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lunedì 31 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 31 luglio.
Il 31 luglio 1944 nasce a Santa Monica, in California, Geraldine Chaplin.
Esile, delicata e sensibile, è nata dal matrimonio del leggendario Charles Chaplin con Oona O'Neill, figlia del famoso sceneggiatore Eugene O'Neill. La più grande di otto figli, trascorre i suoi primi otto anni a Hollywood, poi con la famiglia si trasferisce in Svizzera perché il padre era perseguitato dal governo degli Stati Uniti per le sue idee politiche. In Europa frequenta college privati e studia danza classica alla Royal Ballet School di Londra. Aveva già debuttato come attrice nel 1952 nel ruolo di una ballerina, nel film diretto dal padre "Luci della ribalta". Nel 1964 ha una piccola parte nell'ultimo film diretto da Charles Chaplin, "La contessa di Hong Kong". Viene notata durante una sua performance in un balletto a Parigi dal famoso regista David Lean che la scrittura per il film "Il Dottor Zivago" (1965), nel ruolo di Tonya, la moglie di Omar Shariff che la porta alla ribalta internazionale. La maggior parte del film viene girato in Spagna dove conosce il regista Carlos Saura che sposa e da cui ha avuto due figlie Shane e Oona. Successivamente lavora con alcuni registi europei, ma viene ricordata soprattutto per aver lavorato con Robert Altman, in "Nashville" (1975), "Buffalo Bill e gli Indiani" (1976), "Un matrimonio" (1978). Nel 1992 interpreta il ruolo di sua nonna paterna malata di mente, nel film "Charlot", una biografia del padre. Nel 1993 appare in "L'Età dell'Innocenza" di Martin Scorsese e "A Foreign Field" di Charles Sturridge. Nel 2002 è diretta da Pedro Almodovar nel film "Parla con lei". Successivamente ha girato ancora Melissa P. (2005), Parlami d'amore (2008), L'imbroglio nel lenzuolo (2008), The Orphanage (2008), Imago mortis (2008), Diario di una ninfomane (2008), Wolfman (2010) ed altri ancora. L'ultimo suo film è Jurassic World (2018) in cui interpreta Iris, la governante del magnate Benjamin Lockwood.
L'attrice è sorellastra di Sydney Chaplin e Charles Chaplin Jr. Lavorano nello spettacolo anche i suoi fratelli Michael e Christopher e le sue sorelle Josephine e Victoria. Nel 1991 ha ricevuto in Francia un premio al Créteil International Women's Film Festival.

domenica 30 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 luglio.
Il 30 luglio 762 d.C. fu fondata Baghdad.
Fondata da al-Mansūr sulla riva occidentale del Tigri, fu per alcuni secoli la prospera capitale dell'impero abbaside e la maggiore metropoli del mondo medievale musulmano nonché la capitale culturale dell'intero mondo islamico. La sua etimologia assai incerta si fa risalire a un termine persiano significante “dono di Dio”, ma in origine il suo fondatore l'aveva chiamata Madīnat as-Salām (città della pace). Baghdād decadde rapidamente dopo la conquista mongola del 1258. Tra il XVI e il XVII secolo la Mesopotamia, e con essa Baghdād , fu al centro di un'aspra lotta tra Turchi e Persiani, risoltasi infine a favore dei primi. La rinascita di Baghdād data dai primi del Novecento, quando divenne, nei progetti tedeschi, il punto terminale della linea ferroviaria che si stava costruendo a partire da İstanbul. Nel 1920 venne scelta a capitale dell'Iraq. Lo sviluppo delle comunicazioni tra le quali vanno ricordati gli allacciamenti ferroviari con la Turchia, con la Siria e con Bassora e la creazione di un vasto aeroporto, ridette a Baghdād l'antico ruolo di punto d'incontro delle vie terrestri che conducono dall'Asia centromeridionale al Mediterraneo.
Costruita al centro della Mesopotamia, Baghdād sorse su numerose costruzioni preislamiche (specie armene e persiano-sassanidi), alla confluenza delle vie carovaniere del Khorāsān. Sebbene non ne resti praticamente nulla, poiché l'attuale omonima città vi si è sovrapposta, sappiamo che era stata progettata a pianta circolare sulle rive del Tigri, centro economico della città per il ricchissimo traffico fluviale che vi si svolgeva. Il sistema di fortificazioni era assai complesso, con cinque cinte di mura, interrotte da quattro porte, disposte secondo i punti cardinali, chiamate col nome della provincia verso la quale si aprivano (Kufa, Bassora, Khorāsān e Damasco). A esse corrispondevano altrettante strade, convergenti su una vasta piazza circolare, al cui centro sorgevano il palazzo del califfo, detto della Porta d'Oro, e la Grande Moschea, simboli concreti del potere centralizzato. Gli ingressi esterni erano “a gomito” per motivi difensivi e davano accesso a sale per le udienze coperte da grosse cupole dorate. Tra l'area centrale del palazzo del califfo e il muro principale della città vi era una zona residenziale, divisa in quattro settori uguali da porticati a volta e definita, all'interno e all'esterno, da un duplice anello di strade. Quasi completamente scomparse sono anche le costruzioni dei sultani ottomani, che la occuparono nel 1638, dopo che per due secoli era stata contesa tra Persiani e Turchi. Divenuta capitale dell'Iraq attuale, si arricchì di numerosi edifici moderni (come la stazione centrale con grande cupola azzurra), ispirati alle tradizioni artistiche islamiche. La città, già provata nel 1986-87 dai bombardamenti missilistici iraniani nel corso della sanguinosa guerra Iran-Iraq, è stata devastata dai martellanti bombardamenti delle forze della coalizione durante le guerre successive. Considerata uno dei centri culturali più attivi del mondo arabo, Baghdād ospita importanti musei, tra cui il Museo Nazionale Iracheno, nel quale sono conservati significativi reperti archeologici risalenti alla storia antica della Mesopotamia; il Museo Nazionale di Arte Moderna, che ospita una collezione permanente di opere pittoriche, scultoree e ceramiche di artisti iracheni; il Museo dei Pionieri dell'Arte Irachena, dedicato agli artisti iracheni che, con le loro opere, hanno gettato le basi dell'arte moderna del paese. Nel corso delle diverse fasi delle guerre in Iraq, un importante numero di manufatti e opere d'arte sono andati perduti.
Gli effetti dei bombardamenti del 1991 e del 2003 sono stati gravissimi per la popolazione e per le infrastrutture della città, che ancora doveva completare il risanamento dei danni prodotti dal lungo conflitto con l'Iran (1980-88). Oltre che molti impianti produttivi e strutture militari, le operazioni belliche hanno messo fuori uso i sistemi di comunicazione: l'aeroporto di Baghdād è rimasto chiuso per anni, il porto fluviale seriamente danneggiato, e così gli oleodotti. Si è di conseguenza aggravata la situazione degli approvvigionamenti, compresi quelli alimentari e sanitari. Durante e immediatamente dopo le fasi più intense dei conflitti, non è stato possibile effettuare un'evacuazione adeguata della popolazione dalla città, al contrario accresciuta da centinaia di migliaia di nuovi abitanti in fuga dalle regioni meridionali poste nei pressi del fronte terrestre. Nel 2010 non si avevano dati precisi sulla popolazione di Baghdād (caratterizzata dalla presenza di cospicue minoranze di armeni, turchi ecc): fonti internazionali ne sottolineavano la precarietà delle condizioni economiche e socio-sanitarie, rese permanenti, anche dopo la conclusione del conflitto, dall'applicazione dell'embargo all'Iraq. Le massicce perdite umane e gli ingenti danni inflitti alle infrastrutture provocati dai conflitti hanno comportato per la città la cessazione di gran parte delle attività economiche. Dal 2003, dopo la caduta del regime di Saddam Ḥusayn, Baghdād è stata occupata dalle truppe statunitensi, che hanno lasciato la città nel giugno del 2009.

sabato 29 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 luglio.
Il 29 luglio 1981 Diana Spencer sposa Charles, principe di Galles ed erede al trono d'Inghilterra.
Diana Spencer nasce il 1 luglio 1961 a Parkhouse proprio vicino la residenza reale di Sadringham.
Fin da piccola Diana soffre della mancanza della figura materna: la madre è spesso assente e trascura la famiglia.
Non solo, ma Lady Frances Bounke Roche, questo il suo nome, lascia Parkhouse quando Diana ha solo sei anni per vivere con un facoltoso proprietario terriero, Peter Shaud Kidd.
A dodici anni Diana viene iscritta alle scuole secondarie presso l'istituto di West Heoth nel Kent; dopo poco lascia l'amatissima residenza di Parkhouse e si trasferisce nel castello di Althorp nella contea del Northamptonshire. La famiglia degli Spencer, a ben vedere, è addirittura più antica e blasonata di quella dei Windsor... Il padre Lord John diventa l'ottavo Conte di Althorp. Il figlio Charles diventa visconte e le tre sorelle Diana, Sarah e Jane sono elevate al rango di Lady.
Quando la futura principessa compie sedici anni in occasione di una cena per la visita della regina di Norvegia incontra il Principe di Galles ma fra i due, al momento, non scatta alcun colpo di fulmine. Solamente un desiderio di approfondire la conoscenza. Intanto, com'è normale, la giovane Diana, nel tentativo di condurre una vita il più possibile vicina, per quanto possibile, a quella dei suoi coetanei (è ancora ben lungi dall'immaginare che diverrà, invece, addirittura principessa e pretendente al trono d'Inghilterra), si trasferisce in un appartamento di Coleherm Court, un quartiere residenziale di Londra. Certo, non si tratta di un appartamento povero e di basso livello, ma pur sempre di una prestigiosa abitazione.
Ad ogni buon conto, questo suo desiderio interiore di "normalità" la induce a cercare l'indipendenza e a cercare di cavarsela con le sue forze. Si adatta a svolgere lavori anche non prestigiosi, come quelli della cameriera e della babysitter, e a dividere la sua casa con altre tre studentesse. Fra un lavoro e l'altro trova anche il tempo di dedicarsi ai bambini dell'asilo a due isolati da casa sua.
La compagnia delle altre ragazze ha comunque un effetto positivo in tutti i sensi. E' proprio grazie al loro aiuto e al loro sostegno psicologico che Lady Diana affronta il corteggiamento di Carlo, il principe del Galles conosciuto a quella famosa festa. A dire il vero, su queste prime fasi iniziali circolano molte voci contraddittorie: c'è chi dice che il più intraprendente fosse lui, mentre altri sostengono che fosse lei ad aver portato avanti la vera opera di corteggiamento.
Ad ogni modo, i due si fidanzano e, nel giro di breve tempo, convolano a nozze. La cerimonia è uno degli eventi mediatici più attesi e seguiti del globo, anche per la massiccia presenza di personalità di altissimo rango provenienti di tutto il mondo. Inoltre, la differenza di età della coppia non può che sollevare inevitabili pettegolezzi. Quasi dieci anni separano il principe Carlo da Lady D. Lei: ventiduenne appena uscita dall'adolescenza. Lui: trentatreenne già avviato alla maturità. Il 29 luglio 1981, nella cattedrale di St. Paul, si trovano convenuti sovrani, capi di stato e tutta la società internazionale osservata dagli occhi mediatici di oltre ottocento milioni di spettatori.
E anche il seguito del corteo reale, la gente in carne e ossa che seguirà la vettura con i due sposi, non è da meno: lungo il percorso che la carrozza intraprende, si contano qualcosa come due milioni di persone.
