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venerdì 26 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 luglio.
Il 26 luglio 1983 fu un'altra torrida giornata di quell'estate terribile, la più rovente registrata nell'Europa meridionale.
L'estate di quest'anno si sta rivelando finora molto dinamica e a tratti estrema per le ondate di caldo dal Sahara, che a tratti puntano l'Italia senza eccessi. Siamo però appena a metà del cammino dell'estate e per un bilancio definitivo bisognerà attendere il resto di luglio e tutto agosto.
Negli ultimi anni è aumentata la frequenza di ondate di calore dal Sahara che si susseguono in serie. A proposito di singole ondate di calore di forza estrema, quella del luglio 1983 fu di proporzioni davvero bibliche ed è forse la più intensa che abbia mai colpito l'Italia e parte dell'Europa Centrale e meridionale nel periodo coperto dalle misurazioni meteoclimatiche.
L'evento si verifico dopo un forte El Niño. Ci trovavamo all'incirca in questi stessi giorni di 41 anni fa ed era la fine della seconda decade del mese di luglio del 1983 quando una massa d'aria terribilmente calda, schiacciata dall'alta pressione di matrice nord-africana, investì l'Italia ad iniziare dalla Sardegna.
A quest'epoca le ondate di calore non erano frequenti come avviene ora, ma potevano tuttavia essere d'intensità estrema. Il caldo assunse connotati di assoluta eccezionalità in Sardegna, dove si raggiunsero valori termici davvero da capogiro.
A Capo San Lorenzo, sulla costa est, la temperatura subì un'impennata da +30°C del primissimo pomeriggio a +47°C in un paio d'ore. Nel Campidano (Sardara) si ebbero picchi di +47°C, così nelle zone più calde del sassarese (Chilivani) e nuorese (Ottana) fino a +48°C.
Il 22 luglio ad Alghero Fertilia furono misurati +41,8°C, a Cagliari Elmas +43,7°C e su Carloforte +39,2°C, tutti record assoluti. Sempre in Sardegna, nella stessa giornata le stazioni idrologiche di Sanluri e di Perdasdefogu raggiungevano ben +47,0 °C.
La calura durò due settimane, anche se si smorzò da inizio agosto: una persistenza davvero straordinaria con temperature mediamente sui +43/45°C nelle zone interne per le massime, e spesso non sotto i +30°C per le minime.
Nell'Isola vi furono i più disastrosi incendi con numerose vittime: proprio i +49°C di Tempio Pausania non furono omologati per la notevole vicinanza di un rogo. Oltre alla Sardegna, i maggiori effetti dell'ondata di calore si verificarono sulle regioni centro-settentrionali d'Italia, meno invece per quanto riguarda il Sud.
La calura afflisse molte regioni d'Italia, uno dei giorni più roventi fu il 26 luglio quando vennero misurati i seguenti record di temperatura massima assoluta: Firenze Peretola +42,6 °C, l'Osservatorio Ximeniano di Firenze +41,6°C, Arezzo San Fabiano +41,5 °C e Paganella +25,0°C.
Sarzana Luni con +36,4°C e Passo della Cisa con +31,8°C stabilivano invece i propri record mensili di luglio. A Roma Urbe si toccarono 40°C, così come a Pescara ed Ancona Falconara +40,5°C. Bologna il termometro si fermò a +39,6°C il 29 luglio.
Tra gli altri picchi, una citazione d'obbligo per gli oltre +38°C ad Udine, +37°C a Tarvisio, +32,4°C a Dobbiaco. A Bergamo Orio al Serio +39°C, a Milano Malpensa +37,0°C (neppure tanti, considerati i record del 2003), a Genova +35°C e a Torino Caselle +36.2°C.

giovedì 25 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 luglio.
Il 25 luglio 2000 il Concorde appena decollato da Parigi si schianta contro la facciata di un hotel.
Sono le 14:40 circa del 25 luglio del 2000 quando il volo 4590 dell'Air France, diretto a New York, imbocca la pista dell'aeroporto Charles de Gaulle. A bordo ci sono cento passeggeri, in gran parte turisti tedeschi, tre piloti e sei assistenti di volo, che sarebbero «arrivati prima di partire» nella Grande Mela. Così recitava la pubblicità di quel volo, il Concorde. E così era sempre successo, fino ad allora.
Non quel giorno, però. I testimoni, diversi dei quali muniti di videocamera, videro una fiammata provenire da due dei quattro motori dell'aereo. Lo videro alzarsi in volo, più lento e pesante del solito. E poi lo videro schiantarsi, in una nuvola di fumo nero, sulla facciata dell'albergo Hotellissimo di Gonesse, mentre cercava di dirigersi verso l'aeroporto di Le Burget, a nord di Parigi, per un atterraggio d'emergenza. Morirono in 113, comprese quattro persone a terra. Non fu l'ultimo volo del Concorde, ma quell'incidente - il primo e unico in trentun anni - fu l'inizio della fine. Il Concorde fu ritirato nel 2003 e non volò mai più.
Un fulmine a ciel sereno? No, in realtà. Da tempo il sogno di cambiare volto al trasporto aereo con voli supersonici aveva imboccato un binario morto. Negli anni ’50, però, ci credevano tutti: gli Stati Uniti, la Russia, la Francia e la Gran Bretagna. La Russia, soprattutto, che arrivò per prima con il Tupolev Tu-144. Concordski, lo chiamavano i media occidentali, quasi a voler rimarcare il fatto che furono i russi a copiare l'aereo supersonico europeo. Tuttavia, il Tu-144 fece il suo primo volo il 31 dicembre del 1968, tre mesi prima del Concorde.
Entrambi, peraltro, presero la forma da un altro aereo russo, il Sukhoi T-4 - Sotka, per gli amici - un prototipo di bombardiere militare sviluppato dall'Unione Sovietica nel 1961 e rimasto tale. Sotka era un aereo con un'ala a delta ogivale, un grande triangolo con la base vicina alla coda del velivolo, che si protendeva fin quasi a lambire la cabina dell’equipaggio, come una specie di grande aereo di carta.  Altra caratteristica iconica di questo tipo di aerei, il lungo muso a punta, in grado di inclinarsi verso il basso per consentire sufficiente visibilità ai piloti durante i decolli e gli atterraggi, per poi riallinearsi con la fusoliera durante la fase di crociera.
Si chiamava Concorde, il modello europeo, perché sviluppato assieme da Gran Bretagna e Francia. O meglio, da Bristol Aviation Company e Sud Aviation. Furono i francesi a imporre la "e" alla fine del nome, rendendolo francofono. Alla faccia della concordia, l'allora primo ministro britannico Harold MacMillan si impuntò per cambiare il nome dell'aereo in Concord, all'inglese. Fu tuttavia il suo ministro della tecnologia Tony Benn a cambiare di nuovo il nome. La “e” finale, disse, era sinonimo di eccellenza ed eleganza.
Erano solo due le compagnie che usavano il Concorde, la Air France e la British Airways. Iniziarono nel 1976 e volavano sulle rotte tra Londra e il Bahrein e tra Parigi e Rio de Janeiro. La tratte più note nell'immaginario collettivo rimangono tuttavia quelle dalle due capitali europee a New York. In realtà, all'inizio, la città americana proibì, causa rumore, il volo dei Concorde sopra i suoi cieli. Il superamento del muro del suono produceva infatti quello che viene definito un “sonic boom”, un rumore simile a un’esplosione. Il divieto venne tuttavia abolito l'anno dopo e cominciò la leggenda dell'aereo che "arriva prima di partire"
Era vero. Se oggi servono circa sette ore per andare da Londra a New York, con il Concorde ce ne volevano solo tre e mezza (il record, due ore e cinquantotto minuti, fu stabilito il 1 gennaio del 1983). Partendo alle otto del mattino dalla capitale inglese, poniamo, si poteva arrivare attorno alle sei e mezza. Non era solo una questione di velocità, peraltro. Certo, il Concorde, al pari di un'automobile sportiva, non era un aereo comodo: i sedili erano molto stretti, l'altezza del corridoio di soli un metro e ottanta, non c'erano prima e seconda classe. E se biasimate Ryanair per le cappelliere troppo piccole, non avete idea di quanto lo fossero quelle dell'aereo super veloce.
 Detto questo, chi l'ha vissuta racconta l'esperienza di volare con il Concorde come meritevole di essere vissuta e non solo per lo champagne servito a bordo. Niente turbolenze o quasi, ad esempio, perché il Concorde volava a una quota di crociera pari a 17mila metri, circa il doppio di quella di un normale volo. A quella quota, inoltre, era possibile, guardando l'orizzonte dal finestrino, vedere chiaramente la curvatura terrestre, un panorama da viaggio nello spazio. Per i piloti stessi, il Concorde era un bel giocattolo, molto più semplice da portare rispetto a un Boeing 747.
Lussi costosi, tuttavia. Il programma dello sviluppo del velivolo arrivò a costare circa 1,3 miliardi di sterline e le cose non migliorarono granché quando cominciano i voli commerciali del Concorde. La British Airways dovette alzare di molto i prezzi per portare in attivo il servizio. La manutenzione, soprattutto, era molto costosa e per farlo volare serviva molto più carburante che per un normale jet. Volare col Concorde, insomma, era e rimaneva un lusso, sia per i passeggeri, sia per le compagnie aeree. Le strategie di queste ultime, inoltre, erano orientate a competere sul servizio e sulla capienza degli aerei, non sulla velocità. Particolare non irrilevante, la guerra fredda e la competizione tecnologico-politica con i Tupolev dell'Aeroflot era finita da un pezzo.
L'incidente di Parigi, insomma, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Inizialmente si pensò che l'incidente fosse stato causato da una striscia metallica in titanio persa da un aereo della Continental Airlines decollato dalla medesima pista pochi istanti prima. Da lì, la reazione a catena. La placca fora la gomma, i frammenti della ruota rompono i cavi elettrici del carrello e impattano col serbatoio, l'aereo perde combustibile e il secondo motore prende fuoco. I piloti spengono il secondo motore e non riescono a rialzare il carrello, compromettendo il decollo. L'aereo si schianta.
In base a questa ricostruzione, la Continental Airlines, il 6 dicembre 2010, fu condannata a pagare un milione di euro di risarcimento ad Air France, in quanto ritenuta parte in causa del disastro e un suo dipendente condannato a 15 anni di reclusione per avere fabbricato e installato male la placca di titanio. Tale versione, tuttavia, ha lasciato spazio a numerosi dubbi: secondo l'ex pilota Kevin Smith, sul suo blog Ask The Pilot (”Chiedi al pilota”) il volo 4590 si è schiantato perché volava troppo piano, perché era sovrappeso di diverse tonnellate e perché due motori su quattro sono stati erroneamente spenti, rendendo impossibile il decollo del velivolo. In appello, nel 2012, la Continental Airlines fu assolta sulla base di queste motivazioni.
Mentre si spengono le luci sulla tragedia di Parigi, tuttavia, si riaccende il sogno del Concorde e del volo supersonico. Nel 2014, la francese Airbus e l'americana Aerion hanno presentato il prototipo di un nuovo Concorde, l'Aerion AS2. Più lento del suo predecessore, sarà prodotto a Reno, in Nevada e sarà composto interamente con un materiale composito in fibra di carbonio. Secondo il presidente della Aerion Robert Bass il primo volo commerciale avverrà nel 2021. Collegherà Londra, New York, Tokyo e Los Angeles, ma ogni volo potrà ospitare solamente 12 passeggeri. Nel ventesimo secolo, arrivare prima di partire non era un privilegio per tutti. Nel ventunesimo, lo è ancora meno.

