero i frammenti di una sua cintura. Ancora: ad Aquisgrana si espongono le fasce o calzari che avrebbero avvolto le sue gambe e i camaldolesi della chiesa di S. Maria degli Angeli in Firenze dichiarano di essere in possesso del suo bastone. È sicuramente un bel “aggiunto” di fede.

lunedì 18 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 marzo.
Il 18 marzo 1871 nasce la Comune di Parigi.
La Comune di Parigi, è il governo rivoluzionario popolare e operaio istituito dal popolo parigino nella capitale francese a seguito della rivoluzione scoppiata il 18 marzo 1871 dopo la sconfitta francese a Sédan, si colloca in una situazione di ampi mutamenti nella storia d'Europa, era la cosiddetta "svolta dell'anno '70", caratterizzata in particolare dalla guerra franco/prussiana, con il crollo dell'impero di Napoleone III e la costituzione di quello tedesco, dall'annessione di Roma al regno d'Italia e dalla trasformazione del principio di nazionalità in nazionalismo.
Il 2 settembre 1870 l'imperatore Napoleone III, sconfitto nella battaglia di Sedan si arrese ai prussiani; due giorni dopo i repubblicani di Parigi con una rivoluzione incruenta proclamarono la nascita della Terza Repubblica, resistendo al nemico sino al gennaio del 1871, quando la capitale fu costretta a capitolare dopo un assedio di quattro mesi.
Entro l'assemblea nazionale, la maggioranza dei delegati (per lo più monarchici) era disposta ad accettare i termini del trattato di pace imposti dal primo ministro prussiano Otto von Bismarck, considerati invece umilianti da repubblicani e socialisti radicali, decisi a riprendere le armi.
Il timore della restaurazione della monarchia dopo la sconfitta favorì pertanto la costituzione a Parigi di un governo rivoluzionario: il 17 e il 18 marzo il popolo parigino organizzò un'insurrezione contro il governo nazionale, instaurando un governo del popolo, presieduto da un Comitato centrale della guardia nazionale, che inizialmente non ebbe, o perlomeno non ebbe prevalentemente, un carattere Socialista, e fissando per il 26 marzo le elezioni di un Consiglio municipale, noto con il nome di "Comune di Parigi" (i membri del Consiglio furono chiamati "comunardi").
I settanta membri della Comune appartenevano a diverse correnti politiche: la maggioranza era costituita da giacobini, altri erano seguaci del rivoluzionario Louis-Auguste Blanqui, altri ancora erano rivoluzionari indipendenti, o radicali. La minoranza era invece composta da seguaci di Pierre-Joseph Proudhon, membri della sezione francese dell'Associazione internazionale dei lavoratori.
Il 26 marzo 1871 la componente Socialista del Comitato centrale della guardia nazionale ebbe però il sopravvento su quella borghese conservatrice-repubblicana, favorevole a un'intesa col Thiers (capo delle forze "repubblicane" conservatrici attestate a Versailles), e così, per la prima volta nella storia, si verificò e realizzò una concreta presa di potere da parte del proletariato con l'instaurazione di un regime proletario.
Tuttavia, stretta nella morsa della guerra civile, assediata sempre più da vicino dall'esercito del Thiers, la Comune non poté attuare il suo programma socialista se non in misura minima, e alla fine, l'esperimento proletario fu soffocato nel sangue.
Nei suoi pochi giorni di vita la Comune propose misure a beneficio dei lavoratori e votò provvedimenti quali la separazione della Chiesa dallo Stato e la socializzazione delle fabbriche abbandonate dagli imprenditori. Tali misure però non entrarono in realtà mai in vigore, in parte per le frizioni che ben presto emersero tra le varie componenti della Comune, ma anzitutto per l'intervento dell'esercito regolare ordinato dall'assemblea nazionale. Per sei settimane a partire dal 2 aprile, Parigi fu bombardata dalle forze governative; le sue difese furono piegate all'inizio di maggio.
Dopo circa un mese di assedio, il 21 maggio 1871 le truppe guidate dal Thiers entrarono in Parigi, dando inizio alla tristemente famosa "settimana di sangue" che con grande crudeltà la reazione borghese portò a compimento, culminando l'azione di cruenta repressione (21-28 maggio) con l'esecuzione di 20.000 Patrioti Comunardi e l'arresto di altri 38.000, di cui migliaia furono poi deportati nella Nuova Caledonia.

