Buongiorno, oggi è il 30 ottobre.
Il 30 ottobre 1922, dopo la marcia su Roma, Mussolini riceve da Vittorio Emanuele III l'incarico di formare un governo. Nasce così il ventennio fascista.
Benito Mussolini nasce il 29 luglio 1883 a Dovia di Predappio, in provincia di Forlì, da Rosa Maltoni, maestra elementare, e Alessandro Mussolini, fabbro ferraio. Dapprima studia nel collegio salesiano di Faenza (1892-'93), poi presso il collegio Carducci di Forlimpopoli, conseguendo anch'egli il diploma di maestro elementare.
Stimolato dal padre, esponente socialista facinoroso e violentemente anticlericale, comincia la sua carriera politica appunto con l'iscrizione al Partito Socialista Italiano (PSI). Poco tempo dopo incappa in una vera avventura. Allo scopo di sottrarsi al servizio militare, infatti, fugge in Svizzera, dove conosce importanti esponenti rivoluzionari, rimanendo fra l'altro affascinato dalle idee di stampo marxista. Rientrato in Italia nel 1904 dopo essere stato espulso dai cantoni per ripetuto ed esasperato attivismo antimilitarista e anticlericale, scampa la pena prevista per la renitenza alla leva grazie ad un errore burocratico, per compiere quindi il servizio militare nel reggimento di bersaglieri di stanza a Verona. Per un breve periodo trova anche il tempo per insegnare presso Tolmezzo ed Oneglia (1908), dove tra l'altro collabora attivamente al periodico socialista "La lima"; dopodiché, torna a Dovia.
L'attività politica però continua incessante. Fra l'altro, viene imprigionato per dodici giorni per aver sostenuto uno sciopero di braccianti. Ricopre quindi la carica di segretario della Camera del Lavoro a Trento (1909) e dirige un altro quotidiano: "L'avventura del lavoratore". Si scontra presto con gli ambienti moderati e cattolici e, dopo sei mesi di frenetica attività propagandistica viene espulso dal giornale tra le vibranti proteste dei socialisti trentini suscitando una vasta eco in tutta la sinistra italiana. Torna a Forlì dove si unisce, senza vincoli matrimoniali né civili né religiosi, con Rachele Guidi, figlia della nuova compagna del padre. Insieme ebbero cinque figli: Edda nel 1910, Vittorio nel 1925, Bruno nel 1918, Romano nel 1927 e Anna Maria nel 1929. Nel 1915 sarebbe stato celebrato il matrimonio civile mentre nel 1925 quello religioso.
Contemporaneamente la dirigenza socialista forlivese gli offre la direzione del settimanale "Lotta di classe" e lo nomina proprio segretario. Al termine del congresso socialista a Milano dell'ottobre 1910, ancora dominato dai riformisti, Mussolini pensa di scuotere la minoranza massimalista, anche a rischio di spaccare il partito, provocando l'uscita dal PSI della federazione socialista forlivese, ma nessun'altro lo segue nell'iniziativa. Quando sopraggiunge la guerra in Libia, Mussolini appare come l'uomo più adatto a impersonare il rinnovamento ideale e politico del partito. Protagonista del congresso emiliano di Reggio Emilia e assunta la direzione del quotidiano "Avanti!" alla fine del 1912, diventa il principale catalizzatore delle insoddisfazioni della società italiana, piegata da crisi economiche e ideali.
Lo scoppio del primo conflitto mondiale trova Mussolini sulla stessa linea del partito e cioè di neutralità. Nel giro di pochi mesi, però, nel futuro Duce matura il convincimento che l'opposizione alla guerra avrebbe finito per trascinare il PSI ad un ruolo sterile e marginale, mentre, secondo il suo parere, sarebbe stato opportuno sfruttare l'occasione per riportare le masse sulla via del rinnovamento rivoluzionario. Si dimette perciò dalla direzione del quotidiano socialista il 20 ottobre 1914, proprio due giorni dopo la pubblicazione di un suo articolo che faceva appunto notare il mutato programma.
Dopo la fuoriuscita dall'Avanti! decide di fondare un suo giornale. Ai primi di novembre fonda quindi "Il Popolo d'Italia", foglio ultranazionalista e radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa. Il popolo, a giudicare dal clamoroso boom di vendite, è con lui.
A seguito di queste prese di posizione, viene espulso anche dal partito (è il 24-25 novembre 1914) e richiamato alle armi (agosto 1915). Dopo essere stato seriamente ferito durante un'esercitazione può ritornare alla guida del suo giornale, dalle colonne del quale rompe gli ultimi legami con la vecchia matrice socialista, prospettando l'attuazione di una società produttivistico-capitalistica capace di soddisfare le esigenze economiche di tutti i ceti.
Le esigenze inespresse che serpeggiano nella società Italiana Mussolini sa raccoglierle sagacemente e un primo tentativo lo effettua con la fondazione, avvenuta a Milano il 23 marzo 1919 con un discorso di Mussolini a Piazza San Sepolcro, dei "Fasci di Combattimento" basata su un mescolamento di idee radicali di sinistra e di acceso nazionalismo. L'iniziativa non riscuote di primo acchito un gran successo. Man mano però che la situazione italiana si va deteriorando e il fascismo si caratterizza come forza organizzata in funzione antisindacale e antisocialista, Mussolini ottiene crescenti adesioni e pareri favorevoli dai settori agrari e industriali e dai ceti medi. La "marcia su Roma" (28 ottobre 1922) apre a Mussolini le porte per formare il nuovo Governo, costituendo un gabinetto di larga coalizione che lascia sperare a molti l'avvento dell'attesa "normalizzazione". Il potere si consolida ulteriormente con la vittoria nelle elezioni del 1924. Successivamente Mussolini attraversa un periodo di grande difficoltà a causa dell'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), il primo grande omicidio fascista (anche se gli storici contemporanei non lo riconducono direttamente al volere di Mussolini stesso).
La reazione avversaria non si fa attendere. Alla fine del 1925 viene fatto oggetto di numerosi attentati firmati da socialisti (il primo fu quello ad opera di Tito Zaniboni), massoni, anarchici e quant'altri (perfino una solitaria donna irlandese). Sta di fatto che nonostante l'affermazione di un regime chiaramente dittatoriale, Mussolini riesce a conservare e, in alcuni momenti ad accrescere, la sua popolarità sfruttando abilmente alcune iniziative genericamente populistiche come la risoluzione dell'annoso problema della cosiddetta "questione romana", realizzando attraverso i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929, firmati per conto del Vaticano dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato) la conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa.
Un'incessante propaganda comincia così ad esaltare le doti del dittatore, dipinto di volta in volta come "genio" o come "duce supremo", in un'esaltazione della personalità tipica dei regimi totalitari.
Con il passare del tempo, invece, la Storia darà drammaticamente ragione alla Realtà. Gli eventi mostrano un leader incapace di ferme decisioni, di una strategia a lungo termine non legata agli eventi contingenti. In politica estera, con l'obiettivo di rinnovare e fortificare il prestigio della Nazione in un inusuale miscuglio di cauto realismo imperialistico e letterario della romanità, tiene una condotta a lungo incerta e ondivaga.
Dopo l'occupazione delle truppe italiane di Corfù, nel 1923, e la decisa presa di posizione contro l'annessione dell'Austria alla Germania nazista, Mussolini si getta alla conquista dell'Etiopia: il 3 ottobre 1935 le truppe italiane varcano il confine con l'Abissinia e il 9 maggio 1936 il Duce annuncia la fine della guerra e la nascita dell'Impero italiano d'Etiopia. La conquista da un lato lo fa arrivare al punto più alto della sua fama in Patria ma dall'altro lo rende inviso al Regno Unito, alla Francia e alla Società delle Nazioni, costringendolo ad un progressivo ma fatale avvicinamento alla Germania hitleriana, con la quale firma, nel 1939, il cosiddetto "Patto d'Acciaio", un accordo che lo lega ufficialmente a quell'infame regime.
Il giorno 10 giugno 1940, benché impreparato militarmente, decide di entrare in guerra assumendo il comando supremo delle truppe operanti, nell'illusione di un rapido e facile trionfo. Purtroppo per lui (e per l'Italia!), le sorti si rivelano negative e drammatiche per Mussolini e il fascismo. Dopo l'invasione anglo-americana della Sicilia e uno dei suoi ultimi colloqui con Hitler (19 luglio 1943) viene sconfessato dal Gran Consiglio (24 luglio) e arrestato dal re Vittorio Emanuele III (25 luglio). Trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine al Campo Imperatore sul Gran Sasso, il 12 settembre viene liberato dai paracadutisti tedeschi e portato prima a Vienna e poi in Germania, dove il 15 proclama la ricostituzione del Partito Repubblicano Fascista.
La liberazione di Mussolini è ordinata da Hitler in persona, che ne affida l'esecuzione all'austriaco Otto Skorzeny, dichiarato successivamente dagli Alleati "l'uomo più pericoloso d'Europa" per le sue capacità e per la sua audacia.
Mussolini attraversa periodi di evidente stanchezza, è ormai "alle dipendenze" di Hitler. Si insedia a Salò, sede della nuova Repubblica Sociale Italiana (RSI). Sempre più isolato e privo di credibilità, quando gli ultimi reparti tedeschi vengono sconfitti, propone ai capi del C.L.N.A.I (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) un passaggio di poteri, che viene respinto. Travestito da militare tedesco, tenta la fuga assieme alla compagna Claretta Petacci, verso la Valtellina. Viene riconosciuto a Dongo dai partigiani, successivamente arrestato e giustiziato il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra (Como).
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lunedì 30 ottobre 2023
mercoledì 12 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Il 12 aprile 1928 si Inaugura la IX Fiera di Milano, «rito annuale dell’industria e del lavoro», alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Un’edizione speciale, per festeggiare il decennale della vittoria della Grande guerra. Alle 9.45 il re giunge in treno alla Stazione centrale dove lo attendono il podestà Ernesto Belloni e altre autorità. Nello stesso istante in cui il corteo reale lascia la stazione, nei pressi dell’ingresso principale della Fiera, in piazzale Giulio Cesare, scoppia un ordigno a orologeria celato nel basamento in ghisa di un lampione.
La collocazione della bomba segnala l’intenzione di procurare il maggior numero di vittime possibile. «Il basamento di ghisa, di una circonferenza di un metro e mezzo, alto altrettanto, ha centuplicato la violenza dell’esplosione. Ogni scheggia divenne un proiettile». I morti sono sedici, decine i feriti, alcuni gravissimi.
«Malgrado il luttuoso episodio S.M. il Re ha inaugurato ufficialmente la Fiera percorrendone i viali e sostando ai padiglioni più importanti, come era stabilito nel programma. Tutte le altre manifestazioni della giornata, eccezion fatta della serata di gala alla Scala, avranno regolarmente luogo. La polizia sta indagando alacremente per individuare i responsabili».
Per tutto il giorno continuano gli arresti, 400 circa a fine giornata, e le perquisizioni. Intensificati i controlli alle frontiere. Si cercano i responsabili in ambienti comunisti e anarchici.
In serata si diffondono voci che imputano la responsabilità dell’attentato a uomini vicini al segretario federale Mario Giampaoli, capo indiscusso del fascismo milanese. Quella mattina nella caserma della Legione della Milizia Carroccio, in via Mario Pagano, «mentre un milite si allacciava il cinturone tenendo stretto fra le ginocchia il moschetto, partiva inavvertitamente un colpo, che prendeva d’infilata un gruppo di militi, uccidendone due e ferendone tre».
Da subito la dinamica dei fatti non è chiara e le versioni ufficiali sono contraddittorie, tanto da alimentare il sospetto che lo sparatore sia stato anche l’esecutore materiale dell’attentato alla Fiera. Lo stesso giorno la polizia perquisisce la sede della Oberdan, un’associazione fascista con tendenze dichiaratamente repubblicane, vicina a Giampaoli.
Tra gli arrestati vi sono numerosi studenti universitari, alcuni intellettuali e docenti che gravitano intorno alla rivista Pietre. Tra questi gli appartenenti a un’organizzazione segreta ispirata al modello mazziniano da cui riprende il nome “Giovane Italia”. Gli inquirenti scoprono presto che l’associazione non ha fini terroristici.
Nella notte, con un telegramma, Mussolini detta al podestà Belloni la strada che devono seguire le indagini: individuare al più presto i colpevoli, che debbono essere cercati tra gli oppositori antifascisti. Ancora Mussolini a Belloni: «Portate per me dei fiori sulle salme degli innocenti colpiti a morte dalle bestie della criminalità dell’antifascismo impotente e barbaro. Recate il mio saluto e il mio augurio a tutti i feriti. Sono sicuro che Milano fieramente fascista risponderà ai gesti della delinquenza superstite con un grido di più intensa fede nell’avvenire della Nazione e del Regime. I nemici non prevarranno».
In serata partono per Milano alcuni membri del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Istituito nel 1926, il Tribunale ha giurisdizione su ogni strage o attentato e non è subordinato alla Direzione generale di Pubblica Sicurezza.
Il giorno dopo le condizioni dei soldati ricoverati all’ospedale militare per le ferite riportate nell’attentato in piazzale Giulio Cesare non destano più preoccupazioni. Muore però un bambino di soli tre anni: Enrico Ravera è la diciassettesima vittima della bomba alla Fiera. La famiglia dei fratelli Antonio ed Ennio Ravera perde, con la morte di Enrico, il quarto caro (Ennio, oltre al bambino di tre anni ha perso la moglie Natalina, Antonio entrambi i figli, Gian Luigi e Rosina).
«Pietoso pellegrinaggio di cittadini dolenti» per tutto il giorno sul luogo della strage. Nel recinto improvvisato con paletti e fil di ferro che circonda il palo della luce, e dove ancora la sera prima si vedevano qualche brandello di carne e di vesti e macchie di sangue rappreso, sono stati sparsi come su un tumulo fiori e fronde. Anche alla camera ardente allestita al Cimitero Monumentale continua per tutto il giorno il corteo dei parenti, dei conoscenti, degli amici delle vittime. Nella sala un’immensa corona di orchidee donata da Benito Mussolini.
Esaminati i reperti trovati sul luogo dell’attentato, il ten. gen. Mario Grosso, della Sezione distaccata artiglieria, deposita la propria perizia. Schegge di ghisa sparse tutt’intorno in un raggio di 60 metri; esplosione violenta e istantanea avvenuta all’interno del basamento del lampione; tipo di esplosivo: dinamite o gelatina esplosiva; detonazione con un congegno a orologeria; «per ciò che si riferisce all’intervento della corrente elettrica, non solo non si rinvenne alcun conduttore, ma è probabile che se un conduttore fosse resistito, la detonazione sarebbe avvenuta nell’istante in cui il Corteo Reale sfilava di fronte al punto minato, anziché qualche minuto di anticipo».
Le indagini del Tribunale speciale si concentrano sui membri dell’organizzazione comunista clandestina di Milano. Arrestati, tra gli altri, Augusto Lodovichetti e Giuseppe Testa.
Nei pressi di Brunate, vicino a Como, la polizia arresta Romolo Tranquilli, fratello di Secondo, meglio noto con lo pseudonimo di Ignazio Silone. È accusato dell’attentato perché in possesso di una mappa che per gli inquirenti riprodurrebbe piazzale Giulio Cesare (in realtà è la piazza di Como, luogo dell’incontro tra Silone e Luigi Longo). A carico di Romolo vi è inoltre la testimonianza della domestica Adalgisa Valesi, che riconosce in lui l’attentatore, benché in precedenza avesse indicato un’altra persona, Augusto Lodovichetti. Le contraddizioni della testimone non fermano gli inquirenti che vedono in Romolo l’intellettuale di collegamento tra il gruppo comunista e l’ambiente internazionale degli esuli. L’intenzione della milizia è di chiudere l’inchiesta con un processo a rito direttissimo, a porte chiuse. Tranquilli nega di aver partecipato alla strage, ma sarà sottoposto a duri interrogatori e a torture che gli producono gravi lesioni ai polmoni, fino a causarne la morte il 27 ottobre 1932.
Va detto che la versione ufficiale sposta al giorno 13 l’incidente alla caserma della milizia avvenuto il giorno precedente, stesso giorno della strage.
Due giorni dopo la bomba alla Fiera, è il momento dei funerali. «Tutta Milano accompagna all’estremo riposo le vittime della strage in una indimenticabile manifestazione di cordoglio e di esecrazione». Di prima mattina le salme vengono portate in Duomo dalla camera ardente al Cimitero Monumentale. Bare allineate davanti all’altare maggiore: diciassette per le vittime della strage, due per i militi morti nell’incidente della caserma di via Pagano. Nelle tre più piccole, avvolte da un drappo candido, i corpi dei bambini.
Il Partito fascista ha organizzato un’imponente manifestazione. Alle 13 tutti i fascisti si concentrano nelle rispettive sedi rionali per raggiungere incolonnati piazza del Duomo.
Alle 15 il corteo funebre si muove dal Duomo verso il cimitero. «I rintocchi del campanone riprendono e i pesanti battenti della porta scorrono e spalancano l’uscita dal Duomo. Uno squillo di tromba annuncia l’apparizione delle salme. Le autorità fanno ala». C’è anche il generale Umberto Nobile con gran parte dell’equipaggio del dirigibile Italia: il giorno dopo partiranno da Milano per il Polo Nord. Il corteo funebre si avvia quindi verso via Dante, dove «la pioggia dei fiori pare in certi momenti oscurare il cielo».
Il giorno 15 Luigi Mario Gea, di 11 anni, muore all’Ospedale Maggiore. Era stato il padre, un fattorino, a convincere la moglie perché portasse il piccolo al piazzale Giulio Cesare: «Prendi con te il bambino. C’è il Re, c’è l’inaugurazione della Fiera. Lo farai divertire».
Il capo della polizia Arturo Bocchini telegrafa al prefetto di Milano chiedendo costanti aggiornamenti sulle indagini portate avanti dal Tribunale speciale. Per Bocchini è improbabile che gli attentatori siano gli antifascisti in esilio e indica piuttosto di dirigere le indagini verso le associazioni nazionalistiche jugoslave e balcaniche.
Nel pomeriggio del 21 aprile muore all’Ospedale Maggiore la maestra Giuseppina Tognacci, 56 anni, e nella notte Achille Beretta, 20 anni, meccanico. Le vittime della bomba di piazzale Giulio Cesare raggiungono il numero definitivo di venti.
Il 26 aprile l’Agenzia Stefani comunica il bilancio delle indagini sull’attentato alla Fiera di Milano: 560 arresti (probabilmente un terzo di quelli realmente effettuati), 32 deferimenti al Tribunale speciale.
Il 3 maggio in Senato si tiene la commemorazione delle vittime dell’attentato. Nel suo discorso Mussolini chiede «palese ma severa giustizia» e in questo modo scarta la possibilità di celebrare il processo a porte chiuse. La campagna promossa dalla stampa europea a favore degli arrestati, come quella del “Comitato per la difesa delle vittime del fascismo”, ha influito in modo determinante nel cambiamento della strategia processuale da parte delle autorità fasciste.