Dopo la cerimonia Diana è ufficialmente Sua Altezza Reale Principessa di Galles e futura Regina d'Inghilterra.
Grazie al suo comportamento informale, Lady D (come viene soprannominata dai tabloid con un tocco fiabesco), entra subito nel cuore dei sudditi e del mondo intero. Purtroppo il matrimonio non va così bene come le immagini della cerimonia lasciavano sperare, anzi, è palesemente in crisi. Nemmeno la nascita dei figli William e Harry riesce a salvare un'unione già compromessa.
Ricostruendo sul piano cronologico questo complesso intreccio di eventi vediamo che già nel settembre del 1981 viene annunciato ufficialmente che la principessa è incinta ma fra i due si era già insinuata da tempo Camilla Parker-Bowles, un'ex compagna di Carlo che il principe non ha mai smesso di frequentare e di cui Lady D è (giustamente, come si vedrà in seguito), assai gelosa. Tale è lo stato di tensione della principessa, il suo grado di infelicità e di rancore che tenta più volte il suicidio, con forme che vanno dai disturbi nervosi alla bulimia.
Nel dicembre 1992 viene annunciata ufficialmente la separazione. Lady Diana si trasferisce a Kensington Palace, mentre il principe Carlo continua a vivere ad Highgrove. Nel novembre 1995 Diana rilascia un'intervista televisiva. Parla della sua infelicità e del rapporto con Carlo.
Carlo e Diana divorziano il 28 agosto 1996. Negli anni del matrimonio, Diana compie numerose visite ufficiali. Si reca in Germania, negli Stati Uniti, nel Pakistan, in Svizzera, Ungheria, Egitto, Belgio, Francia, Sud Africa, nello Zimbabwe e in Nepal. Numerose sono le sue attività di beneficenza e solidarietà in cui oltre a prestare la propria immagine, si impegna attivamente con l'esempio.
Dopo la separazione Lady D continua ad apparire accanto alla famiglia reale nelle celebrazioni ufficiali. Il 1997 è l'anno in cui Lady Diana sostiene attivamente la campagna contro le mine anti-uomo.
Intanto, dopo una serie non precisata di flirt, prende corpo la relazione con Dodi al Fayed, miliardario arabo di religione musulmana. Non è uno dei soliti colpi di testa ma un vero e proprio amore. Nel caso il rapporto si concretizzasse in qualcosa di ufficiale sul piano istituzionale, i commentatori sostengono che questo sarebbe un duro colpo per la già vacillante corona britannica.
E' proprio mentre la "coppia dello scandalo" tenta di seminare i paparazzi che avviene il terribile incidente nel tunnel dell'Alma a Parigi: entrambi, alla fine di un'estate trascorsa insieme, perdono la vita. E' il 31 agosto 1997.
Un'irriconoscibile Mercedes blindata, con all'interno i corpi dei viaggiatori, viene recuperata in seguito allo spaventoso incidente stradale.
Il corpo della principessa viene sepolto in un minuscolo isolotto al centro di un laghetto ovale che abbellisce la sua casa ad Althorp Park, a circa 130 chilometri a nord-ovest di Londra.
Da allora, anche a distanza di anni, regolarmente si susseguono ipotesi per spiegare l'incidente. Qualcuno sospetta addirittura che la Principessa in quel periodo fosse incinta: il fatto che il principino William avrebbe avuto un fratellastro musulmano, sarebbe stato considerato un vero proprio scandalo per la famiglia reale. Questa come altre varie ipotesi intendono spesso puntare alla presenza di complotti, creando sempre più un denso alone di mistero attorno alla vicenda. Le indagini ad oggi non si fermano: sembra tuttavia improbabile che si arriverà un giorno a conoscere tutta la verità.

venerdì 28 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 luglio.
Il 28 luglio 1540 Enrico VIII fa giustiziare nella Torre di Londra il suo fidato consigliere Thomas Cromwell, l'uomo che formalizzò la rottura con la Chiesa di Roma e la nascita della Chiesa Anglicana.
Cromwell nacque circa nel 1485 a Putney, figlio di Walter Cromwell (1463–1510), un lavoratore di stoffe. I dettagli sui suoi primi anni di vita sono pochi. Prima del 1512 fu assunto dalla famiglia fiorentina dei Frescobaldi. Da alcuni archivi della Città del Vaticano risulta che Cromwell fosse un agente del Cardinale Reginald Bainbridge e si occupasse del lavoro ecclesiastico inglese prima della Sacra Rota. Parlava fluentemente latino, italiano e francese.
Quando Bainbridge morì nel 1514, Cromwell tornò in Agosto in Inghilterra e fu assunto da Thomas Wolsey, presso di lui si occupò di importanti questioni ecclesiastiche nonostante fosse un laico. Nel 1519 sposò la figlia di un sarto, Elizabeth Wyckes (1489–1527); dal loro matrimonio nacque un figlio, Gregory. Dopo aver studiato legge divenne un membro del Parlamento inglese nel 1523.
Alla fine degli anni '20 del 1500 Cromwell aiutò Wolsey con la dissoluzione di trenta monasteri in modo da raccogliere fondi per la Wolsey's grammar school ad Ipswich (conosciuta ora come Ipswich School) e per il Cardinal's College di Oxford. Nel 1529 Enrico VIII fondò il futuro Reformation Parliament per ottenere la separazione da Caterina d'Aragona. Cromwell fu fatto consigliere reale per gli affari del Parlamento ed alla fine del 1531 era membro del più stretto e fidato circolo di Enrico VIII. Diventò primo ministro del re nel 1532 senza alcun atto formale ma grazie alla mera fiducia che Enrico VIII riponeva in lui.
Cromwell ebbe un ruolo fondamentale nella Riforma. Per far ottenere il divorzio a Enrico VIII, il re fu nominato detentore del potere spirituale in Inghilterra con l'Atto di Supremazia del 1534. Come vicario generale del re, Cromwell ebbe piena autorità per portare avanti l'abolizione dei monasteri; che egli stesso visitò a partire dal 1536.
Fu nominato Barone il 9 luglio 1536, conte di Essex il 18 Aprile 1540. Fu anche l'ideatore dell'unione fra Inghilterra e Galles sotto un'unica giurisdizione legale nel 1535.
Cromwell sostenne la volontà del re di liberarsi di Anna Bolena e conseguentemente sposare Jane Seymour; spinto dal fatto che la regina aveva avuto screzi con lui riguardo la gestione del denaro derivante dalla soppressione dei monasteri e quindi temendo di cadere in disgrazia a causa sua. Il primo ministro si era anche fatto molti nemici a causa dei suoi criteri di spartizione del bottino della stessa soppressione.
Ma la sua caduta fu dovuta soprattutto alle pressioni per il matrimonio del re con Anna di Cleves. La regina Jane Seymour morì il 24 Ottobre del 1537 poco dopo aver dato alla luce suo figlio. Le trattative per un quarto matrimonio che assicurasse altri eredi ad Enrico VIII iniziarono praticamente subito, e Cromwell riteneva che l'Inghilterra dovesse entrare a far parte di una lega protestante nella quale il duca di Cleves aveva un ruolo fondamentale; in tal modo avrebbe portato ancora più lontano la sua Riforma.
Il matrimonio, però, si rivelò disastroso in quanto Enrico VIII dimostrò di non avere alcuna intenzione di vivere con la principessa una volta che la vide di persona.
Il re incaricò Cromwell di trovare vie legali per annullare il suo matrimonio, ma fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco per non perdere la preziosa alleanza con la Germania. Gli avversari di Cromwell, primo fra tutti il Duca di Norfolk, approfittarono dell'occasione per fare pressioni per la sua caduta in disgrazia.
Nonostante la nomina a primo conte di Essex nel 1540, Cromwell iniziò ad avere sospetti di essere in rovina perché risultava ufficialmente beneficiario della grazia del re pur avendolo intrappolato in un matrimonio che questi non voleva. Le sue paure si rivelarono giustificate quando durante una seduta del consiglio il 10 Giugno del 1540 Cromwell fu arrestato e imprigionato nella Torre di Londra. Il re, comunque, lo mantenne vivo il tempo necessario per testimoniare nella causa dell'annullamento del suo matrimonio.
Fu giustiziato sulla Tower Green il 28 Luglio 1540. Di lui fu detto che morì con dignità e che la sua esecuzione fu particolarmente raccapricciante. Edward Hall, cronista contemporaneo, riporta che Cromwell fece un discorso sul patibolo, professando di morire, "nella fede tradizionale" e che poi "sopportò assai pazientemente il colpo dell'ascia da parte di un rozzo miserabile boia che non fece affatto bene il suo lavoro".
Enrico finì per pentirsi dell'esecuzione di Cromwell. Circa otto mesi dopo, accusò i suoi ministri di aver lavorato per la caduta di Cromwell con false accuse e disse di aver infine capito che lui era il servitore più fedele che avesse mai avuto. Passò il resto della sua vita a lamentarsi della sua esecuzione.

giovedì 27 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 luglio.
Il 27 luglio 1929 esce in tipografia "Gli indifferenti", di Alberto Moravia.
Il romanzo fornisce uno spaccato di vita di una famiglia borghese negli anni di pieno sviluppo del fascismo italiano e si configura come una denuncia della perdita di valori dell’Italia di quegli anni. La storia è quasi priva di trama: i personaggi si muovono come manichini, spinti nelle loro azioni dalla noia e dall’insofferenza, senza provare vere pulsioni emotive e attratti solo dai falsi valori del benessere e del piacere fisico. Dietro la maschera di ricchezza dei personaggi si nasconde una miseria sia economica che morale.
Carla, ventiquattrenne figlia di Mariagrazia, viene sedotta da Leo Merumeci, amante della madre interessato a frequentare villa Ardengo anche per diventarne possessore. La famiglia infatti si trova in condizioni di forte precarietà economica e dovrebbe vendere la casa, ma Mariagrazia rifiuta sempre le proposte di vendita di Leo, perché interessata a mantenere l’apparenza di ricchezza agli occhi degli altri. Merumeci approfitta del desiderio di Carla di uscire da quella vita monotona e priva di stimoli, provando a sedurla già in apertura del romanzo, nel salotto di casa. I due sono sempre interrotti dall’arrivo della madre, da Michele o da Lisa, ex amante di Leo che viene spesso in visita all’amica Mariagrazia. Lisa, oggetto delle gelosie di Mariagrazia, è in realtà innamorata di Michele, che però inizialmente la respinge. È proprio lei a scoprire la relazione tra Leo e Carla e ad informare Michele. Il giovane tenta di uscire dal suo stato di indifferenza e reagire, prendendo una pistola e recandosi a casa di Leo, dove trova la sorella. Il tentativo fallisce poiché il colpo va a vuoto. Il romanzo si conclude con una festa in maschera, dove nulla è cambiato e dove i personaggi continuano nella loro finzione. Si intuisce forse un futuro matrimonio tra Carla e Leo e quindi il pieno successo di Merumeci.
Moravia scrive Gli indifferenti a soli 18 anni e il giornalista del Corriere della Sera Pietro Pancrazi ne scrive una recensione dal titolo Il realismo di Moravia, che contribuisce al successo dell’opera. È il romanzo che segna, all’interno del grande sperimentalismo della letteratura del Novecento, l’inizio della corrente neo-realista italiana, che si carica dei drammi sociali di un Paese tormentato. È una letteratura triste e drammatica, priva di ideali, definita da Benedetto Croce come “letteratura del vuoto”, in cui i personaggi vivono “come se” e non in forma diretta.