mercoledì 24 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 luglio.
Il 24 luglio 1882 muore Carlo Mayr.
Nacque a Ferrara il 3 ott. 1810 da Giuseppe e da Maddalena Beltramini. Il padre discendeva da una famiglia originaria della Baviera e di condizione piuttosto agiata giunta in Italia all’inizio del XVIII secolo.
Studente molto brillante, Mayr frequentò l’Archiginnasio di Ferrara per poi laurearsi in giurisprudenza con il massimo dei voti e intraprendere, dal 1831, la professione legale con grande successo. Quand’ancora frequentava le scuole superiori, entrò in contatto con alcuni esponenti della carboneria e non molto tempo dopo si affiliò alla Giovine Italia. Sempre nel 1831 partecipò ai moti scoppiati nei Ducati di Parma e Modena e poi estesisi alle limitrofe Legazioni pontificie. Fu proprio in quel periodo che comprese quanto fosse importante l’instaurazione di un regime rispettoso della libertà e dei diritti degli individui. Perciò, da avvocato, fu sempre pronto a difendere in tutti i tribunali dello Stato patrioti e liberali e anche per questo fu presto sottoposto ad attiva sorveglianza da parte della polizia cittadina.
Nel 1848, allo scoppio dei moti, era maggiore della guardia civica, corpo per il cui mantenimento insieme con il cugino Francesco Mayr si era battuto contro il legato pontificio, il cardinale G. Ugolini. In particolare aveva fatto parte di una commissione che aveva trattato con gli Austriaci e condotto in porto la resa delle fortezze di Ferrara e Comacchio.
Non prese parte attiva ai combattimenti, segnalandosi piuttosto come preside della sua città, veste nella quale promosse l’emancipazione degli ebrei dal ghetto; successivamente fu membro della giunta provvisoria costituitasi dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi. Inoltre, verso la fine del giugno 1848 aveva assunto la direzione provvisoria della Gazzetta di Ferrara, «foglio politico, scientifico e letterario», di orientamento liberale, fondato qualche settimana prima da F. Mayr, allora a Roma quale membro del Consiglio dei deputati. Tramite la fittissima corrispondenza intrattenuta con lui, Carlo era sempre al corrente di quanto avveniva nella capitale.
Ben lungi dall’apprezzare la svolta moderata di Pio IX, il Mayr mantenne viva l’agitazione a Ferrara come vicepresidente del Circolo nazionale chiedendo tra l’altro nel novembre 1848 un rafforzamento della guarnigione cittadina contro probabili ritorni austriaci. Nel gennaio del 1849 a Ferrara si insediò una commissione di governo formata da tre membri, tra cui il Mayr. Nelle elezioni del 21 gennaio, con una votazione plebiscitaria – in cui risultò il primo eletto – entrò come deputato nell’Assemblea costituente di quella che di lì a poco sarebbe divenuta la Repubblica Romana, nel cui governo, per volere di G. Mazzini, ricoprì la carica di ministro dell’Interno. Quando le truppe francesi invasero il territorio della Repubblica, non esitò a imbracciare le armi e, per il suo valore, venne dichiarato dall’Assemblea romana «benemerito della Patria» e fu insignito di una medaglia d’oro.
Al ritorno del papa Mayr fu costretto all’esilio: dopo essere stato in Grecia, Turchia, Inghilterra, Francia e Toscana, si stabilì in Piemonte, dove – ormai abbandonate le idee repubblicane – fu nominato presidente del Comitato generale di emigrazione. Nel 1859, allo scoppio della guerra con l’Austria, tornò nella sua città e fu nominato intendente di Forlì, dove era necessario contenere le spinte repubblicane. Venne poi chiamato come ministro dell’Interno da L.C. Farini, capo di un governo provvisorio che resse l’Emilia prima che fosse annessa al Regno sabaudo.
Deputato all’Assemblea delle Romagne, il M. fu relatore della proposta di annessione al Piemonte e, ottimo organizzatore, fu il regista della prima visita ufficiale di Vittorio Emanuele II a Napoli, tanto che il re ne lodò pubblicamente l’operato. Alle elezioni per la VII legislatura (1860) – l’ultima del Regno di Sardegna – risultò eletto deputato per il collegio di Ferrara, ma l’elezione fu annullata, essendo egli allora intendente generale di Bologna, posto dove lo aveva voluto C. Cavour. La legislatura, però, durò solo pochi mesi; nella successiva (1861) fu rieletto nello stesso collegio al ballottaggio, con 300 voti su 387 votanti.
La sua attività di parlamentare lo portò a occuparsi in prevalenza di problemi giuridici: per esempio intervenne con decisione nei dibattiti sull’abolizione di quanto ancora restava del sistema feudale. Su tale argomento parlò una prima volta il 14 febbr. 1861, sostenendo l’urgenza dell’approvazione di una legge sulla possibilità di affrancare l’enfiteusi in sostituzione di quella sarda allora applicata nel Regno, che riteneva «improvvida, […] cattiva per giudizio universale». Il 10 maggio 1861, nel dibattito sull’abolizione dei vincoli feudali in Lombardia, sollecitò la rapida approvazione di un’unica disciplina di riforma per tutto il territorio nazionale. Nella seduta del 30 apr. 1861 presentò un’interpellanza al ministro guardasigilli, G.B. Cassinis, riguardo la necessaria riforma dei codici. Secondo il M., infatti, erano molteplici i problemi che accompagnavano l’estensione dei codici sardi a tutto il territorio nazionale: le «mutate condizioni politiche», infatti, non li rendevano più adatti a soddisfare le esigenze della popolazione, che «sopportava questo stato anormale ed ibrido della legislazione con impazienza, […] credendolo provvisorio, e desiderava di sortirne il più presto possibile». Occorreva, a suo dire, una riforma radicale, non essendo più possibile procedere all’approvazione di leggi speciali per le singole province; e, a evitare un lavoro di scarsa qualità, la Camera, dettati i principî fondamentali, avrebbe dovuto nominare commissioni di esperti con il compito di redigere un testo di legge da sottoporre poi all’approvazione del Parlamento. Il M. era anche convinto che fosse urgente abolire qualsiasi vincolo che limitasse la libera circolazione della proprietà.
Nel 1863 motivi di salute lo costrinsero a rassegnare le dimissioni, che la Camera accettò nella seduta del 29 gennaio. In verità era ormai assorbito dalla carica di prefetto (di provenienza politica) che ricoprì ininterrottamente dal 1859 al 1877 e che lo vide destinato a varie sedi. Cominciò come intendente a Forlì nel 1859 e come intendente generale a Bologna (1860-61) nella delicata fase delle annessioni. Come prefetto fu poi destinato a Caserta (1861-64), Alessandria (1864-67), Genova (1867-72), Venezia (1872-76) e infine, su designazione della Sinistra da poco giunta al potere, a Napoli (1876-77). Delle esperienze fatte come suddito pontificio gli era rimasta una fortissima avversione verso il ceto ecclesiastico; tale sentimento, una volta a capo della suddette province, indirizzò molti dei suoi atti amministrativi, inducendolo a curare in particolare il ricambio di funzionari e impiegati pubblici (a Caserta mise uomini di provata fede liberale nei posti chiave della prefettura) e intervenendo – anche attraverso la manipolazione delle liste degli iscritti al voto – nel voto municipale. Non sempre questa azione ebbe successo: a Venezia, per esempio, i clericali vinsero sia nel 1873 sia nel 1874; ma questo non fece che aumentare la sua fedeltà alle istituzioni e il bisogno di difenderle dagli attacchi della reazione.
Meno accanimento sembra ponesse nel contrastare i fenomeni eversivi. Come prefetto di Genova, nel 1870, evitò l’arresto di Mazzini, arrivando anche a domandare all’allora presidente del Consiglio, G. Lanza, quale fosse il titolo giuridico che giustificasse tale provvedimento. Lanza rispose in modo sprezzante, definendo Mazzini il responsabile di tutte le sommosse repubblicane, e ordinò di indagare sul comportamento negligente del Mayr. Quando Mazzini fu poi arrestato e condotto alla fortezza di Gaeta, Mayr continuò, comunque, a interessarsi al suo caso.
Due anni più tardi, al momento della morte di Mazzini, il Mayr, che era ancora prefetto della città ligure, gestì con grande efficienza la non facile emergenza dei funerali. Tuttavia, come osservato da A. Grilli, con gli anni era cambiato: in una lettera al figlio Scipione del 17 marzo 1872 parla della morte di Mazzini limitandosi a deprecarne l’uso strumentale fattone dai partiti estremisti, senza alcuna partecipazione emotiva e lamentando, anzi, i fastidi che aveva dovuto subire.
Commendatore e membro dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro fin dal 1861, il 6 dic. 1868 era stato nominato senatore per la 5ª e la 17ª categoria. La sua attività all’interno della Camera alta fu, però, piuttosto modesta: le sole energie che vi spese furono volte allo snellimento degli impedimenti burocratici che non poco complicavano l’attività del Senato. Quando cessò dall’incarico di prefetto (30 ott. 1877) fu nominato presidente di sezione del Consiglio di Stato.
Carlo Mayr morì a Roma, il 24 luglio 1882.
Sposato con una Bertelli, fu padre di tre figlie e di Scipione, militare di carriera che, dopo aver preso parte alle guerre del Risorgimento, fu anche scudiero onorario di Umberto I.

martedì 23 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 luglio.
Il 23 luglio 1967, a Detroit, ha inizio la "rivolta della dodicesima strada".
Il 23 luglio 1967, alle 3, 37 di mattina, iniziava a Detroit, nel Michigan, una delle più violente rivolte popolari della storia degli Stati Uniti d’America. Ancora oggi è ricordata come “la rivolta della XII strada”, perché iniziò in un bar di quella via, oggi, ribattezzata Rosa Parks boulevard. La sommossa, violentissima, causò 43 morti, 1200 feriti, di cui alcuni gravi, circa 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Incalcolabili i danni. Gli scontri durarono dal 23 al 26 luglio 1967, e furono utilizzati anche carri armati, oltre a paracadutisti e Guardia nazionale. Le cose andarono così: nelle prime ore del mattino vi fu un’irruzione della polizia in un bar, The blind pig, che era privo di licenza, ma era chiaro che la tensione era altissima in quel quartiere, Near West Side, e che il raid fu solo l’evento scatenante. Inizialmente fu uno scontro tra i clienti del bar e gli agenti, ma poi si trasformò in poche ore in una autentica sommossa, per stroncare la quale il governatore George Romney e il presidente Lyndon Johnson fecero ricorso alla Guardia nazionale e poi all’esercito. Nel circolo la polizia trovò un centinaio di afroamericani che stavano festeggiando il ritorno di due di loro dalla guerra del Vietnam, e decisero di arrestarli tutti. Un giovane, Walter Scott, in seguito raccontò di aver scagliato una bottiglia contro la polizia scatenando il tutto.
Dopo che la polizia fu messa in fuga, la gente, alla quale si era unita anche una folla di curiosi, iniziò a saccheggiare i negozi vicini, distruggendo tutto quello che potevano. La rivolta della 12ma strada passa come rivolta afroamericana, ma in realtà anche moltissimi bianchi parteciparono ai disordini. La folla iniziò a gettare gli arredamenti degli edifici per strada e nel primo pomeriggio scoppiò il primo incendio, seguito da molti altri in varie parti della città. Furono uditi numerosissimi colpi di arma da fuoco, anche perché molti negozi di armi furono depredati. La rivolta, dopo un’iniziale esitazione della stampa per evitare emulazioni altrove (che ci furono comunque), ebbe ben presto una copertura mediatica notevole, tanto che il Detroit free press vinse in seguito il Premio Pulitzer proprio  per tale copertura.
Solo dal lunedì si capì la portata della rivolta, seconda solo a quella di Los Angeles del 1992, e reparti dell’esercito iniziarono ad affluire in città mentre si compivano gli arresti, l’80 per cento dei quali in effetti riguardò afroamericani. Non c’era spazio nelle prigioni, così si dovette ricorrere a celle improvvisate. Martedì arrivarono cinquemila parà delle forze speciali, mentre i pompieri tentavano di spegnere gli incendi. In seguito i rivoltosi denunciarono molti abusi e maltrattamenti di prigionieri da parte della polizia. Come accennato, furono utilizzati tank e mitragliatrici, ma mentre la Guardia nazionale, inesperta e violenta, non si dimostrò all’altezza della situazione, uccidendo ben 11 persone, i veterani del Vietnam non uccisero nessuno e riuscirono a riportare l’ordine in 48 ore. Il 28 le truppe iniziarono a ritirarsi e il 29 il ritiro era completato. Emarginazione, povertà, rifiuto dell’integrazione furono tra le cause scatenanti della rivolta, ma va anche detto che la 12ma strada era abitata dagli afroamericani più estremisti. Dei 43 morti, 33 erano neri e 10 bianchi. Ai fatti della XII strada sono stati dedicati articoli, documentari, ballate, film, e recentemente un docufilm su quei giorni, Detroit, diretto da Kathryn Bigelow.