Il 25 maggio il questore Giovanni Rizzo scrive al capo della polizia Bocchini che i responsabili dell’attentato del 12 aprile alla Fiera di Milano debbono essere cercati nel gruppo anarchico del professor Camillo Berneri, esule a Parigi. La pista anarchica verrà seguita e abbandonata più volte, senza una precisa determinazione del Duce nel perseguirla.
Il 23 gennaio dell'anno successivo i comunisti arrestati il 13 aprile 1928 escono dall’inchiesta per la strage di Milano del giorno prima, sancendo l’estraneità della loro parte politica dai fatti di piazzale Giulio Cesare. Nel giugno 1931 Augusto Lodovichetti, Ettore Vacchieri, Giuseppe Testa, Sarti detto Maciste, Oreste Bruneri e Antimo Boccolari verranno tuttavia condannati a 12 anni di carcere per la ricostruzione del Partito comunista e incitamento all’odio di classe; la stessa pena toccherà a Romolo Tranquilli, che subisce anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e 3 anni in regime di sorveglianza speciale.
Il 30 ottobre 1930 in diverse città italiane sono arrestati diversi componenti di Giustizia e Libertà. Tra questi Riccardo Bauer, Vincenzo Calace, Umberto Ceva, Ernesto Rossi. A loro carico l’accusa di aver pianificato una serie di attentati, poi non attuati, per la notte tra il 27 e il 28 ottobre (la ricorrenza della marcia su Roma). La polizia intende addossare all’organizzazione anche la responsabilità della strage del 12 aprile 1928 alla Fiera di Milano.
Il 3 novembre 1930 il generale Alfredo Torretta firma la perizia sulle bombe preparate dai membri di Giustizia e Libertà. Il perito, seguendo le indicazioni dell’ispettore Nudi, ricollega la preparazione degli attentati del 27-28 ottobre passato a quello di piazzale Giulio Cesare del 1928. Il chimico Umberto Ceva è identificato quale fabbricatore dell’ordigno.
Il 12 dicembre 1930 una nuova perizia di Mario Grosso ha elevato evidenti contraddizioni alla perizia Torretta. Nel procedimento avviato dal Tribunale speciale nei confronti dei membri di Giustizia e Libertà non vi è alcun riferimento alla strage del 12 aprile 1928. Il “teorema Nudi” sembra destinato ad essere definitivamente archiviato.
Il 9 marzo 1932 Mario Grosso firma una nuova perizia. Nelle premesse afferma che non ci sono sufficienti prove per legare l’ordigno di piazzale Giulio Cesare, davanti alla Fiera, a quello trovato nell’Arcivescovado di Milano il 29 dicembre 1928. Contraddittoriamente, nelle conclusioni scrive: «1) gli ordigni del 9 aprile 1928 (bombe sulla linea Milano-Bologna) e quelli all’Arcivescovado sono stati in modo assolutamente certo preparati dagli stessi individui. 2) Con quasi certezza si può affermare che gli stessi individui hanno preparato anche l’ordigno del piazzale Giulio Cesare del 12 aprile 1928. 3) È probabile che gli individui medesimi non siano estranei alla confezione dell’ordigno scoppiato il 1° maggio 1927 al monumento di Napoleone III» .
Giobbe Giopp, in precedenza identificato quale responsabile della piccola esplosione dimostrativa sotto il monumento di Napoleone III a Milano è coinvolto nell’inchiesta sulla strage del 12 aprile 1928 (anche se in quella data era in carcere da una quindicina di giorni).
Il 25 febbraio 1935 Maria Carnielli rilascia a Guido Leto (della Direzione generale affari riservati della polizia) dichiarazioni contraddittorie. In un interrogatorio la donna accusa Dante Fornasari di aver collocato l’ordigno a piazzale Giulio Cesare, ma la debolezza della sua testimonianza non fa procedere per il momento in questa direzione le indagini.
Il 20 novembre 1940 muore il capo della polizia Arturo Bocchini. Al suo posto Mussolini nominerà Carmine Senise (vice di Bocchini dal 1932). Guido Leto, della Direzione generale affari riservati della polizia, sarà posto a capo dell’Ovra, la polizia politica. Il 14 aprile 1943 Sinise è rimosso dal suo incarico di capo della polizia. Gli succede il generale della Milizia Renzo Chierici.
Il 24 giugno 1943 il capo dell’Ovra Guido Leto e il commissario Ugo Magistrelli indagano di nuovo Giustizia e Libertà per l’eccidio del 12 aprile 1928 alla Fiera di Milano. Riprende campo il “teorema Nudi”.
Lunedì 26 luglio 1943 al vertice della polizia ritorna Carmine Senise, che era stato rimosso dall’incarico il 14 aprile e il giorno successivo il commissario capo Magistrelli interroga Gastone Canziani, vicino alla rivista Pietre e alla Giovane Italia. La polizia vuole anzitutto dimostrare un collegamento tra Canziani e Fornasari quali autori dell’attentato alla Casa degli Italiani di Aubagne (Francia) del 15 gennaio 1932, e di seguito legare tale associazione a delinquere alla strage del 12 aprile 1928 alla Fiera di Milano.
Il 28 luglio 1943, tramite un portaordini personale del capo della polizia Carmine Senise, il direttore del carcere di Regina Coeli riceve l’ordine perentorio di trattenere in carcere i presunti responsabili della strage del 1928 in piazzale Giulio Cesare a Milano (Rossi, Bauer, Canziani, Calace e Fornasari), anche in caso di un provvedimento di liberazione dei prigionieri politici. Le pressioni delle manifestazioni popolari e l’appoggio di personalità di spicco dell’antifascismo costringono Senise a rilasciare Rossi, Bauer e Calace il giorno 30.
Giovedì 19 agosto 1943, in un colloquio tra il capo dell’Ovra Guido Leto e il giudice Alfredo Cianciarini del Tribunale militare (sostituito al Tribunale speciale) emerge l’ipotesi di un processo indiziario a carico dei presunti colpevoli della strage del 12 aprile 1928 a Milano che deve concludersi con pene esemplari e la condanna a morte di Fornasari. Il fine politico è la condanna dell’antifascismo repubblicano. Leto riceve l’autorizzazione da Badoglio a proseguire le indagini in tal senso.
L'8 settembre 1943, dopo l’armistizio, le indagini sulla strage del 12 aprile 1928 alla Fiera di Milano s’interrompono.
Il 12 aprile 1978, in occasione del cinquantenario della strage alla Fiera di Milano, Lelio Basso scrive sul Corriere della Sera: «A distanza di 50 anni nulla si sa degli autori dell’attentato […] ed è strano che nessuno, né uno storico né un parente delle vittime, abbia cercato di far luce su una strage, non meno grave nei suoi effetti di quelle tristemente famose del Diana o di piazza Fontana».
Perché non si è fatta luce sulla strage? «La risposta, probabilmente, è più semplice di quanto si possa pensare. È la paura della verità. La paura di scoprire che, dietro alla bomba di piazzale Giulio Cesare ci fosse una verità imbarazzante. Imbarazzante perché, al di là delle dichiarazioni, la parte politica che si ispirava all’antifascismo di Giustizia e Libertà temeva di scoprire un qualche suo coinvolgimento. Imbarazzante per Mussolini stesso, il quale non aveva alcuna intenzione di spingere i suoi sottoposti a concludere l’inchiesta, anche lui timoroso che la verità venisse a galla. E per il capo della polizia? Aveva realmente interesse a scoprire i responsabili? Oppure, come scrisse Guido Leto, questo fu il più grande cruccio di tutta la sua carriera? Troppo tempo è passato da allora, e le vittime della strage del 12 aprile 1928, uccise dalla bomba esplosa davanti al civico 18, dalle sevizie della Milizia o dagli intrighi di polizia senza scrupoli, sono destinate a rimanere senza giustizia».
domenica 2 aprile 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 2 aprile.
Su iniziativa di Benito Mussolini, il 2 aprile 1926 viene istituita in Italia l'Opera Nazionale Balilla.
L'Opera Nazionale Balilla (ONB) fu un organo del Partito Nazionale Fascista (PNF) a carattere parascolastico e paramilitare che deve la sua denominazione alla figura di Giovan Battista Perasso, detto "Balilla", un giovane genovese che secondo la tradizione avrebbe dato inizio alla rivolta contro gli occupanti austriaci nel 1746: un'immagine di modello rivoluzionario cara al regime fascista.
Istituita come ente autonomo con la legge n. 2247/26, l'ONB fu affidata alla direzione di Renato Ricci, allora sottosegretario all'Istruzione, al quale Mussolini aveva affidato l'incarico di "riorganizzare la gioventù dal punto di vista morale e fisico".
Rigidamente centralizzata, l'ONB fu sin dalla sua fondazione concepita come strumento di penetrazione del fascismo nelle scuole, attraverso iniziative che avevano lo scopo di allevare i giovani nel clima culturale e spirituale del regime e di creare in loro una salda coscienza fascista.
Nonostante il fondamentale ruolo educativo svolto dalla scuola, infatti, questa non era ritenuta sufficiente a formare l'italiano nuovo voluto dal fascismo. Per questo l'Opera Nazionale Balilla, "finalizzata all'assistenza e all'educazione fisica e morale della gioventù", mirava non solo all'educazione spirituale, culturale e religiosa, ma anche all'istruzione premilitare, ginnico-sportiva, professionale e tecnica. Scopo dell'ONB era infondere nei giovani il sentimento della disciplina e dell'educazione militare, renderli consapevoli della loro italianità e del loro ruolo di "fascisti del domani".
Se inizialmente fu pensata come azione parallela ed esterna alla scuola, in seguito essa iniziò ad organizzare attività di carattere culturale, politico, paramilitare, sportivo e ricreativo, accrescendo il suo ruolo all'interno della scuola. Il regime chiese la collaborazione degli insegnanti per il tesseramento dei ragazzi e il loro inquadramento nell'organizzazione. L'ONB gestiva anche corsi di formazione e orientamento professionale, corsi post-scolastici per adulti, corsi di puericultura e d'economia domestica per le donne, oltre a migliaia di scuole rurali (nel 1937 erano più di seimila).
L'istituzione dell'ONB dunque inquadrava ufficialmente tutti i giovani e le giovani italiani in un'unica organizzazione, dal momento che il regime aveva sciolto per legge nel 1927 tutte le associazioni di carattere non fascista (scout compresi), ad eccezione della Gioventù Italiana Cattolica, che dovette comunque ridurre le proprie attività.
L'educazione maschile aveva carattere prettamente militaresco, mentre il ramo femminile era molto meno considerato: la futura donna fascista era cresciuta affinché diventasse una massaia sobria e attenta, moglie forte e madre prolifica.
Per quanto riguarda la sua struttura, l'Opera Nazionale Balilla, dopo un primo periodo sperimentale, venne stabilmente suddivisa, per età e sesso, in vari corpi: i corpi maschili che comprendevano i Figli della Lupa (6-8 anni), i Balilla (9-10 anni), i Balilla moschettiere (11-13 anni) e gli Avanguardisti (14-18 anni); e i corpi femminili composti dalle Figlie della Lupa (6-8 anni), le Piccole italiane (9-13 anni) e le Giovani Italiane (14-17 anni).
Esterni all'ONB vi erano i movimenti d'età superiore: i Fasci Giovanili di Combattimento e Giovani fasciste (18 a 21 anni) e i Gruppi Universitari Fascisti (GUF – studenti universitari e delle scuole superiori).
Camicia nera, fazzoletto azzurro, pantaloni grigioverde, fascia nera, fez (il tipico copricapo arabo) costituivano la divisa dei Balilla insieme al moschetto, compagno fedele delle esercitazioni (in versione giocattolo per i Figli della Lupa).
A partire dal 1937 l'ONB, insieme ai Fasci Giovanili di Combattimento, confluì nella Gioventù Italiana del Littorio (GIL), passando in questo modo alle dirette dipendenze del partito e richiedendo l'iscrizione obbligatoria a tutti i giovani italiani. Nonostante ciò, le iscrizioni all'Opera Nazionale Balilla non superarono mai il 50% del totale dei giovani.
Su iniziativa di Benito Mussolini, il 2 aprile 1926 viene istituita in Italia l'Opera Nazionale Balilla.
L'Opera Nazionale Balilla (ONB) fu un organo del Partito Nazionale Fascista (PNF) a carattere parascolastico e paramilitare che deve la sua denominazione alla figura di Giovan Battista Perasso, detto "Balilla", un giovane genovese che secondo la tradizione avrebbe dato inizio alla rivolta contro gli occupanti austriaci nel 1746: un'immagine di modello rivoluzionario cara al regime fascista.
Istituita come ente autonomo con la legge n. 2247/26, l'ONB fu affidata alla direzione di Renato Ricci, allora sottosegretario all'Istruzione, al quale Mussolini aveva affidato l'incarico di "riorganizzare la gioventù dal punto di vista morale e fisico".
Rigidamente centralizzata, l'ONB fu sin dalla sua fondazione concepita come strumento di penetrazione del fascismo nelle scuole, attraverso iniziative che avevano lo scopo di allevare i giovani nel clima culturale e spirituale del regime e di creare in loro una salda coscienza fascista.
Nonostante il fondamentale ruolo educativo svolto dalla scuola, infatti, questa non era ritenuta sufficiente a formare l'italiano nuovo voluto dal fascismo. Per questo l'Opera Nazionale Balilla, "finalizzata all'assistenza e all'educazione fisica e morale della gioventù", mirava non solo all'educazione spirituale, culturale e religiosa, ma anche all'istruzione premilitare, ginnico-sportiva, professionale e tecnica. Scopo dell'ONB era infondere nei giovani il sentimento della disciplina e dell'educazione militare, renderli consapevoli della loro italianità e del loro ruolo di "fascisti del domani".
Se inizialmente fu pensata come azione parallela ed esterna alla scuola, in seguito essa iniziò ad organizzare attività di carattere culturale, politico, paramilitare, sportivo e ricreativo, accrescendo il suo ruolo all'interno della scuola. Il regime chiese la collaborazione degli insegnanti per il tesseramento dei ragazzi e il loro inquadramento nell'organizzazione. L'ONB gestiva anche corsi di formazione e orientamento professionale, corsi post-scolastici per adulti, corsi di puericultura e d'economia domestica per le donne, oltre a migliaia di scuole rurali (nel 1937 erano più di seimila).
L'istituzione dell'ONB dunque inquadrava ufficialmente tutti i giovani e le giovani italiani in un'unica organizzazione, dal momento che il regime aveva sciolto per legge nel 1927 tutte le associazioni di carattere non fascista (scout compresi), ad eccezione della Gioventù Italiana Cattolica, che dovette comunque ridurre le proprie attività.
L'educazione maschile aveva carattere prettamente militaresco, mentre il ramo femminile era molto meno considerato: la futura donna fascista era cresciuta affinché diventasse una massaia sobria e attenta, moglie forte e madre prolifica.
Per quanto riguarda la sua struttura, l'Opera Nazionale Balilla, dopo un primo periodo sperimentale, venne stabilmente suddivisa, per età e sesso, in vari corpi: i corpi maschili che comprendevano i Figli della Lupa (6-8 anni), i Balilla (9-10 anni), i Balilla moschettiere (11-13 anni) e gli Avanguardisti (14-18 anni); e i corpi femminili composti dalle Figlie della Lupa (6-8 anni), le Piccole italiane (9-13 anni) e le Giovani Italiane (14-17 anni).
Esterni all'ONB vi erano i movimenti d'età superiore: i Fasci Giovanili di Combattimento e Giovani fasciste (18 a 21 anni) e i Gruppi Universitari Fascisti (GUF – studenti universitari e delle scuole superiori).
Camicia nera, fazzoletto azzurro, pantaloni grigioverde, fascia nera, fez (il tipico copricapo arabo) costituivano la divisa dei Balilla insieme al moschetto, compagno fedele delle esercitazioni (in versione giocattolo per i Figli della Lupa).
A partire dal 1937 l'ONB, insieme ai Fasci Giovanili di Combattimento, confluì nella Gioventù Italiana del Littorio (GIL), passando in questo modo alle dirette dipendenze del partito e richiedendo l'iscrizione obbligatoria a tutti i giovani italiani. Nonostante ciò, le iscrizioni all'Opera Nazionale Balilla non superarono mai il 50% del totale dei giovani.
domenica 12 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 12 febbraio.
Il 12 febbraio 1941 Benito Mussolini incontra, nella villa Regina Margherita a Bordighera, il caudillo Francisco Franco, sperando di convincerlo ad allearsi all'Asse nella guerra contro l'Inghilterra.
Nei mesi immediatamente precedenti l'incontro il 'duce' aveva espresso al re tutta la sua sfiducia sull'utilità del vertice, mentre il ministro degli esteri spagnolo Serrano Suner, conversando ai primi di gennaio con l'ambiasciatore italiano a Madrid Lequio, aveva esplicitamente dichiarato che, allo stato delle cose, la Spagna non sarebbe potuta intervenire nel conflitto in quanto priva assolutamente di mezzi. Fu in questo clima sfiduciato e pessimista che Franco e Serrano Suner partirono da Madrid la sera del 10 febbraio con un convoglio di diciassette automobili, che giunse a Mentone alle 20 del giorno successivo. Durante il tragitto da Mentone a Bordighera, il Caudillo venne festeggiato dalla popolazione, e, una volta giunto nella città delle palme, ricevuto con tutti gli onori da Mussolini presso la Villa Regina Margherita, dove la mattina del 12 febbraio iniziarono i colloqui ufficiali.
Il 'duce', dopo aver informato Franco che Ciano non era potuto essere presente all'incontro in quanto impegnato sul fronte albanese, invitò il Caudillo a recarsi in visita ufficiale a Roma dopo la fine della guerra. Mussolini passò poi ad analizzare dettagliatamente la situazione bellica generale esprimendo la sua personale fiducia nella vittoria finale dell'Asse. Il 'duce' elogiò quindi l'efficienza della macchina militare della Germania e si disse convinto che la Francia non avrebbe costituito un ostacolo per l'avanzata delle forze armate tedesche e italiane. Si disse poi contrario ad ogni ipotesi di pace separata e tentò di giustificare le recenti sconfitte in Africa con il fatto che gli Inglesi avevano potuto beneficiare di una 'sorpresa tattica'. Mussolini fece inoltre presente a Franco la grande importanza strategica di Gibilterra, il cui possesso da parte delle forze dell'Asse avrebbe consentito all'esercito italo-tedesco di passare facilmente in Marocco e di là ribaltare completamente la situazione militare nell'Africa francese. Il 'duce' ricordò poi a Franco che era sua convinzione che, data l'importanza della posta in gioco, solo la Spagna poteva decidere da sola se entrare o meno nel conflitto.
