Buongiorno, oggi è il 31 agosto.
Il 31 agosto 1997 a Parigi nel tunnel presso il Pont de l'Alma, la Mercedes S280 guidata da Henri Paul si schiantava a forte velocità contro il 13esimo pilastro del tunnel provocando la morte del conducente e dei passeggeri posteriori, Dodi Al-Fayed, figlio del magnate arabo proprietario dei grandi magazzini Harrod's di Londra, e Lady Diana Spencer, principessa ex moglie di Carlo d'Inghilterra. Solo la guardia del corpo, seduta nel posto del passeggero, si salvava grazie al fatto che indossava la cintura di sicurezza al momento dell'impatto.
Sull'incidente si è discusso molto sui giornali, sia per l'identità illustre delle vittime, sia per l'insistenza con cui Mohamed Al-Fayed, padre di Dodi, indicava in un complotto con i servizi segreti coinvolti nella volontà di uccidere la principessa, rea di essere incinta e dunque di porre la famiglia reale in una posizione scomoda, avendo un fratello del futuro re di sangue arabo.
Quello che è certo è che il guidatore (nel cui sangue è stata rinvenuta un'alta concentrazione di antidepressivi e un alto tasso alcolico) viaggiava a velocità sostenuta, circa 110 km/h, per evitare l'assalto dei paparazzi che dall'uscita dell'hotel inseguivano la coppia, e che al momento di imboccare la rampa in discesa per il tunnel la Mercedes sbandò a causa della collisione con una Fiat Uno proveniente dal controviale.
La tesi del complotto si basano, oltre che sulle insistenze del padre di Dodi, anche sulle parole dell'ex agente segreto britannico Richard Tomlinson, secondo il quale l'incidente fu provocato da agenti segreti che con un laser accecarono il guidatore costringendolo a sbandare, nonchè su una lettera scritta da Diana alcuni mesi prima della sua morte e consegnata al suo maggiordomo, nella quale esprimeva la paura di rimanere vittima di un incidente stradale per opera dell'ex marito Carlo.
Su questa tesi non c'è stato mai alcun riscontro, tuttavia sono da segnalare alcuni morte sospette avvenute negli anni successivi, quali quella del fotografo James Andarson, trovato morto nel 2004 nelle campagne presso Montpellier per un presunto suicidio e quella dello scrittore Frederic Dard a cui Andarson aveva raccontato tutta la vicenda accaduta sotto i suoi occhi.
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lunedì 31 agosto 2020
domenica 30 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 30 agosto.
Una fine estate torrida quella del 1970 a Roma. L’elegante quartiere dei Parioli alle sette di sera del 30 agosto è praticamente deserto. Gli abitanti di quella zona così ricca ed esclusiva sono quasi tutti ancora in vacanza. Nessuno dalla strada ode quei tre colpi di fucile da caccia che, in rapida successione, squassano il silenzio del lussuoso attico di via Puccini 9. Li sente solo la servitù che non osa però entrare nello studio del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino. L’ordine è stato tassativo: nessuno deve disturbare. Non resta loro che chiamare la polizia.
Lo spettacolo che si presenta agli increduli agenti è sconvolgente: Anna Fallarino, coniugata Casati, la moglie del marchese, ancora bellissima e seducente, nonostante i suoi 41 anni, è riversa senza vita su una poltrona, un seno spappolato da una raffica di pallini sparati da un fucile da caccia calibro 12. Dietro un tavolino rovesciato c’è il corpo esanime di un giovane: è Massimo Minorenti, 25 anni, amante della donna. Lui, il marchese Casati, 43 anni, è sdraiato a terra con accanto il fucile ancora caldo. Un colpo gli ha staccato una parte del viso. Un orecchio penzola dalla cornice di un quadro.
Per gli investigatori è un caso che si chiude prima ancora di essere aperto. Il marchese, che aveva convocato i due fedifraghi per un ultimo chiarimento, in preda ad un raptus di follia dettato dalla gelosia, ha prima ucciso la moglie, poi ha fatto fuoco sul giovane e alla fine si è tolto la vita. Nessun mistero.
Eppure la strage di via Puccini diventa il giallo dell’estate, tra i delitti dell’Italia del dopoguerra certamente quello che più eccita la morbosità dei media e dell’opinione pubblica. Il risvolto morboso sta nelle personalità delle tre vittime: lui, nobile e ricchissimo; lei, poverissima, che grazie alla sua bellezza prorompente aveva scalato tutti i gradini della scala sociale; l’altro il giovane studente fuori corso, bello e squattrinato.
Ma soprattutto nei retroscena nascosti in una sterminata collezioni di foto osè dove la marchesa è ritratta in posizioni oscene, sola oppure con altri uomini e altre donne. E poi dal minuzioso diario tenuto dal marchese, dove si racconta del suo voyeurismo e delle sensazioni che provava a spiare la moglie posseduta da altri maschi, spesso compagni occasionali, che lui pagava un tanto a prestazione.
L’Italietta di quell'inizio dei tremendi anni Settanta - che legge di nascosto Playboy dove al massimo riesce a scrutare la curva di un seno velato – di fronte all'emergere così palese di quel mondo viziato e vizioso perde la testa. Le foto di lei finiscono su riviste scandalistiche specializzate. La storia di quel triangolo maledetto appassiona il pubblico: dopo anni di giochi erotici che forse appassionavano anche lei, ma piacevano tanto a lui, Anna aveva scoperto l’amore di un ragazzo di tanti anni più giovane di lei. Lui, che sopportava che altri uomini possedessero quel corpo così bello, impazzì, uccise e si uccise perché lei aveva scoperto l’amore. Che il corpo appartenesse anche ad altri, lo eccitava. Che qualcuno ora possedesse il suo cuore questo no, non poteva sopportarlo.
Tra le curiosità annoveriamo il fatto che tra le proprietà del marchese vi erano numerose ville nei dintorni di Milano, una delle quali, Villa San Martino, fu poi comprata da Berlusconi.
Una fine estate torrida quella del 1970 a Roma. L’elegante quartiere dei Parioli alle sette di sera del 30 agosto è praticamente deserto. Gli abitanti di quella zona così ricca ed esclusiva sono quasi tutti ancora in vacanza. Nessuno dalla strada ode quei tre colpi di fucile da caccia che, in rapida successione, squassano il silenzio del lussuoso attico di via Puccini 9. Li sente solo la servitù che non osa però entrare nello studio del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino. L’ordine è stato tassativo: nessuno deve disturbare. Non resta loro che chiamare la polizia.