La dimensione del romanzo è di tipo teatrale. L’azione si svolge infatti nell’arco di soli due giorni e con pochi personaggi. Lo spazio è sempre l’interno di un’abitazione: villa Ardengo prima e la casa di Leo dopo. Gli unici spazi esterni sono caratterizzati da oscurità e pioggia. Moravia pone l’attenzione sulle luci artificiali, che contribuiscono a dare il senso di claustrofobia e angoscia dei personaggi. Carla passa dall’interno della villa a un’altra casa, quella di Leo.
Non è un romanzo di formazione: tutto ruota attorno al benessere e alla sessualità, che è l’elemento dominante, in una compravendita di corpi, ma non di affetti. Forte è l’insistenza sulla fisicità dei personaggi, già all’inizio del romanzo, dove l’incontro tra Michele e Leo avviene con un commento sull’abbigliamento, all’insegna della fatuità.
Pervasivo negli Indifferenti è anche il tema dello specchio, che si ritrova in ogni stanza e dove già all’inizio i personaggi si riflettono attraversando il corridoio. Esemplare è la svestizione di Carla nella sua camera e il suo confronto con lo specchio. Si tratta di una pagina di grande audacia per l’epoca, tanto che il governo fascista condanna la ristampa dell’opera. Qui Moravia introduce un espediente che utilizzerà anche in altri romanzi (es. la descrizione della bottega di Cesira ne La ciociara), dove gli oggetti sono utilizzati per ricostruire la psicologia di un personaggio: le bambole e il saluto agli oggetti prima di lasciare l’abitazione. È una camera che presenta elementi ambigui, bambineschi e più femminili. L’arredamento di fanciulla non è stato sostituito perché la madre ha sempre sperato in un imminente matrimonio della figlia. Si tratta di una tipica pagina novecentesca in cui parlano le cose. L’unico parametro di Carla è la bellezza.
I personaggi sono creature vuote, che agiscono come manichini, con pesantezza di gesti molto calcolati. Pancrazi afferma che il testo gli suggerisce qualcosa di espressionistico.
Carla, Leo e gli altri protagonisti dialogano senza un unico fulcro, ognuno tentando di imporre il proprio pensiero e la propria visione del mondo, senza uscire dai propri stereotipi. Nessuno di loro sa creare qualcosa di diverso dalla mera ripetizione di gesti: la stessa Carla è una Mariagrazia in piccolo, con gli stessi limiti e le stesse debolezze.
Venendo al fulcro degli Indifferenti, Moravia non descrive l’atto sessuale in sé, ma il momento appena precedente, delineando in modo molto preciso le perplessità di Carla, che si raggomitola nelle coperte e non vuole vedere il suo amante. La ragazza vuole osare, ma ha paura. Per esprimere questo salto alla maturità l’autore si rifà ad un illustre modello: l’addio ai monti manzoniano, dove però la svolta di Lucia è di tutt’altro tipo e più innocente. Lo spazio del letto si configura come una sorta di nuova prigione per Carla, che sente indifferenza per Leo e nostalgia della madre.
In Leo non c’è romanticismo, è un personaggio grossolano ed arrogante che alla fine ha la meglio. È l’unico personaggio “vincente” del romanzo.
La rappresentazione di Michele è condotta sottolineando l’assenza in lui di ogni qualità. È un antieroe, un inetto che ricorda i personaggi di Svevo, ma che probabilmente Moravia ricava dalle letture giovanili di Dostoevskij e dai testi teatrali di Pirandello. Michele è privo di pulsioni, gelido e agisce per noia. L’acquisto della pistola è dettato da un dovere di ribellione più che da una reale indignazione e dallo sdegno per la morale offesa. La scena dello sparo che va a vuoto è tragicomica e si allontana completamente dalla scena madre romantica in cui la giustizia si fa strada e i colpevoli vengono puniti.
Il romanzo termina con una festa in maschera, che conclude l’andamento circolare dell’opera, dove niente si è evoluto. Moravia vuole denunciare l’ipocrisia di questo mondo borghese, in cui i personaggi continuano a comportarsi senza alcuna ideologia positiva e in cui manca completamente anche l’orizzonte religioso.

mercoledì 26 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 luglio.
Il 26 luglio 1882 ha luogo la prima rappresentazione del Parsifal di Wagner.
 Parsifal non solo è un’opera matura di Richard Wagner, ma ancora di più essa rappresenta una summa non solo del processo di maturazione del musicista e commediografo, ma in qualche misura la vicenda del “puro folle” tratta da Wolfram von Eschenbach, collega tra loro trame e tematiche che attraversano l’intera produzione operistica wagneriana.
Lo stesso personaggio di Wolfram compare in  Meistersinger e in Thannhäuser , opera in cui  intona quel lied sacro-sentimentale che costituisce un esempio quasi unico nel catalogo dell’autore tedesco, di  “pezzo chiuso”; in più occasioni il musicista avrebbe ipotizzato, inoltre, l'intervento salvifico di Parsifal  quale deus ex machina, ad esempio per soccorrere e salvare Tristan.
Parsifal, inoltre è legato a Lohengrin poiché questi è, nella vicenda dell'eroe-cigno, il figlio del puro-folle.
La centralità della simbologia e del rito eucaristico conferisce a Parsifal quella valenza didascalica e per molti aspetti conclusiva del percorso panreligioso e germanizzante, caro a Wagner e al romanticismo tedesco in cerca di quell’accreditamento culturale  in odore di affermazione di superiorità etnica; originatosi con  Martin Lutero e tragicamente approdato alle degenerazioni del secolo breve.
La cifra  luterana è ben rilevabile sia musicalmente  che drammaturgicamente in Parsifal più che in altre opere wagneriane. Il corale connota l’intera produzione del musicista tedesco, ma nella sua ultima opera il leitmotiv dell’eucarestia è tratto da un cantus firmus luterano, lo stesso che Mendelssohn utilizzò nella sua Sinfonia n.5 (La Riforma).
Numerosi, nella trama,  gli episodi  e le simbologie che di lì a qualche anno  avrebbero costituito succulenta materia di studio per la novella disciplina psicanalitica: la sessuofobia,  il senso di colpa, l’evirazione.
Tra il XII e il XIII secolo in Europa si diffondevano narrazioni incentrate sul tema della ricerca del Sacro Graal; in un epoca buia in cui le popolazioni cristiane erano attanagliate dal terrore delle invasioni dei musulmani,  lasciate in un  diffuso analfabetismo e istigate all'antisemitismo del deicidio, era pressante la necessità di individuare simboli collettivi universalmente riconosciuti,  totem che fossero collegati  col Cristo e con il memoriale della Cena Eucaristica dovevano sembrare assolutamente quanto di meglio si potesse chiedere.
Quali fossero natura, materiale e  forma  del mitico oggetto simbolico  non sono univocamente individuati; si va dal calice in rame alla conca in pietra, passando per la coppa in oro al bacino.
L’etimologia della parola, inoltre, ha visto, nel corso dei secoli, succedersi e ricorrere, ipotesi diverse da cratalis e da crater, quindi, come “vaso, coppa” ma anche “bacino e cratere” ovvero da gradalis che del termine stesso è deformazione tardolatina.
La leggenda approda alla letteratura  scritta per la prima volta con il Perceval di Chrétien de Troyes (ca. 1190),  cui segue una miriade di brevi racconti fino a giungere a Wolfram, e al suo Parzival (ca. 1200-1210).
Con ogni probabilità Wolfram era un cataro, un seguace, cioè di un’ideologia eretica alla cui base vi era anzitutto la disconoscenza del ruolo della Chiesa e di ogni intermediazione tra l’uomo e  Dio; evidentemente un credo simile aveva ancor più viva e pressante esigenza di individuare elementi simbolico-mitologici che potessero assumere una funzione aggregante.
Non priva di interesse è la circostanza, raccontata dallo stesso Wolfram,  di un presunto ritrovamento di un manoscritto che sarebbe la fonte primigenia della leggenda di Parzival; si sarebbe trattato di un documento in lingua araba, opera di un astronomo ebreo sefardita di Toledo, tale Flegetanis.
Molti sono i riferimenti ad elementi arabi nel racconto di Eschenbach e che Wagner ha voluto conservare nel suo Parsifal.
Dal punto di vista musicale sono diversi e non metodologicamente concordi gli approcci al capolavoro wagneriano, da quello atomizzante di Alfred Lorenz della Barform, che vuole identificare e isolare nella partitura episodi di affermazione e negazione fino a costituire  quella successione A-A-B che Hans Sachs magnifica come ideale nei Die Meistersinger von Nürnberg , metodologia confutata (senza eccessivo sforzo a nostro avviso) da Carl Dahlhaus e da Rudolf Stephan adducendo considerazioni meramente statistiche secondo cui sarebbe sempre possibile identificare sequenze tripartite in opere di dimensioni ciclopiche come quelle di Wagner a patto di non predefinire la lunghezza del singolo elemento.
Ma, come osserva Jürgen Maehder, nel corso del '900 l'approccio di Lorenz è stato tacciato di anacronismo epistemologico a causa di una forzata separazione tra forma e contenuto che appariva del tutto inappropriata nell'esegesi di opere costruite nell'intento  di realizzare la più elevata sintesi unitaria  semantico-lessicale-contenutistica.
Th.W.Adorno si spinge anche oltre, e ingenerosamente,  fino a formulare giudizi di superficialità e di autopromozione sull'opera di Richard Wagner, l'uso intensivo e ripetitivo del leitmotiv, sarebbe, secondo il filosofo tedesco, un mezzo per tenere attento un pubblico dalla scarsa propensione a ricordare, nonché una sottile, subliminale,  coercizione musicale per un popolo di lì a poco destinato a votarsi all'obbedienza assoluta e incondizionata.
Nel celebre saggio "Versuch über Wagner", Adorno, pur nell'intento di rivelare un tratto negativo, riconosce un valore affascinante della musica di Wagner in quel ribaltamento nell'associazione consonanza-serenità  dissonanza-dolore (tensione); in realtà quella che in armonia viene definita "risoluzione eccezionale" costituisce l'allegoria di quella contraddittorietà dialettica insita nelle emozioni profonde, quella che rafforza il piacere attraverso il patire per il raggiungimento dello stesso ovvero mitiga il dolore assumendolo come funzionale a processi di ascesi.
Al di là di approfondimenti musicologici ulteriori, giova rilevare come i procedimenti del leitmotiv si diffonderanno dopo Wagner fino a raggiungere in Puccini le vette nell'ambito del melodramma allorché esso diviene transizione verso la musica da film, come ritiene acutamente Alessandro Baricco.
Stefan Kunze conierà per le opere della maturità wagneriana, riferendosi alla costruzione formale, l'espressione di "variazione senza tema", intendendo con tale apparente ossimoro indicare che il procedimento di Wagner realizzi una riproposizione di elementi motivici che raramente costituiscono un intera frase, meno che mai un intero periodo, tuttavia gli elementi leitmotivici conservano e rafforzano la loro funzione semantica nel corso dello sviluppo della composizione.
I due principali leitmotiv, che attraversano l'intera opera sono il motivo dell'ultima cena e quello del Graal. Si tratta del tema dell' Amen di Dresda di Martin Lutero, utilizzato, come si è già detto, da Mendelssohn nella Sinfonia n. 5 detta La Riforma.
Il terzo è il motivo della Fede, presentato in Lab maggiore e sviluppantesi in progressione.
Fin dal Preludio la triade di  virtù teologali Amore-Fede-Speranza viene esposta e trasfigura nella morale umana che, contraendo debito da Schopenhauer, Wagner fa discendere dalla compassione, che, in Parsifal assume una potenza capace di superare le pulsioni sessuali e, si badi bene, scardinare persino la trappola edipica tesa all'eroe puro-folle da Kundry.