Intervenne quindi nel colloquio il Caudillo che innanzitutto ringraziò Mussolini per l'aiuto fornitogli durante la guerra civile spagnola. Ammise che la Spagna, al momento dello scoppio del conflitto, non era entrata in guerra perché ancora impegnata a risolvere problemi interni. Si disse quindi convinto come la questione più importante da risolvere fosse in quel momento quella del possesso di Gibilterra. La Spagna aveva già appostato diversi cannoni contro la piazzaforte inglese ed era in procinto di intensificare ulteriormente la sua presenza militare nella zona. Franco espresse poi numerose critiche nei confronti di Hitler e del comportamento dei tedeschi verso la Spagna. Disse che il primo problema da risolvere per la Spagna era quello dell'approvvigionamento granario e in genere delle carenze alimentari. Terminato il colloquio mattutino, nel pomeriggio Mussolini e Franco si spostarono a Villa Hanbury, a La Mortola, dove ripresero i colloqui, che si protrassero dalle 18 alle 19.30.
Mussolini chiese nuovamente a Franco se vi fossero le condizioni per un'entrata della Spagna nel conflitto, al che il Caudillo gli rispose che ciò sarebbe dipeso più dalla Germania che dalla Spagna in quanto, tanto prima la Germania sarebbe venuta in aiuto della Spagna, quanto prima quest'ultima avrebbe dato il suo contributo alla causa fascista mondiale. Franco si disse quindi disposto ad entrare in guerra una volta che la Germania avesse esaudito le richieste spagnole. La sera, finito il colloquio, Franco, Serrano Suner e le altre personalità spagnole, parteciparono a un pranzo, offerto loro da Mussolini. Il giorno successivo, dopo il commiato ufficiale a Villa Regina Margherita con Mussolini, Franco, accompagnato dalla sua delegazione, lasciò Bordighera per fare rientro a Madrid.
Tutta la stampa dei paesi alleati dell’Asse diede ampio spazio all’incontro di Bordighera sottolineando con vivo compiacimento la perfetta concordanza della politica italiana e spagnola su tutti i principali problemi europei e su quelli riguardanti i due paesi mediterranei, anche se in verità il vertice fu nei fatti un buco nell'acqua.
Il 12 febbraio 1941 Benito Mussolini incontra, nella villa Regina Margherita a Bordighera, il caudillo Francisco Franco, sperando di convincerlo ad allearsi all'Asse nella guerra contro l'Inghilterra.
Nei mesi immediatamente precedenti l'incontro il 'duce' aveva espresso al re tutta la sua sfiducia sull'utilità del vertice, mentre il ministro degli esteri spagnolo Serrano Suner, conversando ai primi di gennaio con l'ambiasciatore italiano a Madrid Lequio, aveva esplicitamente dichiarato che, allo stato delle cose, la Spagna non sarebbe potuta intervenire nel conflitto in quanto priva assolutamente di mezzi. Fu in questo clima sfiduciato e pessimista che Franco e Serrano Suner partirono da Madrid la sera del 10 febbraio con un convoglio di diciassette automobili, che giunse a Mentone alle 20 del giorno successivo. Durante il tragitto da Mentone a Bordighera, il Caudillo venne festeggiato dalla popolazione, e, una volta giunto nella città delle palme, ricevuto con tutti gli onori da Mussolini presso la Villa Regina Margherita, dove la mattina del 12 febbraio iniziarono i colloqui ufficiali.
Il 'duce', dopo aver informato Franco che Ciano non era potuto essere presente all'incontro in quanto impegnato sul fronte albanese, invitò il Caudillo a recarsi in visita ufficiale a Roma dopo la fine della guerra. Mussolini passò poi ad analizzare dettagliatamente la situazione bellica generale esprimendo la sua personale fiducia nella vittoria finale dell'Asse. Il 'duce' elogiò quindi l'efficienza della macchina militare della Germania e si disse convinto che la Francia non avrebbe costituito un ostacolo per l'avanzata delle forze armate tedesche e italiane. Si disse poi contrario ad ogni ipotesi di pace separata e tentò di giustificare le recenti sconfitte in Africa con il fatto che gli Inglesi avevano potuto beneficiare di una 'sorpresa tattica'. Mussolini fece inoltre presente a Franco la grande importanza strategica di Gibilterra, il cui possesso da parte delle forze dell'Asse avrebbe consentito all'esercito italo-tedesco di passare facilmente in Marocco e di là ribaltare completamente la situazione militare nell'Africa francese. Il 'duce' ricordò poi a Franco che era sua convinzione che, data l'importanza della posta in gioco, solo la Spagna poteva decidere da sola se entrare o meno nel conflitto.
Intervenne quindi nel colloquio il Caudillo che innanzitutto ringraziò Mussolini per l'aiuto fornitogli durante la guerra civile spagnola. Ammise che la Spagna, al momento dello scoppio del conflitto, non era entrata in guerra perché ancora impegnata a risolvere problemi interni. Si disse quindi convinto come la questione più importante da risolvere fosse in quel momento quella del possesso di Gibilterra. La Spagna aveva già appostato diversi cannoni contro la piazzaforte inglese ed era in procinto di intensificare ulteriormente la sua presenza militare nella zona. Franco espresse poi numerose critiche nei confronti di Hitler e del comportamento dei tedeschi verso la Spagna. Disse che il primo problema da risolvere per la Spagna era quello dell'approvvigionamento granario e in genere delle carenze alimentari. Terminato il colloquio mattutino, nel pomeriggio Mussolini e Franco si spostarono a Villa Hanbury, a La Mortola, dove ripresero i colloqui, che si protrassero dalle 18 alle 19.30.
Mussolini chiese nuovamente a Franco se vi fossero le condizioni per un'entrata della Spagna nel conflitto, al che il Caudillo gli rispose che ciò sarebbe dipeso più dalla Germania che dalla Spagna in quanto, tanto prima la Germania sarebbe venuta in aiuto della Spagna, quanto prima quest'ultima avrebbe dato il suo contributo alla causa fascista mondiale. Franco si disse quindi disposto ad entrare in guerra una volta che la Germania avesse esaudito le richieste spagnole. La sera, finito il colloquio, Franco, Serrano Suner e le altre personalità spagnole, parteciparono a un pranzo, offerto loro da Mussolini. Il giorno successivo, dopo il commiato ufficiale a Villa Regina Margherita con Mussolini, Franco, accompagnato dalla sua delegazione, lasciò Bordighera per fare rientro a Madrid.
Tutta la stampa dei paesi alleati dell’Asse diede ampio spazio all’incontro di Bordighera sottolineando con vivo compiacimento la perfetta concordanza della politica italiana e spagnola su tutti i principali problemi europei e su quelli riguardanti i due paesi mediterranei, anche se in verità il vertice fu nei fatti un buco nell'acqua.
mercoledì 16 novembre 2022
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 16 novembre.
Il 16 novembre 1922 Benito Mussolini, dopo la marcia su Roma, fa il suo primo discorso in Parlamento da capo del governo, in quello che è stato definito "il discorso del bivacco".
Quella del fascismo è contemporaneamente la più straordinaria e la più drammatica avventura politica della storia dell'Italia Unita; un'esperienza che, in una situazione di crisi economica e pessimismo sociale, controbilancia, con la violenza e la prevaricazione, il malessere popolare e borghese, facendosi, inoltre, portavoce di un ottuso ed intransigente nazionalismo patriottico e di una maniacale repressione della libertà di pensiero. Esso fu un movimento nato con la volontà di ergersi, come mai prima d'allora era avvenuto, al di sopra dei partiti, al di sopra del Parlamento e al di sopra della legge scritta. La stessa modalità d'ascesa del fascismo fu un'azione violenta e spregiudicata, fatta, prima, a colpi di manganellate e, poi, con una marcia militare su Roma, per la quale il monarca si rifiutò di firmare lo “ stato d'assedio”, quasi a volerne appoggiare gli obiettivi, quasi a voler essere partecipe del potere dispotico ed autoritario che di lì a poco avrebbe invaso il territorio dello stivale. Il tono di Mussolini è prepotentemente antiparlamentare fin dal “ discorso del bivacco” del novembre '22, durante il quale egli si compiace della sua pietas e della sua magnanimità, affermando che, s'avesse voluto farlo, avrebbe facilmente potuto trasformare l'aula “sorda e grigia“ del Parlamento in un accampamento delle squadre d'azione fasciste. Egli vuole salvare l'Italia o vuole ancora, tramite questo minaccioso discorso, accrescere la sua fama di condottiero romano, servendosi del solito populismo? Ma all'onda della crescita dei consensi e della fama internazionale, rafforzandosi ulteriormente in seguito alla grande crisi del '29, il fascismo continua a mietere vittime innocenti, a “spaccare i crani” dei suoi oppositori, a compiacersi di se stesso con una straordinaria propaganda, ad <<apparire>>, in una sola parola, perfetto. Una “apparente perfezione” che, tuttavia, viene meno quando il fiero comandante, non potendo mostrarsi debole agli occhi degli alleati e del popolo, è costretto a combattere, senza armi né speranze, una guerra durissima al fianco del folle dittatore tedesco Adolf Hittler, portando il suo Stato alla rovina e macchiandosi di crimini orribili contro l'umanità intera. Non c'è nessuno scrupolo di coscienza o paura di cadere in pesanti ed esplicite contraddizioni per i fascisti, neppure nell'affermare, il 23 marzo del '29, d'avere intenzione di dare un “compito esclusivamente difensivo” all'esercito e di volere un “disarmo generale”. Se il fascismo è stata una associazione a delinquere, io io sono il capo! Dichiara sprezzante Benito Mussolini, in una storica seduta in Parlamento del '25, assumendosi personalmente “ la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto”, d'un movimento violento e scellerato che armò le mani dei giovani e dei meno giovani, condannandoli a una vita senza senso.
Ecco un estratto del discorso:
"Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.
[...]
Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione.
Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria.
Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo.
Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto."
[...]
A seguito del discorso, il governo Mussolini il 17 novembre ottenne la fiducia dalla Camera dei deputati con 306 voti favorevoli (tra cui De Gasperi, Giolitti e Gronchi), 116 contrari (socialisti, repubblicani e comunisti) e 7 astenuti. Francesco Saverio Nitti abbandonò l'aula in segno di protesta, non riconoscendo la legittimità del governo fascista.
Il 16 novembre 1922 Benito Mussolini, dopo la marcia su Roma, fa il suo primo discorso in Parlamento da capo del governo, in quello che è stato definito "il discorso del bivacco".
Quella del fascismo è contemporaneamente la più straordinaria e la più drammatica avventura politica della storia dell'Italia Unita; un'esperienza che, in una situazione di crisi economica e pessimismo sociale, controbilancia, con la violenza e la prevaricazione, il malessere popolare e borghese, facendosi, inoltre, portavoce di un ottuso ed intransigente nazionalismo patriottico e di una maniacale repressione della libertà di pensiero. Esso fu un movimento nato con la volontà di ergersi, come mai prima d'allora era avvenuto, al di sopra dei partiti, al di sopra del Parlamento e al di sopra della legge scritta. La stessa modalità d'ascesa del fascismo fu un'azione violenta e spregiudicata, fatta, prima, a colpi di manganellate e, poi, con una marcia militare su Roma, per la quale il monarca si rifiutò di firmare lo “ stato d'assedio”, quasi a volerne appoggiare gli obiettivi, quasi a voler essere partecipe del potere dispotico ed autoritario che di lì a poco avrebbe invaso il territorio dello stivale. Il tono di Mussolini è prepotentemente antiparlamentare fin dal “ discorso del bivacco” del novembre '22, durante il quale egli si compiace della sua pietas e della sua magnanimità, affermando che, s'avesse voluto farlo, avrebbe facilmente potuto trasformare l'aula “sorda e grigia“ del Parlamento in un accampamento delle squadre d'azione fasciste. Egli vuole salvare l'Italia o vuole ancora, tramite questo minaccioso discorso, accrescere la sua fama di condottiero romano, servendosi del solito populismo? Ma all'onda della crescita dei consensi e della fama internazionale, rafforzandosi ulteriormente in seguito alla grande crisi del '29, il fascismo continua a mietere vittime innocenti, a “spaccare i crani” dei suoi oppositori, a compiacersi di se stesso con una straordinaria propaganda, ad <<apparire>>, in una sola parola, perfetto. Una “apparente perfezione” che, tuttavia, viene meno quando il fiero comandante, non potendo mostrarsi debole agli occhi degli alleati e del popolo, è costretto a combattere, senza armi né speranze, una guerra durissima al fianco del folle dittatore tedesco Adolf Hittler, portando il suo Stato alla rovina e macchiandosi di crimini orribili contro l'umanità intera. Non c'è nessuno scrupolo di coscienza o paura di cadere in pesanti ed esplicite contraddizioni per i fascisti, neppure nell'affermare, il 23 marzo del '29, d'avere intenzione di dare un “compito esclusivamente difensivo” all'esercito e di volere un “disarmo generale”. Se il fascismo è stata una associazione a delinquere, io io sono il capo! Dichiara sprezzante Benito Mussolini, in una storica seduta in Parlamento del '25, assumendosi personalmente “ la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto”, d'un movimento violento e scellerato che armò le mani dei giovani e dei meno giovani, condannandoli a una vita senza senso.
Ecco un estratto del discorso:
"Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.
[...]
Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere», inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione.
Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria.
Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo.
Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto."
[...]
A seguito del discorso, il governo Mussolini il 17 novembre ottenne la fiducia dalla Camera dei deputati con 306 voti favorevoli (tra cui De Gasperi, Giolitti e Gronchi), 116 contrari (socialisti, repubblicani e comunisti) e 7 astenuti. Francesco Saverio Nitti abbandonò l'aula in segno di protesta, non riconoscendo la legittimità del governo fascista.
martedì 19 luglio 2022
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 luglio.
La mattina del 19 luglio 1943 più di 521 bombardieri americani attaccarono la città di Roma per la prima volta dall’inizio della Seconda guerra mondiale. I bersagli furono lo scalo ferroviario Littorio, a nord di Roma e l’aeroporto di Ciampino. Vennero sganciate più di mille tonnellate di bombe. Circa tremila civili vennero uccisi e almeno diecimila feriti. Nonostante il bombardamento si fosse svolto in pieno giorno e a una quota relativamente bassa, 3 mila metri, nemmeno un aereo americano venne abbattuto.
Poco dopo il bombardamento il Papa Pio XII, insieme al sostituto Segretario di Stato, Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, raggiunse la basilica di San Lorenzo fuori le mura, che era stata molto danneggiata. Il Papa benedisse le vittime del bombardamento e distribuì del denaro ai superstiti. Nel piazzale del Verano si ammassò una grande folla per accoglierlo. Poche ore prima, il re Vittorio Emanuele III era stato contestato visitando lo stesso quartiere.
Benito Mussolini, duce e dittatore dell’Italia in guerra contro gli americani e i loro alleati, non era a Roma durante il bombardamento. Si trovava a Feltre, in provincia di Belluno, per un colloquio con l’alleato tedesco Adolf Hitler per discutere le misure da prendere per rispondere allo sbarco degli alleati in Sicilia, avvenuto poche settimane prima. Secondo i testimoni, quando gli venne riferita la notizia la preoccupazione principale di Mussolini fu assicurarsi che la notizia venisse pubblicata nel bollettino di guerra del 19 luglio, in modo che il mondo sapesse il prima possibile che gli alleati avevano attaccato Roma.
Il bombardamento del 19 luglio fu la prima volta in cui Roma venne bombardata: fino alla sua liberazione, il 4 luglio del 1944, sarebbe successo altre 50 volte. Si trattò di un attacco “di precisione”, come veniva chiamato all’epoca. In altre parole, il bersaglio dell’attacco erano alcuni specifici obiettivi militari – l’aeroporto di Ciampino e gli scali ferroviari di San Lorenzo e Littorio. Per questo fu necessario compiere l’attacco di giorno, in modo che gli aerei potessero identificare i bersagli.
Ma la tecnologia del bombardamento nel 1943 non era molto precisa e il bombardamento di precisione non aveva effetti molto diversi da quello a tappeto – quello che di solito praticavano gli inglesi sulla Germania e che aveva come obiettivo intere città, con lo scopo di piegare il morale della popolazione. Gli aerei americani non avevano missili, ma soltanto bombe a caduta libera e foglietti di carta per provare a calcolare dove sarebbero cadute tenendo conto della velocità del vento e di quella dell’aereo. Circa una bomba su dieci arrivò sugli obiettivi.
Quello su Roma fu un bombardamento massiccio e tragico, ma breve: soltanto due sortite vennero compiute il 19 luglio. Pochi giorni dopo l’attacco di Roma, ad esempio, l’aviazione inglese bombardò Amburgo diverse volte al giorno per un’intera settimana. All’attacco parteciparono circa 3 mila aerei e in tutto vennero sganciate 9 mila tonnellate di bombe. Non fu un bombardamento di precisione, ma un attacco mirato a distruggere la città. Morirono più di 40 mila persone.
Quando nel 1942 gli aerei alleati iniziarono a bombardare l’Italia in maniera sistematica, Mussolini aveva promesso più volte che Roma non sarebbe mai stata bombardata. In molti si erano quindi rifugiati in città per allontanarsi dalle altre aeree attaccate, come Torino, Genova, La Spezia, il passo del Brennero. Anche il Papa si era impegnato per evitare che Roma venisse bombardata e con lo sbarco in Sicilia del 10 luglio sembrava che fosse possibile riuscire a far risparmiare la città. Nell’incontro di Feltre, uno degli obiettivi di Mussolini era proprio cercare una via per sganciarsi dall’alleanza con Hitler, però non riuscì praticamente a parlare e subì in silenzio un lungo monologo di Hitler.
La battaglia per la Sicilia si era rivelato molto più difficile del previsto per gli alleati. Alla fine, dopo i primi giorni di combattimenti e dopo molte pressioni inglesi (aerei italiani avevano bombardato Londra nel 1940), gli americani decisero l’attacco aereo. L’obiettivo erano i nodi ferroviari di Roma che una volta distrutti avrebbero interrotto il flusso di rifornimenti che arrivava alle truppe a difesa della Sicilia.
L’effetto militare del bombardamento è dubbio, mentre ebbe un forte effetto politico. Dopo il bombardamento i principali leader del Partito Fascista, tra molte incertezze, votarono la sfiducia a Mussolini nella celebre riunione del Gran Consiglio del 24 luglio. Il giorno dopo, il Re approfittò per farlo arrestare. Passò poco più di un mese e l’Italia firmò l’armistizio con gli americani e i loro alleati.
sabato 18 dicembre 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il il 18 dicembre.
Il 18 dicembre 1932 Benito Mussolini inaugura ufficialmente la neonata città di Littoria, da lui stesso fortemente voluta, con il discorso nel quale vi era il famoso passaggio "E' l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende".
La città di Littoria, oggi Latina, costituiva, unitamente alle cittadine di Pomezia, Sabaudia, Aprilia, Pontinia, quella fascia che veniva denominata delle città del grano, e che venne realizzata intorno a Roma sotto il fascismo.
Nei fatti Littoria nasce molto prima della sua inaugurazione ufficiale, avvenuta il 18 dicembre 1932 alla presenza del capo dello stato Benito Mussolini.
Sin dal 1928, recuperando studi ed istanze precedenti, era stata varata la legge , redatta da Arrigo Serpieri, per la bonifica integrale dell'agro romano. Fu così possibile recuperare le ingenti risorse finanziarie occorrenti per portare a buon fine l'impresa.