lunedì 22 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 luglio.
Il 22 luglio 1587 coloni inglesi arrivano nell'isola di Roanoke, nella Carolina del Nord, per rifondare la colonia abbandonata. Saranno in seguito protagonisti di un mistero che dura da oltre 400 anni.
È un mistero che affascina gli americani da secoli: che cosa è successo agli abitanti della colonia perduta di Roanoke Island, nel North Carolina?
I coloni, che arrivarono nel 1587, scomparvero nel 1590 lasciando dietro di sé solo due indizi: le parole "Croatoan" e "Cro" incise rispettivamente sul pilastro di un forte e su un albero.
Le ipotesi sulla misteriosa sparizione spaziano da una epidemia agli scontri con tribù di nativi americani locali. Scavi precedenti avevano fornito alcuni dati e qualche manufatto dei coloni, ma nessuna informazione su ciò che era stato di loro.
Ora, grazie ai progressi tecnologici e a una mappa con indizi nascosti, i ricercatori stanno finalmente scoprendo cosa accadde ai coloni di Roanoke.
I coloni furono il terzo gruppo di inglesi ad arrivare su Roanoke Island, in North Carolina, e si stabilirono vicino all'attuale città di Manteo.
Il primo gruppo era giunto nel 1584 per esplorare e mappare il terreno per futuri insediamenti. Un secondo gruppo, arrivato nel 1585, era incaricato di una missione militare e scientifica. Ma l'esito della missione fu tutt'altro che pacifico.
"Fu allora che iniziarono le tensioni [con le tribù dei nativi americani locali]", spiega Argilla Swindell dell'Albemarle Museum di Elizabeth City, North Carolina, uno degli archeologi che studiano la colonia. Questo secondo gruppo, dice Swindell, fu cacciato nel 1586 dalle tribù locali, infuriate perché i coloni si stavano impadronendo delle risorse e delle terre migliori.
Nel 1587 giunse la terza ondata di inglesi. Stavolta sbarcarono intere famiglie: 17 donne e 11 bambini accompagnati da circa 90 uomini, segno inequivocabile che intendevano stabilirsi nel Nuovo Mondo.
È stato un indizio scoperto in un'antica mappa chiamata "La Virginea Pars", tracciata da John White, a mettere in moto le nuove ricerche sul destino dei coloni perduti. White, un artista alle dipendenze dell'esploratore Sir Walter Raleigh, venne nominato governatore delle nuove terre; era anche il nonno del primo bambino inglese nato nel Nuovo Mondo, Virginia Dare.
Due "toppe" scoperte sulla mappa hanno indotto Brent Lane della First Colony Foundation (il gruppo che conduce le recenti ricerche archeologiche, beneficiario di un fondo di ricerca NGS) a chiedersi che cosa potessero celare.
Gli scienziati del British Museum le hanno esaminate scoprendo che nascondevano un piccolo simbolo rosso e blu. Quel simbolo poteva forse indicare un forte o un rifugio segreto?
"L'ipotesi più probabile è che l'esplorazione nel Nord America condotta da Raleigh fosse almeno in parte coperta dal segreto di Stato, e che la mappa 'coperta' rappresentasse il tentativo di nascondere le informazioni raccolte a possibili agenti stranieri", dice lo storico Eric Klingelhofer della Mercer University di Macon, Georgia, responsabile del progetto di ricerca.
Per la maggior parte dei ricercatori, l'ipotesi più probabile è che i coloni abbiano contratto una malattia - causata da qualche microbo del Nuovo Mondo a cui non erano preparati - o che siano stati attaccati. In ogni caso, qualunque sia stata la calamità che li colpì, i coloni probabilmente si divisero in gruppi più piccoli e si dispersero.
"È una buona strategia", commenta Klingelhofer, spiegando che questo era ciò che era stato ordinato di fare al gruppo precedente - quello del 1585 - in caso di disastro. "Non siamo certi che è ciò che fecero, ma di sicuro era l'unico modo in cui avrebbero potuto sopravvivere. Erano troppi, un centinaio di persone, nessuna tribù avrebbe potuto sfamarli".
L'ipotesi più accreditata è che i coloni abbandonarono Roanoke, viaggiando per una settantina di chilometri a sud verso Hatteras Island, in seguito nota come Croatoan Island. E se invece, si è chiesto Klingelhofer, fossero andati in un'altra direzione? Che cosa sarebbe successo se alcuni dei coloni si fossero mossi verso ovest, lungo l'Albemarle Sound, per raggiungere la foce del fiume Chowan, dove viveva una tribù amichevole?
A conferma di questa ipotesi, gli archeologi hanno identificato il sito di un piccolo insediamento di nativi americani di nome Mettaquem, che potrebbe aver "adottato" parte dei coloni.
"È un posto molto strategico, proprio alla fine dell'Albemarle Sound", spiega Klingelhofer. "Da lì si può andare a nord fino al fiume Chowan in Virginia, oppure a ovest, verso le Blue Ridge Mountains. Da questo sito partivano intensi scambi commerciali" con le tribù di nativi americani.
Dopo la scoperta dell'indizio segreto sulla mappa, Klingelhofer, insieme con la First Colony Foundation (che studia i primi tentativi di colonizzazione del Nuovo Mondo), ha proposto di tornare sul sito sul fiume, ma con strumenti del XXI secolo: magnetometri e georadar (GPR, ground penetrating radar), una metodologia non invasiva utilizzata in geofisica nello studio del primo sottosuolo.
Malcolm LeCompte, ricercatore associato presso la Elizabeth City State University in North Carolina, è stato il responsabile delle analisi GPR nella ricerca archeologica sui coloni perduti di Roanoke. Lo studio è iniziato all'inizio del 2013 con un sondaggio satellitare del sito alla foce del fiume.
"Quello che facciamo è prendere le mappe più antiche che possiamo trovare, in modo da avere un riferimento storico, e confrontare ciò che potrebbe essere stato in passato con quello che c'è adesso". I ricercatori insomma cercano somiglianze tra le vecchie mappe e l'attuale geografia della zona; una volta identificate le corrispondenze, si crea una griglia e si iniziano le ricerche con il georadar.
Il GPR emette onde radio nel terreno e misura l'eco del segnale che rimbalza su vari oggetti sepolti nel sottosuolo, indicandone l'eventuale presenza. Gli oggetti in metallo, come i cannoni in ferro trovati presso il sito, funzionano come "antenne giganti", dice LeCompte. Anche le tombe sono individuabili, perché contengono vuoti con differenti densità e minori proprietà conduttive rispetto al suolo circostante.
LeCompte e colleghi hanno rilevato delle anomalie che potrebbero indicare la presenza di una o più strutture, forse in legno, a circa un metro di profondità.
"Non so se si tratta di una o più [strutture]", dice, aggiungendo che "potrebbero essere unite o molto vicine". Forse il legno delle strutture si è disintegrato nel corso del tempo, lasciando però tracce nel terreno circostante, ipotizza LeCompte.
Swindell dell'Albemarle ha proposto anche l'uso di un magnetometro per verificare i dati del georadar. Molto più sensibile di un metal detector, il dispositivo può individuare oggetti sepolti fino a quattro metri nel sottosuolo. Il dispositivo misura distorsioni del campo magnetico causate dalla presenza di oggetti interrati.
Swindell è convinta che vi siano anche resti di palizzate utilizzate dagli agricoltori per tenere lontano dalle colture gli animali selvatici.
La presenza della struttura sepolta e della recinzione indicano l'elevata probabilità che nel sito fossero presenti anche dei coloni. Ciò che complica ulteriormente la vicenda è la presenza di successivi siti coloniali nella zona risalenti al 1700.
Purtroppo, nessuna tecnologia è in grado di rivelare il ruolo giocato nella vicenda dalle popolazioni native americane, che resta un enigma tutto da risolvere.
Al tempo della colonia di Roanoke, le relazioni con i nativi americani erano piuttosto tese. Roanoke era situata geograficamente nel punto dove si incontravano i Secotan - che dominavano Roanoke - e i Chowanoke, che controllavano i corsi d'acqua nelle vicinanze. Ma la tensione era particolarmente alta tra i coloni e i Secotan.
"Non c'è dubbio che ci fosse molta ostilità", dice Klingelhofer. "Non tutte le tribù erano nemiche, ma alcune si. Si sentivano invasi. C'erano scontri sia tra le tribù, e tra alcuni dei popoli nativi e i coloni inglesi.
Il fatto che gli inglesi fossero già venuti più volte a esplorare la zona non fece che complicare le cose. Il secondo gruppo di inglesi - quello giunto prima dei coloni con donne e bambini - era stato respinto in Inghilterra, e l'arrivo dei coloni trovò una situazione già inasprita. "Non mi sorprenderebbe che i Secotan volessero sbarazzarsi in qualunque modo degli inglesi", commenta Swindell.
Le testimonianze archeologiche scoperte nella zona sembrano comunque indicare scambi fra tribù locali e coloni europei nel XVI e XVII secolo. Per saperne di più, bisognerà però armarsi di pala e scavare, dice Swindell.

domenica 21 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 luglio.
Il 21 luglio 2018, per motivi di salute, Sergio Marchionne viene sostituito alla guida della Fiat Chrysler Automobiles dal britannico Michael Manley.
Sergio Marchionne nasce a Chieti il 17 giugno 1952, figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato da giovane in Canada. Ha conseguito tre lauree: in Legge alla Osgoode Hall Law School of York University, un Master in Business Administration (MBA) presso la University of Windsor e una laurea in filosofia conseguita presso l'Università di Toronto.
Lasciato il mondo forense, svolge la prima parte della sua attività professionale nel Nord America come dirigente. Dal 1983 al 1985 lavora per Deloitte Touche come commercialista esperto nell'area fiscale; successivamente dal 1985 al 1988 ricopre il ruolo di controllore di gruppo e poi direttore dello sviluppo aziendale presso il Lawson Mardon Group di Toronto. Dal 1989 al 1990 è nominato vice presidente esecutivo della Glenex Industries. Dal 1990 al 1992 ricopre il ruolo di responsabile dell'area finanza della Acklands e, contemporaneamente, la carica di responsabile per lo sviluppo legale e aziendale presso il Lawson Group, acquisito nel frattempo da Alusuisse Lonza (Algroup). Qui ricopre ruoli di crescente responsabilità, presso la sede centrale di Zurigo, fino a diventarne l'amministratore delegato.
Sergio Marchionne guida in seguito il Lonza Group, separatosi da Algroup, fino al 2002, anno in cui viene nominato amministratore delegato del Gruppo SGS di Ginevra, leader mondiale nei servizi di ispezione, verifica e certificazione; il gruppo è forte di 46 mila dipendenti in tutto il mondo. Grazie all'ottima gestione del gruppo svizzero, risanato nel giro di due anni, il nome di Sergio Marchionne acquisisce lustro negli ambienti economici e finanziari internazionali.
A partire dal 2003, su designazione di Umberto Agnelli, Marchionne entra a far parte del Consiglio di Amministrazione del Lingotto Fiat. In seguito alla morte di Umberto Agnelli e alle dimissioni dell'amministratore delegato Giuseppe Morchio, che aveva lasciato l'azienda dopo il rifiuto della famiglia Agnelli di affidargli anche la carica di presidente, Sergio Marchionne viene nominato (1 giugno 2004) Amministratore delegato del Gruppo Fiat. Dopo alcuni contrasti con il dirigente tedesco Herbert Demel, nel 2005 assume anche la guida di Fiat Auto in prima persona.
Il 2 giugno del 2006 viene nominato Cavaliere dell'Ordine al merito del Lavoro dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Marchionne ha ricevuto una laurea honoris causa in Economia Aziendale dall'Università degli studi di Cassino nel 2007, e una laurea magistrale ad Honorem in Ingegneria Gestionale dal Politecnico di Torino nel 2008.
Di doppia nazionalità italiana e canadese, nel 2006 è stato inoltre nominato Presidente della European Automobile Manufacturers Association (ACEA). Insieme a Luca Cordero di Montezemolo, è considerato l'artefice dell'avvenuto risanamento della divisione Fiat.
Durante la sua amministrazione, Fiat deve affrontare progetti che erano stati scartati in precedenza: Fiat 500, Lancia Fulvia Coupé, Fiat Croma e vengono prodotti in soli due anni molti nuovi modelli. In pieno periodo di crisi internazionale globale, nel mese di aprile del 2009 Marchionne effettua lunghe e travagliate trattative legate all'acquisizione della statunitense Chrysler con i sindacati ed il governo americani. Al termine delle trattativa viene raggiunto un accordo che prevede l'acquisizione da parte del Lingotto del 20% delle azioni Chrysler, in cambio del know how e delle tecnologie torinesi, facendo nascere così il sesto gruppo automobilistico del mondo. Tale è l'importanza dell'accordo che è lo stesso Presidente degli Stati Uniti Barack Obama a darne annuncio.
Nei giorni immediatamente successivi all'accordo con la casa automobilistica d'oltreoceano, l'AD di Fiat Group inizia trattative con i sindacati ed il governo tedeschi per una fusione tra la casa automobilistica piemontese e la tedesca Opel (facente parte del gruppo statunitense General Motors): l'obiettivo è quello di dare vita a un colosso del settore automobilistico capace di produrre 6 milioni di vetture all'anno.
Nel settembre 2014 sostituisce Luca di Montezemolo alla presidenza della Ferrari. Il 21 luglio 2018, a causa dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute, il consiglio di amministrazione di FCA, convocato d'urgenza, decide di sostituirlo con Michael Manley, in precedenza responsabile del marchio Jeep.
Ricoverato da circa un mese muore all'età di 66 anni presso un ospedale di Zurigo, in Svizzera, a causa di un tumore alla parte apicale del polmone (anche se le notizie ufficiali su questo dettaglio sono vaghe). Sergio Marchionne lascia la moglie Manuela Battezzato e i due figli Alessio Giacomo e Jonathan Tyler. Il suo corpo è stato cremato e le sue ceneri tumulate nella tomba di famiglia all'interno del cimitero di Vaughan, non lontano da Toronto, in Canada.  