Il concetto di compassione in Wagner fu motivo di aspro scontro con Nietzsche; il musicista tuttavia, propone una pietas dolorosa, non una luminosa e gratificante carità cristiana, quanto un senso di colpa che conduce alla consapevolezza; l'uccisone di un cigno scava nell'animo del ragazzo e rappresenta un'iniziazione. "Durch Mitleid wissend" (consapevole attraverso la compassione), ecco la sostanza programmatica della  "redenzione del redentore".
Qualche anno dopo la prima del Parsifal, Richard Wagner in quel pur controverso saggio "Religione ed arte" , intriso di ideologia di superiorità della razza, precisa al di là di ogni ragionevole dubbio musico-simbologico che la compassione di Parsifal non costituisce la redenzione "dal" mondo quando "del" mondo ad opera dell'eroe. Si tratta, dunque, di una visione individualista, eroica ; l'esempio di Parsifal non pretende nemmeno di costituire un esempio, piuttosto lascia l'uomo comune in uno stato di ammirata, ma subalterna impotenza.
Quella del filosofo di Danzica è un'etica antiegoistica, solidaristica; essa sottende un'idea di fratellanza orizzontale che in Wagner lascia il  posto ad una venerazione messianica della personalità di un soggetto superiore che redime l'umanità prendendo su di sè la sofferenza di altri; la purezza è virtù che gli appartiene e la consapevolezza, che si aggiunge,  catalizza la capacità dell'eroe di redimere il mondo.
La concezione teologica di Wagner, d'altra parte, si traduce in una passività eroica i cui "la compassione si immerge fino all'interruzione completa della volontà individuale" ("Religion und Kunst"); il musicista ritiene di interpretare l'etica schopenhaueriana, ma  ruota specularmente redenzione e redento e, nell'interpretatone politica della teoria etica,  attribuisce ad una personalità leader funzioni e poteri che conferiscono  sacralità all'assolutismo e alla dittatura. Quanto "puro" sia stato Hitler  è  al di sopra di dubbio tanto quanto egli sia stato "folle" e la sua "compassione" è rimasta fuori dei cancelli su cui campeggiava "Arbeit macht frei"
Citando "Parerga e Paralipomena"  Wagner nel 1880 ne sottoscrive la conclusione :"scopo ultimo dell'esistenza temporale è il distogliere la volontà dalla vita (...) attraverso l'infelicità ed il dolore (.....) necessari per separare la volontà stessa dalla vita (...) e condurre alla rinascita".
Rinascere per ripercorrere il dolore e la sofferenza indispensabili all'eroe puro affinché egli possa redimerne il mondo; cristianamente rispondiamo: "No grazie, abbiamo già dato".
Friedrich Nietzsche, un tempo entusiasta ammiratore di Wagner, individuò in Parsifal un tradimento dell'ideologia dal paganesimo nibelungico che si opponesse alla romanità, tant'è che con sarcasmo bocciò il "Dramma sacro"  : "Ciò che ascoltate è... Roma!". In realtà Wagner aveva ben presenti le culture mediorientali e indiane e non mancano riferimenti ben precisi a miti e leggende persiane e indiane e nei piani del compositore vi era un progetto di un'opera dedicata a Buddha e a Siddharta , che non fu mai realizzata.
Nel corso di 150 anni Parsifal ha fatto molto parlare di sé e con giudizi assai contrastanti tra loro, Claude Debussy entusiasticamente  ebbe a dire: "Parsifal è uno dei più bei monumenti sonori che mai siano stati innalzati alla gloria imperturbabile della musica"
All'ammirazione di Debussy fa da contrappunto Marinetti, il quale  diede fondo a tutta la retorica corrosiva futurista nel dire che "Parsifal (...)inocula una incurabile nevrastenia musicale (...) è la svalutazione sistematica della vita! Fabbrica cooperativa di tristezza e disperazioni. Stiramenti poco melodiosi di stomachi deboli. Cattiva digestione e alito pesante di vergini quarantenni....." e via un'elencazione di malanni cronici.

martedì 25 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 luglio.
Il 25 luglio la religione cristiana celebra San Giacomo di Zebedeo, detto anche San Giacomo il Maggiore.
E’ detto “Maggiore” per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo. Lui e suo fratello Giovanni sono figli di Zebedeo, pescatore in Betsaida, sul lago di Tiberiade. Chiamati da Gesù (che ha già con sé i fratelli Simone e Andrea) anch’essi lo seguono (Matteo cap. 4). Nasce poi il collegio apostolico: "(Gesù) ne costituì Dodici che stessero con lui: (...) Simone, al quale impose il nome di Pietro, poi Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanerghes, cioè figli del tuono" (Marco cap. 3). Con Pietro saranno testimoni della Trasfigurazione, della risurrezione della figlia di Giairo e della notte al Getsemani. Conosciamo anche la loro madre Salome, tra le cui virtù non sovrabbonda il tatto. Chiede infatti a Gesù posti speciali nel suo regno per i figli, che si dicono pronti a bere il calice che egli berrà. Così, ecco l’incidente: "Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono". E Gesù spiega che il Figlio dell’uomo "è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti" (Matteo cap. 20).
E Giacomo berrà quel calice: è il primo apostolo martire, nella primavera dell’anno 42. "Il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni" (Atti cap. 12). Questo Erode è Agrippa I, a cui suo nonno Erode il Grande ha fatto uccidere il padre (e anche la nonna). A Roma è poi compagno di baldorie del giovane Caligola, che nel 37 sale al trono e lo manda in Palestina come re. Un re detestato, perché straniero e corrotto, che cerca popolarità colpendo i cristiani. L’ultima notizia del Nuovo Testamento su Giacomo il Maggiore è appunto questa: il suo martirio.
Secoli dopo, nascono su di lui tradizioni e leggende. Si dice che avrebbe predicato il Vangelo in Spagna. Quando poi quel Paese cade in mano araba (sec. IX), si afferma che il corpo di san Giacomo (Santiago, in spagnolo) è stato prodigiosamente portato nel nord-ovest spagnolo e seppellito nel luogo poi notissimo come Santiago de Compostela. Nell’angoscia dell’occupazione, gli si tributa un culto fiducioso e appassionato, facendo di lui il sostegno degli oppressi e addirittura un combattente invincibile, ben lontano dal Giacomo evangelico (a volte lo si mescola all’altro apostolo, Giacomo di Alfeo). La fede nella sua protezione è uno stimolo enorme in quelle prove durissime. E tutto questo ha un riverbero sull’Europa cristiana, che già nel X secolo inizia i pellegrinaggi a Compostela. Ciò che attrae non sono le antiche, incontrollabili tradizioni sul santo in Spagna, ma l’appassionata realtà di quella fede, di quella speranza tra il pianto, di cui il luogo resta da allora affascinante simbolo. Nel 1989 hanno fatto il “Cammino di Compostela” Giovanni Paolo II e migliaia di giovani da tutto il mondo.

lunedì 24 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 luglio.
Il 24 luglio 1686 nasce a Venezia Benedetto Marcello, in una nobile famiglia le cui ascendenze vengono fatte risalire alla dinastia imperiale romana Claudia Marcella; ebbe una formazione culturale ed artistica estremamente varia.
Il padre Agostino era un buon violinista e la madre Paolina Cappello aveva buone capacità pittoriche e letterarie, i due fratelli maggiori Alessandro e Girolamo erano anch'essi dilettanti di musica e di poesia, ove col termine di dilettante si intende lo status particolare di chi, per la propria appartenenza alla classe nobiliare, non potendo esercitare una professione, ancorché artistica, poteva comunque "dilettarsi" nei vari campi delle arti.
Alla morte del padre, avvenuta nel 1707, Benedetto Marcello soggiornò per un breve periodo a Firenze, quindi, rientrato in Venezia si dedicò all'avvocatura per passare poi, all'età di venticinque anni alla magistratura.
Nel 1716, Marcello venne nominato membro del Consiglio dei Quaranta ed in tale carica perdurò sino al 1730, quando ottenne l'incarico di provveditore della Serenissima Repubblica Veneta a Pola donde si trasferì a Brescia nel 1738 con l'incarico di camerlengo dogale (governatore) dove morì nel 1739.
Il nome di Benedetto Marcello è legato soprattutto alla sua varia produzione musicale comprendente una grande raccolta di 50 salmi ad 1, 2, 3 e 4 voci, più di 250 cantate, alcuni melodrammi, 4 oratori, alcune raccolte di sonate per vari strumenti e vari concerti.
Particolarmente interessante è la vicenda della discussa attribuzione di un celeberrimo concerto in re minore per oboe, trascritto per clavicembalo solo da J.S. Bach, concerto dapprima attribuito ad Antonio Vivaldi, poi a Benedetto Marcello ed, in seguito, al fratello Alessandro; la querelle non è ancora completamente risolta, in quanto ragioni di carattere stilistico fanno mettere in seria discussione quest'ultima attribuzione e ritenere più ragionevole l'attribuzione a Benedetto.
In ambito letterario, la produzione Marcelliana comprende vari scritti a carattere musicale, teatrale ed anche squisitamente linguistico (oltre al "Teatro alla Moda", è notevole un'altra sua operetta satirica "Il cruscante impazzito" in cui il Marcello irride tanto contro i puristi della Crusca che contro gli innovatori che, senza alcun ritegno imbarbariscono la lingua con il soverchio ricorso a francesismi alla moda).
Nel "Teatro alla Moda" (1720) lo stile del Marcello è sempre gradevolmente ironico, anche se venato di vero e proprio sarcasmo e di allusioni specifiche a persone reali: la comprensione piena del testo può essere, quindi, piuttosto difficile per chi non sia pratico delle usanze dell'epoca ma, soprattutto, per chi non conosca l'ambiente culturale della Venezia di inizio '700: l'interminabile titolo completo dell'opera "Teatro alla moda, o sia metodo sicuro e facile per ben comporre ed eseguire l'opere italiane in Musica all'uso moderno. Nel quale si danno Avvertimenti utili, e necessari a Poeti, Compositori di Musica, Musici dell'uno e dell'altro sesso, Impresari, Suonatori, Ingegneri e Pittori di scene, Parti buffe, Sarti, Paggi, Comparse, Suggeritori, Copisti, Protettori, e Madri di Virtuose ed altre Persone appartenenti al Teatro. Dedicato dall'autore del libro al compositore di esso" era, nelle prime edizioni dell'operetta seguito da una vignetta rappresentante una peata (imbarcazione pesante a fondo piatto) in cui stanno un angioletto con un violino a poppa, un remigante al centro, alcuni barili ed oggetti vari sul fondo della barca ed un orso con una specie di bandierina a prua.
Il suo sepolcro si trova nella chiesa di San Giuseppe di Brescia, luogo di sepoltura per eccellenza delle personalità bresciane in campo musicale. Benedetto Marcello si trova sepolto sotto una grande lapide pavimentale al centro della navata maggiore, davanti alla scalinata che sale al presbiterio. L'iscrizione ricorda alla pari i suoi notevoli risultati come camerlengo e la proficua attività in campo musicale.

domenica 23 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 luglio.
Il 23 luglio 1929 inizia in Italia un processo di "italianizzazione" anche del vocabolario, che porterà poi alla legge del 23 dicembre 1940 in cui furono definitivamente vietati i termini stranieri in qualsiasi forma, scritta od orale.
Mussolini dunque cercò la via dell'autarchia anche nel vocabolario vietando le parole straniere e avviando una campagna contro il Lei.