Dopo una prima fase di bonifica idraulica si procedette al primo decreto di esproprio che attribuiva all'opera nazionale combattenti molti ettari di terreno. Sistemati i terreni si provvide all'appoderamento della pianura con la creazione di fabbricati colonici. Con logica gerarchica tali fabbricati gravitavano su piccoli borghi che, a loro volta, facevano capo alle piccole cittadine dell'agro appositamente costruite. Nell'aprile del 1932 fu lo stesso Mussolini a decidere la nascita della cittadina di Littoria. La redazione del piano regolatore generale, e della quasi totalità degli edifici più rappresentativi, fu affidata ad un giovane architetto di quarantaquattro anni, Oriolo Frezzotti, su incarico dell'O.N.C. .
Il nucleo storico della cittadina era costituito dalla piazza del Littorio con il Municipio, l'albergo Littoria ed un cinema oggi distrutto. Successivamente vennero anche edificati il Palazzo delle Poste (originale edificio dovuto all'architetto futurista A. Mazzoni), una chiesa e, nel 1936, il Palazzo di Giustizia e l'ospedale.
L'architetto romano Frezzotti sviluppò, in sostanza, un modello radiocentrico, in cui la nuova cittadina costituiva un polo di servizio per le originarie 512 case coloniche edificate.
Le nuove città dell'agro pontino nascono, fondamentalmente, dalle stesse istanze che portarono, alla fine degli anni quaranta, alla creazione delle new towns inglesi, le quali hanno goduto e godono di maggiore ed ingiustificata fortuna critica.
Entrambi i tentativi, pur nelle diverse realtà e concezioni, nascevano dal tentativo di controllare i forti flussi migratori verso le grandi città. L'esperienza italiana non si limitò al solo intervento nell'agro romano, ma costituì anche una originale risposta urbanistica in parte messa in opera in altre zone del territorio nazionale (si pensi ad esempio al borgo di Fertilia cittadina edificata in prossimità di Alghero in Sardegna).
Negli anni '60 e '70, Latina visse il mito dello sviluppo industriale. Oggi l'Amministrazione Comunale, anche attraverso la stesura di un nuovo P.R.G., sta cercando di recuperare un passato dignitoso e di mettere fine a quel disordine edilizio che ha caratterizzato l'attività costruttiva del dopoguerra.
Il 18 dicembre 1932 Benito Mussolini inaugura ufficialmente la neonata città di Littoria, da lui stesso fortemente voluta, con il discorso nel quale vi era il famoso passaggio "E' l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende".
La città di Littoria, oggi Latina, costituiva, unitamente alle cittadine di Pomezia, Sabaudia, Aprilia, Pontinia, quella fascia che veniva denominata delle città del grano, e che venne realizzata intorno a Roma sotto il fascismo.
Nei fatti Littoria nasce molto prima della sua inaugurazione ufficiale, avvenuta il 18 dicembre 1932 alla presenza del capo dello stato Benito Mussolini.
Sin dal 1928, recuperando studi ed istanze precedenti, era stata varata la legge , redatta da Arrigo Serpieri, per la bonifica integrale dell'agro romano. Fu così possibile recuperare le ingenti risorse finanziarie occorrenti per portare a buon fine l'impresa.
Dopo una prima fase di bonifica idraulica si procedette al primo decreto di esproprio che attribuiva all'opera nazionale combattenti molti ettari di terreno. Sistemati i terreni si provvide all'appoderamento della pianura con la creazione di fabbricati colonici. Con logica gerarchica tali fabbricati gravitavano su piccoli borghi che, a loro volta, facevano capo alle piccole cittadine dell'agro appositamente costruite. Nell'aprile del 1932 fu lo stesso Mussolini a decidere la nascita della cittadina di Littoria. La redazione del piano regolatore generale, e della quasi totalità degli edifici più rappresentativi, fu affidata ad un giovane architetto di quarantaquattro anni, Oriolo Frezzotti, su incarico dell'O.N.C. .
Il nucleo storico della cittadina era costituito dalla piazza del Littorio con il Municipio, l'albergo Littoria ed un cinema oggi distrutto. Successivamente vennero anche edificati il Palazzo delle Poste (originale edificio dovuto all'architetto futurista A. Mazzoni), una chiesa e, nel 1936, il Palazzo di Giustizia e l'ospedale.
L'architetto romano Frezzotti sviluppò, in sostanza, un modello radiocentrico, in cui la nuova cittadina costituiva un polo di servizio per le originarie 512 case coloniche edificate.
Le nuove città dell'agro pontino nascono, fondamentalmente, dalle stesse istanze che portarono, alla fine degli anni quaranta, alla creazione delle new towns inglesi, le quali hanno goduto e godono di maggiore ed ingiustificata fortuna critica.
Entrambi i tentativi, pur nelle diverse realtà e concezioni, nascevano dal tentativo di controllare i forti flussi migratori verso le grandi città. L'esperienza italiana non si limitò al solo intervento nell'agro romano, ma costituì anche una originale risposta urbanistica in parte messa in opera in altre zone del territorio nazionale (si pensi ad esempio al borgo di Fertilia cittadina edificata in prossimità di Alghero in Sardegna).
Negli anni '60 e '70, Latina visse il mito dello sviluppo industriale. Oggi l'Amministrazione Comunale, anche attraverso la stesura di un nuovo P.R.G., sta cercando di recuperare un passato dignitoso e di mettere fine a quel disordine edilizio che ha caratterizzato l'attività costruttiva del dopoguerra.
lunedì 14 giugno 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 14 giugno.
Il 14 giugno 1934 Hitler e Mussolini si incontrano per la prima volta.
Fu Venezia lo scenario in cui ebbe luogo, dal 14 al 16 giugno del 34, il primo incontro tra Mussolini e Hitler. Per quest'ultimo fu la prima occasione di effettuare un viaggio all'estero in veste di capo di Stato.
Per espressa volontà di Mussolini furono ostentati sfarzo e lusso e la visita, più volte rimandata dal duce che continuava a considerare il cancelliere un sobillatore, si concluse con un successo personale e politico del capo del Governo italiano.
Davanti ai due argomenti cardine dell'incontro (la questione austriaca e il problema del riarmo della Germania) Mussolini e Hitler rimasero sostanzialmente sulle proprie posizioni.
Oltre a ricostruire la visita di Stato, primo contatto della società italiana con il nazismo e il suo capo, è interessante porre l'attenzione sul ruolo di Venezia in occasione di questo evento.
La visita fu uno spettacolo in cui Mussolini ricoprì il ruolo di primo attore e mise in ombra il suo ospite. La scenografia, e non le questioni strettamente politiche, fu l'interesse principale di Mussolini e, infatti, l'ospite tedesco ne rimase fortemente colpito. La scelta di Venezia, come le tappe dell'incontro, non fu casuale: nella villa Pisani di Stra, dove era stato Napoleone, vi soggiornava ora il "nuovo" imperatore Mussolini che decise di tenere lì il primo dei due colloqui con il cancelliere.
La città lagunare fu un perfetto palcoscenico per mostrare agli occhi di un visitatore esterno la grandezza dell'Italia. Il regime, per mezzo di Venezia, dava di sé un'immagine cosmopolita e poteva presentarsi come una grande potenza culturale. Venezia coniugava in sé il passato e il futuro: accanto all'arte e alla tradizione rinascimentale e barocca si stagliavano l'industria e la modernizzazione, impersonata da figure imprenditoriali e politiche come Volpi, Gaggia, Cini, Giuriati e rappresentata dal nascente Porto Marghera, dalla Mostra del Cinema, dalla Biennale dell'Arte, dal ponte translagunare automobilistico e piazzale Roma, dal ponte all'Accademia e degli Scalzi.
La città era quindi perfetta espressione della politica del regime e ottimo strumento di propaganda delle sue realizzazioni; al contempo era specchio di quel regime che voleva coniugare in ogni campo la tradizione con la modernità, il vecchio con il nuovo.
Il 14 giugno 1934 Hitler e Mussolini si incontrano per la prima volta.
Fu Venezia lo scenario in cui ebbe luogo, dal 14 al 16 giugno del 34, il primo incontro tra Mussolini e Hitler. Per quest'ultimo fu la prima occasione di effettuare un viaggio all'estero in veste di capo di Stato.
Per espressa volontà di Mussolini furono ostentati sfarzo e lusso e la visita, più volte rimandata dal duce che continuava a considerare il cancelliere un sobillatore, si concluse con un successo personale e politico del capo del Governo italiano.
Davanti ai due argomenti cardine dell'incontro (la questione austriaca e il problema del riarmo della Germania) Mussolini e Hitler rimasero sostanzialmente sulle proprie posizioni.
Oltre a ricostruire la visita di Stato, primo contatto della società italiana con il nazismo e il suo capo, è interessante porre l'attenzione sul ruolo di Venezia in occasione di questo evento.
La visita fu uno spettacolo in cui Mussolini ricoprì il ruolo di primo attore e mise in ombra il suo ospite. La scenografia, e non le questioni strettamente politiche, fu l'interesse principale di Mussolini e, infatti, l'ospite tedesco ne rimase fortemente colpito. La scelta di Venezia, come le tappe dell'incontro, non fu casuale: nella villa Pisani di Stra, dove era stato Napoleone, vi soggiornava ora il "nuovo" imperatore Mussolini che decise di tenere lì il primo dei due colloqui con il cancelliere.
La città lagunare fu un perfetto palcoscenico per mostrare agli occhi di un visitatore esterno la grandezza dell'Italia. Il regime, per mezzo di Venezia, dava di sé un'immagine cosmopolita e poteva presentarsi come una grande potenza culturale. Venezia coniugava in sé il passato e il futuro: accanto all'arte e alla tradizione rinascimentale e barocca si stagliavano l'industria e la modernizzazione, impersonata da figure imprenditoriali e politiche come Volpi, Gaggia, Cini, Giuriati e rappresentata dal nascente Porto Marghera, dalla Mostra del Cinema, dalla Biennale dell'Arte, dal ponte translagunare automobilistico e piazzale Roma, dal ponte all'Accademia e degli Scalzi.
La città era quindi perfetta espressione della politica del regime e ottimo strumento di propaganda delle sue realizzazioni; al contempo era specchio di quel regime che voleva coniugare in ogni campo la tradizione con la modernità, il vecchio con il nuovo.
sabato 22 maggio 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 maggio.
Il 22 maggio 1937 iniziano i lavori per la costruzione dell'E42, il quartiere di Roma che voleva celebrare il ventennale del fascismo nel 1942.
Le origini del quartiere Eur sono imputabili all'Esposizione Universale. L'idea dell'Esposizione nasce nel 1935, durante il regime fascista, quando il governatore di Roma Giuseppe Bottai espone a Mussolini il suo progetto di una esposizione universale in cui possa essere rappresentata ed esaltata la civiltà italiana. A Mussolini l'idea piacque e decise di programmarla per l'anno 1942, in concomitanza con il ventennale del fascismo.
La prima fase per la preparazione dell'evento fu quella di scegliere un'area da adibire all'Esposizione. Inizialmente furono prese in considerazione tre zone: l'area delle Tre Fontane, la Magliana e Ostia. La Magliana fu quasi subito scartata a causa dell'umidità e delle piene del Tevere; in seguito fu scartata anche Ostia a causa delle spese eccessive per realizzare un settore marino dell'Esposizione. La scelta finale ricadde, dunque, sull'area delle Tre Fontane e venne ufficializzata il 15 dicembre del 1936.
La nuova zona aveva l'obiettivo di costituire un allargamento della città verso il mare, seguendo la direzione della Via Imperiale (oggi Via Cristoforo Colombo) e doveva avere un'impronta fascista. L'imponenza e l'architettura dei palazzi, infatti, si rifa ai fasti dell'antico Impero Romano.
Nel gennaio del 1937 fu istituito un Ente autonomo per progettare la nuova area e l'incarico venne affidato agli architetti Pagano, Piacentini, Piccinato, Rossi e Vietti.
I lavori procedettero molto spediti e già nell'aprile dello stesso anno il progetto era pronto: la zona occupava 400 ettari e prevedeva la costruzione di padiglioni e strutture permanenti. Due aspetti erano estremamente curati: la scenografia e le aree verdi.
Il 26 giugno del 1937 il Commissario generale dell'Ente E42, Vittorio Cini, mostra a Mussolini alcune foto con vedute aeree della zona individuata per l'Esposizione. Nell'area si trovavano alcune baracche di famiglie povere e, per procedere allo sgombero e alla costruzione di nuove abitazioni per accogliere gli sfollati, passarono circa due anni.
Il progetto definitivo fu pronto, quindi, solo nel 1939 ma ormai era scoppiata la guerra, i lavori subirono forti rallentamenti e, nel 1942, anno in cui avrebbe dovuto tenersi L'Esposizione Universale, furono definitivamente interrotti.
Dopo l'istituzione dell'Ente E42 ci si aspettava un rapido sviluppo del progetto e della sua realizzazione, ma in realtà i lavori subirono rallentamenti soprattutto a causa di polemiche e discordie tra gli addetti ai lavori. L'unica cosa su cui concordavano tutti era l'idea di costruire una città autonoma e indipendente che non fosse dedicata esclusivamente all'Esposizione Universale, ma che potesse durare nel tempo.
Nel frattempo l'architetto Piacentini aveva preso il sopravvento sugli altri e si dedicò a delineare quelle che dovevano essere le linee guida del progetto: ampi spazi verdi e imponenti effetti scenografici. L'idea era quella di costruire una città del futuro coniugando modernità e architettura classica dell'Impero Romano, e fu realizzata grazie alla creazione di ampi spazi, all'uso massiccio di marmi, vetri e fontane. L'esempio più indicativo di tutto ciò è oggi visibile nell'area intorno a Piazza Marconi (allora Piazza Imperiale).
Il progetto di Piacentini fu firmato anche dagli altri architetti e fu approvato da Mussolini l'8 aprile del 1937. Nell'occasione venne effettuato un sopralluogo e la piantagione simbolica dei pini.
Alla fine del 1937 l'architetto Piacentini scrisse al vice Presidente dell'E42, Vittorio Cini, e con una lettera del 6 dicembre chiese di diventare capo del Servizio Architettura. La risposta di Cini fu celere e il 13 dicembre Piacentini fu nominato Sovrintendente ai Servizi dell'Architettura. Da quel momento il gruppo si sciolse definitivamente e agli altri quattro architetti vennero assegnati compiti molto marginali.
L'attività dell'Ente E42 comunque procedette spedita, ma le polemiche, soprattutto da parte di riviste specializzate, furono numerose. In questi anni, infatti, furono progettati e iniziati i lavori per alcune delle costruzioni che ancora oggi sono considerati i simboli rappresentativi dell'Eur: il Palazzo della Civiltà Italiana, il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, la Piazza Imperiale con l'Obelisco dedicato a Marconi, la Basilica di SS Pietro e Paolo e il laghetto.
Dopo la fine della guerra la situazione all'Eur era disastrosa: solo pochi palazzi del progetto dell'E42 erano rimasti in piedi e, anche per il fatto che erano riconducibil a un'epoca, quella fascista, che si voleva decisamente dimenticare, si pensò di raderli al suolo. Questa operazione non fu eseguita e i palazzi sono rimasti in piedi ancora oggi.
Nei primi anni si cercò innanzitutto di riqualificare la zona; nel 1951 si decise di cambiare il nome che diventò Eur (sia perché sigla di Esposizione Universale Roma, sia per dare una dimensione europea). Viene nominato quale Commissario Straordinario dell'Ente Virgilio Testa che volle subito riconvertire il quartiere in zona residenziale e amministrativa.
Nel 1952 venne realizzato un piano per costruire nuovi edifici, piano che venne rielaborato nel 1954 in vista dei Giochi Olimpici del 1960.
Nel 1953 venne trasferita la Fiera di Roma da Piazzale Clodio all'Eur, venne allestita la Mostra dell'Agricoltura e, per l'occasione, venne inaugurato il tratto della metropolitana tra la Stazione Ostiense e la Magliana (linea che sarà completata due anni dopo).
Il progetto per la riqualificazione dell'area è stato probabilmente realizzato da Piacentini, aiutato dal suo collaboratore Giorgio Calza Bini. In quegli anni furono costruiti nuovi palazzi dall'aspetto moderno con infissi e vetri scuri (gli esempi più evidenti sono il Palazzo dell'Eni, progettato dagli architetti Bacilugo, Finzi, Nova e Ratti, e il Palazzo della Confindustria. Per i Giochi Olimpici furono realizzate tre opere molto importanti: il Velodromo (progettato da Ligini, Ortensi e Ricci), il Fungo (serbatoio di acqua) e il Palazzo dello Sport (progettato da Nervi e Piacentini).
Al termine dei Giochi Olimpici ci fu una sorta di decadimento di interesse per l'Eur, ma intorno agli anni '80 la situazione cambiò di nuovo e ripresero le attività, ancora oggi in corso, per affermare sempre più l'Eur come centro congressuale e amministrativo.
Il 22 maggio 1937 iniziano i lavori per la costruzione dell'E42, il quartiere di Roma che voleva celebrare il ventennale del fascismo nel 1942.
Le origini del quartiere Eur sono imputabili all'Esposizione Universale. L'idea dell'Esposizione nasce nel 1935, durante il regime fascista, quando il governatore di Roma Giuseppe Bottai espone a Mussolini il suo progetto di una esposizione universale in cui possa essere rappresentata ed esaltata la civiltà italiana. A Mussolini l'idea piacque e decise di programmarla per l'anno 1942, in concomitanza con il ventennale del fascismo.
La prima fase per la preparazione dell'evento fu quella di scegliere un'area da adibire all'Esposizione. Inizialmente furono prese in considerazione tre zone: l'area delle Tre Fontane, la Magliana e Ostia. La Magliana fu quasi subito scartata a causa dell'umidità e delle piene del Tevere; in seguito fu scartata anche Ostia a causa delle spese eccessive per realizzare un settore marino dell'Esposizione. La scelta finale ricadde, dunque, sull'area delle Tre Fontane e venne ufficializzata il 15 dicembre del 1936.
La nuova zona aveva l'obiettivo di costituire un allargamento della città verso il mare, seguendo la direzione della Via Imperiale (oggi Via Cristoforo Colombo) e doveva avere un'impronta fascista. L'imponenza e l'architettura dei palazzi, infatti, si rifa ai fasti dell'antico Impero Romano.
Nel gennaio del 1937 fu istituito un Ente autonomo per progettare la nuova area e l'incarico venne affidato agli architetti Pagano, Piacentini, Piccinato, Rossi e Vietti.
I lavori procedettero molto spediti e già nell'aprile dello stesso anno il progetto era pronto: la zona occupava 400 ettari e prevedeva la costruzione di padiglioni e strutture permanenti. Due aspetti erano estremamente curati: la scenografia e le aree verdi.
Il 26 giugno del 1937 il Commissario generale dell'Ente E42, Vittorio Cini, mostra a Mussolini alcune foto con vedute aeree della zona individuata per l'Esposizione. Nell'area si trovavano alcune baracche di famiglie povere e, per procedere allo sgombero e alla costruzione di nuove abitazioni per accogliere gli sfollati, passarono circa due anni.