domenica 17 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 marzo.
Il 17 marzo 45 a.C. Giulio Cesare vince la sua ultima battaglia, nei pressi di Munda.
Nel 46 a.C., mentre Rola festeggiava la vittoria di Cesare in terra d'Africa, a Tapso, i seguaci di Pompeo, sconfitti, si erano raccolti nella Spagna meridionale e avevano organizzato un esercito. Questo fu possibile perché il governatore cesariano Quinto Cassio Longino amministrava il territorio con tirannia, provocando così l'indignazione dei comuni spagnoli.
In questo modo i figli di Pompeo, Gneo e Sesto, che erano fuggiti dal nord-Africa con Labieno e Attio Varo, trovarono in Spagna un campo d'azione ben preparato. In breve tempo i Pompeiani riuscirono a mettere insieme una forza di ben tredici legioni, reclutate prevalentemente fra la popolazione locale. Un esercito potente, tanto da indurre i due legati inviati da Cesare a rifiutare lo scontro, avendo a loro disposizione truppe più deboli.
All'inizio di novembre del 46 a.C., Cesare decise di recarsi in Spagna con due legioni. In diciassette giorni, con una marcia di 90 chilometri al giorno, raggiunse Saguntum, a nord di Valencia, e dieci giorni dopo era nell'accampamento di Obulco, a est della città di Cordova occupata dai nemici.
Cesare aveva a disposizione un valoroso esercito composto da quattro legioni di veterani, quattro legioni di nuova formazione e ottomila cavalieri. Gli avversari, però, con truppe di poco inferiori, occupavano, a sud e a sud-ovest di Cordova, le città più importanti; un vantaggio che rese enormemente più difficile la campagna invernale di Cesare.
La città di Ulia, a sud di Cordova, fedele a Cesare, era da mesi assediata da Gneo Pompeo e prossima alla capitolazione. La situazione poté essere sbloccata con un abile manovra. Cesare si diresse contro Cordova e costrinse gli assediati ad abbandonare Ulia e ad accorrere in aiuto della capitale. L'iniziativa, tuttavia, non provocò una svolta decisiva, anche perché i Pompeiani si sottrassero costantemente allo scontro aperto.
Nella metà di gennaio del 45 a.C., Cesare pose l'assedio alla città di Ategua, utilizzata dal nemico come deposito di scorte. Gneo Pompeo giunse con il suo esercito nelle vicinanze, senza però tentare nessun attacco per alleggerire la pressione sulla città. Il 19 febbraio, dopo diverse settimane d'assedio, abbandonata al suo destino dalle stesse legioni pompeiane, la città di Ategua capitolò.
Dopo questo fatto i comuni spagnoli cominciarono a diffidare della disponibilità a combattere dei loro protettori pompeiani. Questi si spostarono verso sud e immediatamente Cesare si mise alle loro spalle. A Gneo Pompeo e Labieno non lasciò il tempo di rafforzare le loro truppe. I Pompeiani, per evitare lo sfaldamento della loro forza, si videro costretti ad affrontare una battaglia decisiva.
Il mattino del 17 marzo 45 a.C., presso Munda, l'odierna Montilla, i due eserciti si scontrarono in battaglia.
Contro le ottanta coorti e gli ottomila cavalieri di cesare, i Pompeiani opponevano una forza di combattimento numericamente superiore, ed occupavano anche una posizione favorevole, sui pendii di una catena di colline, in attesa dell'attacco dei Cesariani dalla pianura.
Si trattò di una delle più dure battaglie affrontate da Cesare. I Pompeiani assaltarono venendo giù dai pendii e riuscirono ad aprirsi un varco nella falange nemica. Cesare, vedendo lo sbandamento delle sue formazioni, si lanciò di persona nel combattimento in prima linea.
Il suo esempio ebbe l'effetto di fermare le barcollanti legioni. Decisivo fu però l'attacco di uno squadrone di cavalleria al fianco destro e alle spalle dei Pompeiani. Per mettersi sulla difensiva, Labieno fece arretrare in tutta fretta cinque coorti, e questo fu scambiato dai combattenti pompeiani per l'inizio della ritirata.
