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venerdì 13 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 13 settembre.
Il 13 settembre 1867 viene inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele II a Milano.
Una delle prime tappe di ogni viaggio a Milano è la Galleria Vittorio Emanuele II, considerato il salotto della città, un elegante punto d’incontro a due passi dal Duomo.
La storia di questo luogo comincia nel 1859, nel momento in cui le truppe franco-piemontesi liberarono Milano dal controllo austriaco.
La città conta 196.000 abitanti all’interno della cerchia dei Bastioni e 47.000 al di fuori.
I suoi ritmi di crescita si fanno ogni giorno più frenetici: aumentano i lavori e migliorano gli stili di vita.
Alla vigilia dell’Unità d’Italia, Milano stava risorgendo sia dal punto di vista economico che culturale.
Eppure, Piazza Duomo, uno dei simboli della città, non sembrava pronta a questa rinascita, con il suo impianto irregolare e lo spazio davanti alla cattedrale occupato da costruzioni medievali.
Il 5 dicembre 1859, il re, Vittorio Emanuele II, diede il via a una lotteria i cui ricavi avrebbero dovuto finanziare la modernizzazione della Piazza. I soldi raccolti non furono abbastanza, ma la lotteria attirò l’attenzione di stampa e cittadini: qualcosa, quindi, doveva cambiare.
Fallito il tentativo della lotteria, il municipio di Milano organizzò tre concorsi per raccogliere le idee e premiare la migliore.
Fu il progetto di Giuseppe Mengoni, lodato per concretezza ed eleganza, a spiccare fra gli altri e a vincere il terzo concorso nel 1863. Due anni dopo, il re posò la prima pietra al centro di quello che sarebbe diventato l’ottagono della Galleria: un masso di granito, chiuso da una lastra di marmo di Carrara, con, al suo interno, dei disegni della Galleria, l’atto della cerimonia e alcune monete d’oro.
Circa 1000 erano le persone coinvolte nel progetto, fra muratori, fabbri e vetrai, tutti supervisionati da Mengoni. I lavori durarono relativamente poco e, nel giro di due anni, la Galleria fu completata. Solo l’arco d’ingresso fu finito più avanti, nel dicembre del 1867. Il giorno prima dell’inaugurazione dell'arco, il 30 dicembre,  avevano già cominciato a circolare i primi commenti sulla Galleria: alcuni erano entusiasti, altri diffidenti.
Quel giorno, sulle impalcature, c’era ancora Mengoni, intento a finire gli ultimi ritocchi. Il suo corpo fu trovato ai piedi delle impalcature: c’è chi disse che era stato un malore e chi, invece, che non avesse retto le critiche.
Nella Galleria Vittorio Emanuele II, in breve tempo, cominciò a riecheggiare il ticchettio delle scarpe eleganti. In Galleria si esibivano le proprie pellicce, si girava, anche a rischio di cadere, tre volte sui testicoli del toro (raffigurato sul pavimento a mosaico; secondo una superstizione questo gesto porta fortuna), ci si fermava al Biffi a bere un caffè.
Nonostante il consolidamento, negli anni, di altre strade altrettanto eleganti, la Galleria rimase un punto nevralgico dell’alta borghesia milanese. Forse dovette il suo successo alla sua posizione centrale o forse al fatto che al Savini servivano il miglior risotto allo zafferano della città, applaudito anche da Grace Kelly.
Poco importa. I calici di spumante erano alzati verso i soffitti vetrati e smisero di brindare alla Madonnina solo in due occasioni: dopo i bombardamenti del ’43, durante la ricostruzione, e negli anni di Piombo.
Nel 1968, il ticchettio delle scarpe eleganti cessò definitivamente, sovrastato dal passo veloce e unito degli studenti milanesi. La Galleria di Mengoni si trasformò, da frivolo luogo d’incontro borghese, a luogo di scontro politico: perfetta passerella fra due Piazze, fu attraversata da manifestazioni, comizi, dibattiti.
Oggi si continua a passeggiare, a girare tre volte, cadendo, sui testicoli del toro e a prendere un caffè, allo Zucca, o un aperitivo, al Campari. È rimasta un luogo d’incontro per guide e turisti, e di scontro, fra selfie stick e piccioni.
A maggio 2015 è riuscita a rinnovarsi nuovamente: il 20 ha, infatti, aperto l’attesissima passeggiata sui suoi tetti.
Una nuova passerella di 250 metri, alla quale si accede da Via Pellico. Viene da chiedersi se Mengoni avrebbe apprezzato e se, su questa passerella sopraelevata, avranno la meglio tacchi o striscioni.

giovedì 12 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 settembre.
Il 12 settembre 1942 affonda il Transatlantico Laconia.
L’RMS Laconia era uno splendido transatlantico dalle linee sinuose, rapido a solcare gli oceani e a infrangere le onde. Di proprietà della società Cunard Line, venne varato nel 1921, ma con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, venne requisito dalla Royal Navy, la marina britannica, e trasformato in cargo incrociatore, armato con otto cannoni da 152,4 mm e due obici da 762 mm, e, successivamente ad altre modifiche, quale trasporto truppe e nave per prigionieri di guerra. Iniziò a effettuare le sue traversate dalla Gran Bretagna fino al continente africano, trasportando le truppe inglesi che combattevano in Nord Africa contro l’Afrika Korps di Rommel e, in seguito alle vittorie nel teatro africano, ebbe la delicata missione di trasferire circa 1800 prigionieri italiani nei campi di concentramento alleati negli Stati Uniti.
Salpato nel luglio 1942 dal porto di Suez, sul Laconia vennero imbarcati 463 uomini dell’equipaggio, 268 soldati britannici, ottanta passeggeri (per lo più donne e bambini, membri delle famiglie dei soldati britannici o dei membri dell’equipaggio) e 103 soldati polacchi destinati al servizio di guardia degli oltre 1800 prigionieri italiani. Nella notte del 12 settembre 1942, il Laconia, ormai lontano dalle coste dell’Africa, in pieno Oceano Atlantico, mentre faceva rotta verso gli Stati Uniti, venne avvistato dal periscopio del sommergibile tedesco U156, comandato dal Capitano di Vascello Werner Hartenstein: alle ore 20.10, al largo dell’Isola di Ascensione, il transatlantico venne raggiunto da un siluro del sommergibile, sul lato di dritta; pochi istanti dopo, la nave venne raggiunta da un secondo siluro e, alle 21.11, innalzando la sua prua al cielo stellato della notte atlantica, affondò di poppa.
Durante le fasi dell’affondamento, però, le guardie polacche chiusero tutti i boccaporti delle stive dove erano tenuti prigionieri gli Italiani: molti di loro morirono affogati nel ventre d’acciaio della nave. Alcuni dei sopravvissuti, inoltre, diranno che i Polacchi di guardia, pur di non fare fuggire i prigionieri, fecero uso delle loro armi in dotazione e aprirono il fuoco. Una volta che la nave affondò negli abissi, Werner Hartenstein ordinò di fare rotta sul luogo dell’affondamento, per recuperare gli eventuali naufraghi: la sorpresa dell’equipaggio del sommergibile tedesco fu enorme quando udirono grida di aiuto in italiano tra i rottami affioranti. Recuperati i naufraghi, l’U156 trasmise al comando degli U-Boot la notizia e l’Ammiraglio Karl Doentiz ordinò ad altri due sottomarini tedeschi di raggiungere Hartenstein e recuperare i naufraghi; fu, inoltre, inviato il Sommergibile Cappellini, della Regia Marina italiana, comandato dal Tenente di Vascello Marco Revedin in supporto ai Tedeschi.
Il 16 settembre 1942, l’U156, con le scialuppe dei naufraghi a rimorchio, venne avvistato da un velivolo alleato mentre navigava in superficie: nonostante l’invio di messaggi radio “in chiaro” sulle frequenze inglesi di non attaccare il sommergibile poiché impegnato in una missione di soccorso (tra i naufraghi, vi erano anche soldati e marinai inglesi, donne e bambini), l’aereo sganciò due bombe che, cadendo nelle vicinanze dell’U-boot, solo fortunosamente non causarono danni. Il giorno seguente, avvistati due cargo francesi, i naufraghi furono trasbordati sulle due navi mercantili, così da lasciare liberi i sommergibili tedeschi impegnati, fino ad allora, nella missione di salvataggio; il 18 settembre, infine, le navi francesi, a loro volta, trasferirono i sopravvissuti sul Sommergibile Cappellini, che era ormai sopraggiunto. Alla fine di tutto, si contarono tra le 1600 e le 1700 vittime, per la stragrande maggioranza prigionieri di guerra italiani. Per quanto riguarda il destino dell’eroico comandante Hartenstein, il 12 marzo 1943 venne affondato da un aereo statunitense, mentre si trovava in navigazione nell’Oceano Atlantico.