Il progetto definitivo fu pronto, quindi, solo nel 1939 ma ormai era scoppiata la guerra, i lavori subirono forti rallentamenti e, nel 1942, anno in cui avrebbe dovuto tenersi L'Esposizione Universale, furono definitivamente interrotti.
Dopo l'istituzione dell'Ente E42 ci si aspettava un rapido sviluppo del progetto e della sua realizzazione, ma in realtà i lavori subirono rallentamenti soprattutto a causa di polemiche e discordie tra gli addetti ai lavori. L'unica cosa su cui concordavano tutti era l'idea di costruire una città autonoma e indipendente che non fosse dedicata esclusivamente all'Esposizione Universale, ma che potesse durare nel tempo.
Nel frattempo l'architetto Piacentini aveva preso il sopravvento sugli altri e si dedicò a delineare quelle che dovevano essere le linee guida del progetto: ampi spazi verdi e imponenti effetti scenografici. L'idea era quella di costruire una città del futuro coniugando modernità e architettura classica dell'Impero Romano, e fu realizzata grazie alla creazione di ampi spazi, all'uso massiccio di marmi, vetri e fontane. L'esempio più indicativo di tutto ciò è oggi visibile nell'area intorno a Piazza Marconi (allora Piazza Imperiale).
Il progetto di Piacentini fu firmato anche dagli altri architetti e fu approvato da Mussolini l'8 aprile del 1937. Nell'occasione venne effettuato un sopralluogo e la piantagione simbolica dei pini.
Alla fine del 1937 l'architetto Piacentini scrisse al vice Presidente dell'E42, Vittorio Cini, e con una lettera del 6 dicembre chiese di diventare capo del Servizio Architettura. La risposta di Cini fu celere e il 13 dicembre Piacentini fu nominato Sovrintendente ai Servizi dell'Architettura. Da quel momento il gruppo si sciolse definitivamente e agli altri quattro architetti vennero assegnati compiti molto marginali.
L'attività dell'Ente E42 comunque procedette spedita, ma le polemiche, soprattutto da parte di riviste specializzate, furono numerose. In questi anni, infatti, furono progettati e iniziati i lavori per alcune delle costruzioni che ancora oggi sono considerati i simboli rappresentativi dell'Eur: il Palazzo della Civiltà Italiana, il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, la Piazza Imperiale con l'Obelisco dedicato a Marconi, la Basilica di SS Pietro e Paolo e il laghetto.
Dopo la fine della guerra la situazione all'Eur era disastrosa: solo pochi palazzi del progetto dell'E42 erano rimasti in piedi e, anche per il fatto che erano riconducibil a un'epoca, quella fascista, che si voleva decisamente dimenticare, si pensò di raderli al suolo. Questa operazione non fu eseguita e i palazzi sono rimasti in piedi ancora oggi.
Nei primi anni si cercò innanzitutto di riqualificare la zona; nel 1951 si decise di cambiare il nome che diventò Eur (sia perché sigla di Esposizione Universale Roma, sia per dare una dimensione europea). Viene nominato quale Commissario Straordinario dell'Ente Virgilio Testa che volle subito riconvertire il quartiere in zona residenziale e amministrativa.
Nel 1952 venne realizzato un piano per costruire nuovi edifici, piano che venne rielaborato nel 1954 in vista dei Giochi Olimpici del 1960.
Nel 1953 venne trasferita la Fiera di Roma da Piazzale Clodio all'Eur, venne allestita la Mostra dell'Agricoltura e, per l'occasione, venne inaugurato il tratto della metropolitana tra la Stazione Ostiense e la Magliana (linea che sarà completata due anni dopo).
Il progetto per la riqualificazione dell'area è stato probabilmente realizzato da Piacentini, aiutato dal suo collaboratore Giorgio Calza Bini. In quegli anni furono costruiti nuovi palazzi dall'aspetto moderno con infissi e vetri scuri (gli esempi più evidenti sono il Palazzo dell'Eni, progettato dagli architetti Bacilugo, Finzi, Nova e Ratti, e il Palazzo della Confindustria. Per i Giochi Olimpici furono realizzate tre opere molto importanti: il Velodromo (progettato da Ligini, Ortensi e Ricci), il Fungo (serbatoio di acqua) e il Palazzo dello Sport (progettato da Nervi e Piacentini).
Al termine dei Giochi Olimpici ci fu una sorta di decadimento di interesse per l'Eur, ma intorno agli anni '80 la situazione cambiò di nuovo e ripresero le attività, ancora oggi in corso, per affermare sempre più l'Eur come centro congressuale e amministrativo.
mercoledì 28 aprile 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 aprile.
Il 28 aprile 1945 Benito Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati nei pressi di Dongo, dopo che il tentativo di fuga verso la Germania era stato sventato.
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana, dopo aver rifiutato una proposta di resa offertagli dai rappresentanti del C.L.N. con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, la sera del 25 aprile Mussolini lascia Milano e parte in direzione del lago di Como, verso la frontiera con la Svizzera. I motivi di tale scelta, a quanto sembra, furono il tentativo di raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane alcuni gerarchi fascisti prospettavano di costituire un estremo baluardo di resistenza, oppure tentare di entrare nella neutrale Svizzera ed avviare da lì trattative con diplomatici americani. La notte raggiunge la prefettura di Como e si ferma lì fino all'indomani.
Il pomeriggio del 26 aprile riparte, scortato da alcuni gerarchi fascisti, dall'amante Claretta Petacci che l'aveva raggiunto nel frattempo e da un gruppo di nazisti che avevano ricevuto l'ordine da Hitler di scortare verso la Germania il Duce (o sorvegliarlo, onde evitare che tentasse la fuga in Svizzera?). Dopo essersi spostato nel piccolo paese di Grandola ed Uniti, esattamente nella frazione di Cardano, Mussolini alloggia per la notte presso l'Hotel Miramare (cosi indicato sulle cartine militari dell'epoca, identificato localmente come "Hotel Miravalle"). Questo Hotel era sito a pochi metri di distanza dal campo di Golf di Menaggio frequentato da persone vicine agli Angloamericani, in prossimita della stazione ferroviaria di Cardano, linea Menaggio-Porlezza (attualmente non più in uso). La Zona fortificata come ultimo fronte fin già dal 1915 (ancora individuabile dalle costruzioni presenti), è nei pressi della frontiera; era ben conosciuta anche per alcuni studi topografici fatti nel periodo fascista per il possibile sfruttamento minerario, ed inoltre per la vicinanza con il confine. Appare incredibile che Mussolini non abbia tentato di passare il confine in quelle zone, per evitare di essere fermato da qualche posto di blocco (i partigiani della zona era molto presenti sul lago di Como, poco verso quel confine che era zona franca di contrabbando di spalloni, i quali avevano facile accesso alla Svizzera). Ciò che forse lo fermò, è che non sapeva che le truppe Svizzere presenti sin a qualche giorno prima sul confine erano state spostate presso la frontiera di Chiasso, per impedire lo sbando dei militari tedeschi in ritirata.
La mattina del 27 aprile il Duce (non riuscendo o non volendo distaccarsi dai tedeschi), insieme ai gerarchi fascisti con famiglie al seguito, ritorna verso il lungolago a Menaggio e si aggrega ad una colonna di tedeschi in ritirata verso il nord per tentare di passare il confine verso i Grigioni, frontiera più disponibile e meno difesa dagli Svizzeri. Il convoglio prosegue fino a Musso. Lì viene fermato dai partigiani, che iniziarono a trattare coi tedeschi riguardo al permesso di poter proseguire e giungono al seguente accordo: i tedeschi possono proseguire per alcuni chilometri fino al prossimo posto di blocco partigiano, ma i fascisti saranno arrestati subito. Il Duce, su consiglio di un ufficiale tedesco, si traveste con un'uniforme nazista e sale su uno dei camion dei soldati tedeschi. Gli altri gerarchi fascisti vengono quasi tutti arrestati ed il giorno seguente fucilati sul lungolago. Gli autocarri tedeschi (con a bordo il Duce) proseguono, ma giunti al successivo posto di blocco viene fatto un controllo e Mussolini viene riconosciuto da un partigiano, (soprannominato Bill) e immediatamente arrestato. Viene portato via sotto scorta armata e viene piantonato da due giovani partigiani presso una famiglia di antifascisti (casa De Maria) a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, dove nel frattempo viene portata anche Claretta, che aveva espresso il desiderio di poter condividere la prigionia con lui.
Fin qui l'esigua traccia certa. In seguito si innestano invece diverse altre ricostruzioni che non solo sono fra loro in qualche punto contrastanti, ma che nemmeno furono sempre narrate, nel tempo, allo stesso modo.
Da qui prelevati, secondo la versione ufficiale, poi cambiata almeno quattro volte dallo stesso colonnello Valerio (nome di battaglia del partigiano Walter Audisio), poco dopo le ore 16 del 28 aprile Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati a Giulino di Mezzegra. Eseguite le condanne degli altri gerarchi a Dongo, il 29 aprile i cadaveri sono trasportati a Milano ed esposti in piazzale Loreto. La folla - memore della strage lì perpetrata dei nazifascisti il 10 agosto del 1944, quando 15 partigiani erano stati fucilati ed esposti al pubblico - subito si accanisce contro i corpi. Per evitare lo scempio, i cadaveri vengono issati a testa in giù e appesi alla pensilina di un distributore di benzina.
Permangono dubbi sui materiali esecutori della condanna a morte, sulle reali motivazioni, sui passaggi di consegne dal luogo della cattura sul camion tedesco fino a piazzale Loreto, sugli eventuali rapporti con inviati di potenze straniere; la quantità di dubbi è tale da inficiare conseguentemente l'attendibilità anche dei riferiti dettagli tecnici e pratici, ad esempio luoghi e persone.
Walter Audisio (conosciuto sia col nome di battaglia di colonnello Valerio che colonnello Giovanbattista Magnoli) era al tempo capo di un raggruppamento delle forze partigiane con funzioni di polizia. La sua figura emerse, direttamente con riferimento a questi fatti, negli anni '60, quando il quotidiano "L'Unità" (organo del PCI, per il quale Audisio fu poi deputato) diede notizia del suo coinvolgimento. Metà della notizia non era in verità nuovissima, essendo il nome del colonnello Valerio già circolato nell'immediato, ciò malgrado non se ne conosceva l'identità e l'Audisio non aveva mai dato modo di parlare di sé, solo essendo noto in qualche ambiente di militanza; tutti "sapevano" che Mussolini era stato fucilato dal colonnello Valerio, ma nessuno avrebbe detto che si trattasse di Audisio. Identificandosi con quel Valerio, Audisio sostenne, non senza qualche contraddizione fra le sue stesse versioni, di essere in pratica il responsabile e l'autore materiale della fucilazione di Mussolini.
Nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, affermò, ricevette dal generale Raffaele Cadorna l'ordine di uccidere Mussolini. Si trattava comunque di un ordine che contraddiceva le clausole dell'armistizio di Cassibile e gli accordi sottoscritti dal CLNAI, secondo i quali Mussolini doveva essere consegnato vivo agli Alleati. Secondo alcuni storici parte delle forze partigiane temevano che una volta consegnato agli alleati sarebbe stato rimesso al potere nell'arco di qualche anno, da qui la decisione di non rispettare gli accordi dell'armistizio e di procedere alla sua condanna a morte. Alle 7 del mattino successivo, un convoglio guidato dal colonnello Valerio partì alla volta di Como, ove si trattenne fino alle 12.15, per poi spostarsi a Dongo, dove arrivò alle 14.10. Qui Valerio e i suoi uomini avrebbero comunicato ai partigiani locali che avevano in custodia Mussolini ed i gerarchi dal pomeriggio avanti, e di voler fucilare i prigionieri.
Di fronte al rifiuto dei partigiani locali di rivelare dove si trovasse Mussolini, che essi volevano portare a Como, Audisio ricorse ad un espediente ed alle 15.15 poté partire con una Fiat 1100 nera verso Giulino di Mezzegra, distante 21 km, più a sud, dove - in frazione Bonzanigo l'ex dittatore era tenuto prigioniero presso una famiglia di Antifascisti (casa De Maria).
Da questo punto la narrazione diviene meno chiara. Audisio fornì ben quattro differenti versioni della sua presentazione a Mussolini. Ciò provocò in seguito polemiche e dubbi sul modo in cui effettivamente si svolsero i fatti.
Molti testimoni affermarono che, usciti di casa, Audisio, i partigiani e Mussolini si recarono alla macchina. Nessuno dei testimoni ha però saputo dire con esattezza quanti fossero i partigiani di scorta e come fossero vestiti i prigionieri. Mussolini e la Petacci, saliti dietro, furono fatti scendere in un angusto vialetto (via XXIV Maggio) davanti a Villa Belmonte, un'elegante residenza della zona situata in posizione assai riparata. Quello che lì accadde è ancora oggi poco chiaro, complici le diverse versioni di Valerio così come di Guido e Michele Moretti, gli altri 2 partigiani che si trovavano con lui in quel momento (l'autista dell'auto e l'altro passeggero sul sedile anteriore).
Sempre secondo Valerio, apprestandosi ad eseguire la fucilazione, gli si incepparono il mitra e la pistola. Per sparare a Mussolini usò perciò l'arma di Moretti, il quale però, dopo la morte di Audisio, affermò di essere stato lui a sparare perché le armi di Audisio non funzionavano. Inoltre Guido affermò d'aver sparato il colpo di grazia, che però venne rivendicato anche da un altro partigiano azzanese.
Alle 17 il colonnello Valerio ritornò a Dongo per fucilare gli altri gerarchi, dopo aver lasciato alle 16.20 Guido e Moretti di guardia ai corpi davanti a Villa Belmonte. Alle 17.48, a Dongo, tutti i 16 gerarchi erano morti.
Caricati i loro cadaveri su un camion, Valerio partì per Milano verso le 20, passando a recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci. Durante il viaggio di ritorno la colonna si imbatté in altri partigiani e in posti di blocco alleati che le diedero qualche problema. Tuttavia alle 3.40 di domenica 29 aprile giunse in Piazzale Loreto.
Ad oggi nessuno sa con esattezza chi diede l'ordine di portare i cadaveri in quel piazzale. Il CLN emise in giornata un messaggio di deplorazione firmato da tutte le sue componenti, inclusa la comunista. Nessuno, tuttavia, si assunse la responsabilità di aver ordinato il trasporto delle salme in quel luogo. Solo Valerio disse più tardi che l'ordine era partito dal comando generale, ma non venne creduto. Audisio decise di scaricare i cadaveri nel lato della piazza in cui il 10 agosto 1944, per rappresaglia, i tedeschi avevano fatto uccidere dai fascisti quindici partigiani. I corpi dei 15 uomini erano stati lì abbandonati in custodia a militi fascisti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Qualche ora dopo la piazza si riempì, complice un passaparola che aveva in un lampo attraversato tutta Milano. Iniziava così una vicenda che pochi anni fa è stata resa di pubblica notorietà nei suoi dettagli più scabrosi con la pubblicazione di alcuni reperti filmati girati dalle truppe americane di occupazione, che per decenni erano rimasti secretati; ne venivano confermati i resoconti già in precedenza anticipati da altri testimoni (ad esempio Indro Montanelli), ma che non erano stati creduti per la loro crudezza.
Nella piazza si udirono scariche di mitra, le prime file di folla venivano spinte verso i cadaveri calpestandoli, prendendoli a calci. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi e persone delle prime file sputavano sui corpi, a Mussolini fu messo in mano un gagliardetto fascista, fu sfilata la cintura e tolto lo stivale destro (presumibilmente i due oggetti furono presi per essere conservati come ricordo del duce) e qualcuno orinò sul cadavere della Petacci.
Al gruppo dei cadaveri venne aggiunto anche il corpo senza vita del gerarca Achille Starace, appena catturato nei dintorni, mentre ignaro di tutto era uscito di casa in tuta da ginnastica per la quotidiana corsa, e fucilato con una raffica di mitra alla schiena. Alle 11, dopo che una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte aveva lavato abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi e ortaggi, gli stessi pompieri ne appesero cinque per i piedi, alla pensilina del distributore di carburante ESSO allo sbocco di Viale Brianza, secondo alcuni per fare in modo che tutti potessero vedere i cadaveri, secondo altri quasi a voler preservare i più odiati dall'oltraggio della folla.
Il 28 aprile 1945 Benito Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati nei pressi di Dongo, dopo che il tentativo di fuga verso la Germania era stato sventato.
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana, dopo aver rifiutato una proposta di resa offertagli dai rappresentanti del C.L.N. con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, la sera del 25 aprile Mussolini lascia Milano e parte in direzione del lago di Como, verso la frontiera con la Svizzera. I motivi di tale scelta, a quanto sembra, furono il tentativo di raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane alcuni gerarchi fascisti prospettavano di costituire un estremo baluardo di resistenza, oppure tentare di entrare nella neutrale Svizzera ed avviare da lì trattative con diplomatici americani. La notte raggiunge la prefettura di Como e si ferma lì fino all'indomani.
Il pomeriggio del 26 aprile riparte, scortato da alcuni gerarchi fascisti, dall'amante Claretta Petacci che l'aveva raggiunto nel frattempo e da un gruppo di nazisti che avevano ricevuto l'ordine da Hitler di scortare verso la Germania il Duce (o sorvegliarlo, onde evitare che tentasse la fuga in Svizzera?). Dopo essersi spostato nel piccolo paese di Grandola ed Uniti, esattamente nella frazione di Cardano, Mussolini alloggia per la notte presso l'Hotel Miramare (cosi indicato sulle cartine militari dell'epoca, identificato localmente come "Hotel Miravalle"). Questo Hotel era sito a pochi metri di distanza dal campo di Golf di Menaggio frequentato da persone vicine agli Angloamericani, in prossimita della stazione ferroviaria di Cardano, linea Menaggio-Porlezza (attualmente non più in uso). La Zona fortificata come ultimo fronte fin già dal 1915 (ancora individuabile dalle costruzioni presenti), è nei pressi della frontiera; era ben conosciuta anche per alcuni studi topografici fatti nel periodo fascista per il possibile sfruttamento minerario, ed inoltre per la vicinanza con il confine. Appare incredibile che Mussolini non abbia tentato di passare il confine in quelle zone, per evitare di essere fermato da qualche posto di blocco (i partigiani della zona era molto presenti sul lago di Como, poco verso quel confine che era zona franca di contrabbando di spalloni, i quali avevano facile accesso alla Svizzera). Ciò che forse lo fermò, è che non sapeva che le truppe Svizzere presenti sin a qualche giorno prima sul confine erano state spostate presso la frontiera di Chiasso, per impedire lo sbando dei militari tedeschi in ritirata.