sabato 20 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 luglio.
Il 20 luglio 2001, in piazza Alimonda a Genova, viene ucciso Carlo Giuliani.
Ventitré anni fa, durante una manifestazione contro il G8 in piazza Alimonda, a Genova, il carabiniere Mario Placanica uccise il manifestante 23enne Carlo Giuliani con un colpo sparato dalla sua pistola d’ordinanza. Le scene dell’uccisione di Giuliani furono mostrate da tutte le televisioni del mondo e diventarono per molti un simbolo delle proteste contro il G8 e della violenza della polizia, pochi giorni prima dei tragici fatti della scuola Diaz. I giudici stabilirono poi che Placanica aveva sparato per legittima difesa e il carabiniere fu prosciolto dall’accusa di omicidio colposo. Furono però contestate alcune lacune dell’inchiesta e la mancanza di chiarezza su quello che avvenne esattamente quel giorno a Genova; ci furono anche molte discussioni sulle presunte responsabilità di chi creò la situazione che portò alla morte di Giuliani. Oggi i processi e le commissioni di inchiesta parlamentare sono tutti chiusi ed è difficile che nel prossimo futuro si potranno chiarire ulteriormente altri aspetti di questa vicenda.
Venerdì 20 luglio 2001 iniziò a Genova la riunione dei capi di governo del G8, organizzata dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Era un incontro particolarmente atteso da parte del movimento “no-global”, un gruppo molto vasto ed eterogeneo composto soprattutto da ambientalisti, anarchici ed esponenti della sinistra radicale. Il movimento si era rafforzato due anni prima durante il G8 di Seattle, quando migliaia di manifestanti si erano scontrati con la polizia (quel movimento prese il nome di “popolo di Seattle”). Tra il 19 e il 22 luglio erano attesi a Genova decine di migliaia di manifestanti da tutto il mondo e governo e forze di sicurezza italiane decisero di prendere imponenti misure di sicurezza. Prima dell’inizio della manifestazione, il clima era molto teso: c’era il timore di attacchi terroristici e la paura che le manifestazioni diventassero violente. Pochi giorni prima, la questura di Genova aveva diffuso tra le forze dell’ordine un’informativa che parlava di possibili azioni dei manifestanti contro la polizia, come ad esempio l’uso di “catapulte” e il lancio di frutta con all’interno lamette da barba o palloncini pieni di sangue infetto.
La mattina del 20 luglio ci furono i primi cortei della giornata, che cominciarono senza violenze. Poi la situazione cambiò in fretta: iniziarono a verificarsi degli incidenti e gli scontri tra manifestanti e polizia si fecero molto duri. Le immagini riprese in quei momenti, e in generale nei giorni del G8, furono trasmesse da molte televisioni in giro per il mondo, anche perché mostravano episodi di reazioni molto dure della polizia contro i manifestanti. Furono trasmesse scene che mostravano persone sanguinanti allontanarsi dagli scontri e che si curavano le ferite in strada con mezzi di fortuna. Parte dei manifestanti affrontò duramente la polizia, con il lancio di sassi e pietre, e in alcuni casi bottiglie incendiarie. Gruppi ancora più piccoli e organizzati, quelli che i giornali definirono i “black bloc” compirono atti di vandalismo, attaccando banche e supermercati.
Dalle ricostruzioni di quei giorni emerse che le forze di sicurezza si trovarono in grande difficoltà nel gestire la situazione, sia causa della disorganizzazione che della conformazione della città di Genova, intersecata da strade spesso strette e ripide. Poliziotti e carabinieri furono anche accusati di aver lasciato liberi i vandali e di aver attaccato i grossi cortei più pacifici. Nel corso di uno di questi scontri, un gruppo di carabinieri si ritrovò in piazza Alimonda da dove, non è chiaro perché, si mosse attraverso una via laterale verso il fianco di uno dei cortei più grandi, il cui percorso era stato autorizzato dalle autorità.
Dietro ai carabinieri avanzavano anche due fuoristrada non blindati: una mossa sbagliata, come è stato poi confermato dagli stessi carabinieri, perché i due mezzi rischiavano di restare isolati dal resto del reparto e, a causa della mancanza di blindatura, i loro occupanti sarebbero stati in pericolo se fossero stati circondati. Dai filmati di quei minuti non sembra che il reparto fosse direttamente minacciato e infatti non compì una vera e propria carica. I carabinieri si mossero lentamente contro il fianco dei manifestanti, subendo – e poi rispondendo – a un lancio di sassi. Furono costretti prima a indietreggiare e poi scappare per interrompere il contatto: il comandante del reparto disse che i suoi uomini “persero lucidità” e “arretrarono in maniera impetuosa”.
Nella confusione di quegli attimi, il reparto in fuga si lasciò dietro i due fuoristrada che finirono per intralciarsi a vicenda restando bloccati nel mezzo della piazza. Uno dei due mezzi fu circondato da decine di manifestanti che iniziarono ad attaccare il veicolo con sassi e assi di legno, sfondando i finestrini e cercando di lanciare oggetti contro gli occupanti. Placanica si trovava all’interno del mezzo e raccontò che in quel momento fu preso dal panico. Estrasse la sua pistola d’ordinanza e minacciò i manifestanti che lo circondavano. Disse di aver ripetuto il grido più volte: quando si accorso che i manifestanti non si allontanavano, sparò due colpi. Il primo colpì alla testa Carlo Giuliani, che in quel momento si trovava a pochi metri dal fuoristrada e teneva sopra la testa un estintore. Giuliani cadde a terra e pochi istanti dopo l’autista riuscì a liberare il mezzo, che passò sopra il corpo di Giuliani per due volte, una prima in retromarcia, una seconda in direzione anteriore. Pochi minuti dopo, carabinieri e polizia occuparono nuovamente la piazza. Quando l’ambulanza arrivò sul posto, Giuliani era già morto.
Fino a questo punto il resoconto dei fatti sembra chiaro: un’operazione mal pianificata mise alcuni carabinieri in una situazione estremamente complicata e nel panico uno di loro aprì il fuoco causando la morte di Giuliani. È una ricostruzione su cui le parti sembrano essere quasi tutte d’accordo, anche se alcuni membri del movimento no-global sostengono che quella di piazza Alimonda sia stata una “trappola”, cioè un’operazione pianificata dalla polizia. A quasi 20 anni di distanza, rimangono però alcuni dettagli poco chiari, tra cui due particolarmente importanti: gli agenti sul posto tentarono un goffo depistaggio delle indagini? E come venne ferito esattamente Carlo Giuliani?
L’autopsia rivelò una profonda ferita sulla fronte di Giuliani. Secondo la ricostruzione del sito Piazzacarlogiuliani.org, che raccoglie alcune delle molte inchieste indipendenti che sono state realizzate sugli eventi di Piazza Alimonda, quella ferita venne prodotta da un carabiniere che cercò di creare artificialmente una prova che Giuliani era stato ucciso da un sasso lanciato dai manifestanti. Secondo il sito, subito dopo la ripresa del controllo della piazza da parte delle forze dell’ordine, un carabiniere avrebbe sollevato il passamontagna di Giuliani e con un sasso lo avrebbe colpito sulla fronte, causando una grossa ferita irregolare. Dalle fotografie di quei momenti, sembra in effetti che un sasso che si trovava a una certa distanza da Giuliani fosse stato spostato vicino alla sua testa. Inoltre non c’erano tracce di danni sul passamontagna di Giuliani in corrispondenza della ferita, come se prima di essere inflitta qualcuno avesse scoperto la fronte del ragazzo. I medici, però, non hanno escluso che la ferita potesse essere stata causata dalla caduta di Giuliani oppure dall’auto che lo aveva investito. In un’intervista del 2006, Placanica disse che alcuni dei suoi colleghi avevano colpito Giuliani sulla fronte con un sasso (ma al momento in cui sarebbe avvenuto il fatto Placanica non si trovava sul posto).
Diversi degli agenti presenti, che quindi avevano probabilmente sentito gli spari, hanno ipotizzato fin da subito che la morte di Giuliani fosse stata causata proprio da un sasso lanciato dagli stessi manifestanti. Dopo pochi minuti dagli spari, non appena la polizia era tornata a occupare la piazza, un agente iniziò a gridare contro un manifestante, accusandolo di aver lanciato un sasso che aveva ucciso Giuliani. In una telefonata registrata con uno dei suoi comandanti e usata durante il processo sulla morte di Giuliani, uno dei carabinieri sul posto disse che Giuliani era stato investito, che forse era stato colpito da un sasso o forse da un proiettile. Il generale con cui il carabiniere era al telefono si stupì molto per queste contraddizione e gli chiese come potesse avere dei dubbi sulle cause della morte di Giuliani: «Ma non lo hai mai visto un morto ammazzato?». Alle 18, nella prima conferenza stampa tenuta dopo la morte di Giuliani, la polizia parlò di un manifestante spagnolo probabilmente ucciso da un sasso, ma pochi minuti dopo le agenzie cominciarono a diffondere le prime dichiarazioni dei medici che parlavano invece di uno sparo. L’unico fotografò che riuscì ad avvicinarsi al corpo di Giuliani in quei primi istanti venne picchiato e le sue due macchine fotografiche furono distrutte dagli agenti presenti.
L’altro principale punto di contrasto sulle versioni è in quale direzione sparò Placanica. Secondo i PM, Placanica non stava prendendo la mira esplicitamente su Giuliani, anche perché, da una serie di esami autoptici e balistici, sembra che nel cranio di Giuliani sia entrato un oggetto più piccolo di un’ogiva di proiettile, come se il proiettile sparato si fosse frantumato su un ostacolo prima di colpire Giuliani (il frammento di proiettile ha attraversato il cranio di giuliani ed è uscito dall’altra parte, e non è stato mai recuperato). I magistrati hanno lasciato aperte due ipotesi: la prima, che Placanica abbia cercato di sparare in aria; la seconda, che abbia sparato senza prendere di mira nessuno in particolare, accettando il rischio di colpire qualcuno. In entrambe le circostanze Giuliani sarebbe stato colpito per una coincidenza incredibilmente sfortunata: il proiettile sparato dal carabiniere avrebbe colpito un sasso che si trovava in aria (e che si può vedere esplodere nel filmato di quei momenti) e un suo frammento avrebbe colpito poi Giuliani.
Secondo gli esperti di parte della famiglia, invece, il sasso che si vede nel filmato sarebbe esploso dopo aver colpito lo spigolo della camionetta, mentre il colpo sparato da Placanica sarebbe stato esplicitamente mirato contro Giuliani. Per spiegare come mai nel cranio non siano state trovate tracce del passaggio di un’ogiva intera, il sito Piazzagiuliani.org ha formulato una teoria secondo cui Placanica aveva in dotazione una pistola con proiettili di gomma non autorizzati all’utilizzo in Italia. I magistrati hanno ritenuto che, in ogni caso, Placanica si trovava in una situazione di pericolo, chiuso all’interno di un auto bloccata e circondata di manifestanti ostili. Indipendente dalla direzione nella quale ha esploso i colpi, dicono i magistrati, Placanica ha agito per legittima difesa. Nel 2003 il GIP accolse la loro richieste di archiviazione. Nessun ufficiale è stato indagato o processato per la conduzione dell’azione in piazza Alimonda o per il presunto depistaggio delle indagini. Nel 2011 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha assolto completamente il governo da tutte le accuse di aver contribuito indirettamente alla morte di Giuliani.

venerdì 19 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 luglio.
Il 19 luglio 1620 ebbe inizio il cosiddetto "Sacro Macello della Valtellina".
La tradizione cristiano-cattolica in Italia è un dato di fatto difficile da smentire. Per la particolarità della presenza dello stato Vaticano sul territorio nazionale e la nascita stessa del potere temporale della Chiesa a Roma ancora in epoca romana, è difficile pensare a questa nazione separatamente da questa fede, che di fatto contraddistingue ancora oggi molte scelte e di costume e politiche.
 Tuttavia, all’indomani della riforma protestante, alcune eco della dottrina luterana si hanno anche in Italia, sebbene la maggior parte non abbia modo di radicarsi o creare vere e proprie comunità di fedeli a causa della forte repressione messa in atto dalla macchina della Controriforma e dal proprio braccio armato, la Santa Inquisizione.
 Curiosamente per altro, proprio tra i movimenti pauperistici - quelli più vicini a un ritorno al Vangelo, proprio in linea con il pensiero luterano - si reclutano i principali componenti dell’Inquisizione, e sicuramente la causa è che proprio all’interno di questi movimenti si erano individuati dei predicatori tacciati di eresia, presto fuggiti verso la Svizzera.
 E proprio sul confine con la Svizzera - ove le dottrine di Calvino, Lutero e Zwingli erano ormai praticate dalla maggioranza della popolazione - si scatena all’inizio del 1600 una vera e propria guerra di religione.
 All’epoca la Valtellina, crocevia di commerci tra l’Italia e l’Europa continentale, è territorio della Confederazione Elvetica, facendo parte nello specifico del Canton Grigioni. Questa valle - strategica dal punto di vista geografico - era stata fino al 1512 parte del Ducato di Milano, dominato dagli Sforza, e come conseguenza la popolazione valtellinese si sentiva legata al destino della città padana assai più che a quello dei più vicini svizzeri, visti invece come e veri e propri dominatori stranieri.
 A ciò si aggiunga che nel 1504 si ha un avvenimento che segna inesorabilmente il destino di questo territorio: a Tirano appare la Madonna, per la quale viene edificato un magnifico santuario barocco. Questo evento porta con sé inevitabilmente un rafforzamento della fede cattolica tra la popolazione, proprio pochi anni prima di passare forzatamente sotto il dominio degli svizzeri riformati, e per questo ancora più mal sopportati.
 Nonostante la tolleranza in materia religiosa mostrata dagli Svizzeri, si radicalizzano posizioni di fanatismo religioso cattolico, fomentate anche da predicatori inviati dal Ducato di Milano sia per contrastare la Riforma sia nella speranza di un sollevamento popolare e di una riconquista dello strategico territorio, corridoio verso l’Austria asburgica.
 Con il diffondersi della Controriforma, la Basilica della Madonna di Tirano inizia ad essere vista come l’ultimo baluardo del cattolicesimo tra gli infedeli, visione questa assai sponsorizzata dall’arcivescovo meneghino Carlo Borromeo, che ne diviene un fedele devoto facendo importanti visite pastorali nella cittadina valtellinese.
 Al proselitismo di Borromeo si aggiunge a partire dal 1587 lo zelo del nuovo arciprete di Sondrio, Nicolò Rusca, che contrasta con forza il dilagare nella valle della fede protestante, anche infrangendo la legge.
 La convivenza tra protestanti e cattolici diviene sempre più difficile e sfocia in una vera e propria escalation di violenza. Nel 1569 il pastore della chiesa riformata di Morbegno, l’ex frate minorita Francesco Cellario, viene rapito da alcuni frati domenicani e portato in catene a Roma, dove verrà impiccato e poi bruciato a Ponte Sant’Angelo il 25 maggio dello stesso anno, a seguito di un lungo interrogatorio volto a farlo abiurare.
 Il clima in Valtellina si fa dunque sempre più teso, i cattolici sempre meno disposti a una pacifica tolleranza dei dominatori protestanti e sempre più sprezzanti delle leggi che tentano di mantenere il delicato equilibrio tra le due comunità. Il pastore protestante Scipione Calandrini, tra i maggiori promotori di una politica basata sul reciproco rispetto e tolleranza tra le confessioni, è vittima di un tentato omicidio a cui fa seguito il tentativo, sempre per mano cattolica, di rapirlo per consegnarlo alla Santa Inquisizione, progetto che comunque non va a buon fine.
 In tutta risposta, le autorità grigionesi, ritenendo il Rusca responsabile del tentato omicidio, il 24 luglio 1618 fanno arrestare l’arciprete di Sondrio perché venga processato a Thusis. Il processo inizia il 1° settembre dello stesso anno ma non si conclude poiché l’arciprete muore a seguito delle torture subite il 4 settembre, senza aver confessato nulla. E questo avvenimento è l’inizio di una vera e propria guerra di religione.
 Nel 1619 viene convocato un sinodo protestante a Tirano e nel contempo se ne tiene uno cattolico a Como. Le provocazioni tra le due comunità vanno intensificandosi, fino alla fatale notte tra il 18 e il 19 luglio del 1620 quando un vero e proprio kommando di fanatici cattolici, guidato da Giacomo Robustelli, si abbatte sui protestanti per vendicare la morte del Rusca.
 In successione e con lucida crudeltà vengono uccisi quasi tutti i protestanti della comunità tiranese; viene poi messa a ferro e fuoco Teglio, dove si mette in atto una vera e propria strage all’interno della Chiesa evangelica stessa dove i protestanti avevano cercato rifugio, senza avere pietà per donne e bambini, arsi vivi nel campanile. Ultima tappa Sondrio, da cui solo un esimio gruppo di 70 persone armate riesce a fuggire e trovare rifugio in Engadina. Si calcola che in questo spaventoso pogrom, chiamato dallo storico Cesare Cantù Sacro Macello della Valtellina, siano state trucidate circa 600 persone.
 Un capitolo sanguinoso per la storia di una piccola comunità montana che diviene protagonista della grande storia europea, seppure nel peggiore dei modi: il Sacro Macello valtellinese infatti, assieme alla rivolta anti-asburgica della Boemia, è tra le cause della Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648).
 Alla fine del primo periodo della guerra, nel 1639, la Valtellina sarebbe tornata in mano ai Grigioni, dominazione a cui sarebbe rimasta soggiogata fino all’annessione nel 1797 alla Repubblica cisalpina. Il ritorno alla Svizzera avvenne a condizione che nella regione venisse accettata la sola fede cattolica.
 La valle si contraddistingue per tutto il secolo successivo per la forte presenza di fenomeni di stregoneria, prontamente repressi dalla lunga mano della Controriforma, perfettamente in linea con quanto succede negli altri territori di confine tra cattolicesimo e protestantesimo in tutta Europa.