Lo spettacolo che si presenta agli increduli agenti è sconvolgente: Anna Fallarino, coniugata Casati, la moglie del marchese, ancora bellissima e seducente, nonostante i suoi 41 anni, è riversa senza vita su una poltrona, un seno spappolato da una raffica di pallini sparati da un fucile da caccia calibro 12. Dietro un tavolino rovesciato c’è il corpo esanime di un giovane: è Massimo Minorenti, 25 anni, amante della donna. Lui, il marchese Casati, 43 anni, è sdraiato a terra con accanto il fucile ancora caldo. Un colpo gli ha staccato una parte del viso. Un orecchio penzola dalla cornice di un quadro.
Per gli investigatori è un caso che si chiude prima ancora di essere aperto. Il marchese, che aveva convocato i due fedifraghi per un ultimo chiarimento, in preda ad un raptus di follia dettato dalla gelosia, ha prima ucciso la moglie, poi ha fatto fuoco sul giovane e alla fine si è tolto la vita. Nessun mistero.
Eppure la strage di via Puccini diventa il giallo dell’estate, tra i delitti dell’Italia del dopoguerra certamente quello che più eccita la morbosità dei media e dell’opinione pubblica. Il risvolto morboso sta nelle personalità delle tre vittime: lui, nobile e ricchissimo; lei, poverissima, che grazie alla sua bellezza prorompente aveva scalato tutti i gradini della scala sociale; l’altro il giovane studente fuori corso, bello e squattrinato.
Ma soprattutto nei retroscena nascosti in una sterminata collezioni di foto osè dove la marchesa è ritratta in posizioni oscene, sola oppure con altri uomini e altre donne. E poi dal minuzioso diario tenuto dal marchese, dove si racconta del suo voyeurismo e delle sensazioni che provava a spiare la moglie posseduta da altri maschi, spesso compagni occasionali, che lui pagava un tanto a prestazione.
L’Italietta di quell'inizio dei tremendi anni Settanta - che legge di nascosto Playboy dove al massimo riesce a scrutare la curva di un seno velato – di fronte all'emergere così palese di quel mondo viziato e vizioso perde la testa. Le foto di lei finiscono su riviste scandalistiche specializzate. La storia di quel triangolo maledetto appassiona il pubblico: dopo anni di giochi erotici che forse appassionavano anche lei, ma piacevano tanto a lui, Anna aveva scoperto l’amore di un ragazzo di tanti anni più giovane di lei. Lui, che sopportava che altri uomini possedessero quel corpo così bello, impazzì, uccise e si uccise perché lei aveva scoperto l’amore. Che il corpo appartenesse anche ad altri, lo eccitava. Che qualcuno ora possedesse il suo cuore questo no, non poteva sopportarlo.
Tra le curiosità annoveriamo il fatto che tra le proprietà del marchese vi erano numerose ville nei dintorni di Milano, una delle quali, Villa San Martino, fu poi comprata da Berlusconi.
sabato 29 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 agosto.
Il 29 agosto 1991 alle 7.30 del mattino veniva ucciso da Salvatore Madonia in via Alfieri a Palermo con tre colpi di pistola alla nuca Libero Grassi, reo di non voler pagare il pizzo alla mafia.
Libero Grassi nasce a Catania il 19 Luglio 1924; il suo nome, o piuttosto l’aggettivo, com'egli stesso affermava, gli era stato imposto per tramandare la memoria del sacrificio di Giacomo Matteotti. Il nome segna così il destino di colui che muore per affermare la propria libertà.
Nel 1932 Libero ha otto anni quando la famiglia Grassi si trasferisce a Palermo, perché il capofamiglia è promosso direttore dei negozi “CROFF”. In quegli anni, nonostante la politica d’avvicinamento della borghesia produttiva alle idee del regime fascista, la famiglia Grassi mostra un atteggiamento “afascista” in pubblico e antifascista in privato. Libero vive con spensieratezza gli anni dell’adolescenza, imparando a comprendere il significato dei principi di democrazia e libertà. E’ durante gli studi liceali, compiuti al “Vittorio Emanuele” che Libero matura una concreta ostilità al fascismo, assumendo e manifestando “pacifici” atteggiamenti antifascisti. Gli ultimi anni di liceo sono turbati dallo scoppio della guerra e nel 1942 la famiglia si trasferisce a Roma presso la nonna materna. Qui Libero s’iscrive alla facoltà di Scienze Politiche. Nel 1943 inizia a frequentare l’università ed il giovane dimostra palese avversione alla politica antisemita, nazista e fascista. Decide allora di entrare in convento e di essere accolto come seminarista, decisione questa presa, non per una vocazione maturata nell’avversità della guerra, bensì per il rifiuto di combattere una guerra ingiusta al fianco di fascisti e nazisti. Liberata Roma dai nazisti, torna alla sua vita in famiglia dove prosegue gli studi iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza.
Nel 1945 la famiglia si ristabilisce a Palermo e qui Libero continua gli studi di legge. Raggiunta la laurea, il padre vorrebbe che egli prendesse le redini dell’attività commerciale, ma il principale desiderio di Libero è di intraprendere la carriera diplomatica, conoscendo bene il francese e l’inglese.
Nei primi anni 50 decide di andare al nord dove ha l’opportunità di mettere su un’azienda, con il fratello Pippo a Gallarate e l’impresa ha subito successo.
Negli anni vissuti al nord Libero frequenta con assiduità il mondo dell’imprenditoria locale, gode di un discreto reddito e si reca spesso al teatro. A Milano conosce un imprenditore che gli propone un progetto ambizioso: impiantare stabilimenti industriali tessili a Palermo. Libero preferisce rischiare in proprio, piuttosto che accettare un tranquillo posto come funzionario di banca: sorge così la MIMA (Manifattura Maglieria ed Affini), la quale produrrà per tutti gli anni 50 biancheria da donna, arrivando ad occupare circa 250 operai.