mercoledì 11 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è l'11 settembre.
L'11 settembre 831 Palermo viene conquistata dal mondo islamico.
Palermo non si chiamerebbe cosi se la città non fosse appartenuta al mondo arabo, come lo fu per due secoli.
Il nome, infatti "Panormus" (dal greco, "tutto porto") che la città portava sin da tempi antichi, dagli Arabi non fu inteso e perciò fu storpiato in "Balarmuh".
I Musulmani conquistarono la Sicilia sottraendola al dominio del loro grande rivale dell'epoca: l'impero di Bisanzio. Lontana dalla capitale Costantinopoli, l'isola mediterranea era una provincia sfruttata, come nei tempi romani, dal sistema latifondista e dalla monocoltura del grano.
Nel nono secolo la tendenza autonomista dell'ultimo governatore bizantino della Sicilia provocò e facilitò l'invasione musulmana. Le navi musulmane partirono da Suso (Tunisia) l'odierna Sousse per approdare a Mazara nell'827.
La conquista si protrae per molti anni prima che tutti i centri Siciliani fra cui la città capitale, Siracusa, e la roccaforte logistica nel centro dell'isola, Enna, passino in mano musulmana. La Sicilia viene quindi coinvolta dall'onda espansionistica dell'Islam che ad est ha già raggiunto l'Asia centrale e ad ovest la Spagna; politicamente farà parte di questo mondo fino a quando, nel 1061, vi giungono i cavalieri normanni alla ricerca di terre da conquistare.
I Musulmani, cioè "i fedeli in Dio", non si contraddistinguono per la unicità della razza oppure per una comune storia e cultura e tutto ciò che concorre a formare una nazionalità: sono bensì uniti da un unico concetto religioso - politico, l'Islam per l'appunto.
Sono quindi vari ceppi (Arabi, Berberi, Persiani) uniti dall'Islam che si sovrappongono alla popolazione siciliana già composita (i discendenti delle popolazioni più antiche quali Sicani, Siculi, Morgeti, mescolati con le popolazioni sopraggiunte in seguito quali Fenici, Greci, Elimi, Romani, Bizantini). Questi vivono sotto la dominazione musulmana che vede il susseguirsi di varie dinastie, le quali governano il territorio siciliano con diverse forme giuridiche di assoggettamento che vanno dall'autonomia alla schiavitù.
Alla popolazione pre-musulmana cristianizzata, almeno in larga misura, è concesso di conservare la propria fede, purché non venga manifestata in pubblico e soprattutto non davanti agli occhi dei Musulmani: tale tolleranza è frutto di una tassa che i cristiani devono versare nelle casse musulmane.
Mentre la Sicilia appartiene al mondo islamico, i Musulmani economicamente la risollevano dalla sua stasi tardo antica. Essi introducono un nuovo sistema di agricoltura, sostituendo la monocoltura del grano con la varietà delle coltivazioni da loro importate: riso, agrumi, cotone, canna da zucchero, palma dattilifera, grano duro, sorgo, carrubo, pistacchio, gelso, ortaggi (melanzane, spinaci, meloni), ecc.
Tecniche innovative contribuiscono al successo delle nuove colture. Maestri nello sfruttamento delle risorse idriche, gli Arabi sostengono le coltivazioni con efficientissimi sistemi di irrigazione.
La Sicilia, reinserita nella rete marittima di scambi commerciali, diviene il perno delle attività nel Mediterraneo e assurge ad un ruolo dominante che si protrae per gran parte del Medioevo. Come nell'antichità, l'agricoltura rimane la principale attività dei siciliani, certo con le nuove tecniche meglio supportata ed economicamente resa in maniera più redditizia grazie all'eccellente amministrazione ed a un nuovo tipo di fiscalismo.
Sostituendosi a Siracusa, la capitale siciliana bizantina, Palermo diventa la città principale del dominio musulmano nell'isola. A causa del carattere urbano della civiltà islamica Palermo precorre di vari secoli lo sviluppo urbanistico che in altre città europee avviene più tardi. La città islamica è il centro del potere ed ospita la corte dell'emiro e la casta militare e, oltre gli artigiani e i commercianti, vi svolgono un ruolo importante gli insegnanti, i religiosi, i letterati e i giuristi.
L'antica città, fondata nell' VIII secolo a.C. dai Fenici, era, al tempo della conquista musulmana, chiusa entro un perimetro di mura e torri. Nella parte più elevata della città, ad occidente, in prossimità delle mura i Musulmani costruiscono, probabilmente sul posto di precedenti fortificazioni, un palazzo poi chiamato "dei Normanni". Il palazzo diviene la prima sede governativa e tale rimane fino ai nostri giorni (attualmente è sede del Parlamento Regionale Siciliano). La città si arricchisce di nuove edificazioni e si espande al di là delle mura dell'antico nucleo.
Palermo raggiunge dimensioni davvero cospicue per un centro medievale. Si possono calcolare almeno 100.000 abitanti. Notevole è il numero delle istituzioni e delle infrastrutture: moschee (sia pubbliche che private), bagni (anch'essi pubblici e privati), il porto, l'arsenale, le mura e le porte, le fortificazioni, i mulini, i fondachi e i mercati. Verso il mare i Musulmani costruiscono, in alternativa al palazzo superiore, una seconda fortificazione allorquando, nel X secolo, per la travagliata successione dinastica, il governo fatimide si deve proteggere dalle ostilità della popolazione palermitana e da eventuali attacchi dal mare. La nuova cittadella, un vero centro militare e amministrativo, accoglieva il palazzo dell' emiro, il diwan (centro di amministrazione fiscale), l'arsenale, bagni e moschee.
Il carattere metropolitano che Palermo assume nel medioevo è esplicitato dall'organizzazione evoluta con cui viene gestita l'accresciuta dimensione della città nella quale, per esempio, i nuovi quartieri vengono affidati ai gruppi etnici, corporazioni o gruppi militari che vi abitano. L'amministrazione si occupava, oltre che delle istituzioni pubbliche (cui appartenevano anche gli edifici religiosi e politici), della ripartizione dei mestieri e dei commerci, del rifornimento idrico per i bagni (pubblici e privati), della pulizia delle strade.
L'immagine di Palermo nel periodo islamico splende nelle descrizioni fatte da viaggiatori che, in pellegrinaggio per la Mecca o in viaggio per motivi commerciali, in gran numero passavano per la capitale siciliana.
Oggi a Palermo non è rimasto alcun edificio islamico, un fatto molto sorprendente data l'importanza e la dimensione della città in quell'epoca. Chi abbia distrutto tutti i grandi o piccoli edifici e quando ciò sia avvenuto è difficile da chiarire. Certamente le prime distruzioni risalgono all' XI secolo, allorché i Normanni conquistarono la Sicilia. Ma poiché durante la reggenza normanna i Musulmani non furono repressi, anzi largamente coinvolti negli affari della monarchia cristiana, dall'artigiano all'amministratore di uffici pubblici, è difficile pensare che i Normanni abbiano sistematicamente distrutto ogni traccia della cultura architettonica dei loro concittadini; e lo è ancora di più considerando il fatto che proprio dal periodo normanno ci sono pervenute numerose testimonianze dell'abilita artistica dei Musulmani.
E' in seguito, nel periodo in cui la Sicilia fece parte del regno cattolico della Spagna, regno che fondava il proprio prestigio nella vittoria sui Musulmani della penisola iberica, che è possibile ipotizzare un clima iconoclasta che imponeva la distruzione di tutto ciò che rappresenta l'Islam e la sua gloria, prime fra tutto le moschee. Se, quindi, vogliamo andare alla ricerca della Palermo araba, dobbiamo munirci di spirito di esploratore e raccogliere tante piccole tessere per poi unirle in un quadro complessivo.

martedì 10 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 10 settembre.
Il 10 settembre la religione romana celebrava la nascita di Esculapio, Dio della Medicina.
Asclepio, che i Romani conobbero col nome di Esculapio, nell’antica Grecia era il dio della medicina. Figlio di Apollo e di Coronide, fu affidato dal padre al centauro Chirone che gli insegnò l’arte medica. Avendo poi osato richiamare in vita i morti, fu fulminato da Zeus.
Gli attributi di Asclepio erano il bastone, il rotolo di libro, il fascio di papaveri, ma soprattutto il serpente; secondo una leggenda un serpente gli avrebbe portato l’erba miracolosa che servì per risuscitare Ippolito, il figlio di Teseo, e dopo la sua morte Asclepio e il serpente furono posti in cielo, raffigurati nelle costellazione di Ofiuco o Serpentario e del Serpente. La moglie di Asclepio era Salute e la sua sacerdotessa era Panacea, “colei che tutto guarisce”.
Asclepio in Grecia, Esculapio a Roma, dio patrono della medicina, non appartiene alla schiera degli dei prettamente olimpici. Non è chiaro se in origine fosse una divinità sotterranea (ossia demoniaca) della Tracia oppure, analogamente a quanto successo con Imhotep in Egitto, un uomo realmente vissuto che per le benemerenze acquisite nel guarire le malattie sia stato in seguito divinizzato.
Secondo Pindaro, Asclepio era stato generato da Apollo nel grembo di Coronide, figlia di Flegia, re dei Tessali, allorché Coronide, prima di aver partorito, s’innamorò di un comune mortale di nome Ischi. Apollo, furioso per il tradimento, fece trafiggere l’infedele da Artemide con una delle sue frecce infallibili. Quando però la salma di Coronide si stava già consumando nelle fiamme del rogo, Apollo le strappò dal grembo il frutto del loro amore, Asclepio.
Secondo Esiodo, invece, la madre sarebbe stata Arsinoe, una delle figlie di Leucippo.
Salvato il figlio, Apollo lo affida al centauro Chirone, che lo alleverà e lo istruirà nella medicina.
Si racconta che, a ricordo della sua nascita fra le fiamme, un alone di luce avrebbe circondato il corpo del ragazzo, suscitando lo sgomento dei rozzi pastori vaganti sul monte Pelio, regno di Chirone.
Fattosi adulto, Asclepio, a differenza di tanti altri eroi educati da Chirone, non sceglie il mestiere delle armi, ma mette a profitto le lezioni di Chirone per alleviare le sofferenze del genere umano.
La leggenda narra che Asclepio avrebbe guarito dalla pazzia le Pretidi, dalla cecità i Fineidi, dalle ferite Ercole.
Ma poi cresce la sua ambizione: vuole sconfiggere la morte che sovrasta la vita. Si mette a risuscitare i morti: Orione, Capaneo, Ippolito, Tindareo ed altri. Con ciò, però, sorpassa la misura imposta da Zeus ai mortali, crea uno squilibrio, e Zeus lo fulmina.
La fine del figlio suscitò però la collera di Apollo: in un impeto di rabbia uccise i Ciclopi, che avevano forgiato le folgori di Zeus, e poi abbandonò per molto tempo l’Olimpo.
Il primo luogo di culto di Asclepio era una grotta presso Tricca, dove sotto il simbolo del suo attributo principale, il serpente, dava oracoli.
Poi il culto si estese ad Epidauro, che ne doveva diventare il centro principale, a Coo, ad Atene e a tutto il mondo ellenico. A lui furono dedicate le feste Asclepiee o Asclepiadee; a lui fece risalire la propria origine la gente degli Asclepiadi, che esercitarono tutti l’arte medica, fra i quali lo stesso Ippocrate, il più famoso medico dell’antichità.
I santuari dedicati ad Asclepio, i cosiddetti Asclepiei, erano costituiti da una fonte o un pozzo, circondati da un bosco sacro, e dalla clinica, chiamata adyton. Sappiamo poco sulla prassi medica seguita in quei luoghi, anche a causa dei misteri che la circondavano. I malati passavano una notte nell’adyton; dopo un sogno, ottenuto probabilmente con mezzi artificiali, seguiva la guarigione. Essa però sicuramente non era effetto della potenza taumaturgica del luogo sacro o soltanto frutto della suggestione, ma anche di interventi chirurgici e di medicine propinate. Dalla moglie Lampezia – secondo altri, da Epiona – Asclepio avrebbe avuto quattro figlie (Igea, cui furono dedicati altari, quale personificazione della salute; Panacea, che guariva tutte le malattie; Iaso, la quale, invece, le provocava; Egle, che fu ritenuta madre delle Grazie) e due figli (Macaone, che fu ucciso da Euripilo all’assedio di Troia, e Podalirio che, per la sua singolare perizia medica, fu fatto signore del Chersoneso e ascritto nel novero degli dei).
All’inizio, Asclepio venne raffigurato giovane e imberbe, ma poi si passò a rappresentarlo come un uomo nel pieno vigore, il viso circondato da una folta barba e soffuso di un’espressione di mitezza e bontà. I suoi attributi sono lo scettro, la verga e il rotolo di libro. Gli erano sacri il serpente che lambisce le ferite e, per lo stesso motivo, il cane e le oche. Sacro gli era anche il gallo, simbolo del giorno e della vita che rinascono.
Con una sublime identificazione della morte con la guarigione dal male della vita, Socrate morente, come ci riferisce Platone nel Fedone, pregò gli amici che si sacrificasse un gallo ad Asclepio: “E già la parte inferiore del ventre veniva ormai raffreddandosi, quando si scoperse il volto che già era stato coperto e disse ancora queste parole (le ultime da lui pronunciate): 0 Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio; dateglielo, e cercate di non dimenticarvene”. In Roma il culto di Asclepio-Esculapio fu introdotto ufficialmente dopo la pestilenza del 293 a. C. Allora si consultarono i libri sibillini, i quali diedero come responso che la peste sarebbe scomparsa soltanto se fosse venuto Asclepio da Epidauro. Il Senato mandò dunque una legazione, ma quelli di Epidauro erano incerti sulla decisione da prendere. Nella notte, però, Asclepio apparve al capo della legazione romana, assicurandolo che il giorno dopo sarebbe partito con lui. E difatti, quando i legati si furono raccolti nel tempio del dio, un serpente uscì da un sotterraneo e li seguì fin sulla nave per venire in Italia. Quando, al termine del viaggio, la nave, risalendo il Tevere, giunse all’altezza dell’isola Tiberina, il serpente abbandonò la nave e si rifugiò su quell’isoletta. Interpretando il fenomeno come desiderio di Asclepio che colà dovesse sorgere il suo santuario romano, il Senato romano lo fece costruire nel punto dell’isola Tiberina dove oggi si trova la chiesa di S. Bartolomeo.
Affermatosi il culto di Asclepio anche a Roma (si sa, i medici stranieri sono sempre reputati migliori!!), furono trascurate le quattro divinità indigene che prima presiedevano alla salute: Strenua, Cardea, Febris e Salus; quest’ultima finiva per essere identificata con Igea, figlia di Asclepio.