giovedì 18 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 luglio.
Il 18 luglio 1969 Ted Kennedy fu protagonista di una terribile vicenda.
Era la notte del 18 luglio 1969 quando l'isoletta di Chappaquiddick, nel Massachusetts, divenne tristemente nota a livello internazionale e Ted Kennedy si macchiò dello scandalo che interruppe le sue aspirazioni presidenziali. Una notte di festa, belle ragazze e morte.
Kennedy ebbe un incidente d'auto in cui perse la vita la ventottenne Mary Jo Kopechne. Mentre attraversava un ponticiattolo di legno privo di guardrail, la sua Oldsmobile Delmont 88 cadde in uno stagno, il Poucha Pond. Lui riuscì a uscire dalla vettura e a mettersi in salvo, la giovane no. Kennedy avvertì le autorità solo 10 ore dopo il fattaccio. La maledizione sulla famiglia Kennedy colpì ancora (JFK era stato ucciso quasi sei anni prima).
Ted Kennedy all'epoca aveva 37 anni ed era senatore in Massachusetts, carica che rinnovò a lungo.
La sera del 18 luglio 1969 ospitò una festa al Lawrence Cottage nell'isola di Chappaquiddick, raggiungibile in un traghetto dalla città di Edgartown: erano presenti sei ragazze che avevano lavorato alla campagna elettorale del fratello Robert F. Kennedy, tra cui Mary Jo Kopechne, e cinque amici e conoscenti di Kennedy. Lui era sposato con Joan, tra l'altro allora incinta (poi abortì e diede la colpa allo scandalo); erano sposati anche gli altri cinque uomini. Le sei ragazze erano single.
A un certo punto della serata Ted, verso le 23.15, si allontanò dalla festa in auto con Mary Jo Kopechne. Imboccò la Dike Road, strada sterrata che portava al Dike Bridge. La vettura, che andava a 30 km orari, andò fuori strada piombando in acqua. Ted riuscì a scappare dell'auto che affondava, la ragazza no. Si allontanò dalla scena dell'incidente e denunciò l'episodio alle autorità solo 10 ore dopo, quando due pescatori avevano già avvistato l'automobile sott'acqua e la polizia aveva già recuperato il corpo della ragazza e diffuso la notizia.
Queste le dinamiche certe. Poi le altre, sono appese alle dichiarazioni di Kennedy.
Kennedy disse che inizialmente si stava allontanando dalla festa da solo, e che Mary Jo Kopechne gli chiese un passaggio per l'hotel (borsa e chiavi d'hotel di lei furono però rinvenuti sul luogo della festa). Disse anche che sbagliò strada, quando entrò nella Dike Road.
Nella testimonianza affermò di aver provato più volte a nuotare verso il luogo dell'affondamento per cercare di salvare Kopechne e di averla chiamata più volte della riva. Dopo essersi riposato sulla riva per circa un quarto d'ora, sarebbe tornato sul luogo della festa per chiamare in soccorso due dei partecipanti, Joseph Gargan e Paul F. Markham (sulla strada, però, cosa che Kennedy non disse, c'erano altre case abitate più vicine a cui avrebbe potuto chiedere aiuto). Anche con loro avrebbero provato a soccorrere Kopechne. I due amici avrebbero spronato Kennedy a denunciare l'episodio, cosa che ancora non fece.
Sarebbe quindi tornato alla sua stanza d'albergo a Edgartown e, toltosi i vestiti bagnati, si sarebbe addormentato di colpo sul letto. Al telefono diversi amici gli consigliarono di denunciare il fatto. Le fece solo la mattina dopo: alle 10 entrò nella stazione di polizia di Edgartown.
Al processo Kennedy si dichiarò colpevole dell'accusa di aver abbandonato la scena dell'incidente. Il giudice James Boyle lo condannò per omissione di soccorso a due mesi di reclusione, la pena minore per quel tipo di reato, che fu sospesa.
Kennedy fece un lungo discorso in tv, rivolto agli elettori del Massachusetts, spiegando la dinamica dell'incidente, il forte shock subìto, e chiedendo se dovesse dimettersi.
Kennedy venne rieletto nel 1970 con il 62% dei voti, mentre il Dike Bridge divenne una macabra attrazione turistica e preda di cacciatori di souvenir.

mercoledì 17 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 17 luglio.
Il 17 luglio 1945 ha inizio la Conferenza di Potsdam.
La Conferenza di Potsdam (17 luglio-2 agosto), preceduta da quella di Yalta (11-14 febbraio) e dalla Conferenza costitutiva delle Nazioni Unite di San Francisco (25 aprile-25 giugno) fu l’ultima grande conferenza dei “tre grandi”, i capi di governo di Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna.
Truman (subentrato alla presidenza USA dopo la morte di Roosevelt nell’aprile del ’45), Stalin e Churchill (poi sostituito dal laburista Clem Attlee, vincitore alle elezioni di luglio, tra lo stupore di Stalin, poco avvezzo agli effetti delle consultazioni democratiche) furono chiamati a discutere del futuro del mondo, del futuro delle potenze sconfitte (Germania e Italia su tutte, mentre il Giappone ancora resisteva) e dei rapporti tra i loro rispettivi paesi.
Per quanto riguarda la Germania, per la quale era già stato stabilito il principio della divisione temporanea in quattro zone di occupazione, proseguirono le trattative sui confini di queste ultime. A Potsdam venne deciso che il settore francese di Berlino sarebbe stato ricavato dai settori britannico e americano. Per quanto riguarda i confini, abbandonata l’idea di uno smembramento della Germania e di una sua ruralizzazione (il “piano Morgenthau”), in attesa di una decisione definitiva – che si sarebbe dovuta prendere alla conferenza di pace – l’URSS aveva già attributo alla Polonia i territori tedeschi ad est della linea Oder-Neisse, spostandone dunque i confini verso ovest, occupato Königsberg (ribattezzata Kalliningrad) e smembrato la regione della Prussia orientale.
A Potsdam , riguardo questo punto, Stati Uniti e Gran Bretagna promisero di appoggiare in sede di conferenza di pace il passaggio di Königsberg e di parte della Prussia Orientale all’Unione Sovietica ma non presero impegni precisi sulla linea Oder-Neisse, limitandosi ad accettare l’amministrazione temporanea della Polonia.
Sempre riguardo la Germania, venne però trovato un accordo sui “principi politici ed economici” che avrebbero dovuto governare i territori tedeschi durante la fase iniziale del controllo alleato. Questi, schematicamente, erano:
Disarmo completo e smilitarizzazione;
Completo scioglimento del partito nazionalsocialista;
Abolizione della legislazione nazista;
Deferimento dei criminali di guerra;
Epurazione dei membri del partito nazista;
Controllo dell’istruzione tedesca;
Adozione di una politica di decentralizzazione e democratizzazione;
Severo controllo e riduzione della produzione economica tedesca;
Accordo sull’entità delle riparazioni di guerra per le potenze vincitrici.
La Conferenza si chiuse in un clima apparentemente ottimistico. Invece quegli accordi, che avrebbero dovuto rappresentare la base di partenza per una successiva e condivisa soluzione della questione tedesca, erano destinati a restare privi di seguito a causa dello scoppio della guerra fredda.