Nel 1954 ritrova Pina Maisano, architetto, che aveva conosciuto durante gli anni dell’adolescenza, i due si sposano e prendono casa in Via D’Annunzio, un appartamento al sesto piano con un bellissimo terrazzo….”la terrasse de ma maison, oui, c’ est là que je retournerais au frais de l’ètè” … Nel 56 nasce il primogenito Davide.
Nella seconda metà degli anni 50, Libero fa continui viaggi per l’Italia alla ricerca dei tessuti idonei alla sua produzione. In questo periodo si reca a Roma nella redazione del “Mondo” o dell’Espresso”. Nel frattempo continua a scrivere articoli politici per i giornali locali. Il primo articolo appare nel 1961. L’imprenditore, che oramai partecipa attivamente alla vita politica del PRI, viene nominato dal partito, nella seconda metà degli anni ‘70, suo rappresentante in seno al consiglio di amministrazione dell’azienda municipalizzata del gas.
Tra la fine del 74 e l’inizio del 75, Grassi si getta insieme ad altri amici in una nuova avventura imprenditoriale che però non avrà il successo sperato. L’idea è di realizzare una società dal nome “Solange impiantistica”, il cui scopo è quello di sfruttare l’energia solare per produrre energia elettrica. L’azienda pur essendo formalmente costituita non iniziò mai a lavorare.
Nel ‘79 i vecchi locali della SIGMA vengono venduti dalla proprietà (un’immobiliare milanese) ad un costruttore palermitano. Libero è costretto a lasciare quella sede, per cercarne un'altra. Trova una sede di 2000 metri quadrati in Via Thaon di Revel. Questo trasferimento di sede, segna l’inizio di una serie di difficoltà economiche e sociali per la conduzione dell’azienda di famiglia.
Nella metà degli anni '80 iniziano i problemi con la criminalità organizzata. Grassi riceve una telefonata di minacce alla sua incolumità personale, se non pagherà una certa somma a due emissari che si presenteranno per riscuotere: egli rifiuta di pagare. La prima conseguenza del suo rifiuto è il rapimento di Dick, il cane lasciato a guardia degli stabilimenti della SIGMA, che verrà poi restituito in fin di vita.
Dopo poco tempo, due giovani a volto scoperto tentano di rapinare le paghe dei dipendenti della fabbrica: saranno identificati e arrestati grazie ad alcuni dipendenti di Grassi. Ma in cuor suo Libero sa che è solo l'inizio, poiché la sua azienda, terza leader italiana nel settore della pigiameria, con un fatturato di sette miliardi, non può non suscitare gli appetiti dei malavitosi palermitani.
Il 10 gennaio 1991 Libero Grassi fa pubblicare al "Giornale di Sicilia" una lettera nella quale motiva razionalmente il suo no all'ennesimo ricatto estorsivo: ”….. Volevo avvertire il nostro ignoto estortore che non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia…..se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui”.
L'imprenditore rifiuta l'offerta di una scorta personale, ma consegna simbolicamente alle forze di polizia le quattro chiavi dell’azienda, chiedendo così protezione per gli stabilimenti della SIGMA.
Nel frattempo l'imprenditore viene contattato da Sandro Ruotolo, redattore di "Samarcanda", che lo invita a RAI 3 per parlare della sua lotta condotta, purtroppo, nell'indifferenza degli industriali siciliani. La trasmissione dell'11 aprile 1991 è fondamentale nell'iter di contrapposizione al crimine che Grassi sta conducendo, perché rende il suo caso di dominio nazionale, quale emblema civile della lotta alla mafia. A questo punto rendendosi conto del ruolo che sta assumendo, dichiara con forza a Santoro: “Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”.
Alla fine di maggio una giornalista tedesca, Katharina Burgi, della rivista “Nzz Folio”, viene invitata a Palermo per trarre impressioni e notizie sul fenomeno della mafia. Tra le persone che incontra vi è Libero Grassi, l’imprenditore divenuto famoso, in Europa e Usa, per aver rifiutato pubblicamente di cedere al ricatto che gli imponeva la mafia. La giornalista rimane colpita dalla forza interiore di Grassi. Egli appare deciso a lottare per la difesa dei propri interessi, con la speranza che il suo esempio sia, per tanti altri siciliani rassegnati dinanzi alla forza della mafia, l’inizio di una ribellione pacifica che sottragga il nome della Sicilia alle accuse di mafiosità.
Libero Grassi viene assassinato il 29 agosto 1991 alle ore 7:30 del mattino. La stampa locale nazionale farà di lui un martire della resistenza al “regime” mafioso.
L’11 settembre il Parlamento Europeo approva una risoluzione, in cui manifesta profonda indignazione per l’assassino dell’imprenditore palermitano ed esprime il proprio commosso cordoglio ai familiari della vittima.
Ma l’unico e vero momento pubblico rilevante è la trasmissione televisiva, del 20 settembre 1991. La serata, voluta da Michele Santoro e Maurizio Costanzo a rete unificate RAI FINIVEST, è interamente dedicata alla memoria di Libero Grassi e di quanti sono caduti nel corso della “lunga battaglia” contro la mafia; il giornale di RAI 3 conduce la prima parte della trasmissione dal teatro “ Biondo” di Palermo, mentre Costanzo la conclude dal teatro “Parioli” di Roma. I due sono consapevoli che stanno facendo vivere qualcosa di indimenticabile, e la Sicilia si riconosce nel segno di “ vittoria” che Davide Grassi ha mostrato portando a spalla il feretro di suo padre. Hanno ucciso l’uomo non la sua idea, che continuerà a vivere nel ricordo di ogni cittadino onesto.
Per il suo omicidio sono stati condannati all'ergastolo con sentenza definitiva diversi boss mafiosi, tra cui Riina e Provenzano.
Il 29 agosto 1991 alle 7.30 del mattino veniva ucciso da Salvatore Madonia in via Alfieri a Palermo con tre colpi di pistola alla nuca Libero Grassi, reo di non voler pagare il pizzo alla mafia.
Libero Grassi nasce a Catania il 19 Luglio 1924; il suo nome, o piuttosto l’aggettivo, com'egli stesso affermava, gli era stato imposto per tramandare la memoria del sacrificio di Giacomo Matteotti. Il nome segna così il destino di colui che muore per affermare la propria libertà.