lunedì 9 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 9 settembre.
Il 9 settembre 1804 nasce a Bologna Pietro Pietramellara.
Pietro Pietramellara nasce da Lorenzo e Carlotta Teodora Sampieri Scappi, famiglia patrizia di antiche origini transalpine. Il cognome Pietramellara deriva dalla località di Pietramelara, nel Casertano.
Terminati gli studi liceali nel collegio militare di Venezia, Pietramellara si laureò in Giurisprudenza all'Università di Bologna all'età di 23 anni. Tuttavia, le tradizioni famigliari lo avviarono verso la carriera militare e, grazie alla conoscenza della famiglia con casa Savoia, nel 1829 riuscì ad entrare nell'esercito di Carlo Alberto dove in poco tempo venne promosso come tenente. Questa carriera lo introdusse anche in quella politica; nel 1833 aderì al progetto mazziniano e contribuì all'azione di proselitismo della Giovine Italia, guidando i granatieri ad occupare il forte di Genova.
Dopo il fallimento di tale progetto, sfuggì alla pena capitale ma fu condannato nel carcere di Finestrelle e vi rimase per due anni.
Grazie all'intervento della madre, Pietramellara poté scontare la pena nella città natale dove nel 1835, precluso alla carriera militare, s'interessò all'esercizio dell'avvocatura. Nel 1843 Pietramellara, riavvicinatosi alla politica, entrò nel comitato bolognese, che aveva l'obiettivo di far scoppiare l'insurrezione e partecipò al tentativo di far sollevare Imola guidato da Ignazio Ribotti. Fuggito poi in Corsica, apprese di esser stato condannato a morte in contumacia così si stabilì a Châteauroux e successivamente a Parigi, dove prima insegnò italiano e poi lavorò come impiegato nelle ferrovie.
L'elezione di Pio IX (1846), conosciuto come papa liberale, permise a Pietramellara il ritorno in patria l'anno seguente. A Bologna contribuì all'organizzazione della guardia civica cittadina. In quegli anni rincontrò Giovanni Durando, conosciuto durante la sua esperienza nell'esercito sardo, il quale lo incaricò di formare un battaglione di fucilieri, arruolando giovani volontari disoccupati. Pietramellara, disobbedendo al Papa, partecipò con il suo battaglione alla prima Guerra d'Indipendenza e partecipò alla difesa di Vicenza, fino alla caduta della città il 10 giugno 1848. Il 16 agosto il battaglione rientrò a Bologna per poi dirigersi verso Cento, dove venne riorganizzato e rinominato VI battaglione bersaglieri.
Nel 1849, durante la difesa di Repubblica Romana, Pietramellara fu fatto prigioniero dai francesi del generale Oudinot stando a guardia di Civitavecchia, ma fu restituito alla sua patria successivamente al combattimento del 30 aprile, in cambio dei francesi fatti prigionieri sul campo di battaglia romano. Il 3 giugno, Oudinot attaccò Roma ma il suo esercito fu ostacolato dal battaglione di Pietramellara. Due giorni dopo, quest'ultimo venne colpito alla spalla presso Villa Savorelli e morì il 5 luglio quando le truppe francesi vinsero la resistenza e riuscirono ad occupare Roma. Il suo funerale fu interrotto dall'entrata dei francesi nella chiesa di San Vincenzo e Anastasio, e uno di questi tolse dalla salma la coccarda tricolore appuntatavi sul petto.
E' ricordato nella tomba di famiglia collocata nella Sala delle Tombe della Certosa di Bologna.

domenica 8 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è l'8 settembre.
L'8 settembre 1855 nell'ambito della guerra di Crimea la città di Sebastopoli si arrende all'assedio che durava da quasi un anno.
È sui banchi di scuola, studiando il Risorgimento italiano, che per la prima volta abbiamo sentito parlare della Crimea.
Nell'estate 1853 lo zar Nicola I invade i principati danubiani di Moldavia e Valacchia, posti sotto la sovranità dell'Impero ottomano; pochi mesi dopo la Turchia, sostenuta da Gran Bretagna e Francia, dichiara guerra alla Russia. Gli anglo-francesi cingono d'assedio la fortezza di Sebastopoli in Crimea, principale porto russo sul Mar Nero. Londra e Parigi cercano di coinvolgere nella loro alleanza antirussa anche l'Austria, che però non si schiera. È invece il Piemonte sabaudo ad accettare di intervenire nella guerra. Nel maggio 1855 il primo ministro Cavour manda in Crimea un corpo di spedizione di 15 mila uomini al comando di Alfonso La Marmora (fratello di Alessandro fondatore del corpo dei Bersaglieri, che morì proprio in quella spedizione), che prendono parte alla battaglia del fiume Cernaia (agosto 1855), distinguendosi per coraggio e preparazione militare. In settembre, dopo la caduta di Sebastopoli, il nuovo zar Alessandro II firma l'armistizio. Al Congresso di pace di Parigi, Cavour, grazie alla partecipazione piemontese alla guerra, può quindi sollevare la questione dell'unità e dell'indipendenza italiana. Dai contatti avuti con le cancellerie di Francia e Gran Bretagna, Cavour percepisce che un mutamento in Italia su iniziativa del Piemonte è fattibile, con l'appoggio delle due maggiori potenze occidentali e soprattutto di Napoleone III.
La base navale di Sebastopoli ospita la flotta russa del Mar Nero dai tempi della zarina Caterina II, verso la fine del XVIII secolo. Nel 1954 il leader sovietico Nikita Kruscev (originario di una zona al confine tra Russia e Ucraina) "regalò" la Crimea all'Ucraina, peraltro nell'ambito dell'Urss. Con il crollo dell'Unione Sovietica, Kiev mantenne la Crimea, ma nel 1997 fu stipulato un accordo ventennale che consentiva la presenza della flotta russa. In virtù del trattato, Mosca ha il diritto di dispiegare a Sebastopoli e in Crimea un centinaio di navi e 25 mila militari. La base è stata utilizzata per la guerra del 2008 contro la Georgia. Nel 2010 i parlamenti russo e ucraino hanno ratificato un nuovo accordo che estende di altri 25 anni la permanenza della flotta in cambio di uno sconto del 30% sulle forniture del gas russo, per un valore complessivo di 40 miliardi di dollari. Condizioni radicalmente mutate oggi, dopo la caduta del presidente filorusso ucraino Viktor Ianukovich.

sabato 7 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 7 settembre.
Il 7 settembre 1303 si ebbe l'episodio celebre dello "schiaffo di Anagni".
Il celebre episodio dello Schiaffo di Anagni (Anagni oggi è in provincia di Frosinone, Lazio) ha per protagonisti papa Bonifacio VIII e il re di Francia Filippo IV di Valois, detto il Bello. Dante canta questo evento nel canto XX del Purgatorio (vv. 85-90).
Filippo il Bello aveva esigenze di cassa, decise quindi di tassare i beni ecclesiastici sul suolo francese. Bonifacio VIII scrisse una serie di bolle, in parte disattese e ignorate, in parte bruciate e falsificate dalla cancelleria francese, fino alla bolla di scomunica Unam Sanctam del 18 novembre 1302, affissa sulle porte della cattedrale di Anagni la mattina dell’8 settembre 1303.
Filippo il Bello doveva in tutti i modi evitare la scomunica: inviò quindi in Italia Guglielmo de Nogaret. Questi, grazie all’appoggio incondizionato fornitogli dalla nobile famiglia romana dei Colonna (nemica acerrima dei Caetani, cui apparteneva Bonifacio VIII), arrivò ad Anagni nella notte tra il 6 e il 7 settembre. Con sé aveva un esercito di un migliaio tra fanti e cavalieri capeggiato da Giacomo Colonna, detto Sciarra (Sciarra in volgare significava attaccabrighe).
Forte dell’aiuto di una mano traditrice, l’esercito riuscì a penetrare nella città e in breve vinse le poche difese organizzate dalla guardia.
Secondo la tradizione, papa Bonifacio VIII si sarebbe rifugiato al secondo piano del palazzo della famiglia Caetani, nella Sala degli Scacchi (in seguito chiamata Sala della Schiaffo), assistito solo dal cardinale Nicolò Boccasini. Il primo a irrompere nella sala sarebbe stato proprio Sciarra Colonna, che avrebbe dato il famoso schiaffo a papa Bonifacio VIII.
Non si hanno notizie certe circa lo svolgimento degli eventi, per cui dello schiaffo di Anagni molti storici hanno in passato (e ancora oggi) dubitato. Ma una cosa nessuno ha mai messo in discussione: l’insulto morale ci fu!
 Bonifacio VIII venne liberato dopo qualche giorno dagli abitanti di Anagni e portato sotto scorta a Roma, dove morì poco dopo, l’11 ottobre 1303.
Le sue spoglie vennero sepolte in San Pietro, nella Cappella Caetani costruita da Arnolfo di Cambio. Oggi di questa cappella non vi è alcuna traccia, perché venne distrutta in occasione della edificazione della nuova Basilica di San Pietro. Le spoglie del pontefice furono invece sistemate nelle Grotte Vaticane, dove si trovano tuttora, nel sarcofago funerario realizzato da Arnolfo di Cambio.
Morto Bonifacio VIII e il breve pontificato di Benedetto XI, fu eletto il francese Bertrando de Got col nome di Clemente V. Egli spostò la sede del papato ad Avignone (1309), in Provenza, dando inizio al periodo della «cattività [prigionia] avignonese».

venerdì 6 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 6 settembre.
Il 6 settembre 1941 viene stabilito l'obbligo per tutti gli ebrei di indossare la stella di David sui propri indumenti, in tutti i territori occupati dalla Germania nazista.
Una Stella di David, spesso di colore giallo, venne utilizzata dai nazisti durante l’olocausto come metodo di identificazione degli ebrei, e venne chiamata la Stella Ebrea. L’obbligo di portare la Stella di Davide con la parola “Jude” (giudeo in tedesco) scritta sopra venne esteso a tutti gli ebrei al di sopra dei 6 anni nelle zone occupate dalla Germania dal 6 settembre 1941. In altri luoghi vennero utilizzate le parole della lingua locale (per esempio “Juif” in francese, “Jood” in olandese).
Venne così esteso ad altri paesi l’uso introdotto già nel 1939 nella Polonia occupata in cui gli ebrei vennero costretti a portare una fascia sul braccio con una Stella di Davide sopra, come anche una pezza davanti e dietro i propri indumenti. Splendida e toccante la ribellione di Janusz Korczack che girava nel ghetto di Varsavia rifiutandosi di portare quel segno.
Gli ebrei internati nei campi di concentramento vennero in seguito costretti a portare simili distintivi. I nazisti obbligavano gli ebrei ad indossare vestiti con cucita la stella di David per farsi riconoscere.
L’uso di un “segno distintivo” per gli ebrei, tremenda violazione dei Diritti Umani, risale indietro negli anni.
Fu imposto per la prima volta nel 1215, sotto il pontificato di Innocenzo III, quando il IV Concilio Lateranense sancì per gli ebrei l’obbligo di portare un segno distintivo sugli abiti (per le donne era un velo giallo, il contrassegno delle meretrici) e il divieto di ricoprire pubblici uffici.
Il 17 giugno 1430 Amedeo VIII di Savoia fa pubblicare “Statuta sabaudiae“, in cui largo spazio è riservato al “problema ebraico”. Viene fatto obbligo agli ebrei di abitare in luogo separato e obbligo di portare sulla spalla sinistra un contrassegno di panno bianco con raffigurata una ruota bianca e rossa, sembra fosse una moneta…
Il 15 luglio 1555 esce la bolla “Cum nimis absurdum” emessa dal papa Paolo IV. In essa si dice che “è assurdo e sconveniente al massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di essere protetti dall’amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani da oltraggiarli per la loro misericordia e da pretendere dominio invece di sottomissione“. Questi ebrei, si legge ancora, osano “vivere in mezzo ai cristiani” e perfino “nelle vicinanze delle chiese“, si vestono come gli altri, senza perciò potersi fare riconoscere, comprano case, …. La bolla papale impone agli ebrei di abitare in una o più strade, dove non ci sia possibilità di contatto con i cristiani: è l’istituzionalizzazione del ghetto. Gli uomini sono obbligati a portare un berretto che li distingua; le donne un velo o uno scialle.
Oggi quella stessa Stella, il 'Magen David', campeggia al centro della bandiera di Israele.