martedì 16 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 luglio.
Il 16 luglio 1965, presenti Giuseppe Saragat e Charles De Gaulle, viene inaugurato il tunnel del Monte Bianco.
Sono passati oltre cinquant’anni da quando il 16 luglio 1965 Giuseppe Saragat e Charles De Gaulle – i presidenti della Repubblica dell’Italia e della Francia – inaugurarono il traforo del Monte Bianco, un tunnel autostradale che da allora ha permesso di mettere in comunicazione Courmayeur, in Valle d’Aosta, e Chamonix, comune francese nel dipartimento dell’Alta Savoia. Quando fu inaugurato, era il tunnel stradale più lungo d’Europa: era – ed è – lungo 11 chilometri e 600 metri e per realizzarlo furono usate 1.500 tonnellate di esplosivo, 200mila metri cubi di calcestruzzo e 235mila bulloni. Dal 1965 a oggi il traforo del Monte Bianco è stato attraversato da più di 60 milioni di veicoli e ha reso molto più semplice, veloce ed economico il collegamento tra Italia e Francia. «Il Monte Bianco era il nome di una montagna che ci separava. Da domani sarà il nome di un tunnel che ci riunisce», disse il 16 luglio 1965 Valéry Giscard d’Estaing, all’epoca ministro delle Finanze e in seguito presidente della Repubblica francese. Il traforo del Monte Bianco permette oggi di andare dalla Francia all’Italia in poco più di 10 minuti passando sotto alla montagna più alta d’Europa.
I lavori per realizzare un tunnel che attraversasse il Monte Bianco iniziarono nel 1959, circa sei anni dopo che i governi di Italia e Francia firmarono la convenzione in cui si impegnavano a realizzarlo. Il ritardo fu dovuto alle molte polemiche che ci furono in Francia dopo la firma della convenzione: si temeva infatti che il traforo del Monte Bianco avrebbe avvantaggiato l’Italia mettendo invece in crisi l’economia del sud-est della Francia. I lavori dal lato italiano iniziarono l’8 gennaio 1959, quelli sul versante francese il 30 maggio. Come spiega la STIMB, la società italiana che gestisce il traforo:
Ciascuna delle due imprese esecutrici, l’italiana Società Condotte d’Acqua e la francese André Borie, aveva il compito di realizzare 5800 metri di galleria. I francesi incontrarono rocce di migliore qualità ed ebbero meno imprevisti durante le operazioni di scavo. Invece dalla parte italiana, perforati i primi 368 metri importanti getti d’acqua a forte pressione uscirono dal fronte dello scavo e costrinsero a sospendere ogni attività dal 20 febbraio al 21 marzo.
Nonostante i problemi iniziali e anche grazie ai mesi di anticipo con cui iniziarono i lavori, gli italiani furono i primi a completare la loro metà di tunnel: arrivarono il 3 agosto 1962 e – undici giorni dopo – arrivarono anche i francesi. Giulio Cesare Meschini oggi ha 88 anni e durante gli anni in cui fu realizzato il traforo del Monte Bianco fu il direttore dei lavori dal lato italiano. Intervistato da Repubblica Meschini ha detto: «I francesi avevano fatto i furbi, erano in vantaggio di un paio di mesi e proclamarono che sarebbero arrivati prima. Ci salì il sangue agli occhi».
Proponemmo ai nostri operai di lavorare senza un secondo di sosta in quattro turni quotidiani di sei ore l’uno, però pagate come otto. E poi un premio speciale per ogni mezzo metro di scavo in più al giorno. Inventammo i cambi turno a macchine accese, e i francesi furono fregati come polli.
A prescindere dalla sfida tra i due gruppi di minatori, il loro incontro fu un importante evento, celebrato, spiega Meschini, con quattro bottiglie di champagne che i francesi passarono agli italiani. Dall’incontro tra i due gruppi di minatori all’inaugurazione del tunnel passarono tre anni, necessari per “completare le opere interne, per realizzare la carreggiata, per dotare la galleria di tutti gli impianti tecnologici necessari e per allestire i due piazzali di ingresso al tunnel”. Il sito del giornale francese Le Figaro per ricordare il cinquantesimo anniversario dell’inaugurazione, presentò l'articolo che un suo giornalista scrisse quel giorno. L’articolo racconta che quel giorno su uno dei cartelloni si poteva leggere «Vive Saragat! Vive Poulidor! Vive de Gaulle! Vive Gimondi!»: i nomi dei due presidenti della Repubblica e dei due ciclisti – Poulidor e Gimondi – che fino a pochi giorni prima si erano contesi il Tour de France (vinse Gimondi).
L’articolo di Le Figaro citò anche Horace-Bénédict de Saussure, un naturalista francese, considerato il fondatore dell’alpinismo. Nel 1787 Saussure raggiunse la cima del Monte Bianco e proprio in quei giorni scrisse: «Giorno verrà che sotto il Monte Bianco si scaverà una strada carrozzabile e queste due vallate, quella di Chamonix e quella di Aosta, saranno unite». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato del traforo del Monte Bianco come di una «grande opera ingegneristica, un’impresa per tanti aspetti eroica, una prova straordinaria di maestria e di generosità da parte di migliaia di lavoratori». Riccardo Sessa, presidente di STIMB, ha invece fatto riferimento alla corsa allo spazio e all’allunaggio, avvenuto nel 1969, quattro anni dopo la realizzazione del traforo del Monte Bianco.
Le gallerie, come i ponti, contribuiscono ad annullare gli ostacoli che si frappongono all’incontro, alla reciproca conoscenza, allo scambio di culture e alla collaborazione tra popoli. Costruito in un’epoca in cui i Paesi sembravano maggiormente interessati a primeggiare nella gara per la conquista dello spazio interplanetario, il Traforo del Monte Bianco si pone ora come allora quale esempio della capacità e della volontà degli uomini di superare tutti gli ostacoli sulla strada della convivenza pacifica.
I lavori per la realizzazione del traforo del Monte Bianco causarono la morte di 17 operai, tre dei quali uccisi da una valanga che il 5 marzo 1962 travolse le case in cui abitavano durante i lavori. La più grande tragedia del Monte Bianco è però stata quella del 24 marzo 1999: quel giorno un TIR belga entrò nel traforo con un principio d’incendio al motore, causando un più grande incendio che causò la morte di 39 persone. Scrive la Stampa:
Nel rogo morirono 39 persone, decine di camion e auto vennero sciolti […] I vigili del fuoco di entrambi i Paesi impiegarono due giorni prima di spegnere le fiamme. Due anni più tardi, nel cuore del traforo incenerito, si respirava ancora a fatica.
Il tunnel autostradale del Monte Bianco fu riaperto nel 2002, dopo lavori costati 380 milioni di euro: fu messo in sicurezza con radar che misurano la velocità dei veicoli (il limite è di 70 chilometri orari), telecamere, rifugi termici e sensori che misurano la distanza tra i veicoli.

lunedì 15 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 15 luglio.
Il 15 luglio 1943 nasce Susan Jocelyn Bell.
La scoperta delle radio pulsar, uno dei risultati più alti della fisica del XX secolo, resterà associata per sempre al nome di Jocelyn Bell: Dame Susan Jocelyn Bell, sposata con Martin Burnell nel 1968 e madre di Gavin, nato nel 1973.
Le radio pulsar sono oggetti celesti dalle proprietà molto diverse rispetto alle stelle comuni. Tutta la loro materia, tanta almeno quanta ne contiene il Sole, è confinata entro un raggio di solo una decina di chilometri. Inoltre questa materia è principalmente composta da neutroni. Infine, esse ruotano a velocità elevatissima emettendo onde radio in uno (o due) fasci grosso modo conici. Ne deriva una sorta di effetto-faro: un radiotelescopio posto a Terra riceve un impulso di onde radio solo quando i fasci conici sono diretti verso l’antenna, ossia una (o due volte) per ogni rotazione della pulsar. A livello di osservazione, il segnale di una pulsar è dunque percepito come una sequenza regolare di impulsi radio.
Questo naturalmente è quanto sappiamo oggi, ma fino al 1967 erano state formulate solo previsioni teoriche, considerate oltremodo ardite, su eventuali stelle costituite da neutroni: nessuno aveva la minima idea della esistenza delle pulsar. In tale quadro va letta la scoperta di Jocelyn Bell e del suo supervisore di dottorato, Antony Hewish.
Su indicazione di Hewish Jocelyn passò un paio di anni a costruire, con cacciavite e martello, un nuovo radiotelescopio presso l’Università di Cambridge, in Inghilterra. Ciò richiese la posa di oltre 200 chilometri di cavi, su un area grande come 57 campi da tennis. Lo scopo era di studiare la cosiddetta “scintillazione” delle onde radio nel mezzo interplanetario. A partire dal luglio 1967, Jocelyn Bell divenne l’unica analizzatrice dei dati prodotti da questo strumento e presto fu in grado di riconoscere in essi il fenomeno ricercato della scintillazione e di distinguerlo dalle interferenze, il nemico quotidiano del lavoro di ogni radioastronomo. Un paio di mesi dopo l’inizio delle osservazioni, Jocelyn notò però un segnale dall’aspetto diverso dagli altri, che osservazioni successive rivelarono provenire sempre dalla stessa direzione in cielo e che nel novembre 1967 essa riconobbe come una sequenza di impulsi di onde radio spaziati di 11/3 di secondo. Cominciò cosi la “caccia” al responsabile. Nelle settimane successive furono via via scartate varie ipotesi, compresa quella di un segnale inviato da una civiltà extraterrestre… ma era davvero troppo difficile da credere e da pubblicare e infatti Hewish continuò le osservazioni nel periodo natalizio, facendo in modo che la notizia fosse custodita entro una ristretta cerchia di astrofisici di Cambridge. Il fatto decisivo avvenne al ritorno di Jocelyn dalle vacanze, quando, consultando i dati presi nel frattempo, confermò l’esistenza di una seconda sorgente con le stesse caratteristiche della prima e poco dopo una terza e una quarta… Chiaramente si trattava di una nuova classe di stelle. «Quello fu l’istante meraviglioso, l’autentica dolcezza, il momento di dire Eureka!», commenterà Jocelyn Bell 39 anni dopo in una intervista radiofonica alla BBC.
L’annuncio della scoperta, pubblicata su «Nature» nel febbraio 1968, mise a rumore tutta la scienza mondiale: era la prima prova della esistenza di materia ultradensa e in particolare delle stelle di neutroni. Ampia eco ci fu sui giornali, sia per la scoperta, sia per il ruolo decisivo svolto in quella ricerca da una giovane donna. Non a caso, il nome stesso dei nuovi oggetti celesti – pulsar – fu coniato dal «Daily Telegraph».
Con costernazione di gran parte della comunità astrofisica, però, l’Accademia Svedese delle Scienze decise nel 1974 di conferire il premio Nobel per questa scoperta soltanto al professor Antony Hewish. Il punto di vista di Jocelyn (che accolse la notizia mantenendo sempre quella serenità che è parte del suo carattere) è stato ribadito in tempi recenti nella già citata intervista alla BBC: «Io ero una studentessa di dottorato, e in quei tempi si credeva, si percepiva, si dava per assodato, che la scienza fosse fatta e guidata da grandi uomini – propriamente uomini – probabilmente in camici bianchi. E che questi uomini avessero una pattuglia di servi che facevano ogni cosa su indicazione, senza pensare». Poco prima dell’assegnazione del Nobel ad Hewish, Jocelyn Bell ebbe suo figlio Gavin: «E stavo combattendo per trovare qualcuno che potesse aiutarmi nel badare a mio figlio e così proseguire la carriera – tutte quelle cose con cui la mia generazione dovette lottare prima che ci fossero asili sui posti di lavoro, prima che fosse accettabile l’idea che una donna lavorasse. E così constatai con me stessa che “Gli uomini vincono i premi e le giovani donne badano ai bambini”». Qualcosa sta per fortuna mutando nella scienza, da allora («Ora la si guarda molto di più come uno sforzo di squadra, con persone diverse che forniscono contributi diversi al lavoro»), ma le difficoltà nel conciliare la carriera con la famiglia sono tuttora acutissime per le donne: «Non così brutto come un tempo, ma il problema resta tale».
Dopo la scoperta del 1967, Jocelyn Bell ha proseguito con successo la sua carriera scientifica in altri settori dell’astrofisica: dapprima ricercatrice all’Università di Southampton, poi presso l’University College di Londra, quindi al Royal Observatory di Edimburgo, per poi diventare professore di Fisica alla Open University e professore in visita a Princeton, nonché Preside di Scienze della Università di Bath e poi ancora professore in visita alla Università di Oxford. Nel frattempo, il mondo scientifico le attribuiva pubblicamente quei meriti che l’Accademia Svedese aveva negato. Negli Stati Uniti la medaglia Michelson (1973), il premio Oppeheimer (1978), il premio Beatrice Tinsley (1987), la lezione magistrale Jansky (1995), il premio Magellanic (2000), oltre a un dottorato ad honorem della Università di Harvard (2007). Nel Regno Unito, la medaglia Herschel (1989), la presidenza della Royal Astronomical Society (2002-2004), un dottorato ad honorem alla Università di Durham (2007) nonché, nel 2007, la nomina a “Dame” dell’Ordine dell’Impero Britannico da parte della regina Elisabetta II.
Invece di fare del Nobel ingiustamente mancato un motivo di risentimento verso il mondo scientifico, Jocelyn Bell si è profusa per la più ampia divulgazione della cultura scientifica. Centinaia le conferenze pubbliche per non addetti ai lavori, e ancora maggior impegno nell’avvicinare la scienza ad una generazione di adulti ai quali era stato preconizzato in giovane età – come del resto capitò a lei stessa quando aveva solo 11 anni – che non avevano alcun futuro negli studi scientifici.
A completare il quadro della sua personalità, il suo impegno nella Società Religiosa dei Fratelli (i Quaccheri), nel cui contesto educativo condusse quasi tutta la sua adolescenza, e di cui è stata Clerk del Comitato Esecutivo Centrale mondiale fino al 2012. Infine, i mille hobby ai quali colleghi e amici la vedono dedicarsi: le camminate in montagna, il giardinaggio e il nuoto in cima alla lista.