Nel 1932 Libero ha otto anni quando la famiglia Grassi si trasferisce a Palermo, perché il capofamiglia è promosso direttore dei negozi “CROFF”. In quegli anni, nonostante la politica d’avvicinamento della borghesia produttiva alle idee del regime fascista, la famiglia Grassi mostra un atteggiamento “afascista” in pubblico e antifascista in privato. Libero vive con spensieratezza gli anni dell’adolescenza, imparando a comprendere il significato dei principi di democrazia e libertà. E’ durante gli studi liceali, compiuti al “Vittorio Emanuele” che Libero matura una concreta ostilità al fascismo, assumendo e manifestando “pacifici” atteggiamenti antifascisti. Gli ultimi anni di liceo sono turbati dallo scoppio della guerra e nel 1942 la famiglia si trasferisce a Roma presso la nonna materna. Qui Libero s’iscrive alla facoltà di Scienze Politiche. Nel 1943 inizia a frequentare l’università ed il giovane dimostra palese avversione alla politica antisemita, nazista e fascista. Decide allora di entrare in convento e di essere accolto come seminarista, decisione questa presa, non per una vocazione maturata nell’avversità della guerra, bensì per il rifiuto di combattere una guerra ingiusta al fianco di fascisti e nazisti. Liberata Roma dai nazisti, torna alla sua vita in famiglia dove prosegue gli studi iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza.
Nel 1945 la famiglia si ristabilisce a Palermo e qui Libero continua gli studi di legge. Raggiunta la laurea, il padre vorrebbe che egli prendesse le redini dell’attività commerciale, ma il principale desiderio di Libero è di intraprendere la carriera diplomatica, conoscendo bene il francese e l’inglese.
Nei primi anni 50 decide di andare al nord dove ha l’opportunità di mettere su un’azienda, con il fratello Pippo a Gallarate e l’impresa ha subito successo.
Negli anni vissuti al nord Libero frequenta con assiduità il mondo dell’imprenditoria locale, gode di un discreto reddito e si reca spesso al teatro. A Milano conosce un imprenditore che gli propone un progetto ambizioso: impiantare stabilimenti industriali tessili a Palermo. Libero preferisce rischiare in proprio, piuttosto che accettare un tranquillo posto come funzionario di banca: sorge così la MIMA (Manifattura Maglieria ed Affini), la quale produrrà per tutti gli anni 50 biancheria da donna, arrivando ad occupare circa 250 operai.
Nel 1954 ritrova Pina Maisano, architetto, che aveva conosciuto durante gli anni dell’adolescenza, i due si sposano e prendono casa in Via D’Annunzio, un appartamento al sesto piano con un bellissimo terrazzo….”la terrasse de ma maison, oui, c’ est là que je retournerais au frais de l’ètè” … Nel 56 nasce il primogenito Davide.
Nella seconda metà degli anni 50, Libero fa continui viaggi per l’Italia alla ricerca dei tessuti idonei alla sua produzione. In questo periodo si reca a Roma nella redazione del “Mondo” o dell’Espresso”. Nel frattempo continua a scrivere articoli politici per i giornali locali. Il primo articolo appare nel 1961. L’imprenditore, che oramai partecipa attivamente alla vita politica del PRI, viene nominato dal partito, nella seconda metà degli anni ‘70, suo rappresentante in seno al consiglio di amministrazione dell’azienda municipalizzata del gas.
Tra la fine del 74 e l’inizio del 75, Grassi si getta insieme ad altri amici in una nuova avventura imprenditoriale che però non avrà il successo sperato. L’idea è di realizzare una società dal nome “Solange impiantistica”, il cui scopo è quello di sfruttare l’energia solare per produrre energia elettrica. L’azienda pur essendo formalmente costituita non iniziò mai a lavorare.
Nel ‘79 i vecchi locali della SIGMA vengono venduti dalla proprietà (un’immobiliare milanese) ad un costruttore palermitano. Libero è costretto a lasciare quella sede, per cercarne un'altra. Trova una sede di 2000 metri quadrati in Via Thaon di Revel. Questo trasferimento di sede, segna l’inizio di una serie di difficoltà economiche e sociali per la conduzione dell’azienda di famiglia.
Nella metà degli anni '80 iniziano i problemi con la criminalità organizzata. Grassi riceve una telefonata di minacce alla sua incolumità personale, se non pagherà una certa somma a due emissari che si presenteranno per riscuotere: egli rifiuta di pagare. La prima conseguenza del suo rifiuto è il rapimento di Dick, il cane lasciato a guardia degli stabilimenti della SIGMA, che verrà poi restituito in fin di vita.
Dopo poco tempo, due giovani a volto scoperto tentano di rapinare le paghe dei dipendenti della fabbrica: saranno identificati e arrestati grazie ad alcuni dipendenti di Grassi. Ma in cuor suo Libero sa che è solo l'inizio, poiché la sua azienda, terza leader italiana nel settore della pigiameria, con un fatturato di sette miliardi, non può non suscitare gli appetiti dei malavitosi palermitani.
Il 10 gennaio 1991 Libero Grassi fa pubblicare al "Giornale di Sicilia" una lettera nella quale motiva razionalmente il suo no all'ennesimo ricatto estorsivo: ”….. Volevo avvertire il nostro ignoto estortore che non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia…..se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui”.
L'imprenditore rifiuta l'offerta di una scorta personale, ma consegna simbolicamente alle forze di polizia le quattro chiavi dell’azienda, chiedendo così protezione per gli stabilimenti della SIGMA.
Nel frattempo l'imprenditore viene contattato da Sandro Ruotolo, redattore di "Samarcanda", che lo invita a RAI 3 per parlare della sua lotta condotta, purtroppo, nell'indifferenza degli industriali siciliani. La trasmissione dell'11 aprile 1991 è fondamentale nell'iter di contrapposizione al crimine che Grassi sta conducendo, perché rende il suo caso di dominio nazionale, quale emblema civile della lotta alla mafia. A questo punto rendendosi conto del ruolo che sta assumendo, dichiara con forza a Santoro: “Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”.