Nella confusione, Cesare approfittò per l'attacco decisivo e di colpo le sorti della battaglia si rovesciarono. Alla sera la vittoria di Cesare era assicurata, suggellando l'ultima terribile sconfitta dei Pompeiani. Questi ultimi lasciarono sul terreno trentamila morti, fra cui anche Tito Labieno e Attio Varo. Gneo Pompeo venne bloccato durante la fuga e ucciso in combattimento.
Cesare rimase nelle province spagnole fino al giugno del 45 a.C.

sabato 16 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 marzo.
Il 16 marzo 1190 ha inizio la Terza Crociata.
La Terza Crociata venne bandita dal papa Gregorio VIII che, salito al soglio pontificio alla morte di Urbano III, rimase papa per soli 2 mesi. Alla sua morte gli succedette Clemente III. La motivazione di questa nuova spedizione, fu la caduta di Gerusalemme avvenuta per opera del condottiero turco Saladino, che con una serie di grandi vittorie aveva esteso il proprio dominio sull’Egitto e su una parte dell’Arabia. A differenza dei suoi avversari crociati, Saladino non massacrava le popolazioni delle città vinte, anzi, concedeva ai superstiti, dietro pagamento di un modesto riscatto di poter tornare in patria; solo chi non era in grado di pagare quanto richiesto veniva trattenuto come schiavo. Ma in seguito egli abolì anche questa richiesta, permettendo a chiunque aveva determinate capacità o disponeva di una propria attività di sostentamento, di rimanere come uomo libero ad esercitare la sua professione.
Sebbene a questa crociata parteciparono in prima persona il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, il re di Francia Filippo II e l’Imperatore di Germania Federico I Barbarossa, non vi furono risultati rilevanti. Troppi erano infatti i motivi di attrito tra le varie componenti nazionali, che giunsero a combattersi tra loro per il possesso di alcuni dei territori conquistati. Il rapporto più ambiguo fu quello che intercorse tra Riccardo Cuor di Leone e Filippo II, che ebbe come conseguenza finale l’abbandono della crociata da parte del re di Francia.
Alla luce di questi eventi, Gerusalemme rimase in mano turca, anche se ai cristiani residenti veniva concesso libero accesso alla Città Santa. Per la prepotenza e la violenza dimostrata dalle truppe cristiane L’imperatore Bizantino Isacco Angelo si vide costretto ad allearsi in più occasioni con i Turchi, poiché si era reso conto che la presenza degli occidentali comportava più danni che vantaggi, convincendosi inoltre che anziché aiutarli, i crociati era meglio combatterli.
Dopo il ritiro dalla scena di Filippo II di Francia, Riccardo Cuor di Leone raggiunse un accordo di pace con Saladino. Ma sulla via del ritorno, la sua flotta venne dispersa da una burrasca ed egli, scampato al naufragio, venne catturato e consegnato a Enrico VI che lo imprigionò. Più tragica fu la fine dell’Imperatore Federico I, che annegò durante l’attraversamento di un fiume, e lasciò quindi il proprio esercito allo sbando. Egli era partito da Ratisbona nel maggio del 1190 e alla testa di un numeroso esercito iniziò una marcia di trasferimento in territorio balcanico tra mille difficoltà. Le voci allarmistiche messe in giro dagli agenti dell’Imperatore bizantino Isacco Angelo, fecero si che l’esercito tedesco trovasse sul suo cammino solo città e villaggi abbandonati e privi di ogni genere di sussistenza, riducendo così l’armata imperiale di Federico I ad un branco di iene affamate. Ma Isacco non aveva tenuto conto delle conseguenze che questa sua iniziativa avrebbe potuto causare. L’imperatore germanico inviò alcuni ambasciatori presso l’imperatore bizantino affinché egli provvedesse a far pervenire gli aiuti necessari al sostentamento delle proprie forze e a fargliene trovare altri lungo il percorso che ancora rimaneva da fare. Isacco Angelo, anziché ascoltare la missione diplomatica, la fece imprigionare. Federico I, intuito il doppio gioco che l’imperatore bizantino stava esercitando nei confronti degli eserciti occidentali, scrisse al figlio in Italia di procurarsi una flotta e raggiungere la Grecia.