giovedì 5 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 5 settembre.
Il 5 settembre 1836 Samuel Houston viene eletto primo presidente del Texas.
Nacque il 2 marzo 1793 a Lexington, in Virginia.
A quindici anni scappò di casa e visse per tre anni con le tribù Cherockee del Tennessee orientale.
Entrò nell'esercito durante la guerra anglo-statunitense e si mise in luce agli ordini di Andrew Jackson. Nel 1814 fu promosso tenente e dal 1818 cominciò a lavorare come avvocato a Nashville (Tennessee).
Fu membro della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti dal 1823 al 1827, quando fu eletto governatore del Tennessee.
Nel 1829 si dimise dalla carica di Governatore e tornò a vivere coi Cherokee. Nel 1832 fu inviato in Texas dal presidente Jackson per iniziare la negoziazione dei trattati con le tribù Indie del Texas, che a quel tempo apparteneva al Messico.
Il 2 marzo 1836 pubblicò una dichiarazione di Indipendenza del Texas e il giorno dopo si mise a capo di un esercito ribelle organizzato per fronteggiare il Generale Antonio Lopez de Santa Anna, che si avviava ad assaltare Fort Alamo. Obbligò Santa Anna a inseguirli fino a San Jacinto (oggi Houston) dove, con un abile stratagemma riuscì a catturare il generale messicano (21 aprile). In cambio della propria libertà, Santa Anna firmò il riconoscimento della indipendenza texana.
Fu nominato primo presidente del Texas il 5 settembre 1836, carica che mantenne fino al 1838. Nel 41 fu rieletto per altri 3 anni. Quando il Texas entrò a far parte degli Stati Uniti, nel 1845, fu uno dei suoi primi senatori (1846-1859).
Samuel Houston morì a Huntsville il 26 luglio del 1863.

mercoledì 4 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 4 settembre.
Il 4 settembre 1972 Mark Spitz vince la sua settima medaglia d'oro alle Olimpiadi di Monaco, record rimasto imbattuto fino al 2008.
La leggenda di Mark Spitz nasce e finisce alle Olimpiadi del 1972 a Monaco di Baviera. Fu lui a salvare l'edizione dei giochi, funestata dall'attentato terroristico nel villaggio olimpico per mano di dissidenti palestinesi, che uccisero due membri della squadra di Israele e ne tennero in ostaggio altri nove. Mark Spitz, ebreo-americano, prima dei giochi bavaresi, era considerato un buon nuotatore, capace di andare a medaglia… Nessuno certo pensava che potesse diventare in tre settimane lo sportivo più famoso della storia olimpica.
Mark Spitz nasce a Modesto, California, il 10 febbraio 1950. Con la famiglia si trasferisce per quattro anni alle isole Hawaii dove inizia a nuotare sotto gli insegnamenti del padre. All'età di sei anni Mark ritorna negli USA, a Sacramento, dove continua a coltivare la passione per il nuoto. Il padre Arnold è il suo più importante motivatore: sin dalla tenera età ripeteva al figlio la famosa frase: "Nuotare non è tutto, vincere lo è".
Mark inizia a far sul serio a nove anni, quando si iscrive alla Arden Hills Swim Club, dove conosce il suo primo coach, Sherm Chavoor.
Il nuoto è una vera ossessione per il padre che vuole a tutti i costi che Mark diventi il numero uno; in quest'ottica Arnold decide di trasferire la famiglia a Santa Clara, sempre in California, per permettere a Mark di entrare nella prestigiosa Santa Clara Swim Club.
I risultati arrivano in fretta: tutti i record juniores sono suoi. Nel 1967 vince ben 5 ori ai giochi Pan-Americani.
Le olimpiadi di Città del Messico del 1968 dovevano essere la definitiva consacrazione. Alla vigilia dei giochi Mark Spitz dichiarerà che avrebbe vinto 6 medaglie d'oro, cancellando dalla memoria collettiva il record di 4 ori ottenuto da Don Schollander ai giochi di Tokyo del 1964; era così sicuro delle sue potenzialità che considerava un secondo posto un vero affronto alla sua classe. Le cose non vanno come previsto: Mark nelle gare individuali raccoglie solo un argento e un bronzo, vincendo due ori solo nelle staffette USA.
La delusione di Città del Messico è per Mark Spitz un trauma; decide di superare questo momento con duri e frenetici allenamenti. Si iscrive alla Indiana University, il suo coach è Don Counsilmann, il suo obiettivo è uno solo: riscattarsi ai giochi di Monaco 1972. Alla vigilia dei giochi, dopo aver conseguito la laurea, si mostra più cauto ed estremamente concentrato. Il suo tuffo nella leggenda inizia con la gara dei 200 metri farfalla, seguita dal successo nei 200 metri stile libero. Non fallisce nella sua gara preferita, i 100 metri farfalla.
L'ostacolo maggiore sono i 100 metri stile libero; Spitz considera questa prova il suo punto debole, ma l'entusiasmo derivato dai 3 ori già conquistati, lo fa volare con il tempo record di 51'22''. Anni dopo dichiarerà : "Sono convinto di essere riuscito a compiere una grande impresa perché dopo i primi tre ori, nella testa dei miei avversari vi era un'unica preoccupazione e un un'unica domanda: «Chi di noi arriverà secondo?»".
Le staffette USA erano da sempre considerate le più forti e anche in questa occasione non tradiscono. La perfezione dei 7 ori giunge grazie ai successi nella 4x100 e 4x200 stile libero e nei 4x100 misti. Spitz diviene una leggenda, un mito vivente, alcuni cominciano a dubitare persino della sua provenienza terrestre. Sponsor, fotografi, addirittura i produttori di Hollywood lo tempestano di attenzioni e di contratti. La tragedia dell'attentato palestinese, a poche ore dalla conquista del suo settimo oro, oltre all'intero mondo sportivo, sconvolge però Mark. Lui, ebreo, alloggiava vicino alla delegazione israeliana bersaglio dei terroristi. Prima della conclusione dei giochi, sconvolto, lascia Monaco, nonostante le insistenze degli organizzatori e dei media.
Fu l'ultima volta che si vide Mark Spitz in vasca; si ritirò dopo le imprese di Monaco, giustificando questa sua scelta con la celeberrima frase: "Che cosa potrei fare di più? Mi sento come un fabbricante di automobili che ha costruito una macchina perfetta".
Lasciato il nuoto, per qualche tempo divenne uomo-immagine di numerosi sponsor e fece qualche comparsa nelle produzioni Hollywoodiane.
La leggenda di Spitz durò una sola olimpiade; molti fecero speculazioni su quei successi improvvisi e sul suo seguente ritiro. Infastidito dalle voci Mark decise l'azzardo di prepararsi per i giochi olimpici di Barcellona 1992. A 42 anni suonati provò a partecipare ai Trials ma non raggiunse il tempo limite per la qualificazione.
Quel record di 7 ori in una sola edizione dei giochi è rimasto un muro, un vero e proprio limite dello sport, fino alle Olimpiadi di Pechino del 2008, quando il giovane statunitense Michael Phelps riuscì a superare la leggenda, mettendosi al collo 8 medaglie del metallo più prezioso.

martedì 3 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 3 settembre.
Secondo la tradizione, il 3 settembre 301 San Marino diventa indipendente.
La leggenda fa risalire la fondazione della Repubblica a un tagliapietre originario di Arbe, in Dalmazia, di nome Marino. Egli giunse a Rimini nel 257 d.C. dove lavorò fino a quando, per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani ad opera dell'Imperatore Diocleziano, dovette fuggire. Si rifugiò sul Monte Titano. Personalità carismatica e taumaturgo, sul monte Marino riuscì a coagulare intorno a sé una piccola comunità di cui divenne il punto di riferimento. Il Monte Titano gli fu donato dalla proprietaria, Donna Felicita (o Felicissima) per ringraziarlo di aver guarito il figlio malato. C'era il territorio, c'era la popolazione. Il senso di coesione e indipendenza fu trasfuso alla comunità da Marino. Si narra che le sue ultime parole prima di morire fossero: "Relinquo vos liberos ab utroque homine". Era il 301 d.C. e il seme dell'indipendenza era stato gettato. Poiché il terreno era fertile, germogliò.
Al di là della leggenda, è certo che il Monte Titano con le sue pendici fu abitato fin dai dai tempi preistorici. Lo testimoniano i numerosi reperti custoditi nel Museo di Stato trovati in varie campagne di scavo.
Tra i ritrovamenti più famosi, il prezioso Tesoro di Domagnano, una parure di gioielli in oro tempestati di pietre preziose ora conservata nel Museo di Norimberga.
Il primo documento che testimonia l'esistenza di una comunità organizzata sul Monte è il Placito Feretrano, una pergamena dell' 885 d.C., conservata nell'Archivio di Stato relativa a una questione di diritti di proprietà su alcuni fondi. Il Placito attesta che i diritti di proprietà facevano capo all'Abate di un Monastero sito a San Marino.
All'epoca dei Comuni la piccola comunità del Monte Titano cominciò a delineare una propria forma di governo. Il territorio venne denominato allora  “Terra di San Marino”, in seguito risulta denominato come “Comune di San Marino”.
Il corpo sociale affidò il proprio autogoverno all'Arengo o assemblea di capi-famiglia, presieduta da un Rettore.
Con l'aumento della popolazione, accanto al Rettore venne nominato un Capitano Difensore. L'Istituto più importante dello Stato era stato creato. Nel 1243 si nominarono i primi due Consoli, il Capitano e il Rettore, che da allora fino ai giorni nostri si avvicendano ogni sei mesi nella suprema carica dello Stato: si tratta dei  Capitani Reggenti, ovvero i Capi dello Stato.
All'Arengo si deve la definizione delle prime leggi, gli Statuti, ispirati a principi democratici. I primi Statuti risalgono al 1253, ma il primo vero corpo di leggi dello Stato risale al 1295. Gli Statuti furono riscritti e aggiornati fino alla stesura del 1600, che è quella alla quale l'ordinamento fa riferimento.
Furono molte le situazioni pericolose che nei secoli il popolo del Monte Titano seppe fronteggiare consolidando la propria autonomia.
Due volte la Repubblica di San Marino fu occupata militarmente, ma solo per pochi mesi: nel 1503 da Cesare Borgia detto il Valentino e nel 1739 dal Cardinale Giulio Alberoni. Dal Borgia riuscì a liberarsi per la morte del tiranno. Dal Cardinale Alberoni seppe sottrarsi con la disobbedienza civile, chiedendo giustizia al Sommo Pontefice, che riconobbe il buon diritto di San Marino all'indipendenza per volontà del suo popolo.
Napoleone nel 1797 offrì ai sammarinesi amicizia, doni e l'estensione del territorio fino al mare. I Sammarinesi furono grati per l'onore di tali elargizioni, ma rifiutarono con istintiva saggezza l'ampliamento territoriale “paghi dei loro confini”.
Nel 1849 il Generale Giuseppe Garibaldi, capo militare dei rivoluzionari che stavano combattendo per unificare l’Italia, si rifugiò a San Marino con circa 2.000 soldati per sfuggire alle armate dell’Austria e di Roma. Tutti trovarono rifugio nel territorio sammarinese. Le autorità riuscirono a evitare l'ingresso delle truppe austriache dando tempo ai garibaldini di lasciare il territorio senza spargimento di sangue.
Lincoln nel 1861 dimostrò la sua simpatia e la sua amicizia per San Marino scrivendo fra l'altro ai Capitani Reggenti “.. Benché il Vostro dominio sia piccolo nondimeno il Vostro Stato è uno dei più onorati di tutta la storia … “.
San Marino vanta una tradizione di ospitalità eccezionale in tutti i tempi. In questa terra di libertà non furono infatti mai negati il diritto d'asilo e l'aiuto ai perseguitati, di qualunque condizione, provenienza o idea. Durante la seconda guerra mondiale San Marino fu Stato neutrale,  e benché avesse una popolazione di appena 15.000 abitanti, accolse e diede rifugio a 100.000 sfollati provenienti dal territorio italiano limitrofo che era soggetto a bombardamento.