Alla fine di maggio una giornalista tedesca, Katharina Burgi, della rivista “Nzz Folio”, viene invitata a Palermo per trarre impressioni e notizie sul fenomeno della mafia. Tra le persone che incontra vi è Libero Grassi, l’imprenditore divenuto famoso, in Europa e Usa, per aver rifiutato pubblicamente di cedere al ricatto che gli imponeva la mafia. La giornalista rimane colpita dalla forza interiore di Grassi. Egli appare deciso a lottare per la difesa dei propri interessi, con la speranza che il suo esempio sia, per tanti altri siciliani rassegnati dinanzi alla forza della mafia, l’inizio di una ribellione pacifica che sottragga il nome della Sicilia alle accuse di mafiosità.
Libero Grassi viene assassinato il 29 agosto 1991 alle ore 7:30 del mattino. La stampa locale nazionale farà di lui un martire della resistenza al “regime” mafioso.
L’11 settembre il Parlamento Europeo approva una risoluzione, in cui manifesta profonda indignazione per l’assassino dell’imprenditore palermitano ed esprime il proprio commosso cordoglio ai familiari della vittima.
Ma l’unico e vero momento pubblico rilevante è la trasmissione televisiva, del 20 settembre 1991. La serata, voluta da Michele Santoro e Maurizio Costanzo a rete unificate RAI FINIVEST, è interamente dedicata alla memoria di Libero Grassi e di quanti sono caduti nel corso della “lunga battaglia” contro la mafia; il giornale di RAI 3 conduce la prima parte della trasmissione dal teatro “ Biondo” di Palermo, mentre Costanzo la conclude dal teatro “Parioli” di Roma. I due sono consapevoli che stanno facendo vivere qualcosa di indimenticabile, e la Sicilia si riconosce nel segno di “ vittoria” che Davide Grassi ha mostrato portando a spalla il feretro di suo padre. Hanno ucciso l’uomo non la sua idea, che continuerà a vivere nel ricordo di ogni cittadino onesto.
Per il suo omicidio sono stati condannati all'ergastolo con sentenza definitiva diversi boss mafiosi, tra cui Riina e Provenzano.
venerdì 28 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno. Oggi è il 28 agosto.
Il 28 agosto 1988, durante una esibizione delle frecce tricolori nella base aerea di Ramstein, in Germania Ovest, 3 aerei della pattuglia acrobatica entrarono in collisione tra loro, precipitando al suolo in fiamme. L'incidente causò la morte dei tre piloti e 67 spettatori, di cui 51 subito e 16 successivamente a seguito delle ferite riportate.
Gli aerei, ormai alla fine della esibizione, dovevano eseguire la figura di un "cardoide", in cui 9 aeroplani tracciavano la figura di un cuore in aria, e il decimo passava al suo interno trafiggendolo. L'aereo solista, un Aermacchi MB-339 pilotato dal tenente colonnello Ivo Nutarelli, accortosi di star giungendo troppo presto tentò una manovra disperata aprendo il carrello e l'aerofreno ventrale per rallentare velocemente, ma fu inutile. Colpì in coda l'aereo pilotato dal tenente colonnello Mario Naldini il quale a sua volta avvitandosi privo di controllo colpì quello del capitano Giorgio Alessio. I tre piloti tentarono l'eiezione, ma a causa della bassa altezza dal suolo (meno di 50 metri) l'impatto fu comunque mortale. Mentre due velivoli precipitarono ai bordi della pista, quello di Nutarelli precipitò investendo il pubblico assiepato ad ammirare l'evento.
L'intero incidente ebbe una durata di meno di 10 secondi, impedendo qualsiasi possibilità di fuga agli spettatori.
In seguito, furono vietati per 3 anni le esibizioni aeree nel cielo della Germania, e quando fu consentito nuovamente, nuove misure di sicurezza imposero una distanza molto maggiore tra l'area di volo e le tribune del pubblico.
E' interessante notare che Ivo Nutarelli e Mario Naldini erano in volo la sera della tragedia di Ustica, e presumibilmente avevano percorso un tratto nei pressi del Dc9 Itavia. A tal proposito il giudice Rosario Priore aveva convocato Naldini per l'8 settembre a rispondere alle sue domande, ma naturalmente non potè mai farlo.
Tuttavia, lo stesso Priore, pur notando la singolare coincidenza, si disse non convinto di una connessione tra i due eventi a causa di una "sproporzione tra fini e mezzi, e cioè che si dovesse cagionare una catastrofe – con modalità peraltro incerte nel conseguimento dell'obiettivo, cioè l'eliminazione di quei due testimoni per impedirne rivelazioni".
Il 28 agosto 1988, durante una esibizione delle frecce tricolori nella base aerea di Ramstein, in Germania Ovest, 3 aerei della pattuglia acrobatica entrarono in collisione tra loro, precipitando al suolo in fiamme. L'incidente causò la morte dei tre piloti e 67 spettatori, di cui 51 subito e 16 successivamente a seguito delle ferite riportate.
Gli aerei, ormai alla fine della esibizione, dovevano eseguire la figura di un "cardoide", in cui 9 aeroplani tracciavano la figura di un cuore in aria, e il decimo passava al suo interno trafiggendolo. L'aereo solista, un Aermacchi MB-339 pilotato dal tenente colonnello Ivo Nutarelli, accortosi di star giungendo troppo presto tentò una manovra disperata aprendo il carrello e l'aerofreno ventrale per rallentare velocemente, ma fu inutile. Colpì in coda l'aereo pilotato dal tenente colonnello Mario Naldini il quale a sua volta avvitandosi privo di controllo colpì quello del capitano Giorgio Alessio. I tre piloti tentarono l'eiezione, ma a causa della bassa altezza dal suolo (meno di 50 metri) l'impatto fu comunque mortale. Mentre due velivoli precipitarono ai bordi della pista, quello di Nutarelli precipitò investendo il pubblico assiepato ad ammirare l'evento.
L'intero incidente ebbe una durata di meno di 10 secondi, impedendo qualsiasi possibilità di fuga agli spettatori.
In seguito, furono vietati per 3 anni le esibizioni aeree nel cielo della Germania, e quando fu consentito nuovamente, nuove misure di sicurezza imposero una distanza molto maggiore tra l'area di volo e le tribune del pubblico.
E' interessante notare che Ivo Nutarelli e Mario Naldini erano in volo la sera della tragedia di Ustica, e presumibilmente avevano percorso un tratto nei pressi del Dc9 Itavia. A tal proposito il giudice Rosario Priore aveva convocato Naldini per l'8 settembre a rispondere alle sue domande, ma naturalmente non potè mai farlo.