La mattina del 27 aprile il Duce (non riuscendo o non volendo distaccarsi dai tedeschi), insieme ai gerarchi fascisti con famiglie al seguito, ritorna verso il lungolago a Menaggio e si aggrega ad una colonna di tedeschi in ritirata verso il nord per tentare di passare il confine verso i Grigioni, frontiera più disponibile e meno difesa dagli Svizzeri. Il convoglio prosegue fino a Musso. Lì viene fermato dai partigiani, che iniziarono a trattare coi tedeschi riguardo al permesso di poter proseguire e giungono al seguente accordo: i tedeschi possono proseguire per alcuni chilometri fino al prossimo posto di blocco partigiano, ma i fascisti saranno arrestati subito. Il Duce, su consiglio di un ufficiale tedesco, si traveste con un'uniforme nazista e sale su uno dei camion dei soldati tedeschi. Gli altri gerarchi fascisti vengono quasi tutti arrestati ed il giorno seguente fucilati sul lungolago. Gli autocarri tedeschi (con a bordo il Duce) proseguono, ma giunti al successivo posto di blocco viene fatto un controllo e Mussolini viene riconosciuto da un partigiano, (soprannominato Bill) e immediatamente arrestato. Viene portato via sotto scorta armata e viene piantonato da due giovani partigiani presso una famiglia di antifascisti (casa De Maria) a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, dove nel frattempo viene portata anche Claretta, che aveva espresso il desiderio di poter condividere la prigionia con lui.
Fin qui l'esigua traccia certa. In seguito si innestano invece diverse altre ricostruzioni che non solo sono fra loro in qualche punto contrastanti, ma che nemmeno furono sempre narrate, nel tempo, allo stesso modo.
Da qui prelevati, secondo la versione ufficiale, poi cambiata almeno quattro volte dallo stesso colonnello Valerio (nome di battaglia del partigiano Walter Audisio), poco dopo le ore 16 del 28 aprile Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati a Giulino di Mezzegra. Eseguite le condanne degli altri gerarchi a Dongo, il 29 aprile i cadaveri sono trasportati a Milano ed esposti in piazzale Loreto. La folla - memore della strage lì perpetrata dei nazifascisti il 10 agosto del 1944, quando 15 partigiani erano stati fucilati ed esposti al pubblico - subito si accanisce contro i corpi. Per evitare lo scempio, i cadaveri vengono issati a testa in giù e appesi alla pensilina di un distributore di benzina.
Permangono dubbi sui materiali esecutori della condanna a morte, sulle reali motivazioni, sui passaggi di consegne dal luogo della cattura sul camion tedesco fino a piazzale Loreto, sugli eventuali rapporti con inviati di potenze straniere; la quantità di dubbi è tale da inficiare conseguentemente l'attendibilità anche dei riferiti dettagli tecnici e pratici, ad esempio luoghi e persone.
Walter Audisio (conosciuto sia col nome di battaglia di colonnello Valerio che colonnello Giovanbattista Magnoli) era al tempo capo di un raggruppamento delle forze partigiane con funzioni di polizia. La sua figura emerse, direttamente con riferimento a questi fatti, negli anni '60, quando il quotidiano "L'Unità" (organo del PCI, per il quale Audisio fu poi deputato) diede notizia del suo coinvolgimento. Metà della notizia non era in verità nuovissima, essendo il nome del colonnello Valerio già circolato nell'immediato, ciò malgrado non se ne conosceva l'identità e l'Audisio non aveva mai dato modo di parlare di sé, solo essendo noto in qualche ambiente di militanza; tutti "sapevano" che Mussolini era stato fucilato dal colonnello Valerio, ma nessuno avrebbe detto che si trattasse di Audisio. Identificandosi con quel Valerio, Audisio sostenne, non senza qualche contraddizione fra le sue stesse versioni, di essere in pratica il responsabile e l'autore materiale della fucilazione di Mussolini.
Nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, affermò, ricevette dal generale Raffaele Cadorna l'ordine di uccidere Mussolini. Si trattava comunque di un ordine che contraddiceva le clausole dell'armistizio di Cassibile e gli accordi sottoscritti dal CLNAI, secondo i quali Mussolini doveva essere consegnato vivo agli Alleati. Secondo alcuni storici parte delle forze partigiane temevano che una volta consegnato agli alleati sarebbe stato rimesso al potere nell'arco di qualche anno, da qui la decisione di non rispettare gli accordi dell'armistizio e di procedere alla sua condanna a morte. Alle 7 del mattino successivo, un convoglio guidato dal colonnello Valerio partì alla volta di Como, ove si trattenne fino alle 12.15, per poi spostarsi a Dongo, dove arrivò alle 14.10. Qui Valerio e i suoi uomini avrebbero comunicato ai partigiani locali che avevano in custodia Mussolini ed i gerarchi dal pomeriggio avanti, e di voler fucilare i prigionieri.
Di fronte al rifiuto dei partigiani locali di rivelare dove si trovasse Mussolini, che essi volevano portare a Como, Audisio ricorse ad un espediente ed alle 15.15 poté partire con una Fiat 1100 nera verso Giulino di Mezzegra, distante 21 km, più a sud, dove - in frazione Bonzanigo l'ex dittatore era tenuto prigioniero presso una famiglia di Antifascisti (casa De Maria).
Da questo punto la narrazione diviene meno chiara. Audisio fornì ben quattro differenti versioni della sua presentazione a Mussolini. Ciò provocò in seguito polemiche e dubbi sul modo in cui effettivamente si svolsero i fatti.
Molti testimoni affermarono che, usciti di casa, Audisio, i partigiani e Mussolini si recarono alla macchina. Nessuno dei testimoni ha però saputo dire con esattezza quanti fossero i partigiani di scorta e come fossero vestiti i prigionieri. Mussolini e la Petacci, saliti dietro, furono fatti scendere in un angusto vialetto (via XXIV Maggio) davanti a Villa Belmonte, un'elegante residenza della zona situata in posizione assai riparata. Quello che lì accadde è ancora oggi poco chiaro, complici le diverse versioni di Valerio così come di Guido e Michele Moretti, gli altri 2 partigiani che si trovavano con lui in quel momento (l'autista dell'auto e l'altro passeggero sul sedile anteriore).
Sempre secondo Valerio, apprestandosi ad eseguire la fucilazione, gli si incepparono il mitra e la pistola. Per sparare a Mussolini usò perciò l'arma di Moretti, il quale però, dopo la morte di Audisio, affermò di essere stato lui a sparare perché le armi di Audisio non funzionavano. Inoltre Guido affermò d'aver sparato il colpo di grazia, che però venne rivendicato anche da un altro partigiano azzanese.
Alle 17 il colonnello Valerio ritornò a Dongo per fucilare gli altri gerarchi, dopo aver lasciato alle 16.20 Guido e Moretti di guardia ai corpi davanti a Villa Belmonte. Alle 17.48, a Dongo, tutti i 16 gerarchi erano morti.
Caricati i loro cadaveri su un camion, Valerio partì per Milano verso le 20, passando a recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci. Durante il viaggio di ritorno la colonna si imbatté in altri partigiani e in posti di blocco alleati che le diedero qualche problema. Tuttavia alle 3.40 di domenica 29 aprile giunse in Piazzale Loreto.
Ad oggi nessuno sa con esattezza chi diede l'ordine di portare i cadaveri in quel piazzale. Il CLN emise in giornata un messaggio di deplorazione firmato da tutte le sue componenti, inclusa la comunista. Nessuno, tuttavia, si assunse la responsabilità di aver ordinato il trasporto delle salme in quel luogo. Solo Valerio disse più tardi che l'ordine era partito dal comando generale, ma non venne creduto. Audisio decise di scaricare i cadaveri nel lato della piazza in cui il 10 agosto 1944, per rappresaglia, i tedeschi avevano fatto uccidere dai fascisti quindici partigiani. I corpi dei 15 uomini erano stati lì abbandonati in custodia a militi fascisti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Qualche ora dopo la piazza si riempì, complice un passaparola che aveva in un lampo attraversato tutta Milano. Iniziava così una vicenda che pochi anni fa è stata resa di pubblica notorietà nei suoi dettagli più scabrosi con la pubblicazione di alcuni reperti filmati girati dalle truppe americane di occupazione, che per decenni erano rimasti secretati; ne venivano confermati i resoconti già in precedenza anticipati da altri testimoni (ad esempio Indro Montanelli), ma che non erano stati creduti per la loro crudezza.
Nella piazza si udirono scariche di mitra, le prime file di folla venivano spinte verso i cadaveri calpestandoli, prendendoli a calci. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi e persone delle prime file sputavano sui corpi, a Mussolini fu messo in mano un gagliardetto fascista, fu sfilata la cintura e tolto lo stivale destro (presumibilmente i due oggetti furono presi per essere conservati come ricordo del duce) e qualcuno orinò sul cadavere della Petacci.
Al gruppo dei cadaveri venne aggiunto anche il corpo senza vita del gerarca Achille Starace, appena catturato nei dintorni, mentre ignaro di tutto era uscito di casa in tuta da ginnastica per la quotidiana corsa, e fucilato con una raffica di mitra alla schiena. Alle 11, dopo che una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte aveva lavato abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi e ortaggi, gli stessi pompieri ne appesero cinque per i piedi, alla pensilina del distributore di carburante ESSO allo sbocco di Viale Brianza, secondo alcuni per fare in modo che tutti potessero vedere i cadaveri, secondo altri quasi a voler preservare i più odiati dall'oltraggio della folla.
sabato 13 febbraio 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 13 febbraio.
Il 13 febbraio 1927 il governo fascista istituì la cosiddetta "Tassa sul Celibato".
Il proposito era quello di favorire i matrimoni e, di conseguenza, incrementare il numero dei bambini nati. Mussolini infatti puntava molto sui giovani e le giovani italiane e lo scopo era quello di aumentarne la popolazione. Secondo l’ideologia fascista infatti una popolazione numerosa era indispensabile per perseguire gli obiettivi di grandezza nazionale che l’Italia a quei tempi si era prefissata. L’aumento della popolazione inoltre avrebbe permesso di avere un esercito il più numeroso possibile.
Istituita il 13 febbraio 1927, interessava i celibi di età compresa fra i 25 ed i 65 anni, chi in pratica non aveva incontrato una dolce donzella da impalmare era costretto a pagare un balzello composto da un contributo che variava a seconda dell’età (partiva da 70 lire per le fasce più giovani – tra i 25 e i 35 – per arrivare 100 se fino a 50 anni, per poi abbassarsi se si superava tale età a 50 lire. Gli over 66 venivano infine esentati dalla tassa. Tali importi vennero aumentati due volte nell’ aprile 1934 e nel marzo 1937. Ma non solo: il balzello prevedeva un’aliquota aggiuntiva che variava a seconda del reddito del soggetto.
Il denaro derivante dal gettito andava poi devoluto all’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, un ente assistenziale italiano fondato nel 1925 allo scopo di proteggere e tutelare madri e bambini in difficoltà e per l’educazione dei giovani fin dalla prima infanzia. Le misure per dare alla luce nuova prole furono anche altre: premi di natalità, cerimonie nuziali di massa; e i vari premi ed esenzioni fiscali per le famiglie che superavano un certo numero di componenti.
Il premio nuzialità fu l’ultima invenzione del Fascismo per spingere i giovani a sposarsi in ossequio alla politica del numero fa la forza. Dopo la tassa sul celibato e il premio natalità ecco infine quello di nuzialità. Naturalmente, non è che chiunque s’involasse a giuste nozze avesse diritto al premio. Era una questione di censo: più si era poveri e maggiore era il premio che oscillava dalle 5 alle 600 lire a testa. Insomma, una coppia di sposi, poteva anche ottenere la favolosa cifra di 1.200 lire. Una somma enorme se si tiene conto che una giornata di lavoro veniva compensata da 7 a 9 lire. Per la gran parte dei novelli sposi, le 11 o 12 lenzuola da 100 lire, rappresentavano una vera ricchezza. Ma anche per la maggioranza della gente, era una somma cospicua. Molti, tanti soldi tutti insieme, non li avevano mai visti.
Questi premi costavano allo Stato fascista svariati milioni. Le cifre esatte venivano diligentemente divulgate a mezzo stampa ed a scopo propagandistico, non accorgendosi della contraddizione: più alte erano le somme elargite e maggiore doveva essere lo stato di povertà in cui vivevano la gran parte dei giovani italiani e quindi delle famiglie italiane. Il vanto poi, di avere in Puglia il più alto indice di matrimoni ed il più alto tasso di natalità (ma anche di mortalità infantile), dimostrava che la povertà e la miseria facevano parte del patrimonio genetico delle nostre genti.
Il 13 febbraio 1927 il governo fascista istituì la cosiddetta "Tassa sul Celibato".
Il proposito era quello di favorire i matrimoni e, di conseguenza, incrementare il numero dei bambini nati. Mussolini infatti puntava molto sui giovani e le giovani italiane e lo scopo era quello di aumentarne la popolazione. Secondo l’ideologia fascista infatti una popolazione numerosa era indispensabile per perseguire gli obiettivi di grandezza nazionale che l’Italia a quei tempi si era prefissata. L’aumento della popolazione inoltre avrebbe permesso di avere un esercito il più numeroso possibile.
Istituita il 13 febbraio 1927, interessava i celibi di età compresa fra i 25 ed i 65 anni, chi in pratica non aveva incontrato una dolce donzella da impalmare era costretto a pagare un balzello composto da un contributo che variava a seconda dell’età (partiva da 70 lire per le fasce più giovani – tra i 25 e i 35 – per arrivare 100 se fino a 50 anni, per poi abbassarsi se si superava tale età a 50 lire. Gli over 66 venivano infine esentati dalla tassa. Tali importi vennero aumentati due volte nell’ aprile 1934 e nel marzo 1937. Ma non solo: il balzello prevedeva un’aliquota aggiuntiva che variava a seconda del reddito del soggetto.
Il denaro derivante dal gettito andava poi devoluto all’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, un ente assistenziale italiano fondato nel 1925 allo scopo di proteggere e tutelare madri e bambini in difficoltà e per l’educazione dei giovani fin dalla prima infanzia. Le misure per dare alla luce nuova prole furono anche altre: premi di natalità, cerimonie nuziali di massa; e i vari premi ed esenzioni fiscali per le famiglie che superavano un certo numero di componenti.
Il premio nuzialità fu l’ultima invenzione del Fascismo per spingere i giovani a sposarsi in ossequio alla politica del numero fa la forza. Dopo la tassa sul celibato e il premio natalità ecco infine quello di nuzialità. Naturalmente, non è che chiunque s’involasse a giuste nozze avesse diritto al premio. Era una questione di censo: più si era poveri e maggiore era il premio che oscillava dalle 5 alle 600 lire a testa. Insomma, una coppia di sposi, poteva anche ottenere la favolosa cifra di 1.200 lire. Una somma enorme se si tiene conto che una giornata di lavoro veniva compensata da 7 a 9 lire. Per la gran parte dei novelli sposi, le 11 o 12 lenzuola da 100 lire, rappresentavano una vera ricchezza. Ma anche per la maggioranza della gente, era una somma cospicua. Molti, tanti soldi tutti insieme, non li avevano mai visti.
Questi premi costavano allo Stato fascista svariati milioni. Le cifre esatte venivano diligentemente divulgate a mezzo stampa ed a scopo propagandistico, non accorgendosi della contraddizione: più alte erano le somme elargite e maggiore doveva essere lo stato di povertà in cui vivevano la gran parte dei giovani italiani e quindi delle famiglie italiane. Il vanto poi, di avere in Puglia il più alto indice di matrimoni ed il più alto tasso di natalità (ma anche di mortalità infantile), dimostrava che la povertà e la miseria facevano parte del patrimonio genetico delle nostre genti.
giovedì 11 febbraio 2021
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è l'11 febbraio.
L'11 febbraio 1929 vengono firmati a Roma i cosiddetti "Patti Lateranensi".
Firmati dal cardinale Gasparri per la Santa sede e da Benito Mussolini come capo del governo italiano, posero fine alla questione romana. Erano costituiti da tre atti distinti: un trattato, una convenzione finanziaria e un concordato. Il trattato garantiva alla Santa sede un'assoluta indipendenza, riaffermando che la religione cattolica è la sola religione di stato (articolo 1 dello Statuto), e riconosceva la Santa sede come soggetto del diritto internazionale in quanto stato della Città del Vaticano. La Santa sede riconosceva il Regno d'Italia con la capitale a Roma. La convenzione finanziaria impegnava l'Italia a riparare i danni inferti alla Santa sede con l'occupazione di Roma nel 1870 dietro versamento di 750 milioni di lire in contanti e di un miliardo in titoli di stato al cinque per cento. Il concordato imponeva ai vescovi di giurare fedeltà allo stato italiano, ma soprattutto stabiliva alcuni sostanziosi privilegi per la Chiesa cattolica: al matrimonio religioso venivano riconosciuti effetti civili e le cause di nullità ricadevano sotto i tribunali ecclesiastici; l'insegnamento della dottrina cattolica, definita fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica, diventava obbligatorio nelle scuole elementari e medie; i preti spretati o colpiti da censura ecclesiastica non potevano ottenere o conservare nessun impiego pubblico nello stato italiano. I Patti lateranensi costituirono per il regime fascista una preziosa legittimazione; legando il concordato, cui soprattutto teneva, al trattato, a sua volta la Chiesa si garantì da mutamenti unilaterali al primo riservandosi la possibilità di riaprire la questione romana. Dopo la caduta del fascismo il concordato fu oggetto di un'aspra battaglia politica durante i lavori dell'Assemblea costituente. La Democrazia cristiana sostenne quello che sarebbe poi diventato l'articolo 7 della Costituzione repubblicana che recepiva il complesso dei Patti come base dei rapporti fra stato e Chiesa e stabiliva che il concordato poteva essere modificato unilateralmente dallo stato italiano solo attraverso la stessa complessa procedura prevista per la revisione della Costituzione. Le forze laiche presenti nell'Assemblea costituente si opposero a questa soluzione, che recepiva surrettiziamente nella Costituzione punti del concordato palesemente in contrasto con le sue disposizioni in materia di libertà religiosa. L'articolo 7 fu infine approvato con l'essenziale contributo del voto favorevole del Partito comunista, motivato dalla volontà di evitare che la repubblica nascesse senza il riconoscimento della Chiesa e con il rischio di aggiungere una divisione religiosa ai molti motivi di debolezza della nuova costruzione politica che già esistevano.
Nel 1984, nel quadro della revisione dei rapporti tra Stato e Chiesa, un nuovo Concordato ecclesiastico ha stabilito il venire meno del principio della religione di stato e il carattere opzionale dell'insegnamento religioso nelle scuole. Inoltre il nuovo Concordato introduce un diverso sistema di finanziamento per mezzo di contribuzioni volontarie, pari all'8‰ dell'IRPEF, l'Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, un'imposta diretta che riguarda tutti coloro che percepiscono un reddito, deducibile dalle tasse, che i cittadini possono scegliere di devolvere alla Chiesa cattolica all'atto della denuncia dei redditi.
L'11 febbraio 1929 vengono firmati a Roma i cosiddetti "Patti Lateranensi".