lunedì 2 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 2 settembre.
Il 2 settembre 1980 a Beirut scompaiono nel nulla due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Palo.
Sono passati 44 anni dalla loro scomparsa a Beirut, in Libano. Era il 2 settembre 1980. “Loro” sono due giornalisti italiani: Maria Grazia De Palo, meglio conosciuta come Graziella, e Italo Toni. Scomparsi, nel nulla. E ancora oggi non si ha alcuna notizia ufficiale.
L’ultima informazione certa sui due inviati è quella diffusa dalle istituzioni: Italo e Graziella sarebbero prigionieri, ma vivi, dei falangisti cristiani libanesi. Una versione dei fatti che fu sostenuta dall’allora presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, di fronte ai familiari dei due colleghi scomparsi in Libano.
Questa vicenda aspetta ancora verità e giustizia. E il segreto di Stato, almeno in parte, continua a essere un ostacolo per chi chiede chiarezza. I familiari di Toni e De Palo, infatti, nonostante le continue richieste di desecretazione di quelle carte, hanno ottenuto davvero poco in questi anni. Il segreto di Stato era stato confermato dal governo Craxi nel 1984 e poi rimosso parzialmente nel 2009 dall’esecutivo guidato da Berlusconi.
Il segreto riguarda le carte che riportano le relazioni speciali fra il servizio segreto militare italiano Sismi e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Un rapporto regolato da un protocollo segreto, indicato come “Lodo Moro”. Un patto che, per quello che ne è trapelato, dal 1970 avrebbe permesso all’Olp di fare in Italia attività paramilitari sotto copertura offrendo al nostro Paese, in cambio, la rinuncia a eseguire attentati terroristici.
Non è da escludere che i due giornalisti scomparsi fossero a conoscenza di questo patto segreto ed eliminati proprio per questo motivo: le prime tracce di questo “Lodo Moro” emersero a novembre del 1979, dopo il sequestro dei tre lanciamissili SA7 Strele trasportati su un’auto, nei pressi di Ortona (Chieti), da Daniele Pifano e dal palestinese del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) Abu Anzeh Saleh. E ancora: altre tracce apparvero nell’inchiesta giudiziaria che riguardava l’abbattimento dell’aereo dei servizi segreti italiani Argo 16.
Italo Toni, classe 1930, è un esperto di Medio Oriente e ha collaborato con diverse testate italiane e internazionali. È stato autore di uno scoop, scoprendo l’esistenza di campi di addestramento della guerriglia palestinese.
Graziella De Palo, classe 1956, indagava su traffici di armi per il quotidiano Paese Sera e per la rivista l’Astrolabio.
I due si trovavano da 10 giorni in Libano per documentare e raccontare la guerra civile e, in particolare, per indagare sui traffici d’armi e su questioni internazionali che implicavano anche l’attività dei servizi segreti italiani.
Italo e Graziella erano stati ospitati dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina, una formazione di estrazione marxista alla cui guida c’era George Habbash: è lui che aveva promesso loro di portarli a sud, sulle colline, proprio dove si trova il castello di Beaufort, sulla linea dello scontro con l’esercito israeliano. Per i due giornalisti era dunque l’occasione di unirsi a un gruppo di guerriglieri in Libano, dove avvenivano i traffici internazionali d’armi in violazione degli embarghi sanciti dall’Onu.
Un terrorista pentito, Patrizio Peci, ha parlato dei traffici illegali di armi rivelando che le armi che passavano per il Medio Oriente arrivavano alle Brigate Rosse italiane. È lui che aveva fatto mettere a verbale questa dichiarazione:
«Vi fu da parte dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina una fornitura di armi, esplosivi, plastico, bombe ananas, mitragliatrici pesanti e mitragliatrici tipo Sterling che per tre quarti era destinata alle Br e per un quarto alle eventuali operazioni dell’Olp sul territorio italiano».
Quando l’Ucigos, l’Ufficio operazioni speciali del ministero dell’Interno, giunse a Beirut per indagare sul traffico d’armi a favore delle Br, l’Olp era già informata dei fatti. Sarebbe stato Stefano Giovannone, rappresentante dal 1972 dei servizi segreti militari in Medio Oriente, a rivelare ai palestinesi che stava avvenendo questo cambiamento a Roma.
Giannone, interrogato, negò di aver rivelato queste informazioni e sostenne di aver fatto solo il suo dovere, «eseguire gli ordini». Stefano Giannone morì nel 1985. E con lui, a quanto pare, anche la possibilità di avere giustizia per i due cronisti.
Giannone è colui che era stato coinvolto nella scomparsa di Graziella e Italo. È l’ufficiale dei servizi segreti, tra l’altro inquisito per aver favorito il traffico d’armi con l’Olp di Yasser Arafat, di cui era ottimo amico, ed è anche colui che fece richiesta del segreto di Stato, e lo ottenne, per i documenti riservati dei servizi segreti. L’allora presidente del Consiglio Spadolini approvò la richiesta, poi confermata anche da Craxi e Berlusconi.
I due giornalisti, come detto, si trovavano in Libano per raccontare la guerra civile e i traffici d’armi. La guerra civile libanese scoppiò il 13 aprile del 1975, quando un gruppo di persone che stava assistendo alla consacrazione di una chiesa nel quartiere di Ain Remmaneh venne massacrato a colpi di mitra da combattenti palestinesi. Quattro persone morirono e sette rimasero ferite.
A questa azione seguì una violenta risposta: un autobus carico di feddayn armati, che stava tornando da una parata, venne colpito durante il passaggio nel quartiere, provocando la morte di 27 persone, crivellate dai colpi.
Iniziò così la guerra civile in Libano. Da una parte i cristiani, sostenuti da Israele; dall’altra i musulmani, appoggiati inizialmente dalla Siria e poi dall’Iran, dopo la rivoluzione di Khomeini del 1979. Si fronteggiarono da una parte i cristiani maroniti e dall’altra la coalizione di palestinesi alleati ai libanesi musulmani, che insieme facevano parte del Partito socialista progressista.
E il traffico d’armi proliferava, con soldi derivati dal commercio di armi che venivano riciclati in istituti di credito, aziende e banche con sede a Beirut. La città con cui avevano a che fare anche persone legate alla P2 e al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
È in questo contesto che i due cronisti italiani si inserirono, scoprendo che era proprio in Libano che avvenivano questi traffici internazionali d’armi in violazione degli embarghi sanciti dall’Onu. E fu proprio per questo che decisero di unirsi a un gruppo di guerriglieri, per poter raccontare questi traffici.
Dopo aver confermato le stanze d’albergo e aver avvisato l’ambasciata italiana, i due inviati partirono con alcuni membri del Fplp il 2 settembre 1980. E da allora non se ne sa più nulla: i due giornalisti italiani scomparvero nel nulla. A distanza di 39 anni i loro parenti non hanno la certezza della loro morte e, nel caso, non sanno chi e come sia stato ad ucciderli.
Le indagini sulla loro scomparsa portano a collegamenti con la P2 e i servizi segreti, ma il segreto di Stato copre tutto. Segreto che, come detto, viene opposto al magistrato inquirente dal colonnello Stefano Giannone, che in quel periodo era un uomo del Sismi a Beirut. Ed era proprio su Giannone che Graziella stava indagando.
Nel suo primo articolo pubblicato su L’Astrolabio il 14 giugno 1978, si comprende una precisa conoscenza della situazione italiana relativa al traffico d’armi verso i Paesi di quello che veniva allora chiamato “Terzo mondo”, dove erano invischiati i Servizi segreti italiani. Graziella dava conto dell’operazione di “ricambio” a tutti i livelli del Sismi avvenuta a metà maggio 1978, dopo le dimissioni del ministro degli Interni Cossiga in seguito all’uccisione di Aldo Moro.
Nel suo articolo Graziella denunciava il coinvolgimento dell’ufficio Rei (Rapporti economici e industriali) del Sismi. Ufficio che ha l’ultima parola sulla vendita di armi italiane all’estero. E ancora scrive a proposito della sparatoria alla scorta di Moro in via Fani a Roma che «fu compiuta con armi italiane (mitra Beretta e munizioni Fiocchi) destinate all’Egitto e rientrate per vie tortuose in patria».
Anche la giornalista Graziella De Palo quindi indagava sul traffico d’armi negli stessi anni in cui l’ex giudice Carlo Palermo, con la sua inchiesta di Trento, fu il primo a fare luce su questi traffici di armi tra Italia e Medio Oriente. È lui – oggi avvocato – a ricercare la verità sul caso di Graziella De Palo e Italo Toni, oltre che sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, l’inviata del Tg3 e il suo operatore morti in un agguato in Somalia il 20 marzo 1994.
Anche loro, come Graziella e Italo, stavano indagando su un traffico d’armi e di rifiuti tossici quando vennero assassinati in Somalia. Nel 2016 i familiari di Graziella si sono rivolti a lui per avere delle risposte sulla sua sorte. Nel 2019 la procura di Roma ha riaperto l'inchiesta.

domenica 1 settembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il primo settembre.
Il primo settembre 1752 la Campana della Libertà arriva a Filadelfia.
Nel silenzio trasparente del Liberty Bell Center di Philadelphia, la Campana della Libertà racconta muta la storia degli Stati Uniti: bronzo sfregiato e inciso di parole profonde, è ancora oggi il simbolo della Rivoluzione Americana.
Eppure questo oggetto che gli Yankees tanto amano, fu forgiato nel 1751 nel quartiere di Whitechapel: in quella Londra che rappresentava il potere arrogante e monarchico contro cui i coloni del Nuovo Mondo combatterono per diventare padroni del loro destino.
La Campana della Libertà era stata realizzata lì per celebrare il cinquantenario della Carta dei Privilegi redatta da William Penn, il fondatore dello Stato della Pennsylvania dove era diretta.
Dopo aver attraversato l’Atlantico, la Liberty Bell arrivò a destinazione crepata: così i fabbri Pass e Stow dovettero lavorare parecchio per riparare i suoi 946 chilogrammi. E alla fine apposero la loro firma.
Lì, proprio sotto la calotta della Campana della Libertà dove sono incise le parole del capitolo XXV, verso X, del Levitico: “E proclamerete la libertà in tutte le terre e a tutti gli abitanti”. Poi fu innalzata nella torre dell’Independence Hall.
Da quel momento in poi i rintocchi della Liberty Bell hanno contraddistinto i momenti più importanti del passato degli Stati Uniti. Nel 1774 avevano aperto il Primo Congresso Continentale delle 13 colonie, riunite contro le restrizioni commerciali del governo inglese (Intolerable Acts).
Un anno dopo la Campana della Libertà aveva annunciato la conclusione della vittoriosa battaglia dei rivoluzionari a Lexington e Concord. Nel 1837, infine, era diventata simbolo del movimento abolizionista contro la schiavitù.
Poi, l’ultimo scampanellio: era il 22 febbraio del 1846, il giorno del compleanno di George Washington. La crepa riparata si era riaperta, allargandosi ogni anno di più. Così, nel timore di una ulteriore e insanabile rottura non ha più suonato.
Oggi, la Campana della Libertà è protetta da una teca trasparente e sorvegliata a ogni minuto nel Liberty Bell Center di Philadelphia, il museo dedicatole aperto dalle 9 alle 17.