Per avere un’idea di quanto zelo il regime fascista abbia impegnato in meschine crociate come quella in favore del “voi”, basta rivedere le caricature e i disegni della Mostra anti-Lei organizzata nel 1939 dal gerarca fascista Achille Starace, con la convinzione che l’ironia, tutta d’intonazione funerea, fosse il mezzo più idoneo per denunciare atteggiamenti e forme tipici della mentalità borghese. E l'uso del "lei", in forma allocutiva era stato messo al bando perché considerato straniero, femmineo, sgrammaticato, nato in tempi di schiavitù. Il pittore e romanziere Alberto Savino arrivò ad affermare addirittura che il “lei” era un mezzo linguistico usato da chi aveva qualcosa da nascondere. “Sia pace all'anima del lei”, esclamò la giovane Elsa Morante.
In un clima di delirio nazionalistico la rivista di attualità femminile, Lei, fu costretta a cambiare il nome in Annabella, anche se, in questo caso, il riferimento era diretto alla donna. Mentre c’era chi, come Totò, incurante di eventuali e temute rappresaglie, costruì una gag su Galileo Galilei trasformato in Galileo Galivoi, o chi, come Benedetto Croce, con amore del paradosso, passò per polemica al “lei” dopo esser rimasto sempre fedele al tipico “voi” napoletano.
La guerra dei pronomi rientrava nell’esperimento, durato vent’anni, tentato dal regime fascista per disciplinare l’intero repertorio linguistico italiano, al fine di recuperare “la purezza dell’idioma patrio”, come disse Mussolini in un discorso del 1931. E' una storia poco conosciuta la campagna linguistica condotta dal fascismo contro gli esotismi, ritenuti lesivi dell’identità e del prestigio nazionali, avviata con l’introduzione di una tassa sulle insegne straniere l’11 febbraio 1923 e perseguita con accanimento attraverso una capillare propaganda intimidatoria che coinvolse la scuola, la radio e la stampa. Il quotidiano La Tribuna, nel 1932, bandì un concorso per sostituire 50 parole straniere, fra il 1932 e il 1933; il famoso scrittore Paolo Monelli tenne una rubrica sulla Gazzetta del Popolo chiamata Una parola al giorno, dove sceglieva una parola straniera e dimostrava che esisteva quasi sempre una parola italiana da proporre in sostituzione (che poi raccolse in un libro, Barbaro dominio).
Nel 1940, in un clima di crescente xenofobia e di caccia ai forestierismi, l’Accademia dei Lincei (allora Accademia d’Italia) nominò una commissione col compito di esaminare i singoli termini stranieri, e di proporne l’accettazione, l’adattamento o la sostituzione. Fra i linguisti maggiormente accreditati, Bruno Migliorini, introdusse nella lingua italiana alcune parole destinate a restarci per sempre, come “regista” al posto di “régisseur” e “autista” per “chauffeur”. Per “film” venne adottata la parola “pellicola”, per apache “teppista”, per claxon “tromba o sirena”, “primato” per record, “slancio” per “swing” e negli alberghi i “menu” divennero “liste”.
Ma in molti casi furono scovate soluzioni davvero stravaganti. Il colore bordeaux divenne “color barolo”, il tessuto principe di Galles fu semplicemente “il tessuto principe”, e termini come insalata russa e chiave inglese, in quanto evocatori di nazioni nemiche, diventarono “insalata tricolore” e “chiavemorsa”. Nel cinema anche allo scopo di censurare ed adattare i film stranieri, si proibì il doppiaggio all'estero. Per doppiare i film americani, francesi, tedeschi, furono chiamati attori di teatro.
Il fascismo si spinse oltre, modificando persino nella grafia (a parità di pronuncia) alcune parole: alcool: àlcole; bidet: bidè; bleu: blu; casinò: casino; cognac: cògnac; mansarde: soffitta; marron: colore marrone; marron glacé: marrone candito; seltz: selz; wafer: vafer; walzer: valzer.
La squadra di calcio dell'Internazionale (attuale Inter) fu "comandata" di chiamarsi "Ambrosiana", fino all'eccesso di italianizzare anche i cognomi, tra i quali spiccava la diva, costretta a ribattezzarsi Vanda Orisi, anziché Wanda Osiris.
Un tentativo che alla fine si rivelò goffo e autoritario, anziché credibile ed autorevole in quanto si scontrava con la realtà di un paese caratterizzato da bilinguismo e plurilinguismo, considerando le molte comunità alloglotte, dove l’uso del codice dialettale era adottato da ampi strati della popolazione negli scambi comunicativi quotidiani. Un esperimento che non ha portato ad alcun risultato pratico; la questione dell’alfabetizzazione degli italiani non è stata risolta, le parole straniere non solo sono rimaste ma addirittura dopo la fine della guerra, con la fortissima influenza della lingua inglese, c’è stato un eccesso di gusto nell’usare anche parole inutili, come 'trend' in luogo di 'tendenza'. Ma con quel precedente è stato inevitabile.

sabato 22 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 luglio.
Il 22 luglio 1930 nasce Ferruccio Amendola.
Nato a Torino ma romano d'adozione, Ferruccio Amendola è stato il doppiatore più famoso e celebrato del cinema italiano. Ha prestato la sua inconfondibile voce a mostri sacri di Hollywood quali Robert De Niro, Al Pacino, Dustin Hoffman e Sylvester Stallone, nonché a Bill Cosby nella serie tv "I Robinson", Maurizio Arena e Tomas Milian.
Figlio d'arte e con una nonna essa stessa insegnante di dizione, Ferruccio Amendola ha iniziato a frequentare le sale di doppiaggio a soli cinque anni, quando ha dato la sua voce al bambino di "Roma città aperta". Era proprio la nonna che dietro le quinte gli insegnava le battute.
La sua è stata una vena artistica ereditata dalla famiglia; non esisteva ancora la tradizione del doppiaggio e i genitori erano figure di spettacolo più "tradizionali": suo padre era il regista cinematografico Pietro, mentre i nonni avevano alle spalle lunghi anni di esperienze teatrali.
Crescendo Ferruccio Amendola ha conservato l'amore per l'arte e si è dedicato al teatro, dove è apparso accanto a Walter Chiari, e soprattutto al cinema, non soltanto come doppiatore. Ha partecipato a un gran numero di pellicole a basso costo, in particolare i cosiddetti "musicarelli", dove compariva al fianco del cantante di turno, in genere nei panni dell'amico del cuore.
Nel 1959 Amendola ha interpretato il suo ruolo più importante, quello del soldato De Concini ne "La grande guerra" di Mario Monicelli. Fra gli altri film interpretati vale la pena ricordare "La banda del buco", "Marinai in coperta", "Viaggio di nozze all'italiana" e "Chissà perché...capitano tutte a me". Nonostante la sua lunga carriera cinematografica (a prescindere dalla sua esperienza con Roberto Rossellini in tenera età, ebbe il primo ruolo di rilievo nel 1943, a soli tredici anni, con "Gian Burrasca"), Ferruccio Amendola è diventato un volto noto per il grande pubblico soprattutto grazie alla fiction tv. Dopo "Storie d'amore e d'amicizia" di Franco Rossi, è stato il portinaio di "Quei trentasei gradini", il barbiere di "Little Roma" e il dottor Aiace di "Pronto Soccorso".
Anche se l'uomo all'apparenza poteva sembrare chiuso e scorbutico, Amendola non ha mai gestito la popolarità in modo egoistico. Si è invece speso sovente per girare campagne pubblicitarie a scopo benefico come quella del 1996 per Greenpeace e, negli ultimi mesi di vita, a favore della Giornata dei diritti dell'infanzia.
Naturalmente Ferruccio Amendola è rimasto nei cuori di tutti per il timbro inconfondibile della sua voce, prestata praticamente a tutti i grandi di Hollywood degli ultimi decenni. Lo ritroviamo in "Kramer contro Kramer", "Un uomo da marciapiede", "Il piccolo grande uomo" e "Tootsie", come voce di Dustin Hoffman, senza contare la serie di "Rocky" e quella di "Rambo" con Sylvester Stallone o il Robert De Niro di "Taxi Driver", "Toro scatenato",  "Il cacciatore", "c'era una volta in America". Anche un grande Al Pacino ai suoi esordi ha avuto l'onore di avere un doppiaggio di Amendola, quando girò "Serpico" (in seguito Al Pacino verrà doppiato da Giancarlo Giannini). E a ben pensarci: cosa sarebbero questi attori senza la voce del grande Ferruccio? Certamente sarebbero comunque dei miti, ma per noi sarebbero altrettanto molto diversi. Forse meno umani, meno "caldi", meno sfaccettati. Tutte caratteristiche che potevano trasparire, come in un diamante iridescente, solo dalla voce di Amendola.
L'indimenticabile doppiatore era sposato con Rita Savagnone, anche lei doppiatrice, da cui ha avuto tre figli: Claudio Amendola, attore come i genitori e altrettanto famoso, Federico e Silvia. Insieme l'hanno pianto il 3 settembre 2001 quando si è spento a Roma dopo una lunga malattia. Riposa a Roma nel cimitero del Verano.

venerdì 21 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 luglio.
Il 21 luglio 1798 Napoleone comanda il suo esercito nella Battaglia delle Piramidi.
La spedizione napoleonica in terra d'Africa del 1798 aveva lo scopo di conquistare l'Egitto, scacciare gli inglesi dall'Oriente, costruire un canale attraverso l'istmo di Suez e migliorare le condizioni della popolazione locale.
Una singolare caratteristica della spedizione era costituita dal gran numero di civili aggregati. Su di un totale di cinquecento, non meno di centosettanta erano famosi letterati, scienziati ed esperti nei vari campi.
Con trecento navi la spedizione, che raggiungeva un totale di 38 mila uomini, partì il 19 maggio 1798 ed approdò sul suolo africano il 1° luglio. La divisione del generale Desaix, appena sbarcata, venne subito inviata verso gli importanti punti strategici di Damanhur e Rahmaniya, questo vicinissimo al Nilo, a circa 70 chilometri da Alessandria. Il 5 luglio il generale Bon seguì le orme di Desaix.
Il 9 luglio Napoleone Bonaparte concentrò a Damanhur quattro divisioni che in tutto ammontavano a circa 18 mila uomini.
Nel frattempo i mamelucchi stavano preparandosi per affrontare l'invasore. Il pascià Abu Bakr, nominale capo di Stato turco, convocò al Cairo un'assemblea di notabili, ma Murad e Ibrahim erano le vere potenze del Paese e venne seguito il loro consiglio. Per difendere il Cairo essi proposero di dividere le loro forze: Murad, con 4000 mamelucchi a cavallo e una milizia di 12 mila "fellahin" doveva avanzare lungo il Nilo per intercettare i francesi, mentre Ibrahim doveva riunire il resto delle forze, forse 100 mila uomini, a Bulaq, vicino al Cairo.
Il primo scontro tra le due forze ebbe luogo il 10 luglio quando la divisione di Desaix ingaggiò una schermaglia vittoriosa con un distaccamento della cavalleria mamelucca.
Intanto Napoleone preparava i piani per affrontare Murad bey. Avendo saputo che i mamelucchi si trovavano a soli 13 chilometri di distanza verso sud, l'11 luglio ordinò di avanzare verso l'accampamento musulmano. Il giorno 13, a Shubra Khit, ebbe luogo uno scontro che fu in realtà poco più di una scaramuccia. Il 20 luglio le truppe napoleoniche raggiunsero Umm-Dinar, 30 chilometri a nord del Cairo. Le relazioni degli esploratori rivelarono la presenza di Murad nelle vicinanze, presso il villaggio di Embabeh.