Firmati dal cardinale Gasparri per la Santa sede e da Benito Mussolini come capo del governo italiano, posero fine alla questione romana. Erano costituiti da tre atti distinti: un trattato, una convenzione finanziaria e un concordato. Il trattato garantiva alla Santa sede un'assoluta indipendenza, riaffermando che la religione cattolica è la sola religione di stato (articolo 1 dello Statuto), e riconosceva la Santa sede come soggetto del diritto internazionale in quanto stato della Città del Vaticano. La Santa sede riconosceva il Regno d'Italia con la capitale a Roma. La convenzione finanziaria impegnava l'Italia a riparare i danni inferti alla Santa sede con l'occupazione di Roma nel 1870 dietro versamento di 750 milioni di lire in contanti e di un miliardo in titoli di stato al cinque per cento. Il concordato imponeva ai vescovi di giurare fedeltà allo stato italiano, ma soprattutto stabiliva alcuni sostanziosi privilegi per la Chiesa cattolica: al matrimonio religioso venivano riconosciuti effetti civili e le cause di nullità ricadevano sotto i tribunali ecclesiastici; l'insegnamento della dottrina cattolica, definita fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica, diventava obbligatorio nelle scuole elementari e medie; i preti spretati o colpiti da censura ecclesiastica non potevano ottenere o conservare nessun impiego pubblico nello stato italiano. I Patti lateranensi costituirono per il regime fascista una preziosa legittimazione; legando il concordato, cui soprattutto teneva, al trattato, a sua volta la Chiesa si garantì da mutamenti unilaterali al primo riservandosi la possibilità di riaprire la questione romana. Dopo la caduta del fascismo il concordato fu oggetto di un'aspra battaglia politica durante i lavori dell'Assemblea costituente. La Democrazia cristiana sostenne quello che sarebbe poi diventato l'articolo 7 della Costituzione repubblicana che recepiva il complesso dei Patti come base dei rapporti fra stato e Chiesa e stabiliva che il concordato poteva essere modificato unilateralmente dallo stato italiano solo attraverso la stessa complessa procedura prevista per la revisione della Costituzione. Le forze laiche presenti nell'Assemblea costituente si opposero a questa soluzione, che recepiva surrettiziamente nella Costituzione punti del concordato palesemente in contrasto con le sue disposizioni in materia di libertà religiosa. L'articolo 7 fu infine approvato con l'essenziale contributo del voto favorevole del Partito comunista, motivato dalla volontà di evitare che la repubblica nascesse senza il riconoscimento della Chiesa e con il rischio di aggiungere una divisione religiosa ai molti motivi di debolezza della nuova costruzione politica che già esistevano.
Nel 1984, nel quadro della revisione dei rapporti tra Stato e Chiesa, un nuovo Concordato ecclesiastico ha stabilito il venire meno del principio della religione di stato e il carattere opzionale dell'insegnamento religioso nelle scuole. Inoltre il nuovo Concordato introduce un diverso sistema di finanziamento per mezzo di contribuzioni volontarie, pari all'8‰ dell'IRPEF, l'Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, un'imposta diretta che riguarda tutti coloro che percepiscono un reddito, deducibile dalle tasse, che i cittadini possono scegliere di devolvere alla Chiesa cattolica all'atto della denuncia dei redditi.
sabato 31 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 31 ottobre.
Il 31 ottobre 1926, domenica, Bologna, era in festa grande: veniva inaugurato il Littoriale, il grande stadio olimpico ancora oggi integro e funzionante. Per quegli anni, in Italia, l’opera era colossale; per realizzarla Leandro Arpinati, all’epoca vicesegretario del partito fascista, presidente del Coni e presidente della Federcalcio, nonché indiscusso ras di Bologna, era andato più volte in visita nelle capitali europee e specie a Praga, dove era stato edificato il modello di stadio più recente; vi si era recato con il costruttore Costanzini. Le spese per l’edificazione del Littoriale erano state ingenti e avevano dato adito a critiche e anche a insinuazioni da parte dei nemici di Arpinati; tanto che Mussolini, più tardi, fece svolgere discrete indagini, dalle quali nulla risultò di men che chiaro e dalle quali uscì rafforzata l’immagine integra di Arpinati, sul piano della personale onestà. Benito Mussolini aveva fatto solenne ingresso nello stadio dalla porta della Torre olimpica, in sella a un cavallo bianco, osannato da una folla di centomila bolognesi. Nella stessa giornata aveva parlato all’Archiginnasio, alla Società per il progresso delle scienze e aveva inaugurato la casa del Fascio. Avrebbe dovuto essere dunque l’apoteosi di Arpinati, sia come ras di Bologna che come gerarca nazionale; ma giusto alla fine la giornata volse in tragedia.
La grande torpedo sulla quale il Duce veniva ricondotto alla stazione di Bologna era guidata da Arpinati in persona; a bordo, l’altro gerarca di Bologna, Dino Grandi e il sindaco Puppini. L’automobile, scoperta, imboccò via Indipendenza, venendo da via Rizzoli; procedeva tra due ali di folla contenute a stento da carabinieri e soldati. All’altezza dell’Arena del sole, subitaneamente, tra le sagome di due carabinieri, si sporse un braccio, un pugno armato di pistola. L’attentatore sparò sicuro, ben fermo, un solo colpo in direzione di Mussolini, che era seduto al fianco di Arpinati. Il proiettile sfiorò entrambi, bruciò un lembo della giacca e bucò la fascia dell’Ordine mauriziano che Mussolini portava sulla divisa. Qualche giorno dopo Mussolini invierà la sciarpa bucata ad Arpinati a personale ricordo e perché la conservasse nel Sacrario della rivoluzione a Bologna.
L’attentatore venne istantaneamente bloccato e fu linciato in pochi attimi dalla folla, che era inferocita per la frequenza degli attentati al Capo del governo. Negli ultimi anni, infatti, si erano intensificati: prima Zaniboni, poi la Gibson, poi l’anarchico Lucetti. Come tutti i dittatori, Mussolini era dotato di sfacciata fortuna: le palle lo sfioravano, al naso (Gibson), alla fascia (Zamboni) e non penetravano mai. In tutti questi casi Mussolini dimostrò un comportamento composto; sussurravano i maligni, anche perché gli attentati erano predisposti dalla polizia. Nel caso nostro, Mussolini affrettò Arpinati che proseguì la corsa dell’auto per alcune centinaia di metri.
L’attentatore linciato fu riconosciuto per il giovane Anteo Zamboni, uno studente di sedici anni, bolognese, ultimo di una vecchia famiglia di anarchici. E tuttavia sulla vicenda permasero sempre degli interrogativi e delle ombre pesanti.
Innanzitutto, perché tanta fretta nell’ammazzarlo? La folla intorno a lui era tutta di innocenti ammiratori del Duce o c’era qualche nerbo di scherani dei servizi segreti? Lo Zamboni era anarchico, è vero, figlio di un anarchico nato a Bologna, Màmmolo Zamboni, tipografo. Ma sugli omicidi degli anarchici, da Oswald a Pinelli, ci furono sempre delle ombre e tutti costoro vennero inopinatamente ammazzati prima di poter parlare.
Inoltre, le stesse testimonianze di Arpinati e di Mussolini furono contraddittorie. Arpinati parlò di un giovanotto vestito di marrone; Mussolini di un uomo in abito chiaro col cappello floscio. Forse videro doppio per l’agitazione del momento ma forse gli attentatori erano due.
E infine Bruno Gatta, in Mussolini, riporta una intervista rilasciata in quei giorni da Dino Grandi in cui il gerarca testimonia: "Intanto dall’automobile che seguiva quella presidenziale l’on. Balbo, l’on. Ricci e il Seniore Bonaccorsi si precipitano sull’aggressore che immediatamente scompare, stretto e afferrato da mille braccia in un tumulto e in un urlo terribile". L’intervista pecca di retorica, ma è importante perché Grandi indica come primi immediatamente intervenuti i tre capisquadristi, tutti in fama di mano pronta, specie l’Arconovaldo Bonaccorsi, seniore (poi generale) della Milizia.
Sia in certi ambienti fascisti, sia soprattutto nei superstiti catacombali ambienti antifascisti si cominciò a sussurrare che l’attentato fosse stato se non materialmente eseguito, ordito da fascisti dissidenti. Si sussurrò di Farinacci, di Balbo, del medesimo Arpinati. Mussolini a ogni buon conto ordinò accurate indagini che furono eseguite dal questore Luciani e dal commissario Di Stefano (ne riferisce Guido Leto in OVRA) che non sortirono alcun risultato. Le voci furono insistenti su Arpinati e se ne troverà traccia anche nella lettera-denuncia di Achille Starace a Mussolini, durante la fatale contesa fra Arpinati e Starace.
Altra tesi dietrologica rimase quella che il colpo fosse organizzato non dai fascisti dissidenti ma da quelli più ubbidienti e disponibili, se non dai servizi segreti. E questa tesi trova una giustificazione nel fatto che subito dopo l’attentato di Bologna, ultimo della serie che abbiamo ricordato, Mussolini emise le famigerate leggi speciali per la sicurezza dello Stato, le quali furono davvero la consacrazione formale della dittatura.
Comunque, a ben rifletterci e a lunga distanza dai fatti, il sospetto su Arpinati appare del tutto infondato. Nel 1926 Arpinati era ancora ardentemente mussoliniano, nonostante qualche scarto umorale da ex anarchico e nonostante qualche uscita esasperata dal suo amore per la verità e della sua incapacità a fingere. E d’altronde l’amore di Leandro per Benito era ancora sinceramente ricambiato dal Duce che di tutti diffidava ma di Arpinati no e che a lui permetteva di dire e fare cose che a nessun altro erano permesse.
In secondo luogo, sull’automobile Arpinati sedeva a fianco del Duce e gli sarebbe occorsa una buona dose di ottimismo per essere sicuro che lo sparatore avrebbe colpito Mussolini e non anche lui.
In terzo luogo, era il giorno del trionfo di Arpinati nella sua Bologna ed egli non aveva interesse a rovinarlo. E infatti Mussolini rimase tanto convinto della sua buona fede che non solo gli scrisse numerosi pubblici attestati ma poco dopo lo nominò podestà di Bologna e due anni dopo sottosegretario al ministero dell’Interno di cui egli stesso era titolare. Viene difficile pensare che Mussolini volesse affidare il ministero di Polizia al proprio attentatore. E tuttavia alcuni dei più vicini a Mussolini e specie le donne della famiglia, la moglie Rachele e la sorella Edvige, continuarono anche in seguito, secondo numerose testimonianze, a sospettare di Arpinati.
Nel delizioso Mussolini piccolo borghese, Paolo Monelli scrivendo dell’attentato Zamboni, adombra tre supposizioni. La prima, che gli attentatori fossero due: "Lo sparatore sarebbe stato il giovane in gabardine che per stornare i sospetti da sé si buttò come vendicatore e giustiziere sull’innocente giovinetto". La seconda, che il "grande amico e consigliere di Arpinati, il romantico Torquato Nanni", fosse implicato nella trama insieme ad Arpinati. La terza, che la disgrazia e il confino di Arpinati e Nanni, negli anni ’33 e ’34, fossero collegati con un ritorno di fiamma dei dubbi sul ruolo avuto dai due amici nell’affare Zamboni. Ma tutte e tre le supposizioni non sono minimamente sostenute da prove. Monelli, si rifà, ancora una volta, alla testimonianza del suo amico Michele Campana, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze di Edvige Mussolini, la quale fu sempre nemica di Arpinati. Ma a parte l’insussistenza delle accuse, si deve aggiungere che Nanni era per natura e per cultura incapace di concepire un attentato violento, che ragionò sempre in termini politici e che addirittura rischiò di perdersi con il suo progetto utopistico della conciliazione tra fascismo e socialismo. Oltre a ciò, Nanni come vedremo, era stato intimo amico e ammiratore di Mussolini.
E’ vero invece che Arpinati e Mussolini litigarono, e duro, sulle conseguenze dell’attentato. Il padre di Zamboni, Màmmolo, era un vecchio compagno di Arpinati; egli confessò che il figlio aveva sparato con la sua pistola, che gli aveva sottratto nascostamente il giorno prima. La zia, o meglio la cognata del padre, Virginia Tabarroni, anch’essa nota antifascista, confessò che il ragazzo aveva ripetutamente parlato in casa dei suoi propositi tirannicidi. Alla fine, i due Zamboni pagarono per tutti: furono condannati a trent’anni, come mandanti dell’attentato. Fu assolto invece il fratello maggiore di Anteo, Ludovico Zamboni, anche lui sospettato. Arpinati, che aveva continuato a ritenere i due innocenti, quando diventò sottosegretario all’Interno riuscì a farsi confidare dall’onorevole Guido Cristini, presidente del Tribunale speciale, che Mussolini aveva particolarmente insistito perché i due fossero condannati all’ergastolo, per dare un esempio. Mussolini non gradì certo questa interferenza e del suo malumore fece le spese l’incauto Cristini, che fu deposto da presidente del Tribunale speciale e sostituito dal più duraturo Tringali-Casanova; ma Arpinati aveva ormai vinto e ottenne il decreto di grazia dal re. Anche questa piccola umanitaria vittoria gli sarà pochi anni dopo messa sul conto. Essa rimase rivelatrice dell’attitudine di Arpinati a difendere gli amici in difficoltà, anche se tale attitudine, come sempre in politica, non gli rese nulla e gli costò molto.
Ma al di là di ogni tentazione dietrologica o giallista, l’attentato Zamboni va interpretato per ciò che quasi certamente fu: il gesto spontaneo e romantico di un ragazzo, cresciuto ed educato in una famiglia libertaria, esaltato sia per natura propria sia per l’ambiente vissuto e che pagò uno scotto immediato e terribile.
Anteo Zamboni è ricordato a Bologna da una piccola via (Via Mura Anteo Zamboni) e una lapide in Piazza del Nettuno.
Il 31 ottobre 1926, domenica, Bologna, era in festa grande: veniva inaugurato il Littoriale, il grande stadio olimpico ancora oggi integro e funzionante. Per quegli anni, in Italia, l’opera era colossale; per realizzarla Leandro Arpinati, all’epoca vicesegretario del partito fascista, presidente del Coni e presidente della Federcalcio, nonché indiscusso ras di Bologna, era andato più volte in visita nelle capitali europee e specie a Praga, dove era stato edificato il modello di stadio più recente; vi si era recato con il costruttore Costanzini. Le spese per l’edificazione del Littoriale erano state ingenti e avevano dato adito a critiche e anche a insinuazioni da parte dei nemici di Arpinati; tanto che Mussolini, più tardi, fece svolgere discrete indagini, dalle quali nulla risultò di men che chiaro e dalle quali uscì rafforzata l’immagine integra di Arpinati, sul piano della personale onestà. Benito Mussolini aveva fatto solenne ingresso nello stadio dalla porta della Torre olimpica, in sella a un cavallo bianco, osannato da una folla di centomila bolognesi. Nella stessa giornata aveva parlato all’Archiginnasio, alla Società per il progresso delle scienze e aveva inaugurato la casa del Fascio. Avrebbe dovuto essere dunque l’apoteosi di Arpinati, sia come ras di Bologna che come gerarca nazionale; ma giusto alla fine la giornata volse in tragedia.
La grande torpedo sulla quale il Duce veniva ricondotto alla stazione di Bologna era guidata da Arpinati in persona; a bordo, l’altro gerarca di Bologna, Dino Grandi e il sindaco Puppini. L’automobile, scoperta, imboccò via Indipendenza, venendo da via Rizzoli; procedeva tra due ali di folla contenute a stento da carabinieri e soldati. All’altezza dell’Arena del sole, subitaneamente, tra le sagome di due carabinieri, si sporse un braccio, un pugno armato di pistola. L’attentatore sparò sicuro, ben fermo, un solo colpo in direzione di Mussolini, che era seduto al fianco di Arpinati. Il proiettile sfiorò entrambi, bruciò un lembo della giacca e bucò la fascia dell’Ordine mauriziano che Mussolini portava sulla divisa. Qualche giorno dopo Mussolini invierà la sciarpa bucata ad Arpinati a personale ricordo e perché la conservasse nel Sacrario della rivoluzione a Bologna.
L’attentatore venne istantaneamente bloccato e fu linciato in pochi attimi dalla folla, che era inferocita per la frequenza degli attentati al Capo del governo. Negli ultimi anni, infatti, si erano intensificati: prima Zaniboni, poi la Gibson, poi l’anarchico Lucetti. Come tutti i dittatori, Mussolini era dotato di sfacciata fortuna: le palle lo sfioravano, al naso (Gibson), alla fascia (Zamboni) e non penetravano mai. In tutti questi casi Mussolini dimostrò un comportamento composto; sussurravano i maligni, anche perché gli attentati erano predisposti dalla polizia. Nel caso nostro, Mussolini affrettò Arpinati che proseguì la corsa dell’auto per alcune centinaia di metri.
L’attentatore linciato fu riconosciuto per il giovane Anteo Zamboni, uno studente di sedici anni, bolognese, ultimo di una vecchia famiglia di anarchici. E tuttavia sulla vicenda permasero sempre degli interrogativi e delle ombre pesanti.
Innanzitutto, perché tanta fretta nell’ammazzarlo? La folla intorno a lui era tutta di innocenti ammiratori del Duce o c’era qualche nerbo di scherani dei servizi segreti? Lo Zamboni era anarchico, è vero, figlio di un anarchico nato a Bologna, Màmmolo Zamboni, tipografo. Ma sugli omicidi degli anarchici, da Oswald a Pinelli, ci furono sempre delle ombre e tutti costoro vennero inopinatamente ammazzati prima di poter parlare.
Inoltre, le stesse testimonianze di Arpinati e di Mussolini furono contraddittorie. Arpinati parlò di un giovanotto vestito di marrone; Mussolini di un uomo in abito chiaro col cappello floscio. Forse videro doppio per l’agitazione del momento ma forse gli attentatori erano due.
E infine Bruno Gatta, in Mussolini, riporta una intervista rilasciata in quei giorni da Dino Grandi in cui il gerarca testimonia: "Intanto dall’automobile che seguiva quella presidenziale l’on. Balbo, l’on. Ricci e il Seniore Bonaccorsi si precipitano sull’aggressore che immediatamente scompare, stretto e afferrato da mille braccia in un tumulto e in un urlo terribile". L’intervista pecca di retorica, ma è importante perché Grandi indica come primi immediatamente intervenuti i tre capisquadristi, tutti in fama di mano pronta, specie l’Arconovaldo Bonaccorsi, seniore (poi generale) della Milizia.
Sia in certi ambienti fascisti, sia soprattutto nei superstiti catacombali ambienti antifascisti si cominciò a sussurrare che l’attentato fosse stato se non materialmente eseguito, ordito da fascisti dissidenti. Si sussurrò di Farinacci, di Balbo, del medesimo Arpinati. Mussolini a ogni buon conto ordinò accurate indagini che furono eseguite dal questore Luciani e dal commissario Di Stefano (ne riferisce Guido Leto in OVRA) che non sortirono alcun risultato. Le voci furono insistenti su Arpinati e se ne troverà traccia anche nella lettera-denuncia di Achille Starace a Mussolini, durante la fatale contesa fra Arpinati e Starace.
Altra tesi dietrologica rimase quella che il colpo fosse organizzato non dai fascisti dissidenti ma da quelli più ubbidienti e disponibili, se non dai servizi segreti. E questa tesi trova una giustificazione nel fatto che subito dopo l’attentato di Bologna, ultimo della serie che abbiamo ricordato, Mussolini emise le famigerate leggi speciali per la sicurezza dello Stato, le quali furono davvero la consacrazione formale della dittatura.