sabato 31 agosto 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 agosto.
Il 31 agosto 1867 muore a Parigi Charles Baudelaire.
Charles Baudelaire nasce il 9 aprile del 1821 a Parigi, in una casa del Quartiere Lartino, dal secondo matrimonio dell'ormai sessantaduenne Joseph-Francois, funzionario al Senato, con la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays.
La madre, in seguito alla morte prematura del marito, sposa un aitante tenente colonnello, il quale, a causa della proprio freddezza e rigidità (nonché del perbenismo borghese di cui era intriso), si guadagnerà l'odio del figliastro. Nel nodo doloroso dei rapporti con la famiglia e, in primo luogo, con la madre, si gioca gran parte dell'infelicità e del disagio esistenziale che accompagnerà Baudelaire per tutta la vita. Dopotutto, come fra l'altro testimonia l'intenso epistolario rimasto, egli chiederà sempre aiuto e amore alla madre, quell'amore che crederà mai ricambiati, perlomeno rispetto all'intensità della domanda.
Nel 1833 entra al Collège Royal per volontà del patrigno. Nel giro di poco tempo, però, la fama di dissoluto e scavezzacollo prende a circolare all'interno del collège fino ad arrivare, inevitabilmente, alle orecchie dell'odiato patrigno il quale, per ripicca, lo obbliga ad imbarcarsi sul Paquebot des Mers du Sud, una nave che faceva rotta nelle Indie.
Questo viaggio ha su Charles un effetto inaspettato: gli fa conoscere altri mondi e culture, lo pone a contatto con gente di tutte le razze, facendogli scoprire una dimensione lontana dalla pesante decadenza mondana e culturale che grava sull'Europa. Da questo, dunque, nasce il suo grande amore per l'esotismo, lo stesso che filtra dalle pagine della sua opera maggiore, i celeberrimi "Fiori del male".
Ad ogni modo, dopo appena dieci mesi interrompe il viaggio per fare ritorno a Parigi, dove, oramai maggiorenne, entra in possesso dell'eredità paterna, che gli permette di vivere per qualche tempo in grande libertà.
Nel 1842, dopo aver conosciuto un grande poeta come Gerard de Nerval, si avvicina soprattutto a Gautier, e gli si affeziona in maniera estrema. La simbiosi tra i due è totale e Charles vedrà nel più anziano collega una sorta di guida morale e artistica. Sul fronte degli amori femminili, invece, dopo aver conosciuto la mulatta Jeanne Duval, si scatena con lei un'intensa e appassionata relazione. Contrariamente a quanto spesso succede agli artisti di quegli anni, il rapporto è solido e dura a lungo. Charles trae linfa vitale da Jeanne: lei è tutrice e amante ma anche musa ispiratrice, non solo per ciò che riguarda l'aspetto "erotico" e amoroso della produzione baudeleriana, ma anche per quel timbro intensamente umano che traspare da molte sue poesie. In seguito, poi, con il sopraggiungere della vecchiaia, sarà amorevole e presente nei momenti tormentosi della paralisi che colpirà il poeta.
Intanto, la vita che Baudelaire conduce a Parigi non è certo all'insegna della parsimonia. Quando la madre, infatti, scopre che ha già speso circa la metà del lascito paterno, consigliata dal secondo marito intraprende una procedura per poter ottenere un curatore a cui venga affidato il compito di amministrare con maggiore accuratezza il resto dell'eredità. Da ora in avanti, Baudelaire sarà costretto a chiedere al proprio tutore persino i soldi per comprarsi i vestiti.
Il 1845 segna il suo esordio come poeta, con la pubblicazione di "A una signora creola", mentre, per vivere, è costretto a collaborare a riviste e giornali con articoli e saggi che furono poi raccolti in due libri postumi, "L'Arte romantica" e "Curiosità estetiche".
Nel 1848 partecipa ai moti rivoluzionari di Parigi mentre, nel 1857, pubblica presso l'editore Poulet-Malassis i già citati "I fiori del male", raccolta che comprende un centinaio di poesie.
La rivelazione di questo capolavoro assoluto sconcerta il pubblico del tempo. Il libro viene indubbiamente notato e fa parlare di sé, ma più che di successo letterario vero e proprio, forse sarebbe più giusto parlare di scandalo e di curiosità morbosa. Sull'onda della chiacchera confusa e del pettegolezzo che circonda il testo, il libro viene addirittura processato per immoralità e l'editore si vede costretto a sopprimere sei poesie.
Baudelaire è depresso e la sua mente sconvolta. Nel 1861, tenta il suicidio. Nel 1864, dopo un fallito tentativo di farsi ammettere all'Acadèmie francaise, lascia Parigi e si reca a Bruxelles, ma il soggiorno nella città belga non modifica la sua difficoltà di rapporti con la società borghese.
Malato, cerca nell'hashish, nell'oppio e nell'alcol il sollievo alla malattia che nel 1867, dopo la lunga agonia della paralisi, lo ucciderà a soli quarantaquattro anni. A quelle esperienze, e alla volontà di sfuggire alla realtà, sono ispirati i "Paradisi artificiali" editi sempre nell'"annus horribilis" del 1861. È sepolto nel cimitero di Montparnasse, insieme alla madre e al detestato patrigno. Nel 1949 la Corte di Cassazione francese riabilita la sua memoria e la sua opera.

venerdì 30 agosto 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 agosto.
Il 30 agosto 1918 in un attentato viene ucciso Moisei Uritski e ferito gravemente Vladimir Lenin.
Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilic Uianov) nasce il 22 aprile 1870 a Simbirsk (oggi Uianovks). Gli anni di studio e di adolescenza coincisero con uno dei periodi più travagliati della storia sociale e politica della Russia, con il governo zarista che, dopo l'uccisione dello zar Alessandro II nel 1881 da parte dei populisti, si affretta ad annullare quelle limitate riforme che erano state introdotte durante il decennio precedente.
Studia giurisprudenza presso la facoltà di Kazan, ma dopo poco tempo viene espulso dall'università a causa di manifestazioni studentesche; decide allora di continuare i suoi studi a San Pietroburgo, dove, nel 1883, fonda il primo nucleo operaio russo.
Si avvicina allo studio del marxismo, e in particolare al "Capitale" di Marx, poi nel 1893 si trasferisce a Pietroburgo entrando in contatto con il movimento fondato da Plechanov, "Emancipazione nel lavoro". Movimento che confluisce nel 1898 al Congresso di Minsk, nel partito operaio socialdemocratico di Russia (POSDR). Lenin sempre sotto stretta sorveglianza politica, viene alla fine arrestato e condannato a tre anni con la deportazione in Siberia.
E' qui che nel 1899, porta a compimento il suo primo saggio: "Lo sviluppo del capitalismo in Russia", che rappresenta l'ennesima polemica contro i populisti, iniziata nel 1894 con l'articolo " Che cosa sono "Gli amici del Popolo" e come lottano contro i socialdemocratici ". Il nocciolo della questione era che i populisti ritenevano che la Russia sarebbe passata dal feudalesimo al socialismo (senza in pratica attraversare la fase dello sviluppo capitalistico), mentre Lenin era del parere che l'agricoltura russa fosse di fatto già entrata nella fase del suo sviluppo capitalistico. Senza contare che per Lenin la Russia faceva parte dell'Europa (contrariamente a quanto pensavano altri intellettuali), ed era quindi sottilmente intrisa di capitalismo.
Questo, in altri termini, significava che fosse già presente nel tessuto sociale quella classe operaia indispensabile per guidare la rivoluzione, spinta che non sarebbe mai potuta venire, a detta del teorico russo, dalla sola classe contadina, esaltata da larghe frange rivoluzionarie. Gli operai, insomma, sono per Lenin indispensabili per scatenare una reazione al capitalismo, soprattutto attraverso un lavoro effettuato da intellettuali "organici" che fossero in grado di rendere consapevole questa classe circa le sue reali condizioni di sfruttamento. E' questa, in sostanza, l'opzione rivoluzionaria che prenderà il nome di "bolscevismo". Al successivo congresso del partito socialdemocratico russo, tenutosi a Londra nel 1903, il partito si spaccò in due fazioni; quella maggioritaria (bolscevica) capeggiata da Lenin e quella minoritaria (menscevica) capeggiata da Plechanov e altri.
Intanto, nel 1901, Lenin emigra in Svizzera, dove fonda un periodico intitolato "Iskra" ("La scintilla"): lo scopo è quello di guidare e organizzare all'estero le lotte e le agitazioni degli operai russi. Lenin intendeva creare l'organizzazione del partito con una struttura fortemente centralizzata alla quale dovevano essere ammessi solo i "rivoluzionari di professione" e non le masse popolari. La divisione interna si approfondì in occasione della rivoluzione del 1905, scoppiata a seguito alla sconfitta inflitta dai Giapponesi ai Russi. I menscevichi intendevano lasciare la guida della rivoluzione alle forze della borghesia liberale russa, mentre Lenin pur riconoscendo il carattere democratico-borghese della rivoluzione, sosteneva che essa dovesse essere capeggiata dalla classe operaia e dai contadini, giudicando che la borghesia russa, per la sua debolezza, sarebbe stata incapace di portare la rivoluzione sino all'abbattimento dello zarismo e avrebbe sempre ripiegato su un compromesso con la monarchia e con l'aristocrazia terriera.
Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 (conclusasi in un bagno di sangue), le polemiche fra bolscevichi e menscevichi si inasprirono sempre di più, con questi ultimi sempre più propensi ad identificarsi ed aderire ai movimenti di "revisione" del marxismo rivoluzionario. La rottura definitiva giunge a compimento nella II Internazionale, in concomitanza con lo scoppio della prima guerra mondiale. Lenin, infatti, punta a trasformare quella che interpreta come "guerra imperialista" in una "guerra civile", vedendo in questo uno degli aspetti positivi della guerra in sé e per sé. In buona sostanza insomma, per Lenin quella poteva essere un'occasione propizia per mettere finalmente in pratica le sue idee rivoluzionarie, cercando di trasformare la guerra in rivoluzione. I moti russi del '17 possono considerarsi il successo annunciato di questa precisa prospettiva.
Ad ogni modo, quando scoppia la Rivoluzione in Russia, nel febbraio del 1917 appunto, Lenin era ancora esule in Svizzera. Rientrato a Pietroburgo traccia il programma per l'abbattimento del governo liberal-democratico nel frattempo salito al potere e per il passaggio della rivoluzione alla sua fase socialista. Nei successivi mesi compone la famosa opera "Stato e Rivoluzione", poi guida l'insurrezione di Ottobre che si conclude con la formazione del primo governo sovietico da lui capeggiato. Gli anni successivi sono quelli della costruzione del nuovo stato comunista e dei forti contrasti con Stalin, che Lenin non può più avversare ma di cui ha già presagito la pericolosità (celebre è lo scritto "Quello Stalin è pericoloso"). Gravemente ammalato muore il 21 gennaio del 1924, all'età di 54 anni.
Subito dopo la morte il 23 gennaio la salma fu trasferita da Gorkij a Mosca, dove ricevette l'ultimo saluto dalla folla che sfidò il gelido inverno russo per l'ultimo omaggio al capo della rivoluzione. Il 26 gennaio fu celebrata una cerimonia nel grande teatro di Mosca e all'uscita, mentre il feretro percorreva la Piazza Rossa, l'enorme folla accorsa intonò L'Internazionale. In tutta la Russia le attività cessarono, la città natale di Lenin, Simbirsk, fu chiamata in sua memoria Uljanovsk, e Pietrogrado (l'antica Pietroburgo) prese il nome di Leningrado.
Stalin e soprattutto Feliks Dzeržinskij, capo della Čeka, vollero fare del corpo di Lenin un simbolo da esporre e da venerare in un apposito mausoleo ai piedi delle mura del Cremlino, nonostante egli avesse espressamente dichiarato di voler essere seppellito accanto ai suoi compagni. All'inizio si pensò di congelare il corpo, ma il rapido deteriorarsi nell'attesa che venisse costruita un'apposita camera refrigerata ne rese necessaria l'imbalsamazione. Neppure i ripetuti appelli della vedova di rispettare le ultime volontà del marito servirono a far cambiare idea a Stalin.
L'anatomista ucraino Vladimir Vorobiov e il dottor Boris Zbarsky, a capo di un gruppo di medici, utilizzarono una tecnica che non è stata ancora completamente svelata. Da più di novant'anni la salma viene fatta oggetto di trattamenti periodici e attenzioni costanti affinché conservi sempre un aspetto "da vivente": oltre a essere ispezionata settimanalmente per rivelare eventuali tracce di muffa o fenomeni degenerativi, ogni anno e mezzo viene immersa per trenta giorni in un bagno di glicerolo e acetato di potassio.