Alle 2 del mattino del 21 luglio 1798 l'armata francese iniziò la marcia sul villaggio di Embabeh: dodici ore dopo avvistò il suo obiettivo. Dopo un'ora di riposo i soldati assunsero la posizione di battaglia. A circa 2 chilometri a sud stavano le file serrate dei 6.000 mamelucchi e 15.000 "fellahin" dell'esercito di Murad, la cavalleria sulla sinistra e la fanteria sulla destra, quest'ultima disposta intorno alle mura ed alle case di Embabeh, vicino al Nilo. Oltre il fiume stavano le schiere di Ibrahim, relegate al ruolo di spettatrici finché una tempesta di sabbia cancellò la sua visione. Venticinque chilometri più in là spiccavano i maestosi profili delle piramidi.
Prima dell'inevitabile assalto della cavalleria mamelucca, Napoleone esortò le sue truppe con la famosa frase: "Ricordatevi che da quelle piramidi quaranta secoli vi guardano": Poi fece schierare le sue divisioni su una linea diagonale di quadrati e le lanciò in avanti. In totale i francesi ammontavano a 25.000 uomini e godevano probabilmente di un considerevole vantaggio numerico sui loro avversari.
Sulla destra francese, verso il deserto, si trovava il quadrato del generale Desaix, appoggiato da vicino sulla retroguardia sinistra dal generale Reynier. I generali Vial e Bon si trovavano sulle rive del Nilo, di fronte ad Embabeh e nella riserva centrale stava la divisione del generale Dugua, mentre Bonaparte e il suo stato maggiore si riparavano entro questo quadrato.
Alle 3 e 30 del pomeriggio, i mamelucchi, gridando selvaggiamente caricarono la destra francese e quasi colsero di sorpresa Desaix e Reynier. Ma i quadrati delle divisioni francesi si richiusero appena in tempo con i cavalieri nemici che piombarono sulla retroguardia. Qui capitarono sotto il tiro di un obice situato all'interno del quadrato di Dugua e poco dopo la nube di cavalieri oscillò e tornò indietro verso il villaggio che si trovava sul lato di Desaix. La piccola guarnigione si arrampicò sui tetti delle case e tenne a bada l'orda dei mamelucchi fino a quando Desaix fu in grado di inviare rinforzi dal suo quadrato.
Come Napoleone aveva sperato, il formidabile esercito di cavalieri del nemico era stato così distratto dalla riva del fiume dove nel frattempo Vial e Bon stavano preparando un attacco contro le fortificazioni di Embabeh. Inaspettatamente le truppe francesi si trovarono sotto il pesante tiro di grossi cannoni egiziani nascosti nel villaggio, ma per loro fortuna questi erano montati su affusti fissi e non potevano essere girati. La divisione di Bon riacquistò subito il suo slancio e si dispose su diverse colonne di assalto appoggiate da tre piccoli quadrati comandati dal generale Rampon.
Dopo pochi minuti le truppe di Bon irruppero nel villaggio e poiché la guarnigione, composta da 2.000 mamelucchi, cercava di allontanarsi verso il Nilo, il generale Marmont inviò subito avanti una brigata ad impadronirsi di un passaggio alle spalle del paese. Trovandosi tagliata la ritirata, i mamelucchi si diressero disperati verso il Nilo cercando di attraversarlo per raggiungere l'esercito di Ibrahim che assisteva alla battaglia. Almeno 1.000 di essi annegarono ed altri 600 vennero uccisi dai colpi delle armi dei soldati francesi. Alle 4 e30 del pomeriggio la battaglia era terminata e Murad bey ed i suoi 3.000 cavalieri superstiti fuggivano verso Ghizeh ed il Medio Egitto.
Napoleone Bonaparte aveva finalmente ottenuto una vittoria decisiva. Con una perdita totale di 29 morti e di circa 260 feriti, il suo esercito aveva messo fuori combattimento 2.000 mamelucchi e parecchie altre migliaia di "fellahin".
Durante la notte che seguì la battaglia, Ibrahim bey abbandonò il Cairo e si ritirò verso est, bruciando le imbarcazioni nel porto.
Il 24 luglio 1798 Napoleone Bonaparte entrava nella capitale d'Egitto.

giovedì 20 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 luglio.
Il 20 luglio 1985 viene trovato nei fondali della Florida il relitto del galeone "Nuestra Señora de Atocha", affondato nel 1622.
Mel Fisher, esperto nel recuperare e salvare tesori nei relitti, ha impiegato 16 anni a trovare la nave, che era affondata durante un uragano nel lontano settembre del 1622. Le sue lunghe ricerche però si sono dimostrate molto meritevoli visto che con il suo equipaggio è riuscito a scoprire una fortuna nascosta di manufatti e tesori del valore di 400 milioni di dollari.
Il malloppo presentava più di 40 tonnellate di oro e argento, che comprendeva lingotti, 10,000 real noti come “pezzi da otto”, monete d’oro (molte delle quali in condizioni di conservazione fior di conio ), smeraldi colombiani, manufatti in argento e oro, gioielleria di squisita fattura, oltre a tantissimi articoli in uso a quei tempi nella loro banale quotidianità che tuttavia ci forniscono uno sguardo affascinante sui costumi della vita di mare agli inizi del diciassettesimo secolo.
L’uomo che con veemenza ha lavorato una vita intera per trovare il galeone Atocha è Mel Fisher, fin da piccolo lettore appassionato de L’isola del tesoro, che non ha mai desistito dal desiderio di recuperare il suo personalissimo tesoro sommerso. Lui e sua moglie sono stati tra i primi a sondare le possibilità commerciali dell’immersione subacquea andando a pesca di aragoste nelle fredde acque della California e poi inaugurando il primo esercizio pubblico di subacquea al mondo a Redondo Beach.
Fu Kip Wagner che nel 1962 persuase Mel a convertire la sua competenza di sommozzatore in cercatore di tesori da recuperare; così, in seguito, riuscirono a scoprire insieme e a ripescare con successo i vascelli della flotta spagnola nota come Spanish Plate Fleet che nel 1715 fu investita da una tromba d’aria mentre era in procinto di approdare sulle coste orientali della Florida. Questa impresa richiese dieci anni, ma in quel periodo Mel iniziò contemporaneamente le ricerche della Santa Margarita e dell’Atocha, entrambe travolte da un terribile uragano nel 1622. Localizzò la Santa Margarita nel 1980 che conteneva una fortuna del valore di 20 milioni di dollari. Di lì a poco trovò anche l’Atocha, l’altro galeone di scorta della capitana, amaranto della guardia reale, che si sapeva carica di ricchezze quando andò a fondo.
Il ritrovamento dell’Atocha, reputato il tesoro più ricco dai tempi del rinvenimento della tomba di Tutankhamon, si può considerare l’apice della carriera di Mel, e anche oggi i suoi figli continuano nella tradizione del padre ad andare alla ricerca e ai recuperi dei tesori. In effetti, sono proprio loro che proseguono nel lavoro sul relitto del naufragio Atocha, visto che continua a svelare segreti nonostante siano passati più di 30 anni.
Mel è mancato nel 1998 ma le imprese della sua vita possono essere ancora apprezzate grazie ad una visita al museo di Key West gestito dalla Mel Fisher Maritime Heritage Society, un’organizzazione no profit. Gli oggetti della Atocha e degli altri naufragi, inclusa la Margarita e la nave negriera inglese Henrietta Marie, sono conservati qui sia per essere studiati che per essere ammirati. In mostra, i visitatori potranno vedere lingotti e barrette in oro e argento, monete, cannoni e armi più piccole, rari strumenti di navigazione, gioielli preziosi e monili riccamente adorni, e perfino uno smeraldo da 77,7 carati.

mercoledì 19 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 luglio.
Il 19 luglio 1553 Maria Tudor sale al trono come regina d'Inghilterra, succedendo a Jane Grey che aveva regnato per solo nove giorni.
Maria I Tudor è una delle figure più controverse storicamente; basti pensare, per un attimo , ai due soprannomi con i quali è conosciuta, Maria la Sanguinaria e Maria la Cattolica.
Entrambi spregiativi, perché coniati in Inghilterra dopo la sua morte, in un paese passato dalla stretta osservanza religiosa alla chiesa di Roma allo scisma, doloroso, provocato da Enrico VIII, che non si ricompose mai più, e che dura fino ai giorni nostri.
Maria, figlia di Enrico VIII Tudor e di Caterina d’Aragona, nacque a Greenwich nel 1516; suo padre sperava in un erede maschio, per dare continuità alla stirpe, ed invece nacque lei, unica sopravvissuta ad una serie di aborti della madre. Per 18 anni la sua vita fu relativamente felice; il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina sembrava solido, nonostante le innumerevoli infedeltà dell’esuberante sovrano, e Maria, esile e bionda ragazzina, crebbe alla corte inglese, all’ombra dell’ingombrante padre. Fino al fatidico giorno in cui tutto andò in pezzi; il sovrano conobbe Anna Bolena, e da quel momento non ebbe più occhi che per la giovane amante, mettendo in disparte sia la moglie che la figlia. Maria divenne merce di scambio politico; venne promessa sposa al delfino di Francia, Francesco, poi a Carlo d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, a seconda di come spirava il vento delle alleanze europee.
Ma, come detto, l’infatuazione di Enrico per la giovane e bella Anna Bolena, dama di corte della regina Caterina, spezzò gli equilibri in campo e cambiò irrimediabilmente la sua vita. Il tentativo di Enrico di annullare le sue nozze con Caterina naufragò davanti alla determinazione sia del papa sia della moglie, e la cosa esasperò i rapporti tra i due coniugi, che divennero sempre più tesi. Caterina era cattolica, e amava sinceramente suo marito, e non accettò mai, fino alla morte, di riconoscere legittime le richieste di Enrico. Di pari passo andò il destino della giovane Maria, messa in disparte, allontanata da corte e privata dapprima del titolo nobiliare, fino all’atroce disconoscimento della sua legittimità. Per la giovane principessa arrivarono anni bui, culminati con la fulminea ascesa della Bolena, che la odiava, in quanto rivale al trono della piccola Elisabetta, nata dalle nozze con Enrico.
Allontanata dalla corte, poi dalla madre, Maria covò un odio fortissimo verso la Bolena, soprattutto dopo la morte della ex regina Caterina, vittima probabilmente di un cancro, o, come sostengono alcuni, di un avvelenamento da parte della Bolena. Forse anche il suo destino sarebbe stato irreparabilmente segnato se il volubile re non si fosse stancato della Bolena; stufo di dover attendere il sospirato erede maschio, il re si sbarazzò della moglie, accusandola di stregoneria, adulterio e incesto e la condannò alla decapitazione. Al fianco del sovrano comparve Lady Jane Seymour, figlia di un compagno d’armi di Enrico. La donna, di animo gentile anche se non bella come la Bolena, prese a benvolere Maria, riportandola a corte e ridandole quella dignità che le era stata negata. La morte improvvisa della Seymour, dovuta ad una setticemia fulminante sopraggiunta dopo la nascita del tanto sospirato erede maschio, Edoardo, sembrò catapultare daccapo Maria in una situazione difficile. Ma Enrico, che amava profondamente Jane Seymour, per due anni sembrò incapace di reagire, lasciando la ragazza , ormai ventunenne, alle prese con una corte in cui era vista con favore da coloro che avevano amato sua madre Caterina, e con odio dai riformatori, che ricordavano l’attaccamento della cattolicissima regina alla chiesa di Roma. La successiva sovrana d’Inghilterra, Anna di Cleves, donna semplice e assolutamente fuori posto alla corte inglese, la amò come una figlia. In tutti gli anni successivi Maria visse nell’ombra del padre, molto distante dalla figura paterna affettuosa e presente; e lei, che soffrì sempre di questa assenza, sembrò diventare una presenza invisibile a corte. Suo padre non aveva alcuna intenzione di nominarla erede, alla sua morte, e così Maria rimase priva completamente di qualsiasi istruzione politica. La morte di Enrico VIII segnò definitivamente uno spartiacque nella sua vita; sul trono d’Inghilterra salì Edoardo, il fratellastro nato dall’unione tra Enrico e Jane Seymour. Il giovane re, di salute cagionevole, non era destinato a regnare a lungo.