Tuttavia, lo stesso Priore, pur notando la singolare coincidenza, si disse non convinto di una connessione tra i due eventi a causa di una "sproporzione tra fini e mezzi, e cioè che si dovesse cagionare una catastrofe – con modalità peraltro incerte nel conseguimento dell'obiettivo, cioè l'eliminazione di quei due testimoni per impedirne rivelazioni".
giovedì 27 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 agosto.
Il 27 agosto 1979 Fabrizio De Andrè e la moglie Dori Ghezzi furono sequestrati in sardegna, dove si erano trasferiti da alcuni anni, e tenuti segregati per quattro mesi nelle montagne di Pattada.
Nella seconda metà degli anni settanta, in previsione della nascita della figlia Luisa Vittoria, De André si stabilisce nella tenuta sarda dell’Agnata, a due passi da Tempio Pausania, insieme a Dori Ghezzi, sua compagna dal 1974, poi sposata nel 1989.
La sera del 27 agosto 1979 Fabrizio e Dori vengono rapiti dall’Anonima Sequestri Sarda. I due vengono liberati dopo quattro mesi (Dori viene liberata il 21 dicembre, Fabrizio il 22) dietro il versamento del riscatto di circa 550 milioni di lire, in buona parte sborsati dal padre Giuseppe.
Durante il periodo di reclusione forzata i due vivono esperienze traumatiche, incatenati a un albero, nascosti sotto teli di plastica.
De Andrè intervistato all’indomani della liberazione – il 23 dicembre in casa del fratello Mauro – da uno stuolo di giornalisti, traccia, però, un racconto abbastanza pacato dell’esperienza: “I primi giorni non ci facevano togliere la maschera neppure per mangiare, e così ci tagliavano il cibo a pezzettini e ci imboccavano. È stata un’esperienza tremenda che tuttavia ha lasciato anche segni positivi, come la riscoperta di certi affetti nascosti. Nei confronti di mio fratello Mauro, ad esempio. È stato lui a trattare coi rapitori e non dimenticherò mai il nostro abbraccio appena tornati a casa. Il primo mese di sequestro ci hanno fatto compagnia le emozioni, poi è prevalsa la monotonia”.
L’esperienza del sequestro si aggiunge al già consolidato contatto che De Andrè ha con la realtà e con la vita della gente sarda, e sembra gli ispiri diverse canzoni, raccolte in un album senza titolo, pubblicato nel 1981, comunemente conosciuto come L’indiano, dall’immagine di copertina che raffigura un nativo americano. Il filo che lega i vari brani è il parallelismo tra il popolo dei pellerossa e quello sardo.
Sottili, ma non velate sono, inoltre, le allusioni all’esperienza del sequestro: dalla stessa ripresa della locuzione Hotel Supramonte, alla descrizione degli improvvisati banditi cui, comunque, non nega note di un certo romanticismo ed una connotazione di proletariato periferico.
Al processo, De André conferma il perdono per i suoi carcerieri, ma non per i mandanti perché persone economicamente agiate.
I dieci autori del sequestro furono condannati a pene tra i 10 e i 26 anni, molti di loro sono successivamente tornati a delinquere. Il 19 luglio 2009 Martino Moreddu, che fu condannato a 20 anni di carcere, è stato nuovamente arrestato perchè trovato ad un posto di blocco dei carabinieri con un fucile a canne mozze nel bagagliaio della 131 su cui viaggiava.
Il 27 agosto 1979 Fabrizio De Andrè e la moglie Dori Ghezzi furono sequestrati in sardegna, dove si erano trasferiti da alcuni anni, e tenuti segregati per quattro mesi nelle montagne di Pattada.
Nella seconda metà degli anni settanta, in previsione della nascita della figlia Luisa Vittoria, De André si stabilisce nella tenuta sarda dell’Agnata, a due passi da Tempio Pausania, insieme a Dori Ghezzi, sua compagna dal 1974, poi sposata nel 1989.
La sera del 27 agosto 1979 Fabrizio e Dori vengono rapiti dall’Anonima Sequestri Sarda. I due vengono liberati dopo quattro mesi (Dori viene liberata il 21 dicembre, Fabrizio il 22) dietro il versamento del riscatto di circa 550 milioni di lire, in buona parte sborsati dal padre Giuseppe.
Durante il periodo di reclusione forzata i due vivono esperienze traumatiche, incatenati a un albero, nascosti sotto teli di plastica.
De Andrè intervistato all’indomani della liberazione – il 23 dicembre in casa del fratello Mauro – da uno stuolo di giornalisti, traccia, però, un racconto abbastanza pacato dell’esperienza: “I primi giorni non ci facevano togliere la maschera neppure per mangiare, e così ci tagliavano il cibo a pezzettini e ci imboccavano. È stata un’esperienza tremenda che tuttavia ha lasciato anche segni positivi, come la riscoperta di certi affetti nascosti. Nei confronti di mio fratello Mauro, ad esempio. È stato lui a trattare coi rapitori e non dimenticherò mai il nostro abbraccio appena tornati a casa. Il primo mese di sequestro ci hanno fatto compagnia le emozioni, poi è prevalsa la monotonia”.
L’esperienza del sequestro si aggiunge al già consolidato contatto che De Andrè ha con la realtà e con la vita della gente sarda, e sembra gli ispiri diverse canzoni, raccolte in un album senza titolo, pubblicato nel 1981, comunemente conosciuto come L’indiano, dall’immagine di copertina che raffigura un nativo americano. Il filo che lega i vari brani è il parallelismo tra il popolo dei pellerossa e quello sardo.
Sottili, ma non velate sono, inoltre, le allusioni all’esperienza del sequestro: dalla stessa ripresa della locuzione Hotel Supramonte, alla descrizione degli improvvisati banditi cui, comunque, non nega note di un certo romanticismo ed una connotazione di proletariato periferico.
Al processo, De André conferma il perdono per i suoi carcerieri, ma non per i mandanti perché persone economicamente agiate.
I dieci autori del sequestro furono condannati a pene tra i 10 e i 26 anni, molti di loro sono successivamente tornati a delinquere. Il 19 luglio 2009 Martino Moreddu, che fu condannato a 20 anni di carcere, è stato nuovamente arrestato perchè trovato ad un posto di blocco dei carabinieri con un fucile a canne mozze nel bagagliaio della 131 su cui viaggiava.
mercoledì 26 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 agosto.