domenica 14 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 14 luglio.
Il 14 luglio 1969 l'esercito di El Salvador invade l'Honduras. Inizia la cosiddetta "guerra del calcio".
Un pallone che rotola, ventidue persone che gli corrono dietro, tre legni per ogni lato del campo, diversi esagitati che si dannano l’anima nel guardarli. Per alcuni, il calcio si riduce essenzialmente a questo. Parecchie altre volte, però, il calcio può anche essere molto, decisamente molto di più.
Può diventare qualcosa di terribilmente importante. E, certo non da solo ma insieme a un numero imprecisato di circostanze, diventare addirittura casus belli. Motivo dello scoppio di una guerra, che farà morti, feriti, e cambierà per sempre storia e geografia di un continente. E’ successo nell’estate del 1969, l’estate in cui El Salvador e Honduras, due piccoli stati di quel lembo di terra che unisce Nordamerica e Sudamerica, si dichiararono guerra dopo essersi giocati tre partite di spareggio per andare ai Mondiali messicani del 1970.
Prima, però, bisogna fare un passo indietro di qualche anno. Un piccolo flashback per spiegare per quale motivo El Salvador-Honduras, quell’estate, non era un semplice spareggio tra due piccole nazionali che volevano guadagnarsi il diritto di essere prese a pallonate dalle grandi del calcio mondiale un anno più tardi. El Salvador-Honduras, in quell’estate del 1969, si trasformò in uno di quei duelli da film western in cui i due protagonisti, non per forza un buono ed un cattivo, si guardano dritti negli occhi con le loro Colt in attesa di sparare il proiettile decisivo.
Bisogna tornare indietro fino al 1967, o forse fino al giorno in cui Honduras e El Salvador si sono scoperte confinanti in un fazzoletto di terra tra Nicaragua e Guatemala, strette tra Messico da una parte e Colombia dall’altra. Da queste parti transitano i traffici americani nel continente, dagli Stati Uniti vengono a coltivare per esportare in Sudamerica. Negli anni ’60 del Novecento l’El Salvador diventa partner privilegiato per le coltivazioni statunitensi, vive un boom demografico che fa crescere la popolazione fino a livelli insostenibili. E una popolazione così ampia in un paese così piccolo come El Salvador può significare solo una cosa: disoccupazione alle stelle. Una situazione di pressione sociale che rischia di diventare insopportabile in un territorio così piccolo.
Così, nel 1967, El Salvador e Honduras stringono un patto che ha del clamoroso: la Convenzione Bilaterale stabilisce che i contadini salvadoregni in cerca di lavoro possono varcare il confine e trasferirsi in Honduras. Ecco, l’Honduras non è che sia il Paradiso in terra. Anche lì, non c’è tutto questo lavoro, soprattutto se ci si mettono anche oltre 300.000 nuovi arrivi da El Salvador. Facile capire che questa storia non finirà bene. Infatti, prevedibilmente, ci mette davvero molto poco a deragliare. Nel 1969, Osvaldo Lopez Arellano, il dittatore che era a capo dell’Honduras, decide che ha visto abbastanza. Tutti i contadini salvadoregni arrivati in Honduras vengono espulsi ed espropriati delle loro terre. La tensione sale alle stelle, con i cittadini honduregni che chiedevano a gran voce questo provvedimento, e il governo di El Salvador che denuncia l’illegalità e la disumanità della decisione del dittatore honduregno. E’ il maggio del 1969, e il calcio sta per entrare di prepotenza in questa storia.
Nel 1970 si giocheranno i Mondiali in Messico, e, proprio il fatto che la Trìcolor sia già qualificata, apre le porte ad un altro posto per una squadra della CONCACAF. Dopo il primo girone, sono rimaste in quattro, che, dopo semifinali e finale, si giocheranno l’ultimo posto disponibile. E queste quattro nazionali sono Stati Uniti, Haiti, Honduras, El Salvador. Ora, uno sceneggiatore sadico e impaziente di assistere a quella scena da film western con le Colt spianate, non esiterebbe un attimo. E, puntualmente, il sorteggio sceglie che sarà così. Honduras ed El Salvador si affronteranno, nel maggio del 1969, in un doppio spareggio. I due paesi, in stato di agitazione e di insurrezione, sembravano non aspettare altro. E’ l’occasione perfetta per regolare quei maledetti conti e provare a farli tornare.
L’8 giugno si gioca la semifinale di andata. L’Estadio Nacional di Tegucigalpa, Honduras, ha l’onore di ospitare il primo atto di quella che si preannuncia come una vera e propria tragedia. Nei giorni precedenti alla gara il paese è attraversato da ondate di scioperi e manifestazioni, in attesa del nemico salvadoregno. La notte che precede il match, è un inferno per i calciatori di El Salvador. L‘albergo che li ospita viene praticamente circondato. Alle finestre arrivano, senza sosta, quando va bene uova, quando va male sassi. Quando va peggio, qualche colpo di pistola. Allo stadio, il giorno dopo, ci arrivano per un pelo. Le gomme dell’autobus che avrebbe dovuto trasportarli sono state ovviamente squartate con i coltelli. La polizia, forse a malincuore, accompagna la nazionale ospite allo stadio. La partita, ovviamente tesa e piena di calcioni, viene vinta dall’Honduras per 1-0, grazie al gol del difensore Leonard Wells nei minuti finali.
La delusione dei calciatori salvadoregni è tanta, ma c’è anche la consapevolezza che, una settimana dopo, c’è in programma la gara di ritorno. Non deve pensarla così la diciottenne Amelia Bolaños, figlia di un generale dell’esercito di El Salvador. Che, al triplice fischio finale, prende la pistola del padre e si spara un colpo dritto al petto. Diventerà un’eroina, le saranno tributati i funerali di stato e la sua morte sarà il pretesto per rendere ancora più infuocata la partita di ritorno che si disputerà il 15 giugno a San Salvador.
I salvadoregni, memori dell’accoglienza ricevuta a Tegucigalpa, fanno di tutto per rendere il favore agli ospiti. L’albergo dove alloggia l’Honduras viene cinto d’assedio. Non basta nemmeno l’intervento dell’esercito per placare gli animi della folla urlante, che reclama vendetta per la sconfitta e per la morte di Amelia. L’accompagnatore -salvadoregno- della nazionale dell’Honduras, si affaccia dal terrazzo dell’albergo per chiedere una tregua. Non fa a tempo a finire di parlare; viene sepolto da una sassaiola infinita, viene praticamente lapidato sul momento. Non si può fare altro che raccogliere il suo cadavere e sperare che questa partita finisca subito.
I calciatori honduregni vengono accompagnati allo stadio dai carri armati dell’esercito. E, all’ Estadio de la Flor Blanca, non trovano certo un’accoglienza migliore. L’inno viene fischiato, la bandiera dell’Honduras bruciata, i calciatori malmenati sotto lo sguardo vigile dei mitra spianati dell’esercito salvadoregno. La partita finisce 3-0, e, fuori dallo stadio, nei nuovi e scontati disordini che seguono il match, muoiono altri due tifosi dell’Honduras. E non è nemmeno finita qui, perché, nel 1969, non esiste la regola dei gol segnati fuori casa. Un maligno scherzo del destino costringe a mettere in scena anche il terzo atto di questa tragedia.
Di giocare in casa di una delle due contendenti, non se ne parla nemmeno. Si gioca, infatti, allo stadio Azteca di Città del Messico, il 27 giugno del 1969, di fronte a 5000 soldati messi in campo dai messicani, che non bastano a tenere a freno la rabbia e l’orgoglio dei tifosi di Honduras ed El Salvador, che sembrano non desiderare nient’altro che potersi mettere liberamente le mani addosso. I disordini cominciano fuori dallo stadio Azteca e proseguono all’interno, prato verde incluso. E’ una partita bellissima e tesissima. Passa in vantaggio l’El Salvador, pareggia immediatamente l’Honduras. Torna in vantaggio l’El Salvador, pareggia nuovamente l’Honduras, in un botta e risposta che sembra davvero come un match di pugilato o, in questo caso, una guerra. I supplementari sono l’epilogo naturale e scontato di questa partita che è ormai diventata una saga.
L’eroe diventa Mauricio Rodriguez, un anonimo attaccante salvadoregno che mette dentro il gol del 3-2. Al fischio finale, come è logico che fosse, si scatena una rissa in campo che nemmeno l’esercito può fermare. Le strade di Città del Messico diventano un inferno, le relazioni diplomatiche tra El Salvador e Honduras si rompono praticamente sul momento. Non c’è nemmeno bisogno di dichiarare formalmente guerra. La guerra era già cominciata al fischio d’inizio della partita d’andata.
Il 14 luglio l’esercito salvadoregno bussa alla porta di casa dell’Honduras. La guerra tra El Salvador e Honduras durerà un centinaio di ore, fino al 18 luglio, e farà 6.000 vittime e 50.000 sfollati. L’intervento delle organizzazioni internazionali stabilirà la pace e permetterà ai contadini salvadoregni di tornare in Honduras a cercare lavoro. Ci andranno, saggiamente, in pochi, comunque. El Salvador, l’anno successivo, parteciperà ai Mondiali del 1970, dove perderà 3-0 contro il Belgio, 4-0 contro il Messico, 2-0 contro l’Unione Sovietica.

sabato 13 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 13 luglio.
Il 13 luglio 1814 nasce l'Arma dei Carabinieri.
La nascita dell’Arma dei Carabinieri si deve a Vittorio Emanuele I, sovrano del Regno Sardo-Piemontese, che il 13 luglio 1814 - con la promulgazione delle Regie Patenti - istituì a Torino il Corpo dei Carabinieri Reali.
A tal proposito, nel preambolo delle Regie Patenti si legge che per contribuire sempre di più alla prosperità dello Stato - “che non può essere disgiunta dalla protezione e difesa dei buoni e fedeli sudditi” - è stato deciso di affidare la difesa del territorio ad un Corpo di militari i quali si sarebbero dovuti distinguere per condotta e saggezza, chiamati appunto Carabinieri Reali. Il nome ha origine dall’arma che venne data in dotazione a questi soldati, la carabina.
A questi venne assegnata quindi una duplice funzione: da una parte la difesa dello Stato, mentre dall’altra la tutela della sicurezza pubblica.
Si trattava di una novità assoluta poiché era la prima volta che allo stesso organo veniva affidata sia la sicurezza dei confini dello Stato che della sicurezza pubblica; da allora l’Arma dei Carabinieri è stata al centro di tutti gli eventi fondamentali della storia del Regno Sabaudo prima e d’Italia unificata poi, ponendosi come insostituibile presidio della sicurezza pubblica e privata e mantenendo la propria fedeltà nei confronti delle istituzioni.
Ad esempio nella Prima Guerra Mondiale si distinsero nella battaglia di Podgora del 19 luglio 1915 e per il contributo offerto al Paese l’Arma dei Carabinieri venne insignita della prima medaglia d’oro al valore militare. Presero parte però anche alla guerra d’Etiopia del 1936, per poi distinguersi nella Seconda Guerra Mondiale nelle battaglie di Culquaber e Klisura.
Una volta firmato l’armistizio di Cassibile, però, molti appartenenti ai Carabinieri entrarono tra le fila della resistenza italiana prendendo parte alla liberazione del Paese dall’invasione tedesca; a tal proposito come non ricordare il vice brigadiere Salvo D’Acquisto che il 23 settembre del 1943 venne ucciso dai tedeschi per aver confessato di essere l’autore - seppur fosse innocente - dell’attentato avvenuto ai danni di due militari germanici. Il tutto per salvare 22 condannati a morte.
Ma non è il solo; si stima che circa 2.700 Carabinieri subirono la deportazione per essersi rifiutati di soggiacere alle forze naziste.
Negli anni ‘60 probabilmente i Carabinieri vissero la fase più buia della loro storia. Era il 1962, infatti, quando il generale Giovanni De Lorenzo venne nominato comandante generale dell’Arma, lui che nel 1964 ha tentato il golpe Piano Solo con l’obiettivo - fallito - di instaurare un regime militare in Italia.
Dopo questa parentesi l’Arma dei Carabinieri si pone in prima fila nella lotta al terrorismo politico degli anni ‘70-’80; è proprio per far fronte a questa sfida che nacque il nucleo speciale antiterrorismo.
È bene ricordare però che fino agli anni 2000 i Carabinieri erano parte integrante dell’Esercito italiano, dopodiché - con la legge 78/2000 vennero elevati a una “collocazione autonoma” nell’ambito del Ministero della Difesa, con il rango di forza armata, e forza militare di polizia a competenza generale.
Per la prima volta quindi il Corpo dei Carabinieri poté avere un comandante generale proveniente dai propri ranghi e non da quelli dell’Esercito; a tal proposito il primo fu l’ufficiale di corpo d’armata Luciano Gottardo.
È bene precisare, però, che nonostante ciò un ufficiale generale dei Carabinieri non può essere nominato Capo di Stato Maggiore della Difesa, ruolo riservato agli ufficiali di Esercito, Marina e Aeronautica.
Ultima tappa -probabilmente la più contestata - della storia dei Carabinieri è quella risalente al 2016, quando venne disposto l’accorpamento del Corpo Forestale e la conseguente nascita del “Comando unità per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare” che però non è alle dipendenze del Ministero della Difesa bensì a quelle delle risorse agricole e forestali.