Il giovane nominò, come suo successore, Lady Jane Grey, pronipote di Enrico, e quarta in linea di successione al trono. Era stata una scelta assolutamente cervellotica, in quanto Enrico stesso aveva designato, in linea di successione, prima Edoardo e poi Maria Tudor come legittimi eredi al trono. Maria, che aveva 37 anni, sfoderò gli artigli; chiese l’appoggio popolare e quello della corte, e in soli nove giorni si prese, con la forza, quel regno che le spettava di diritto. E la sua vita cambiò repentinamente, così come cambiò quella del suo regno. Inesperta totalmente di affari di stato, essendo stata relegata in un angolo per quasi tutta la sua vita, Maria come primo atto del suo governo abolì quasi tutta la riforma religiosa del padre; era cattolica, come sua madre, e non aveva dimenticato come proprio questa professione di fede avesse influito sulla vita della madre. Ristabilì la messa com’era in origine, e nonostante l’opposizione del parlamento, riportò l’Inghilterra nell’orbita papale, oltre a restituire al clero larga parte di ciò che suo padre aveva tolto loro.
Nel 1554, a 38 anni, cercò di dare un compimento completo alla sua vita ma soprattutto cercò di dare un erede al trono d’Inghilterra; sposò Filippo II di Spagna, portando così il paese nell’orbita spagnola. Mentre accadevano questi avvenimenti, Maria si dedicò con zelo degno di miglior causa alla repressione di qualsiasi forma di eresia religiosa; nel paese comparvero, sinistramente, roghi destinati a coloro che si rifiutavano di seguire le leggi della chiesa di Roma. Mercanti e ecclesiastici, semplici cittadini e contadini, finirono arsi vivi colpevoli solo di dissentire sul ruolo di Roma negli affari religiosi. Gli eccessi portarono ad una rivolta capeggiata da Thomas Wyatt, duca di Kent, che aveva trovato seguito presso tutti coloro che non volevano l’ingerenza della Spagna nelle questioni inglesi, e che propugnavano la salita al trono di Elisabetta, figlia di Enrico e di Anna Bolena. La congiura fallì, anche perché buona parte del popolo si schierò con la sovrana; la repressione fu terribile e si concretizzò nel massacro dei congiurati. A farne le spese fu anche Jane Grey, mandata sul patibolo a soli 17 anni. L’opera di persecuzione verso i nemici del cattolicesimo continuò, tanto che ben presto la sovrana divenne popolare non più con il soprannome di cattolica, ma con quello di Bloody Mary, Maria la sanguinaria. Le nozze con Filippo furono un altro fallimento; lei era innamorata del marito, ma assolutamente non ricambiata; Filippo II cercò di rimanere quanto più lontano possibile dall’Inghilterra, recandosi in visita dalla consorte solo per il dovere coniugale. Un figlio con la regina Maria avrebbe significato il definitivo passaggio del paese nell’orbita spagnola. E il primo segnale venne dalla guerra dichiarata alla Francia, che ebbe però un esito nefasto; gli inglesi persero il porto di Calais, ultimo baluardo rimasto in terra francese dalla Guerra dei cent’anni.
Maria intanto vedeva il tempo passare, senza l’arrivo del sospirato erede; tuttavia ad un certo punto il miracolo sembrò avverarsi. Alla regina scomparve il ciclo, e la sua vita iniziò ad ingrossarsi. Ma il tempo necessario alla gestazione passò, senza che la regina mostrasse i segni del parto. I medici, stupefatti, la chiusero in una stanza, in attesa delle doglie, ma i giorni passarono e ben presto fu chiaro che Maria non era incinta, ma che continuava ad ingrassare per un tumore allo stomaco. Che la uccise il 17 novembre del 1558, all’età di 42 anni. Prima di morire, rifiutò di far giustiziare la sua sorellastra Elisabetta e spirò dopo una vita che, come abbiamo visto, non fu generosa con lei.
Una donna triste, come lo era stata sua madre, Caterina d’Aragona; vittima della ragion di stato, abbandonata sin da piccola da un padre che non la amò mai, ebbe anche la sfortuna di non ricevere un’educazione da regina, cosa che le costò il dover dipendere, nelle decisioni politiche, da personaggi ambigui. Le sue idee religiose, poi, rischiarono di spaccare il regno in maniera più pesante di come era avvenuto in passato; la sua morte non lasciò addolorati i suoi sudditi, nonostante essi venerassero ancora la figura di Caterina d’Aragona. Maria morì praticamente sola, lasciando l’Inghilterra priva di un’erede legittimo. Pure, di li a poco, il suo paese, per ironia della sorte, sarebbe passato nelle mani di un sovrano grande e illuminato, quella Elisabetta figlia di Enrico e di Anna Bolena, colei che il mondo avrebbe conosciuto come Elisabetta I Tudor, la regina vergine. Fu fatta tumulare nella cappella dell'Abbazia di Westminster, costruita a suo tempo dal nonno Enrico VII, nella stessa cripta dove verrà inumata la sorellastra Elisabetta I.

martedì 18 luglio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 18 luglio.
Il 18 luglio 64 d.C. iniziò il grande incendio di Roma, principale evento per cui passò alla storia l'imperatore Nerone.
Se si pensa a Nerone non c’è bisogno di dire chi era: tutti si ricordano che fu un imperatore romano, magari non si sa collocarlo temporalmente, ma non importa, quasi tutti si ricordano che ce l’aveva a morte con i cristiani e tanto basta per dargli un posto nella storia.
Tutti però, se conoscono Nerone sanno che si mise a cantare suonando la cetra mentre guardava Roma divorata dal fuoco… e tanto basta per dargli un posto anche nella leggenda.
Ma che cosa c’è di vero in questa immagine?
Tutto e niente sarebbe la risposta più corretta.
Per ogni fatto riportato dagli storici dell’epoca o dai detrattori dell’epoca - ma anche da chi provò a strumentalizzare l’evento negli anni successivi - infatti, si può dare un’interpretazione a favore o sfavore di Nerone.
Di sicuro si può dire che nel 64 d.C. a Roma ci fu un incendio devastante, l’incendio più disastroso che abbia mai toccato la città eterna, che mai come in quell’occasione rischiò la fine della propria esistenza.
Dolo o sfortunato accidente?
Non fa molta differenza. Roma era una città venuta su senza alcun piano urbanistico. Le case, domus patrizie o insulae plebee, erano state costruite riempiendo ogni spazio tra una e l’altra e se si eccettua il fatto che sulle cime dei sette colli sorgevano gli edifici istituzionali e le case dei patrizi, mentre in basso - le zone più malsane dove acqua e scoli ristagnavano - sorgevano quelle dei plebei, non si possono ravvisare altri criteri costruttivi sulla distribuzione delle costruzioni per tipologia.
In ogni caso, sia le domus che le insulae erano realizzate con l’impiego diffuso di materiali infiammabili: le travi per reggere i tetti, i cannicci per i solai e i pavimenti, le scale - le insule, sempre sovraffollate, raggiungevano anche i sei piani di altezza - erano tutti elementi di legno altamente infiammabili.
A tutto ciò si deve aggiungere che per cucinare e riscaldarsi in quell’epoca si ricorreva a bracieri senza veri e propri camini per contenere le fiamme ed estrarre i fumi.
In base alle considerazioni appena fatte, non deve dunque stupire sapere che a Roma scoppiassero ogni giorno, o quasi, incendi più o meno devastanti così come non deve stupire che, alla fine, uno di questi eventi crebbe fino a radere al suolo quasi tutta la città, come appunto accadde nel luglio del 64.
Ecco che per come si presentava la capitale del mondo a quell’epoca, parlare di dolo, perde di significato. Senza interventi urbanistici e organizzativi per prevenire e contrastare gli incendi, prima o poi, il disastro si sarebbe verificato.
Vero è che l’incendio alla fine del sesto giorno, quando ormai si poteva dire domato - dopo che circa metà della città era già andata in fumo - tornò a divampare!
Il focolaio del grande incendio del 64 si colloca nei pressi del Circo Massimo, nella zona compresa tra i colli Palatino e Celio. Una zona piena di botteghe artigiane che facevano largo uso di sostanze infiammabili: stoffe, lana, legname ecc. una miccia perfetta per poi aggredire gli spalti del Circo che, contrariamente all’immagine diffusa da classici della filmografia hollywoodiana, erano di legno e non di marmo.
Sembra poi che in piena estate, le condizioni fossero perfette per favorire la propagazione delle fiamme, portate dal vento asciutto da una costruzione all’altra che, come già accennato, sorgevano una a ridosso dell’altra, separate da vicoli strettissimi e tortuosi che oltre a non costituire valide barriere alla propagazione dell’incendio impedivano alla gente di scappare e ai soccorsi di intervenire.
Per sei giorni le fiamme si mossero su e giù per i colli senza che nessuna delle strategie messe in atto per arginarlo desse esiti favorevoli. Si provò anche ad abbattere interi edifici così da creare il vuoto attorno alle fiamme e impedire a queste di propagarsi.
Ma fu tutto inutile, il fuoco divorò tutto quello con cui venne in contatto fino alla fine del sesto giorno, quando Roma, ormai devastata per oltre metà della sua superficie, per un attimo, dopo aver visto bruciare l’Esquilino, si illuse che tutto fosse finito.
Le fiamme tornarono ad alzarsi nei Giardini Emiliani di proprietà di Tigellino, un fedelissimo di Nerone che da tempo influenzava le scelte dell’imperatore con idee di "economia spregiudicata". Tra cui, a detta dello storico Tacito, quella di finire di radere al suolo la città per poterla rifondare con un nome nuovo che ricordasse quello di Nerone: Neronia o Neropolis.
A sostegno di quanto ipotizzato da Tacito, c’è il fatto che le zone devastate dal secondo incendio fossero caratterizzate da ampi spazi con poco materiale infiammabile.
L’idea più diffusa tra gli storici moderni, vista la modalità con cui progredì l’incendio, si pone a cavallo tra l’idea dell’incidente e del dolo: se è vero, infatti, che la prima fase dell’incendio è riconducibile a una sfortunata casualità è davvero poco credibile che lo sia anche la seconda fase che verosimilmente può essere stata innescata apposta per avere ulteriori aree cittadine da riedificare.
Singolare in tutto ciò, il fatto che più fonti - Tacito, Svetonio e Cassio Dione - riferiscano l’episodio di Nerone salito sul tetto della propria casa per mettersi a cantare accompagnandosi con la cetra una canzone sull’incendio della città di Troia. Svetonio, in particolare, riferisce che per l’occasione l’imperatore che si dilettava di teatro abbia indossato degli sgargianti abiti di scena.