La notizia che l’esercito tedesco stava dirigendo via mare su Costantinopoli, allarmò Isacco, che preso dal panico inviò propri ambasciatori presso il Barbarossa con gli aiuti richiesti, e acconsentendo a fargli trovare altri approvvigionamenti lungo il percorso. Si disse anche disponibile a trasportare via mare l’armata in Asia Minore. Qui sbarcato, Federico I si trovò a dover affrontare nuovamente dei problemi di approvvigionamento, causati dal mancato mantenimento dei patti da parte dei governatori locali, che si rifiutavano di consegnare i viveri pattuiti all’esercito tedesco. Di fronte all’ennesimo tradimento egli diede l’ordine di saccheggiare il paese, rifocillando in tal modo le sue truppe e proseguendo quindi la marcia fino a raggiungere le rive del fiume Salef, in Cilicia. Il 10 giugno del 1190 volle rinfrescarsi nelle acque di un piccolo corso d’acqua, ma mentre si trovava in acqua, colpito forse da una crisi cardiaca, Federico I Barbarossa scomparve nelle acque del torrente, ricomparendo ormai privo di vita qualche decina di metri più a valle. Il suo esercito, privo di altri condottieri in grado di proseguire la spedizione, fece a più riprese ritorno in patria, decimato dalle diserzioni.
La morte di Federico I diede un po' di respiro a Saladino, che si ritrovava con un forte avversario in meno da affrontare. La sua posizione rimaneva comunque molto critica: in aprile il re di Francia Filippo II era sbarcato con il suo esercito nei pressi di Acri, mentre agli inizi di giugno, ad aumentare le sue preoccupazioni ci pensò il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone che giunse via mare con la sua armata. In Terra Santa, Guido di Lusignano riuscì ad organizzare l’assedio di Acri, senza tuttavia ottenere risultati apprezzabili, conseguenza dell’ottima organizzazione dei difensori. Anche con l’arrivo dei crociati francesi di Filippo II, le cose non cambiarono e la città continuava a resistere con fierezza. A risolvere la situazione, il 10 giugno del 1191, giunse il grosso dell’esercito crociato costituito dalle truppe inglesi guidate dal loro re Riccardo Cuor di Leone. Volendo risolvere in fretta la questione di Acri, egli cercò di trovare un accordo per una soluzione pacifica con Saladino, che però, a causa di vari motivi non fu raggiunto. Il 12 luglio, il re inglese diede inizio all’attacco, riuscendo a superare le difese musulmane e riconquistando la città. I 2.700 difensori di Acri presi prigionieri con circa 300 loro familiari, vennero trucidati senza pietà dai cavalieri cristiani. Ciò era in aperto contrasto con il trattamento più umano riservato da Saladino ai cristiani di Gerusalemme, nessuno dei quali venne assassinato dopo la caduta della città.
In agosto Riccardo Cuor di Leone iniziò la sua marcia verso Gerusalemme e il 7 settembre sconfisse le forze di Saladino presso Arsuf; occupò quindi la città di Jaffa e verso novembre si trovava con il proprio esercito a pochi chilometri da Gerusalemme. La città era molto ben difesa dai saraceni e quindi molto meno facile di Acri da conquistare. Anche in questo caso il re tentò di intavolare delle trattative per una soluzione pacifica del conflitto, ma senza risultato. Ma i veri problemi erano all’interno della coalizione cristiana: nello schieramento crociato erano infatti riesplosi gli antichi odi tra genovesi, pisani, e veneziani, tra francesi ed inglesi, tra le forze di Guido di Lusignano e Corrado di Monferrato. Il primo ad abbandonare la crociata fu il re di Francia Filippo II, che con una scusa, lasciò il campo tornando in patria. Altri gruppi componenti l’esercito cristiano fecero ritorno ad Acri dove diedero il via ad una serie di scontri per il possesso della città, che quando ricadde in mani musulmane risultava dominata da 16 diverse famiglie feudali. Rimasto solo davanti a Gerusalemme, Riccardo Cuor di Leone, continuò le sue trattative con Saladino, addivenendo ad un accordo che faceva di Gerusalemme una città aperta ad ogni popolo e ad ogni religione. Quindi intraprese il viaggio del ritorno in patria, nel corso del quale, fece naufragio sulle coste dell’Istria. Catturato ed accusato di aver fatto accordi con gli infedeli, anziché riconquistare Gerusalemme, venne imprigionato in Austria dall’Imperatore Enrico VI. Con questo atto ebbe termine la Terza Crociata.

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