venerdì 12 luglio 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 luglio.
Il 12 luglio 1928 Re Vittorio Emanuele III inaugura il monumento alla Vittoria di Bolzano.
Il monumento è un complesso marmoreo celebrativo della vittoria italiana nella prima guerra mondiale sull’Austria-Ungheria, progettato dall’architetto Marcello Piacentini (forse su bozzetto di Benito Mussolini) e costruito tra il 1926 ed il 1928.
Si trova in piazza della Vittoria (Siegesplatz), a pochi passi dal ponte sul torrente Talvera, nel punto di convergenza delle valli che sfociano nella conca di Bolzano, sul luogo ove in epoca austro-ungarica sorgeva il Talferpark (“parco del Talvera”). Il regime fascista lo creò a proprio simbolo, accesso alla Bolzano italiana e razionalista che si andava erigendo a ovest del torrente. Fu costruito demolendo quanto era stato fino ad allora edificato del Monumento ai Kaiserjäger caduti in guerra (Kaiserjägerdenkmal) – ideato e iniziato ad erigere dopo la battaglia di Caporetto – che era rimasto incompiuto dopo la fine del primo conflitto mondiale e si trovava in posizione antistante l’attuale monumento.
Secondo lo storico inglese John Foot il monumento rappresenta bene la visione nazionalista e fascista della guerra e del passato, basata sull’eroismo, sul sacrificio, sulla “bella morte” e sui “caduti per la patria”, in profonda contrapposizione con gli ideali del pacifismo e del socialismo.
Nel 2014 è stato istituito presso il Monumento un percorso espositivo permanente, dal titolo “BZ ’18–’45: un monumento, una città, due dittature”.
Dopo l’annessione all’Italia dell’allora Tirolo meridionale fino al Brennero, e in seguito alla presa di potere da parte di Mussolini nel 1922, il governo italiano iniziò a rimuovere molti dei monumenti celebrativi che il governo asburgico aveva precedentemente eretto nei nuovi territori. A Bolzano, in particolare, vennero rimossi i monumenti che erano stati recentemente innalzati dal borgomastro (nazionalista) Julius Perathoner, per celebrare la germanicità della città.
Per contro, come in tutto il Regno, si cominciarono a costruire monumenti celebrativi della vittoria e/o del fascismo.
La decisione di costruire a Bolzano un monumento commemorativo della vittoria nella Grande guerra venne presa dalla Camera dei deputati il 10 febbraio 1926. Lo stesso giorno, Mussolini, parlando nell’aula della Camera attaccò duramente il ministro degli Esteri tedesco Gustav Stresemann e il presidente bavarese Heinrich Held, i quali avevano apertamente criticato la politica italiana nei confronti della minoranza germanofona.
L’idea originaria di Mussolini era quella di erigere un monumento dedicato a Cesare Battisti. Tale proposito riscontrò grandi consensi nelle organizzazioni fasciste in Italia ed all’estero; le federazioni provinciali indissero una sottoscrizione, alla quale aderirono anche associazioni di italiani all’estero. In breve tempo si raggiunsero i 3 milioni di lire necessari. Il marmo fu offerto dagli industriali lucchesi.
Il 17 marzo si riunì la commissione che doveva approvare il progetto. I componenti furono nominati da Mussolini in persona: fra gli altri ne fecero parte il nazionalista Ettore Tolomei, il segretario di stato Giacomo Suardo e il ministro della pubblica istruzione Pietro Fedele. In primo luogo, si accolse la proposta di Tolomei di far sorgere il monumento nei pressi del ponte sul Talvera, dove poco prima della prima guerra mondiale l’amministrazione austriaca aveva cominciato la costruzione di un monumento ai Kaiserjäger.
Il progetto venne affidato all’architetto Marcello Piacentini, che a giugno lo presentò. Si trattava di un tempio/arco, adornato con alte colonne portanti che il periodo vuole impreziosito da alti fasci littori su consiglio del duce. La scultura sul timpano, la Vittoria sagittaria, è di Arturo Dazzi.
La posa simbolica della prima pietra ebbe luogo il 12 luglio 1926 (nel decimo anniversario del martirio di Cesare Battisti e di Fabio Filzi), alla presenza del re Vittorio Emanuele III, dei marescialli d’Italia Luigi Cadorna, Pietro Badoglio e di alcuni ministri. Durante la cerimonia vennero in realtà poste tre pietre (una dal monte Corno Battisti, una dal monte San Michele, una dal monte Grappa), legate da una calce ottenuta con l’acqua del Piave, versata dal re.
Durante la costruzione, visto anche il significato politico dell’opera, il prefetto subì pressioni affinché questa venisse terminata al più presto. Nel dicembre del 1927 Piacentini comunicò la fine vicina dei lavori. Il ministro Fedele dettò l’iscrizione, in lingua latina che si può leggere ancora oggi. L’epigrafe evoca l’immaginario dialogo tra un legionario romano della “X Legio” di Druso (15 a.C.) e un fante del Piave (1918). La frase fu da alcuni interpretata in modo offensivo, intendendosi una missione civilizzatrice dell’Italia verso gli altoatesini.
Sul retro invece si trovano tre medaglioni raffiguranti la Nuova Italia, l’Aria e il Fuoco, di Pietro Canonica. Il lato sud del monumento recò la consueta scritta con riferimento all'”era fascista”, tolta dopo la liberazione del 1945. Alla fine, la data dell’inaugurazione venne confermata, ma la signora Battisti non vi presenziò. Fu tenuta invece una grande cerimonia in perfetto stile fascista. Vennero precettate 23 bande di paese da tutto l’Alto Adige, si schierarono le truppe di stanza in città e furono imbandierate le finestre. Parteciparono in forma ufficiale rappresentanti dei grandi invalidi, ufficiali della MVSN, dei forestali e delle guardie confinarie.
L’inaugurazione era prevista per il 12 luglio 1928. Considerata la ferma opposizione della moglie di Battisti Ernesta Bittanti e della figlia Livia all’utilizzo a fini propagandistici della figura dell’irredentista trentino da parte del regime, Mussolini (che era stato compagno di partito di Battisti), decise di cambiare l’intestazione e di dedicare il monumento alla Vittoria. All’interno rimasero però il busto di Battisti, insieme a quello di Fabio Filzi e di Damiano Chiesa, opere dello scultore Adolfo Wildt.
Stando alle cronache del giornale locale, La Provincia di Bolzano, dei giorni successivi, il convoglio reale arrivò alle 8.30, annunciato dai colpi di un cannone sulla strada del Colle. Con Vittorio Emanuele III, giunsero il duca d’Aosta, il duca degli Abruzzi, Costanzo Ciano, Italo Balbo, Giovanni Giuriati. Quest’ultimo tenne il lungo discorso di inaugurazione, che fece seguito alla breve cerimonia religiosa di benedizione officiata dall’arcivescovo di Trento (della cui diocesi Bolzano faceva allora parte) Celestino Endrici.
Nel giorno dell’inaugurazione si tenne una manifestazione di protesta a Innsbruck, sul monte Isel, con circa 10.000 partecipanti, fra cui diversi rappresentanti sudtirolesi.
Il nome del monumento e l’iscrizione vennero sentiti dalla popolazione germanofona come provocazione, dato che avevano lingua, arte e cultura propria già prima dell’annessione e un tasso di alfabetizzazione maggiore che nel resto d’Italia, anche se il ministro Fedele addolcì la versione originariamente prevista, ove compariva il termine barbaros al posto del meno offensivo ceteros, poi utilizzato.
Il monumento divenne luogo per le celebrazioni del regime fascista. La celebrazione organizzata il 28 ottobre 1932 per festeggiare il decennale della marcia su Roma, vide la partecipazione non ufficiale del partito nazista NSDAP tedesco con 30 uomini delle SS in uniforme guidati dal nazista ultraradicale Theodor Eicke, tuttavia questa presenza fu contestata soprattutto dal NSDAP austriaco che vedeva nel monumento un simbolo della vittoria sull’Austria e la Germania. Pertanto fu richiesto un provvedimento disciplinare da parte del NSDAP contro Eicke.
Nel corso degli anni si sono registrate proposte da parte di rappresentanti dell’etnia tedesca, fra cui Alexander Langer, per demolire o perlomeno rinominare/ridedicare il monumento. Langer intervenne in merito ben due volte, la prima nel 1968, quando assieme a Josef Schmid e Siegfried Stuffer, a nome del cosiddetto Brücke-Kreis di Bolzano, un’associazione interetnica, protestò in nome del pacifismo contro le solite celebrazioni della vittoria del 4 novembre presso il monumento. Nel 1979 Langer, divenuto nel frattempo consigliere provinciale per la Nuova Sinistra-Neue Linke, in una mozione chiese di fare del Monumento «un segno di monito e di memoria autocritica», riprendendo un’idea già di Livia Battisti, figlia del martire socialista.
Nel 1977 i deputati di Südtiroler Volkspartei, Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano, Partito Socialista Italiano e alcuni indipendenti presentarono un disegno di legge, in cui si chiedeva di eliminare dalla città di Bolzano le costruzioni inneggianti al fascismo. Da allora però non se ne parlò più.
Al giorno d’oggi, rappresentanti dei partiti di destra dell’ex Alleanza Nazionale (confluito nel PDL nel 2008), Unitalia e associazioni commemorano il 4 novembre con una deposizione di una corona davanti al monumento. Il giorno ha un grande potere simbolico, dato che è l’anniversario della fine della Grande guerra e della sconfitta dell’impero austro-ungarico con la conseguente annessione al Regno d’Italia del Trentino Alto-Adige. Nel 2008 invece anche le Forze Armate hanno depositato una corona davanti al monumento, su diretta richiesta del ministro alla difesa Ignazio La Russa.
Nel giugno 1990 è iniziato un primo restauro del monumento da parte del Ministero per i beni e le attività culturali, affidato alla Soprintendenza di Verona, e finanziato dallo Stato con 400 milioni di lire. Nonostante le proteste da parte degli Schützen che erano contrari al restauro del monumento, ma fu altrettanto ferma la difesa dell’operazione da parte del MSI locale.
Nel dicembre 2001, la giunta comunale di Bolzano decise di cambiare il nome alla piazza antistante il monumento, da piazza della Vittoria (Siegesplatz) a piazza della Pace (Friedensplatz). In seguito al referendum popolare, richiesto da molti cittadini di madrelingua italiana che disapprovavano la decisione, nell’ottobre 2002 il nome di piazza della Vittoria è stato ripristinato dopo una consulta democratica che vide vincitori i “Sì” in maniera netta con il 61,94%. Dopo l’esito, caroselli di auto per le vie di Bolzano hanno festeggiato il ritorno dello storico toponimo. La giunta comunale di Bolzano ha reintrodotto la denominazione precedente, ma ha voluto anche apporre sotto la targa toponomastica “Piazza della Vittoria” la scritta “Già della Pace”.
Il 22 febbraio 2005, sono state apposte dai rappresentanti del comune di Bolzano delle targhe commemorative che contestualizzano il significato del monumento. Queste sono state montate a circa 50 m di distanza, dato che l’installazione in prossimità del monumento è stato proibita dal Ministero della Cultura, dopo massicce proteste dei partiti italiani di destra.
Il 9 novembre 2008 ha avuto luogo una manifestazione nazionalista tirolese degli Schützen contro i monumenti di epoca fascista presenti a Bolzano, compreso il monumento alla Vittoria, percepita però come manifestazione antiitaliana dalla maggioranza italofona. La manifestazione è partita da piazza Walther e terminata in piazza Tribunale con un comizio conclusivo da parte di alcuni esponenti del gruppo tirolese. Nella mattinata alcuni esponenti di Alleanza Nazionale hanno voluto manifestare a difesa degli storici monumenti bolzanini, depositando 2000 ceri nel piazzale e nel perimetro antistante il monumento alla Vittoria. Anche Unitalia ha organizzato un picchetto con fiaccole davanti allo stesso, prima, e durante il passaggio degli Schützen.
Il 23 novembre 2009 partono nuovamente lavori di restauro del monumento, a cura del Ministero per i beni e le attività culturali ed eseguiti dalla Soprintendenza di Verona, alla quale il monumento compete. In una mozione del 1º dicembre 2009 il consiglio provinciale di Bolzano, con un voto a maggioranza, ha protestato contro l’iniziativa, considerandola di stampo revisionista e non consona allo spirito europeo. Contestualmente è stato chiesto dall’Assessorato provinciale alla cultura di cogliere l’occasione del restauro per “trasformare il monumento in una testimonianza contro il fascismo”.
Il 21 maggio 2010, l’Archivio storico della città di Bolzano ha rivolto un appello a storicizzare, depotenziare e musealizzare i monumenti dell’era fascista a Bolzano, con al centro il monumento alla Vittoria, creando una memoria condivisa e condivisibile da parte della società civile. Il progetto chiamato «Bolzano città di due dittature» vorrebbe ricordare entrambi i fascismi europei, quello italiano e quello tedesco, il nazionalsocialismo, che hanno così fortemente condizionato il Novecento bolzanino, affrontando una scomoda eredità e al contempo sfruttando al meglio le grosse opportunità di rielaborazione democratica ed europea del bellicismo e dei nazionalismi del passato.
Il 26 gennaio 2011, in occasione di un voto di fiducia parlamentare, il ministro alla cultura Sandro Bondi ha dato il via libera, tramite un impegno scritto, alla Südtiroler Volkspartei di storicizzare i monumenti dell’era fascista, in primis il monumento alla Vittoria, fermando il restauro in atto. L’inaspettata decisione del governo è stata aspramente criticata dalla stampa locale di lingua italiana che lo ha definito “un tradimento ai cittadini”, mentre ha riscontrato i favori dell’opinione pubblica di lingua tedesca.
Per consentire una riflessione più pacata sulla problematica della monumentalistica d’epoca fascista a Bolzano, il 5 febbraio 2011 un nutrito gruppo di storici e storiche di lingua tedesca e italiana e di varia nazionalità, legati in larga parte all’associazione “Geschichte und Region/Storia e regione”, pubblicò un appello nel quale chiese un’efficace storicizzazione dei manufatti, evitandone lo smantellamento o la rimozione, ma facendo sì che venissero messe in chiara evidenza il carattere totalitario e il messaggio di violenza dei monumenti stessi, al fine di impossibilitare ogni forma di revisionismo nostalgico.
Contro la storicizzazione del monumento e “per la difesa degli italiani”, l’associazione d’estrema destra CasaPound, il 5 marzo 2011 organizzò un corteo partito da piazza della Vittoria e terminato nella stessa piazza con un lancio di rose al monumento di Giuseppe Mazzini. I manifestanti, giunti anche da altre città, hanno sfilato con in testa uno striscione in lingua tedesca con la scritta “Gegen eure Arroganz. Für das Zusammenleben” (“Contro la vostra arroganza. A favore della convivenza”).
Nel gennaio 2012 venne approvata la creazione di un percorso espositivo nei locali al di sotto del monumento alla Vittoria destinato a completare ed ampliare i lavori di ristrutturazione e a documentare la storia del monumento e le vicende cittadine dal 1918 al 1945 correlate alle due dittature fascista e nazista che in quel periodo si avvicendarono nella città e in regione, la cui apertura avvenne il 21 luglio 2014, presente il ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini.
La Giuria internazionale del European Museum Award of the Year del 2016 decise di assegnare al percorso espositivo BZ ’18–’45 una «special commendation» per avere «la mostra documentaria reintegrato un monumento controverso, che a lungo ha generato battaglie politiche, culturali e di identità regionale; il progetto rappresenta un’iniziativa altamente coraggiosa e professionale per promuovere valori umanitari, di tolleranza e democratici.»
Nel giugno del 2016, il presidente austriaco Heinz Fischer venne in visita ufficiale al percorso espositivo, apprezzandone impostazione e contenuti.

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