Comunque, a ben rifletterci e a lunga distanza dai fatti, il sospetto su Arpinati appare del tutto infondato. Nel 1926 Arpinati era ancora ardentemente mussoliniano, nonostante qualche scarto umorale da ex anarchico e nonostante qualche uscita esasperata dal suo amore per la verità e della sua incapacità a fingere. E d’altronde l’amore di Leandro per Benito era ancora sinceramente ricambiato dal Duce che di tutti diffidava ma di Arpinati no e che a lui permetteva di dire e fare cose che a nessun altro erano permesse.
In secondo luogo, sull’automobile Arpinati sedeva a fianco del Duce e gli sarebbe occorsa una buona dose di ottimismo per essere sicuro che lo sparatore avrebbe colpito Mussolini e non anche lui.
In terzo luogo, era il giorno del trionfo di Arpinati nella sua Bologna ed egli non aveva interesse a rovinarlo. E infatti Mussolini rimase tanto convinto della sua buona fede che non solo gli scrisse numerosi pubblici attestati ma poco dopo lo nominò podestà di Bologna e due anni dopo sottosegretario al ministero dell’Interno di cui egli stesso era titolare. Viene difficile pensare che Mussolini volesse affidare il ministero di Polizia al proprio attentatore. E tuttavia alcuni dei più vicini a Mussolini e specie le donne della famiglia, la moglie Rachele e la sorella Edvige, continuarono anche in seguito, secondo numerose testimonianze, a sospettare di Arpinati.
Nel delizioso Mussolini piccolo borghese, Paolo Monelli scrivendo dell’attentato Zamboni, adombra tre supposizioni. La prima, che gli attentatori fossero due: "Lo sparatore sarebbe stato il giovane in gabardine che per stornare i sospetti da sé si buttò come vendicatore e giustiziere sull’innocente giovinetto". La seconda, che il "grande amico e consigliere di Arpinati, il romantico Torquato Nanni", fosse implicato nella trama insieme ad Arpinati. La terza, che la disgrazia e il confino di Arpinati e Nanni, negli anni ’33 e ’34, fossero collegati con un ritorno di fiamma dei dubbi sul ruolo avuto dai due amici nell’affare Zamboni. Ma tutte e tre le supposizioni non sono minimamente sostenute da prove. Monelli, si rifà, ancora una volta, alla testimonianza del suo amico Michele Campana, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze di Edvige Mussolini, la quale fu sempre nemica di Arpinati. Ma a parte l’insussistenza delle accuse, si deve aggiungere che Nanni era per natura e per cultura incapace di concepire un attentato violento, che ragionò sempre in termini politici e che addirittura rischiò di perdersi con il suo progetto utopistico della conciliazione tra fascismo e socialismo. Oltre a ciò, Nanni come vedremo, era stato intimo amico e ammiratore di Mussolini.
E’ vero invece che Arpinati e Mussolini litigarono, e duro, sulle conseguenze dell’attentato. Il padre di Zamboni, Màmmolo, era un vecchio compagno di Arpinati; egli confessò che il figlio aveva sparato con la sua pistola, che gli aveva sottratto nascostamente il giorno prima. La zia, o meglio la cognata del padre, Virginia Tabarroni, anch’essa nota antifascista, confessò che il ragazzo aveva ripetutamente parlato in casa dei suoi propositi tirannicidi. Alla fine, i due Zamboni pagarono per tutti: furono condannati a trent’anni, come mandanti dell’attentato. Fu assolto invece il fratello maggiore di Anteo, Ludovico Zamboni, anche lui sospettato. Arpinati, che aveva continuato a ritenere i due innocenti, quando diventò sottosegretario all’Interno riuscì a farsi confidare dall’onorevole Guido Cristini, presidente del Tribunale speciale, che Mussolini aveva particolarmente insistito perché i due fossero condannati all’ergastolo, per dare un esempio. Mussolini non gradì certo questa interferenza e del suo malumore fece le spese l’incauto Cristini, che fu deposto da presidente del Tribunale speciale e sostituito dal più duraturo Tringali-Casanova; ma Arpinati aveva ormai vinto e ottenne il decreto di grazia dal re. Anche questa piccola umanitaria vittoria gli sarà pochi anni dopo messa sul conto. Essa rimase rivelatrice dell’attitudine di Arpinati a difendere gli amici in difficoltà, anche se tale attitudine, come sempre in politica, non gli rese nulla e gli costò molto.
Ma al di là di ogni tentazione dietrologica o giallista, l’attentato Zamboni va interpretato per ciò che quasi certamente fu: il gesto spontaneo e romantico di un ragazzo, cresciuto ed educato in una famiglia libertaria, esaltato sia per natura propria sia per l’ambiente vissuto e che pagò uno scotto immediato e terribile.
Anteo Zamboni è ricordato a Bologna da una piccola via (Via Mura Anteo Zamboni) e una lapide in Piazza del Nettuno.
mercoledì 28 ottobre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 ottobre.
Il 28 ottobre 1922 diverse migliaia di militanti del giovane Partito Nazionale Fascista, costituitosi meno di un anno prima, confluivano da varie località d'Italia verso la capitale, per chiedere a gran voce che venisse dato a Mussolini l'incarico di formare un governo. Fu la cosidetta marcia su Roma, che fu poi celebrata negli anni a venire come l'inizio dell'Era Fascista.
Mussolini era rimasto a Milano in attesa degli eventi.
La marcia su Roma si pone in un contesto di estrema fragilità della situazione politica ed economica del paese, da poco uscito, sebbene vittorioso, dalla Grande Guerra con un'economia provata dallo sforzo bellico. Governi deboli e poco incisivi diedero la spinta alla volontà di cambiamento, alla ricerca di un uomo forte che potesse dare una speranza e risollevare il paese. Mussolini in quegli anni tesseva alleanze strategiche, a partire da quella con D'Annunzio, molto amato dagli italiani.
La marcia su Roma ebbe un prologo quando i fascisti il 2 agosto occuparono militarmente Ancona, una città notoriamente ribelle ai totalitarismi. L'occupazione non ebbe ostacoli, nè reazioni da parte dell'esercito: era la dimostrazione che il paese considerava come ineluttabile il passaggio al fascismo.
La mattina successiva alla Marcia il Re si convinse che non vi era altra soluzione che concedere a Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo. Questi partì il 30 da Milano (in treno) e alle 18 presentò il suo governo, che aveva al suo interno solo tre fascisti di orientamento moderato, più altre personalità del mondo civile e militare (tra cui il generale Armando Diaz).
Era l'inizio del ventennio fascista.
10 anni dopo, a commemorazione del primo decennale della Marcia su Roma, Mussolini ordinò che in ogni città o paese, grande o piccolo che fosse, si desse a una strada il nome di Via Roma. Ancora oggi, a distanza di 90 anni, Via Roma è il toponimo più diffuso in Italia.
Il 28 ottobre 1922 diverse migliaia di militanti del giovane Partito Nazionale Fascista, costituitosi meno di un anno prima, confluivano da varie località d'Italia verso la capitale, per chiedere a gran voce che venisse dato a Mussolini l'incarico di formare un governo. Fu la cosidetta marcia su Roma, che fu poi celebrata negli anni a venire come l'inizio dell'Era Fascista.
Mussolini era rimasto a Milano in attesa degli eventi.
La marcia su Roma si pone in un contesto di estrema fragilità della situazione politica ed economica del paese, da poco uscito, sebbene vittorioso, dalla Grande Guerra con un'economia provata dallo sforzo bellico. Governi deboli e poco incisivi diedero la spinta alla volontà di cambiamento, alla ricerca di un uomo forte che potesse dare una speranza e risollevare il paese. Mussolini in quegli anni tesseva alleanze strategiche, a partire da quella con D'Annunzio, molto amato dagli italiani.
La marcia su Roma ebbe un prologo quando i fascisti il 2 agosto occuparono militarmente Ancona, una città notoriamente ribelle ai totalitarismi. L'occupazione non ebbe ostacoli, nè reazioni da parte dell'esercito: era la dimostrazione che il paese considerava come ineluttabile il passaggio al fascismo.
La mattina successiva alla Marcia il Re si convinse che non vi era altra soluzione che concedere a Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo. Questi partì il 30 da Milano (in treno) e alle 18 presentò il suo governo, che aveva al suo interno solo tre fascisti di orientamento moderato, più altre personalità del mondo civile e militare (tra cui il generale Armando Diaz).
Era l'inizio del ventennio fascista.
10 anni dopo, a commemorazione del primo decennale della Marcia su Roma, Mussolini ordinò che in ogni città o paese, grande o piccolo che fosse, si desse a una strada il nome di Via Roma. Ancora oggi, a distanza di 90 anni, Via Roma è il toponimo più diffuso in Italia.
mercoledì 23 settembre 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 Settembre.
Il 23 settembre del 1943 Salò, un piccolo paese sulla sponda occidentale del lago di Garda, in provincia di Brescia, divenne famoso in tutto il mondo. Benito Mussolini, appena liberato dalla sua prigione sul Gran Sasso, durante l’invasione degli inglesi e degli americani, lo scelse come sede di alcuni uffici e ministeri del suo nuovo governo. In poco tempo quel paesino sconosciuto divenne il sinonimo del nuovo stato che Mussolini aveva creato: la Repubblica Sociale Italiana (RSI).
La RSI, o Repubblica di Salò, fu insieme l’ultima incarnazione del regime fascista e un disperato tentativo di ritorno alle origini del fascismo. Voleva essere il luogo in cui realizzare una “terza via” tra socialismo e capitalismo, ma di fatto fu uno stato fantoccio della Germania nazista, incapace di esercitare un vero e proprio controllo sul suo territorio: un caos di bande armate e semi-indipendenti in lotta contro i partigiani e a volte anche tra di loro.
Il governo della Repubblica di Salò era decentrato e sparso per gran parte dell’Italia del nord. Mussolini risiedeva a Villa Feltrinelli a Gargnano, il ministero delle Finanze e quello della Giustizia avevano sede a Brescia, quello dell’Economia a Bergamo, a Venezia c’era il ministero dei Lavori pubblici mentre le Comunicazioni avevano sede a Verona. Formalmente la capitale del nuovo stato era Roma, ma i tedeschi non permisero mai che vi si insediassero dei ministeri e impedirono tutti i tentativi dei leader fascisti di visitare la capitale.
Il soprannome “Repubblica di Salò” nacque in un certo senso per caso. A Salò avevano sede il ministero degli Esteri, quello della Propaganda (il famoso MINCULPOP), oltre all’agenzia Stefani, l’agenzia stampa ufficiale del regime, e gli uffici dei corrispondenti. Le principali comunicazioni del governo insieme ai comunicati giornalistici erano inviati da Salò, e quelli dei due ministeri cominciavano con le parole “Salò comunica”. Il nome di Salò finì quindi col diventare un sinonimo del governo stesso.
Il nuovo governo creato il 23 settembre era per i tedeschi un’opportunità e un fastidio allo stesso tempo. Era un’opportunità perché il nuovo governo avrebbe potuto occuparsi dell’amministrazione civile e delle funzioni di polizia, permettendo ai tedeschi di concentrarsi nel fermare l’avanzata anglo-americana nel sud Italia.
Era un fastidio perché se avesse esercitato un potere effettivo avrebbe potuto mettersi tra i tedeschi e i loro obiettivi. Nel 1943 la Germania nazista non considerava più l’Italia un alleato affidabile: ai tedeschi interessava che la Repubblica di Salò pagasse le spese per mantenere le forze di occupazione della Germania e contribuisse a reclutare manodopera per il lavoro forzato. Di fatto la Repubblica di Salò fu un governo fantoccio, controllato dalle forze di occupazione tedesca.
Le origini della RSI furono molto travagliate. Dopo il colpo di stato del 25 luglio 1943 Mussolini fu arrestato e trasferito continuamente in varie località nel timore che i tedeschi tentassero di liberarlo. Il 16 settembre, quando il re era oramai fuggito a Brindisi e tutta l’Italia a nord di Napoli era di fatto controllata dall’esercito tedesco, Mussolini fu liberato. Si trovava a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, sorvegliato da una guarnigione di carabinieri. I tedeschi lanciarono un reparto di paracadutisti sullo stretto altipiano dove sorgeva l’albergo in cui Mussolini era detenuto. Catturarono la guarnigione senza sparare un colpo e lo liberarono.
Mussolini fu portato in Germania, dove incontrò i pochi gerarchi fascisti che erano fuggiti dall’Italia dopo il 25 luglio. Secondo i racconti di numerosi testimoni, apparve stanco e rassegnato: dovette essere convinto a rivolgersi agli italiani con un messaggio radio e fu solo in seguito a molte pressioni che decise di fondare la Repubblica Sociale Italiana e mettersene a capo.
Lo stato avrebbe dovuto essere “repubblicano, corporativo e fascista”, in altre parole avrebbe dovuto rappresentare un ritorno alle origini del movimento rivoluzionario degli anni Venti – origini che, secondo gli storici, il fascismo abbandonò quando divenne un partito di governo “istituzionale”. In realtà quasi tutte le grandi riforme che avrebbero dovuto trasformare lo stato, compresa la nuova costituzione fascista, rimasero sulla carta: la RSI impiegò la maggior parte delle sue energie a cercare di ottenere un po’ di autonomia dai tedeschi e nella lotta contro il movimento partigiano.
Le sue milizie aiutarono spesso i tedeschi nei rastrellamenti e furono responsabili di numerosi crimini di guerra. Alcune formazioni della RSI, come la “banda Koch”, si comportarono come vere e proprie bande criminali che più che alla guerra pensavano a compiere estorsioni e ricatti. La Repubblica cadde non appena l’esercito tedesco abbandonò l’Italia, nell’aprile del 1945. Era durata 19 mesi, senza mai esercitare un potere di fatto. Formalmente fu disciolta il 29 aprile 1945. Il giorno prima il suo capo, Benito Mussolini, era stato ucciso.
Il 23 settembre del 1943 Salò, un piccolo paese sulla sponda occidentale del lago di Garda, in provincia di Brescia, divenne famoso in tutto il mondo. Benito Mussolini, appena liberato dalla sua prigione sul Gran Sasso, durante l’invasione degli inglesi e degli americani, lo scelse come sede di alcuni uffici e ministeri del suo nuovo governo. In poco tempo quel paesino sconosciuto divenne il sinonimo del nuovo stato che Mussolini aveva creato: la Repubblica Sociale Italiana (RSI).
La RSI, o Repubblica di Salò, fu insieme l’ultima incarnazione del regime fascista e un disperato tentativo di ritorno alle origini del fascismo. Voleva essere il luogo in cui realizzare una “terza via” tra socialismo e capitalismo, ma di fatto fu uno stato fantoccio della Germania nazista, incapace di esercitare un vero e proprio controllo sul suo territorio: un caos di bande armate e semi-indipendenti in lotta contro i partigiani e a volte anche tra di loro.
Il governo della Repubblica di Salò era decentrato e sparso per gran parte dell’Italia del nord. Mussolini risiedeva a Villa Feltrinelli a Gargnano, il ministero delle Finanze e quello della Giustizia avevano sede a Brescia, quello dell’Economia a Bergamo, a Venezia c’era il ministero dei Lavori pubblici mentre le Comunicazioni avevano sede a Verona. Formalmente la capitale del nuovo stato era Roma, ma i tedeschi non permisero mai che vi si insediassero dei ministeri e impedirono tutti i tentativi dei leader fascisti di visitare la capitale.
Il soprannome “Repubblica di Salò” nacque in un certo senso per caso. A Salò avevano sede il ministero degli Esteri, quello della Propaganda (il famoso MINCULPOP), oltre all’agenzia Stefani, l’agenzia stampa ufficiale del regime, e gli uffici dei corrispondenti. Le principali comunicazioni del governo insieme ai comunicati giornalistici erano inviati da Salò, e quelli dei due ministeri cominciavano con le parole “Salò comunica”. Il nome di Salò finì quindi col diventare un sinonimo del governo stesso.
Il nuovo governo creato il 23 settembre era per i tedeschi un’opportunità e un fastidio allo stesso tempo. Era un’opportunità perché il nuovo governo avrebbe potuto occuparsi dell’amministrazione civile e delle funzioni di polizia, permettendo ai tedeschi di concentrarsi nel fermare l’avanzata anglo-americana nel sud Italia.
Era un fastidio perché se avesse esercitato un potere effettivo avrebbe potuto mettersi tra i tedeschi e i loro obiettivi. Nel 1943 la Germania nazista non considerava più l’Italia un alleato affidabile: ai tedeschi interessava che la Repubblica di Salò pagasse le spese per mantenere le forze di occupazione della Germania e contribuisse a reclutare manodopera per il lavoro forzato. Di fatto la Repubblica di Salò fu un governo fantoccio, controllato dalle forze di occupazione tedesca.
Le origini della RSI furono molto travagliate. Dopo il colpo di stato del 25 luglio 1943 Mussolini fu arrestato e trasferito continuamente in varie località nel timore che i tedeschi tentassero di liberarlo. Il 16 settembre, quando il re era oramai fuggito a Brindisi e tutta l’Italia a nord di Napoli era di fatto controllata dall’esercito tedesco, Mussolini fu liberato. Si trovava a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, sorvegliato da una guarnigione di carabinieri. I tedeschi lanciarono un reparto di paracadutisti sullo stretto altipiano dove sorgeva l’albergo in cui Mussolini era detenuto. Catturarono la guarnigione senza sparare un colpo e lo liberarono.
Mussolini fu portato in Germania, dove incontrò i pochi gerarchi fascisti che erano fuggiti dall’Italia dopo il 25 luglio. Secondo i racconti di numerosi testimoni, apparve stanco e rassegnato: dovette essere convinto a rivolgersi agli italiani con un messaggio radio e fu solo in seguito a molte pressioni che decise di fondare la Repubblica Sociale Italiana e mettersene a capo.
Lo stato avrebbe dovuto essere “repubblicano, corporativo e fascista”, in altre parole avrebbe dovuto rappresentare un ritorno alle origini del movimento rivoluzionario degli anni Venti – origini che, secondo gli storici, il fascismo abbandonò quando divenne un partito di governo “istituzionale”. In realtà quasi tutte le grandi riforme che avrebbero dovuto trasformare lo stato, compresa la nuova costituzione fascista, rimasero sulla carta: la RSI impiegò la maggior parte delle sue energie a cercare di ottenere un po’ di autonomia dai tedeschi e nella lotta contro il movimento partigiano.
Le sue milizie aiutarono spesso i tedeschi nei rastrellamenti e furono responsabili di numerosi crimini di guerra. Alcune formazioni della RSI, come la “banda Koch”, si comportarono come vere e proprie bande criminali che più che alla guerra pensavano a compiere estorsioni e ricatti. La Repubblica cadde non appena l’esercito tedesco abbandonò l’Italia, nell’aprile del 1945. Era durata 19 mesi, senza mai esercitare un potere di fatto. Formalmente fu disciolta il 29 aprile 1945. Il giorno prima il suo capo, Benito Mussolini, era stato ucciso.
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