giovedì 29 agosto 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 agosto.
Il 29 agosto 1533 il conquistatore Pizarro uccide Atahualpa, ultimo imperatore del popolo Inca.
Nel 1512, vent'anni dopo il primo sbarco di Colombo sul continente americano, un navigatore spagnolo, Vasco Nunez de Balboa, partì dall'Istmo di Darien, l'attuale Panama, a capo di una spedizione esplorativa diretta a Sud, nel bacino che si estende tra la Cordigliera delle Ande e la costa dell'Oceano Pacifico.
La bramosia dei conquistadores spinse Balboa a sud alla ricerca del fantastico regno di El Dorado. L'esplorazione del navigatore spagnolo collassò poco dopo a causa di un complotto, di cui lo stesso Balboa rimase vittima. Dieci anni dopo un altro esploratore, Pascual de Andagoya, raggiunse le coste della Colombia e dell'Ecuador, entrando in contatto per la prima volta con le popolazioni della magnifica terra conosciuta come Sud America.
I primi approcci avvennero durante la guerra civile tra le truppe di Atahualpa, che risiedeva a Nord vicino a Quito, e Huascar, che dominava dall'antica Cuzco. Tutto ebbe inizio quando Atahualpa inviò una delegazione alla corte del fratello, Huascar, per assicurare la propria fedeltà ma anche per chiedere una maggiore indipendenza. Gli ambasciatori furono torturati e condannati alla pena capitale, tutti tranne uno che aveva il compito di tornare da Atahualpa per riportare gli ordini di Huascar: il regnante di Quito doveva recarsi a Cuzco e consegnare degli abiti femminili che avrebbe indossato all'atto del suo ingresso nella città.
Così ebbe inizio la guerra civile tra le popolazioni dell'impero Inca.
Malgrado la preponderanza dell'esercito di Huascar, si giunse alla cattura del comandante supremo da parte delle forze di Atahualpa grazie ad un efficace stratagemma: Huascar si spinse audacemente contro il nemico con le insegne spiegate; il comandante di Atahualpa, Chalcochima, lo riconobbe e concentrò tutte le truppe verso il luogo in cui Huascar risiedeva con un piccolo drappello di uomini. Con un audace colpo di mano, le truppe di Quito riuscirono a catturare vivo Huascar.
Quando giunse la notizia della vittoria, Atahualpa non mostrò troppo desiderio di recarsi a Cuzco.
Il motivo di tale decisione?
Il sovrano di Quito era stato avvertito dell'arrivo di strane genti provenienti da Nord, giunte dal mare su enormi case galleggianti. I resoconti parlavano di una razza straniera, bianca e barbuta, con strani bastoni lucenti che provocavano il tuono e la folgore e con enormi animali dai piedi d'argento.
I bastoni lucenti altro non erano che gli archibugi, gli animali con i piedi d'argento erano i cavalli al seguito delle truppe spagnole.
Le informazioni che seguirono le prime indicazioni tranquillizzarono il regnante, poiché i bastoni d'argento non erano micidiali come pensato all'inizio perché dovevano essere ricaricati ogni volta e gli animali dai piedi d'argento non potevano agire di notte e, soprattutto, non uccidevano nessuno.
Anche il numero degli uomini bianchi con la barba era esiguo, qualche centinaio.
Atahualpa decise d'attendere gli stranieri a Cajamarca, protetto da circa 80.000 uomini.
Francisco Pizarro giunse a Cajamarca il 15 novembre del 1532.
Nei giorni seguenti decise d'inviare due ambasciatori, scortati da un drappello di soldati. I due cavalieri, Hernando de Soto e Hernando Pizarro, furono accolti da Atahualpa con calici d'oro e bevande dissetanti. I due spagnoli invitarono il regnante ad una cena con il comandante in capo della spedizione. Il sovrano all'inizio respinse l'invito, ma ripromise di fare visita agli stranieri il giorno seguente.
Come promesso, Atahualpa arrivò a Cajamarca sul far della sera. Scortato da numerosi sudditi disarmati decise d'entrare nella città, ma all'ultimo momento s'arrestò. Pizarro decise d'inviare uno spagnolo che conosceva alcune parole della lingua parlata dal sovrano, Quechua, per convincerlo ad entrare. Atahualpa entrò nella piazza principale, sempre scortato dal numeroso seguito. Brevi istanti ed un frate si fece incontro al regnante. Il prete, Vicente de Valverde, si presentò come uomo mandato da Dio, dicendo al sovrano di Quito che il Papa aveva inviato gli spagnoli nelle loro terre perché potessero convertirsi al cristianesimo. Per questo motivo l'impero Inca avrebbe dovuto riconoscere l'autorità di re Carlo I di Spagna.
Atahualpa rispose che non avrebbe chinato il capo di fronte a nessuno, chiedendo da quale potere derivasse una simile richiesta. Il prete gli mostrò una Bibbia. Il sovrano la prese e l'accostò all'orecchio per ascoltare, non sentendo alcun suono la gettò per terra e chiese una spiegazione sulla presenza degli stranieri nell'impero Inca.
Il frate raccolse la Bibbia e corse da Pizarro per raccontare l'accaduto, descrivendo Atahualpa come un cane orgoglioso.
Il comandante spagnolo non attendeva altro che un gesto per sferrare l'attacco al sovrano. Il frate incitava le truppe, indignato dal fatto d'aver visto gettate per terra quella che considerava le sacre scritture.
Il frate, Vicente de Valverde, non si limitava ad incitare le truppe, ma impartì una preventiva benedizione, assoluzione compresa, per i crimini che avrebbero commesso in battaglia.
I soldati spagnoli si lanciarono selvaggiamente sui sudditi disarmati di Atahualpa, uccidendoli a migliaia grazie alle loro armi tecnologicamente superiori e all'effetto sorpresa dell'agguato sulla piazza principale di Cajamarca.
Almeno 5000 amerindi persero la vita nella ferocia dell'agguato.
Un numero enorme pensando che gli spagnoli erano 160.
Atahualpa rimase sempre in piedi sulla lettiga sorretta dai suoi nobili più fedeli. Gli spagnoli cercavano di catturarlo ma si trovavano di fronte un muro umano. Alla fine Pizarro riuscì ad afferrare il regnante ad una gamba, proprio nel momento in cui un soldato spagnolo sferrò un fendente per colpire Atahualpa.
Il comandante spagnolo risultò l'unico ferito nei combattimenti di Cajamarca.
Il regnante Inca fu trasportato velocemente in un luogo sicuro, nel Tempio del Sole della città. Il sovrano propose uno scambio a Pizarro: per la propria libertà avrebbe fatto riempire la stanza in cui era imprigionato di metalli preziosi. Atahualpa si era accorto dell'ingordigia con cui il comandante spagnolo guardava i manufatti d'oro e d'argento degli Inca.
Pizarro accettò, facendo redigere un regolare contratto dal notaio della spedizione.
In realtà non aveva nessuna intenzione di liberare Atahualpa, ma l'Inca convinto dagli spagnoli diede ordine di portare tutto l'oro e l'argento necessari per il riscatto.
Durante la permanenza in custodia, ad Atahualpa fu permesso di tenere una piccola corte a Cajamarca. L'imperatore Inca imparò rapidamente il gioco dei dadi e quello degli scacchi; si dimostrò estremamente interessato alla scrittura ed alla storia spagnola.
Durante la prigionia dell'imperatore, Pizarro fu profondamente combattuto tra il desiderio d'onorare la parola data ed il mancato rispetto dell'accordo. Pizarro si piegò di fronte alle insistenze del frate spagnolo, Vicente de Valverde, il cattolico che si era presentato al regnante spiegando che doveva credere immediatamente ad un Dio diverso dal suo, venuto da terre che nemmeno immaginava esistessero.
Atahualpa fu processato da un ristretto numero di capitani.
Furono mosse accuse risibili all'indirizzo dell'imperatore Inca.
Fu giudicato colpevole.
La pena che spettava ad Atahualpa era il rogo.
Vincente de Valverde, il prete spagnolo, sino all'ultimo chiese all'imperatore di convertirsi, poiché questo atto avrebbe mitigato la pena: sempre di morte si sarebbe trattato, ma almeno avrebbe evitato il rogo.
Dato che la religione Inca aborriva la distruzione del cadavere, Atahualpa decise di farsi battezzare.
Non fu bruciato sul rogo ma giustiziato mediante garrota.
Atahualpa fu ucciso selvaggiamente il 29 agosto del 1533.
Dopo la sua morte l'impero fu governato dal giovane Tupac Huallpa e successivamente da Manco Inca Yupanqui.
La scomparsa di Atahualpa comportò la fine dell'Impero Inca poiché gli spagnoli erano prossimi alla conquista definitiva del Perù.

mercoledì 28 agosto 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 agosto.
Il 28 agosto 1986 l'ufficiale della marina americana Jerry Whitworth viene condannato a 365 anni di carcere per spionaggio.
Robert Philip Hanssen, nel lontano 2001, passò alle cronache internazionali per essere stato, durante la sua lunga carriera di oltre quindici anni all’FBI, un agente segreto passato dall’altra parte della cortina di ferro, al soldo di Mosca. Ma l’intelligence di Washington, ancora prima delle rivelazioni di Wikileaks e di Snowden, venne travolta da un altro scandalo, forse ancora più pericoloso per l’intera sicurezza nazionale di tutti gli Stati Uniti e, soprattutto, delle sue forze schierate all’estero. Era il 1986 e il mondo assisteva ad una nuova acutizzazione di quella guerra fredda non guerreggiata, di quei missili pronti sulle rampe di lancio ma di cui nessuno aveva il coraggio di premere il fatidico bottone. Era un periodo teso, dove il minimo errore poteva risultare fatale. E allora, la United States Navy decise di effettuare delle grandi manovre nell’Oceano Pacifico, al largo delle Isole Aleutine, a soli 720 chilometri dal territorio sovietico: era parere comune che una “difesa aggressiva”, fatta di esercitazioni e sfoggio di potenza, avrebbe ridotto il rischio di un confronto diretto. Così, per tre settimane, dal marzo 1983, una grande flotta guidata dalla Portaerei USS Enterprise, effettuò delle manovre più vicino all’Unione Sovietica di quanto non fosse mai successo prima: vi presero parte portaerei, cacciatorpediniere, sommergibili, caccia F15, bombardieri B52, aerei AWACS  e oltre 23.000 tra soldati, marinai e avieri.
Tra queste migliaia di militari, vi era anche Jerry Alfred Whitworth, ufficiale di marina e responsabile della direzione del centro messaggi della USS Enterprise: un incarico delicato, il suo, fatto di codici e comunicazioni segrete, di parole d’ordine e autenticazioni di altissimo livello. Dal suo centro messaggi a bordo della portaerei dipendeva, quindi, tutta la sicurezza delle comunicazioni scambiate dalla squadra navale operante nel Pacifico. Il 4 aprile 1983, intanto, avvenne il primo incidente: alcuni caccia americani violarono lo spazio aereo sovietico, determinando le dure proteste da parte di Mosca. Ovviamente, il fatto venne fatto passare come semplice incidente, con i piloti che avevano accidentalmente perso la rotta: ma non era così. Due mesi dopo, Jerry Whitworth lasciò alcuni sacchi di immondizia in una foresta: prontamente raccolti da agenti del KGB, contenevano le copie dei piani di volo del 4 aprile precedente, che dimostravano che la violazione dello spazio aereo fu tutt’altro che accidentale. L’ufficiale americano continuò per altri due anni a passare informazioni riservate agli agenti di Mosca: frequenze delle comunicazioni, codici segreti, dispiegamento delle forze armate e capacità di reazione ad un eventuale attacco. Ma anche la CIA e la NSA si attivarono: iniziarono pedinamenti, contro intercettazioni, vennero addirittura fatti “uscire” alcuni messaggi ritenuti top-secret ma che erano stati preparati appositamente per scoprire la talpa. Ma quello che si trovarono di fronte gli 007 a “stelle e strisce” fu sconcertante: non uno, ma ben due militari della United States Navy erano coinvolti (oltre a Whitworth, venne incriminato e arrestato anche John Anthony Walker) e il danno alla sicurezza nazionale enorme. Arrestato il 3 giugno 1985, il tribunale militare ha condannato Jerry Whitworth a scontare ben 365 anni di carcere con l’accusa di spionaggio e tradimento.
Jerry sta scontando la sua pena nel penitenziario federale di Atwater, in California.