Il 25 agosto 1910 nasceva a Skopije Gonxha Agnes Bojaxhiu, nota al mondo come madre Teresa di Calcutta.
L’improvvisa morte del padre, avvenuta quando Agnes aveva circa otto anni, lasciò la famiglia in difficoltà finanziarie. La madre allevò i figli con fermezza e amore, influenzando notevolmente il carattere e la vocazione della figlia. La formazione religiosa di Gonxha fu rafforzata ulteriormente dalla vivace parrocchia gesuita del Sacro Cuore, in cui era attivamente impegnata.
All’età di diciotto anni, mossa dal desiderio di diventare missionaria, Gonxha lasciò la sua casa nel settembre 1928, per entrare nell’Istituto della Beata Vergine Maria, conosciuto come “le Suore di Loreto”, in Irlanda. Lì ricevette il nome di suor Mary Teresa, come Santa Teresa di Lisieux. In dicembre partì per l’India, arrivando a Calcutta il 6 gennaio 1929. Dopo la Professione dei voti temporanei nel maggio 1931, Suor Teresa venne mandata presso la comunità di Loreto a Entally e insegnò nella scuola per ragazze, St. Mary. Il 24 maggio 1937 suor Teresa fece la Professione dei voti perpetui, divenendo, come lei stessa disse: “la sposa di Gesù” per “tutta l’eternità”. Da quel giorno fu sempre chiamata Madre Teresa. Continuò a insegnare a St. Mary e nel 1944 divenne la direttrice della scuola. Persona di profonda preghiera e amore intenso per le consorelle e per le sue allieve, Madre Teresa trascorse i venti anni della sua vita a “Loreto” con grande felicità. Conosciuta per la sua carità, per la generosità e il coraggio, per la propensione al duro lavoro e per l’attitudine naturale all’organizzazione, visse la sua consacrazione a Gesù, tra le consorelle, con fedeltà e gioia.
Il 17 agosto 1948, indossò per la prima volta il sari bianco bordato d’azzurro e oltrepassò il cancello del suo amato convento di “Loreto” per entrare nel mondo dei poveri.
Il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione delle Missionarie della Carità veniva riconosciuta ufficialmente nell’Arcidiocesi di Calcutta. Agli inizi del 1960 Madre Teresa iniziò a inviare le sue sorelle in altre parti dell’India. Il Diritto Pontificio concesso alla Congregazione dal Papa Paolo VI nel febbraio 1965 la incoraggiò ad aprire una casa di missione in Venezuela. Ad essa seguirono subito altre fondazioni a Roma e in Tanzania e, successivamente, in tutti i continenti. A cominciare dal 1980 fino al 1990, Madre Teresa aprì case di missione in quasi tutti i paesi comunisti, inclusa l’ex Unione Sovietica, l’Albania e Cuba.
In questi anni di rapida espansione della sua missione, il mondo cominciò a rivolgere l’attenzione verso Madre Teresa e l’opera che aveva avviato. Numerose onorificenze, a cominciare dal Premio indiano Padmashri nel 1962 e dal rilevante Premio Nobel per la Pace nel 1979, dettero onore alla sua opera, mentre i media cominciarono a seguire le sue attività con interesse sempre più crescente. Tutto ricevette, sia i riconoscimenti sia le attenzioni, “per la gloria di Dio e in nome dei poveri”.
Durante gli ultimi anni della sua vita, nonostante i crescenti seri problemi di salute, Madre Teresa continuò a guidare la sua Congregazione e a rispondere alle necessità dei poveri e della Chiesa. Nel 1997 le suore di Madre Teresa erano circa 4.000, presenti nelle 610 case di missione sparse in 123 paesi del mondo. Nel marzo 1997 benedisse la neo-eletta nuova Superiora Generale delle Missionarie della Carità e fece ancora un viaggio all’estero. Dopo avere incontrato il Papa Giovanni Paolo II per l’ultima volta, rientrò a Calcutta e trascorse le ultime settimane di vita ricevendo visitatori e istruendo le consorelle. Il 5 settembre 1997 Madre Teresa morì. Le fu dato l’onore dei funerali di Stato da parte del Governo indiano e il suo corpo fu seppellito nella Casa Madre delle Missionarie della Carità. La sua tomba divenne ben presto luogo di pellegrinaggi e di preghiera per gente di ogni credo, poveri e ricchi, senza distinzione alcuna.
Meno di due anni dopo la sua morte, a causa della diffusa fama di santità e delle grazie ottenute per sua intercessione, il Papa Giovanni Paolo II permise l’apertura della Causa di Canonizzazione. Il 20 dicembre 2002 approvò i decreti sulle sue virtù eroiche e sui miracoli e il 19 ottobre 2003 è stata proclamata beata da papa Giovanni Paolo II.
Il 25 agosto 1910 nasceva a Skopije Gonxha Agnes Bojaxhiu, nota al mondo come madre Teresa di Calcutta.
L’improvvisa morte del padre, avvenuta quando Agnes aveva circa otto anni, lasciò la famiglia in difficoltà finanziarie. La madre allevò i figli con fermezza e amore, influenzando notevolmente il carattere e la vocazione della figlia. La formazione religiosa di Gonxha fu rafforzata ulteriormente dalla vivace parrocchia gesuita del Sacro Cuore, in cui era attivamente impegnata.
All’età di diciotto anni, mossa dal desiderio di diventare missionaria, Gonxha lasciò la sua casa nel settembre 1928, per entrare nell’Istituto della Beata Vergine Maria, conosciuto come “le Suore di Loreto”, in Irlanda. Lì ricevette il nome di suor Mary Teresa, come Santa Teresa di Lisieux. In dicembre partì per l’India, arrivando a Calcutta il 6 gennaio 1929. Dopo la Professione dei voti temporanei nel maggio 1931, Suor Teresa venne mandata presso la comunità di Loreto a Entally e insegnò nella scuola per ragazze, St. Mary. Il 24 maggio 1937 suor Teresa fece la Professione dei voti perpetui, divenendo, come lei stessa disse: “la sposa di Gesù” per “tutta l’eternità”. Da quel giorno fu sempre chiamata Madre Teresa. Continuò a insegnare a St. Mary e nel 1944 divenne la direttrice della scuola. Persona di profonda preghiera e amore intenso per le consorelle e per le sue allieve, Madre Teresa trascorse i venti anni della sua vita a “Loreto” con grande felicità. Conosciuta per la sua carità, per la generosità e il coraggio, per la propensione al duro lavoro e per l’attitudine naturale all’organizzazione, visse la sua consacrazione a Gesù, tra le consorelle, con fedeltà e gioia.