È proprio su quest’immagine che si focalizza la leggenda: se si pensa al grande incendio di Roma, ormai, tutti inevitabilmente pensano a Nerone che dal balcone canta davanti alle fiamme, immagine resa vivida dalla magistrale interpretazione di Peter Hustinof nel film Kolossal del 1951 Quo Vadis?.
Molto probabilmente, la verità, ancora una volta, si trova a metà strada: non è difficile credere, infatti, che per un uomo di cultura come Nerone impotente davanti all’avanzare delle fiamme, recitare i versi di una canzone che aveva per tema la forza distruttiva di un altro incendio devastante possa aver avuto la valenza di un lamento disperato, completamente scevra dunque da atti di gioia o soddisfazione.
Come per l’immagine del canto, le azioni fatte - o non fatte - da Nerone, prima, durante e dopo l’incendio possono essere viste sia in chiave a lui favorevole, sia avversa.
Come per esempio l’abbattimento delle insulae per arrestare l’avanzata delle fiamme: un’azione più che lecita vista l’impossibilità di contrastare le fiamme anche solo con l’acqua che all’ora era distribuita per la città sfruttando la gravità e non a pressione come avviene oggi permettendo l’uso di manichette per indirizzare i getti anche a decine di metri di altezza.
Ma l’abbattimento delle insulae poteva benissimo essere interpretato come l’ennesima vessazione verso i poveri, così come anche l’acqua che poteva essere gettata sulle fiamme solo a secchiate organizzando catene umane, venne ritenuta scarsa perché sprecata nelle ville dei patrizi per le loro fontane piene di zampilli.
Stessa cosa dicasi per gli aiuti forniti ai senza casa allestendo tendopoli fuori le mura e distribuendo la farina a prezzi forzatamente bassi: i detrattori, infatti, ritennero queste misure solo una farsa populista architettata da Nerone per nascondere le sue colpe.
Così come la costruzione della sua Domus Aurea che venne eretta proprio sopra le macerie di quanto andato distrutto negli ultimi tre giorni di catastrofe e che più di tutto sanno di dolo.
Inutile far notare che i danni maggiori ai poveri erano quelli avvenuti nei giorni precedenti. Non che questa considerazione possa essere una scusante nel caso in cui Nerone si sia macchiato davvero di questi orribili crimini, ma di certo aiuta a considerare quanto accaduto in una chiave eventualmente opportunistica a "cose" fatte e non di premeditata efferatezza e scellerataggine.
La maggior parte degli imperatori ritenuti pazzi, infatti, sono solo immagini create dai loro detrattori come ad esempio Caligola, predecessore di Claudio e Nerone, che venne definito tale per aver nominato il suo cavallo senatore: dietro a questa mossa invece c’era la precisa e lucida volontà dell’imperatore di dimostrare che i senatori con la fine della Repubblica avevano perso ogni potere.
Come si può parlare di conseguenze positive saltando a piè pari quelle negative? Purtroppo quelle negative sono legate ad aspetti che a noi, quasi duemila anni dopo, risultano ormai inconsistenti: un gran numero di vittime, un gran numero di case distrutte, un gran numero di templi e monumenti rasi al suolo… ma sono tutte cose cui non sappiamo dare un volto, una forma, un significato ulteriore a quello letterale delle parole.
Unica eccezione sono le persecuzioni ai danni dei cristiani che condizionarono la storia fino ai giorni nostri e che meritano di essere trattate a parte, anche perché successive addirittura all’avvenuta ricostruzione della maggior parte della città.
Dunque, quali possono essere le conseguenze positive di un disastro di tale portata e tragicità?
Come già accennato all’inizio, la città eterna fino al 64 d.C. era stata costruita senza piani regolatori, senza criteri costruttivi se non quello di sfruttare tutti gli spazi a disposizione anche i più angusti. Per ordine dello stesso Nerone, invece, la ricostruzione avvenne in base a poche ma significative direttive generali.
Innanzitutto vennero tracciati i percorsi delle strade principali stabilendone le dimensioni.
Quindi venne imposto che domus o insulae adiacenti non avessero muri in comune, per evitare che fuoco e crolli potessero ripercuotersi direttamente sulle costruzioni confinanti.
Fu imposto anche che gli edifici dovessero essere realizzati con meno legno possibile sfruttando pietre come quelle estratte dalle cave di Gabio e di Alba per gli architravi sopra finestre e porte o i pilastri.
Venne istituito un servizio di sorveglianza al fine di garantire a tutti i luoghi della città l’arrivo di un quantitativo adeguato d’acqua.
Poste queste condizioni, Nerone incentivò la ricostruzione - almeno per quanto riguarda la maggior parte delle abitazioni - concedendo significativi rimborsi se i lavori fossero stati ultimati entro un anno dalla catastrofe.
Questo per quanto riguarda le conseguenze che si possono considerare dirette, tra le conseguenze indirette, rientrano invece tutte quelle costruzioni che altrimenti non avrebbero avuto la possibilità di essere erette se la città non fosse stata prima rasa al suolo.
Costruzioni tra le quali si annoverano opere oramai entrate nell’immaginario collettivo tra le quali spiccano la Domus Aurea, la gigantesca e sontuosa nuova residenza dell’imperatore, e il monumento per eccellenza legato al potere della Roma imperiale: il Colosseo.
La famosa arena o, più correttamente, l’Anfiteatro Flavio, infatti, realizzato a partire dal 70 d.C. per opera di Vespasiano - successore di Nerone dopo Galba, Otone e Vitellio alla fine della guerra civile ricordata come "l’anno dei quattro imperatori" - sorse su un’area in cui Nerone aveva fatto realizzare un laghetto artificiale impedendo la ricostruzione di quanto andato perso a causa del fuoco.
Insomma, cinicamente, si può affermare che senza incendio e manie di grandezza di Nerone, quello che a oggi è il simbolo per eccellenza nel mondo di Roma e dell’Italia non avrebbe avuto la possibilità di essere eretto, di più, Vespasiano lo realizzò con l’intento di accattivarsi la benevolenza del popolo facendo notare la differenza tra la sua persona "altruista" e quella di Nerone "superba ed egocentrica".
Se il Colosseo si chiama così, infatti, è ancora una volta "merito" di Nerone che davanti al lago su cui sorse l’arena aveva fatto erigere una sua statua bronzea di dimensioni colossali, statua che alla sua morte venne modificata per rappresentare la divinità di Sol Invictus ma che nel volgere di pochi anni venne abbattuta per recuperare il prezioso materiale di cui era fatta lasciando ai posteri solo il nome con cui era conosciuta e che per beffa era passato a indicare la grande arena gladiatoria.
"Allo scopo di liberarsi da essa [l’accusa d’aver dato premeditatamente fuoco alla città]" tanto per dirla con le parole di Cornelio Tacito "egli [Nerone] accusò altri di una tal colpa, destinando ad atroci pene coloro che il volgo chiamava cristiani, già mal visti per le loro ribalderie".
A essere precisi, anche le ribalderie tirate in causa da Tacito sono più illazioni che certezze.
I cristiani, infatti, incominciavano a essere scomodi: il loro credo di eguaglianza di fronte a Dio, ormai, si stava diffondendo tra gli strati più bassi della società agitando gli animi dei più vessati dalla minoranza patrizia che deteneva il potere e che si trovava sempre più costretta a concedere diritti ai plebei.
Nerone fece arrestare diversi cristiani tra i pochi che si professavano pubblicamente tali cui, poi, sotto tortura estorse i nomi di molti altri che coltivavano segretamente la nuova fede in Cristo condannandoli tutti a morte una volta fattigli confessare di aver appiccato l’incendio.
Questa campagna contro i cristiani trovò il sostegno trasversale di molti, equamente distribuiti tra tutte le classi sociali, che per motivi di convenienza vedevano di buon occhio l’eliminazione dei Cristiani, delle loro idee e delle attività che conducevano.
Com’è possibile allora, visti i larghi consensi, che la caccia ai cristiani fu proprio l’atto che determinò la disfatta di Nerone?
Il suo errore, infatti, non fu l’aver preso di mira i cristiani, quanto l’aver confuso l’esemplarità delle loro esecuzioni con la spettacolarizzazione.
Nerone organizzò dei veri e propri spettacoli aprendo i giardini della propria villa alla città e, tornando di nuovo a dirla con le parole di Tacito: "facendoli dilaniare dai cani, […] o crocefiggendoli, e facendoli bruciare ricoperti di pece e cera, così che di notte servissero quali fiaccole".
Mentre si svolgevano tali crudeltà sembra che l’imperatore amasse mischiarsi alla folla vestito da auriga. Questi atti però vennero interpretati come eccessivi. Nonostante tutti fossero ancora disposti ad additare i cristiani come causa di tutti i mali che affliggevano Roma, infatti, videro queste macabre messe in scena come l’ennesimo sfogo della pazzia raccapricciante di Nerone che, al termine delle persecuzioni, risultò inviso al popolo ancor più di quanto non lo fosse prima che la città eterna prendesse fuoco.
Tra le vittime delle persecuzioni neroniane si annoverano i Santi Pietro e Paolo: il primo crocifisso a testa in giù e bruciato vivo, il secondo decapitato.
E se invece fossero stati davvero i cristiani?
A quell’epoca la comunità cristiana, ma ancor più il loro stesso credo, la loro liturgia, non erano una costante. Anzi, se oggi possiamo intendere il cristianesimo un culto ben definito è solo perché nei secoli si sono succeduti diversi sinodi che hanno di volta in volta precisato il concetto stesso di chiesa cristiana.
Ai tempi di Nerone, infatti, i cristiani si dividevano in diversi gruppi portando avanti diversi tipi di culto, a volte anche molto diversi tra loro nonostante che il principio ispiratore fosse lo stesso.
In particolare, sembra che tra questi ce ne fosse uno d’idee estremiste, che spinto da un’incontenibile volontà di rivalsa e supportato da correnti politiche avverse all’imperatore possa davvero aver innescato l’incendio.
Tale ipotesi, ripresa recentemente dallo storico Dimitri Landeschi, ma già avanzata in precedenza da Carlo Pascal, Gerhard Baudy e Giuseppe Caiati, spiegherebbe la comparsa dei nuovi focolai alla fine del sesto giorno e anche la diffusa avversione verso tutte le azioni messe in atto da Nerone durante e dopo la catastrofe.
Dopo quanto detto, sembra impossibile poter dare una spiegazione certa della catastrofe che rase al suolo Roma nel 64 d.C. e le recenti ipotesi sulle frange estreme del cristianesimo aprono scenari nuovi da cui emerge che forse, comunque sia andata, a tutte le vittime bisognerebbe aggiungerne un’altra: Nerone, morto suicida quattro anni dopo.
Vittima anche oltre la morte, visto che il senato, appresa la notizia, lo condannò alla Damnatio Memorie.
Singolare il fatto che diverse fonti postume riportino episodi a favore della benevolenza nei suoi confronti da parte del popolo, talmente attaccato a Nerone da continuare a portare fiori freschi sulla sua tomba, arrivando ad alimentare perfino leggende su un suo possibile ritorno poiché non morto ma andato in esilio a organizzare la lotta contro i patrizi, se non a predicare la sua reincarnazione a un anno dalla sua scomparsa nello spirito dell’imperatore Otone. O, vent’anni più tardi, in quello di uno sconosciuto che, col sostegno dei Parti, rivendicò il titolo d’imperatore dopo che il re Vologeso tramite i suoi ambasciatori al Senato per riconfermare l'alleanza con Roma aveva richiesto che venisse onorata la memoria di Nerone.
Nerone? Opportunista sì, pazzo no, vittima… forse.

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