martedì 27 agosto 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 agosto.
Il 27 agosto 1883 quattro esplosioni del vulcano Krakatoa distruggono quasi completamente l'isola.
Il Krakatoa era rimasto inattivo per due secoli prima che si manifestasse l'inizio dell'eruzione il 20 maggio 1883. Per diversi anni prima di questa eruzione si verificarono fortissimi maremoti e gli effetti di alcuni di questi si avvertirono anche in Australia. L'eruzione iniziò con emissioni di vapore e ceneri dal cono del Perboewatan, che raggiunsero un'altezza di quasi 11 chilometri. Nel corso dei mesi di giugno e luglio il vulcano Perboewatan continuò ad eruttare, e nelle acque dello stretto della Sonda furono visti galleggiare blocchi di pomice.
L'11 agosto tre aperture eruttavano regolarmente dal vulcano. In questo periodo le maree furono stranamente alte (molte imbarcazioni ormeggiate affondarono) ed erano ordinari fenomeni come il frantumarsi improvviso di finestre. L'11 agosto ebbe inizio un'eruzione di più ampia portata, con una colonna eruttiva carica di cenere proveniente da 11 aperture. Il 24 agosto l'eruzione si intensificò; il culmine del cataclisma iniziò domenica 26 agosto verso mezzogiorno: le nuvole di cenere generate dall'eruzione raggiunsero un'altezza di 36 km e si verificò il primo tsunami.
Il 27 agosto altre eruzioni avvennero alle 05:30, 06:45, 8:20 e alle 10:02 ora locale. L'ultima di queste aprì delle fessure nella roccia del vulcano e in questo modo l'acqua del mare si riversò nella camera magmatica, vaporizzandosi e provocando l'esplosione che distrusse gran parte dell'isola. Il boato fu avvertito fino in Australia, lontana 3500 km (2200 miglia), e nell'isola di Rodriguez vicino a Mauritius, lontana 4800 km (3000 miglia). Fu il rumore più forte registrato nella storia: tale primato è però conteso dal suono generato dall'eruzione del monte Tambora nel 1815, sempre nell'arcipelago indonesiano.
Benché sembri che nessuno sia stato ucciso dall'esplosione iniziale, lo tsunami generato provocò effetti disastrosi uccidendo circa 36.000 persone e spazzando numerosi villaggi nelle isole di Giava e Sumatra; 165 villaggi vennero distrutti e 132 gravemente danneggiati. Altre 1.000 persone circa morirono per gli effetti dei fumi vulcanici e della cenere. Navi lontane, nel Sudafrica, si capovolsero quando vennero colpite dall'onda di maremoto, e i corpi delle vittime furono trovati nell'oceano per diverse settimane dopo il tragico evento. Ci sono numerosi rapporti che documentano la presenza di gruppi di scheletri umani vaganti alla deriva per l'oceano Indiano su zattere di pomice vulcanica e finiti sulle coste orientali dell'Africa fino a un anno dall'eruzione.
L'eruzione del 1883 fu tra le più dannose esplosioni vulcaniche nell'era moderna, classificata con VEI pari a 6, equivalente a 200 megatoni (200 milioni di tonnellate di TNT), una potenza quattro volte maggiore della più grande bomba mai costruita dall'uomo, la Bomba Zar, che durante il test atomico sprigionò 50 megatoni. Le onde d'aria generate dall'esplosione "viaggiarono" sette volte intorno al mondo e il cielo si oscurò per i giorni successivi. L'isola di Rakata quasi cessò di esistere, dal momento che oltre due terzi della superficie fu polverizzata, e il fondo dell'oceano che la circondava fu drasticamente alterato. Due isole vicine, Verlaten e Lang, incrementarono la loro superficie. La cenere vulcanica continua a costituire una parte significativa della composizione geologica di queste isole.
Ci sono alcune prove che dimostrano come l'esplosione finale possa non essere stata causata dall'ingresso dell'acqua di mare nel vulcano. La camera magmatica sotto il vulcano era composta da materiale di colore chiaro e relativamente freddo. Dopo l'eruzione del 20 maggio entrò nella camera, dalla profondità, materiale più caldo e di colore scuro. Il nuovo materiale riscaldò la roccia fusa originaria, emettendo gas disciolti, ed aumentando la pressione. Le eruzioni del 25 e 26 agosto liberarono la gola del vulcano rilasciando la pressione nella devastante esplosione che distrusse gran parte dell'isola. La pietra pomice dell'eruzione evidenzia una miscela di materiali di colore chiaro e scuro.
L'eruzione generò tramonti spettacolari in tutto il mondo per diversi mesi successivi, a causa del fatto che la luce solare si rifletteva sulle particelle di polvere sospese nell'aria, eruttate dal vulcano nell'atmosfera. L'artista inglese William Ashcroft realizzò centinaia di schizzi a colori dei tramonti rossi intorno al mondo (generati dall'eruzione del Krakatoa) negli anni successivi all'eruzione. Nel 2004 alcuni ricercatori supposero che il cielo color rosso sangue del famoso quadro di Edvard Munch L'urlo, realizzato nel 1893, sia in realtà una riproduzione accurata del cielo norvegese dopo l'eruzione. Tuttavia tale ipotesi azzardata è priva di fondamento, visto che l'episodio che ispirò l'artista risalirebbe all'estate del 1889 - sei anni dopo l'eruzione - quando, con gli amici Christian Krohg e Frits Thaulow (identificabili con le due silhouette del quadro), affittò una piccola abitazione nei pressi dell'Oslofjord. A causa delle particelle di cenere emesse nell'aria, la Luna mantenne per anni un colore bluastro. Inoltre la temperatura media terrestre si abbassò. Il livello dell'acqua si alterò dall'epicentro fino al canale della Manica.

lunedì 26 agosto 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 agosto.
Il 26 agosto 1260 Papa Alessandro IV ordina il totale sterminio della famiglia Ezzelini a Treviso.
La politica veneziana per tutto il XIII secolo poteva considerarsi ancora una politica prettamente marittima e per questo, come da sempre del resto, maggiormente rivolta verso l’Oriente ed il Mediterraneo piuttosto che verso la terraferma dove Venezia non aveva tuttavia mancato già di scontrarsi una volta coi padovani nel corso del XII secolo.
Tuttavia, rispetto all’entroterra veneto, ai suoi violenti e convulsi mutamenti politici e sociali, ai suoi Comuni e alle loro turbolente vicende, la città lagunare aveva da sempre mantenuto un atteggiamento sostanzialmente estraneo e disinteressato. E’ solo con il nuovo secolo, il XIII, e con i primi seri scontri con il vicino comune di Padova in costante espansione, che anche il governo veneziano riconobbe sempre più l’utilità e l’opportunità di intervenire in qualche modo nella politica dei Comuni veneti attraverso, per esempio, l’elezione alla carica podestarile di cittadini veneziani.
Un imprevisto, tuttavia, arrivò a turbare i programmi di Venezia e con essi la vita politica e sociale di tutte le città venete, imprevisto che portava il nome di Ezzelino III da Romano. Nel giro di pochi anni, da semplice esponente di una delle più ricche famiglie dell’antica nobiltà feudale, Ezzelino, spalleggiato dall’imperatore Federico II di Svevia, riuscì infatti ad affermare il proprio dominio su tutti i principali Comuni dell’allora Marca Trevigiana: Vicenza, Verona, Padova e Treviso che tra il 1236 ed il 1237 caddero tutti sotto il personale dominio del da Romano.
Fu allora che Venezia, per la prima volta dopo tanti anni, si sentì nuovamente e seriamente minacciata alle spalle. La costituzione di una potente e personale signoria nella regione da parte di Ezzelino non poteva naturalmente che impensierire il governo veneziano che, tuttavia, scese in campo contro il “tiranno” solo nel 1256, quando il potere ezzeliniano era ormai chiaramente destinato al tramonto sotto l’urto di una vastissima coalizione perorata dallo stesso pontefice.
Dopo tre anni Ezzelino infatti sarebbe stato sconfitto definitivamente a Cassano d’Adda lasciando l’ultima, disperata speranza di un impossibile riscatto, al fratello Alberico signore di Treviso.
Della città trevigiana Alberico da Romano si era insignorito conquistandola militarmente il 14 maggio del 1239. Inutilmente il suo Podestà, il veneziano Pietro Tiepolo, figlio dello stesso doge, aveva tentato una coraggiosa difesa della città contro l’esercito di Alberico: il fratello di Ezzelino inaugurava in questo modo un ventennio di indiscusso e personale dominio.
Vent’anni durante i quali il da Romano, pur facendo di Treviso e della sua corte uno dei centri più importanti e raffinati della produzione lirica cortese, non mancò di usare un pesante pugno di ferro contro oppositori o semplicemente presunti tali. Si intensificarono così, specie dopo il 1245, le defezioni, le fughe e le fuoriuscite di molti illustri esponenti della vita pubblica trevigiana. Le persecuzioni che ne seguirono non fecero altro che incrementare l’odio verso il da Romano ed accelerare il suo progressivo isolamento. Nessuno poteva ormai lasciare o entrare a Treviso senza il suo personale consenso mentre i superstiti della dura repressione, in numero sempre più crescente, trovavano in Venezia un vicino e sicuro rifugio.
Nel 1257 Alberico si era pure riavvicinato al potente fratello Ezzelino dopo lunghi anni di antagonismi, gelosie e scontri per il predominio nella regione, siglando in questo modo la sua rovina.
Avuta infatti notizia della morte del fratello caduto prigioniero nella battaglia di Cassano d’Adda, Alberico sentì prossima anche la sua fine. Non considerando più Treviso sicura e fidata, il da Romano si rifugiò così in uno dei suoi più fortificati ed inaccessibili castelli, quello di S. Zenone. Lo seguivano i soli membri della famiglia, la moglie e gli otto figli oltre i pochi uomini di masnada rimasti fedeli in virtù di uno speciale vincolo di giuramento che li legava al loro signore.
Intanto a Treviso veniva eletto il nuovo Podestà, ancora un veneziano, nella persona di Marco Badoer. Il suo governo come primo atto decretò la morte di Alberico e di tutti i membri della sua famiglia, adulti e fanciulli. Alberico, che nel frattempo resisteva ai colpi degli assalitori, rimaneva rinchiuso nel suo castello. Era solo, tuttavia, questione di pochi giorni.
Probabilmente a seguito del tradimento del comandante della cinta inferiore, Mesa da Porcilia, il castello venne infatti ben presto in gran parte conquistato e distrutto. Restava quale unica ed ultima via di scampo la torre centrale dove Alberico infatti si rifugiò rendendosi conto troppo tardi della trappola senza uscita in cui si era cacciato. Dopo tre giorni di disperata resistenza, preso più dalla fame e dalla sete, Alberico decise per la resa nella speranza di salvare almeno in questo modo la vita dei suoi cari e dei suoi uomini.
Questi, sciolti dal vincolo di fedeltà assoluta al loro signore, avrebbero dovuto consegnarlo al nemico chiedendo in cambio la salvezza della moglie Margherita e degli otto figli, pregando il marchese d’Este – uno dei più accaniti nemici dei da Romano ma imparentato con la famiglia di Alberico per averne sposato una figlia -, di prenderli sotto la sua protezione.
Nessuna delle pietose richieste di Alberico venne tuttavia accolta. Una volta avuti fra le mani il da Romano e la sua famiglia, gli assalitori non si risparmiarono quanto ad atrocità e nefandezze. Alberico fu costretto ad assistere alla decapitazione dei suoi due figlioli maschi, il più piccolo dei quali ancora bambino, mentre la moglie e le altre figlie venivano arse vive su dei roghi. Dopo tanto strazio Alberico veniva infine giustiziato ed il suo corpo trascinato barbaramente da un cavallo. Era il 26 agosto del 1260.
Così, tra il sangue e la polvere, si era consumata un’atroce vendetta che aveva posto miseramente fine alla gloriosa e rapida ascesa di una famiglia che aveva trovato in Ezzelino e nel fratello Alberico, gli ultimi, estremi fautori di un inconfessato ed ambizioso sogno di potere.

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