Il 17 agosto 1948, indossò per la prima volta il sari bianco bordato d’azzurro e oltrepassò il cancello del suo amato convento di “Loreto” per entrare nel mondo dei poveri.
Il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione delle Missionarie della Carità veniva riconosciuta ufficialmente nell’Arcidiocesi di Calcutta. Agli inizi del 1960 Madre Teresa iniziò a inviare le sue sorelle in altre parti dell’India. Il Diritto Pontificio concesso alla Congregazione dal Papa Paolo VI nel febbraio 1965 la incoraggiò ad aprire una casa di missione in Venezuela. Ad essa seguirono subito altre fondazioni a Roma e in Tanzania e, successivamente, in tutti i continenti. A cominciare dal 1980 fino al 1990, Madre Teresa aprì case di missione in quasi tutti i paesi comunisti, inclusa l’ex Unione Sovietica, l’Albania e Cuba.
In questi anni di rapida espansione della sua missione, il mondo cominciò a rivolgere l’attenzione verso Madre Teresa e l’opera che aveva avviato. Numerose onorificenze, a cominciare dal Premio indiano Padmashri nel 1962 e dal rilevante Premio Nobel per la Pace nel 1979, dettero onore alla sua opera, mentre i media cominciarono a seguire le sue attività con interesse sempre più crescente. Tutto ricevette, sia i riconoscimenti sia le attenzioni, “per la gloria di Dio e in nome dei poveri”.
Durante gli ultimi anni della sua vita, nonostante i crescenti seri problemi di salute, Madre Teresa continuò a guidare la sua Congregazione e a rispondere alle necessità dei poveri e della Chiesa. Nel 1997 le suore di Madre Teresa erano circa 4.000, presenti nelle 610 case di missione sparse in 123 paesi del mondo. Nel marzo 1997 benedisse la neo-eletta nuova Superiora Generale delle Missionarie della Carità e fece ancora un viaggio all’estero. Dopo avere incontrato il Papa Giovanni Paolo II per l’ultima volta, rientrò a Calcutta e trascorse le ultime settimane di vita ricevendo visitatori e istruendo le consorelle. Il 5 settembre 1997 Madre Teresa morì. Le fu dato l’onore dei funerali di Stato da parte del Governo indiano e il suo corpo fu seppellito nella Casa Madre delle Missionarie della Carità. La sua tomba divenne ben presto luogo di pellegrinaggi e di preghiera per gente di ogni credo, poveri e ricchi, senza distinzione alcuna.
Meno di due anni dopo la sua morte, a causa della diffusa fama di santità e delle grazie ottenute per sua intercessione, il Papa Giovanni Paolo II permise l’apertura della Causa di Canonizzazione. Il 20 dicembre 2002 approvò i decreti sulle sue virtù eroiche e sui miracoli e il 19 ottobre 2003 è stata proclamata beata da papa Giovanni Paolo II.
martedì 25 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 agosto.
La diciassettesima Olimpiade si svolse a Roma dal 25 agosto all’11 settembre 1960. Fu un’Olimpiade straordinaria, il più grande evento dell’era moderna, caratterizzata dal record dei concorrenti (5346) e dalla partecipazione di grandi e straordinari atleti, rimasti nella memoria collettiva: come non ricordare l’etiope Abebe Bikila, il vincitore della maratona che correva a piedi nudi, o Cassius Clay, allora diciottenne, vincitore del titolo dei pesi medio–massimi, che diventerà il più grande pugile della storia? Fu un evento rivoluzionario che coinvolse tutto il mondo, sia per le nuove tecniche di organizzazione e di comunicazione di massa che vennero sperimentate per la prima volta, sia per la diffusione di idee nuove e per la presenza di popoli con modi di vivere diversi che in quei giorni vissero insieme in un clima di fratellanza.
Essa fu considerata un’Olimpiade moderna, perché cambiò non solo la mentalità delle persone, ma soprattutto mutò la concezione dei giochi: da espressione dello sport “puro“, in cui gli atleti gareggiavano per il solo piacere di misurarsi con gli altri, si passò ad un tipo di sport in cui gli atleti erano dei professionisti, legati agli sponsor, agli ingaggi, alla pubblicità.
La visione dello sport alla De Coubertin era superata da nuove problematiche legate alle contrattazioni economiche, all'ansia di prestazione, all'incubo delle classifiche.
Iniziava ad emergere anche il problema del “doping “, con la morte del ciclista danese Knud Jensen, ufficialmente stroncato da un colpo di sole.
Anche durante le Olimpiadi di Roma la Guerra fredda si manifestò con la rivalità tra le squadre sovietiche e statunitensi, come era successo già ad Helsinki nel 1952 e a Melbourne nel 1956, ma in maniera più accentuata, con la propaganda, la continua sfida per la conquista del primato e la netta separazione degli atleti, che non comunicavano tra di loro.
Le Olimpiadi di Roma rappresentarono un evento straordinario per gli Italiani: furono le prime Olimpiadi in mondovisione e in Italia, per l’occasione, ci fu una massiccia diffusione degli apparecchi televisivi, allora in bianco e nero. E quello fu considerato come un miracolo del dopoguerra; l’inizio dello sviluppo economico degli anni ’60 fu anche l’inizio della comunicazione di massa e della formazione di una nuova mentalità collettiva moderna, proiettata verso il futuro, avente come capisaldi l’ottimismo, il pragmatismo e l’aspirazione al benessere.
Roma subì un cambiamento radicale, sia nella struttura urbana, sia nelle infrastrutture costruite per l’evento. Già nel 1954, con la nascita del Comitato Costruzioni Olimpiche, si iniziò a lavorare in città: fu inaugurata la metropolitana, che, iniziata nel 1938, era stata interrotta più volte a causa della guerra; fu creato il quartiere dell’Eur, concepito come un quartiere moderno, fulcro economico della città. In questa zona furono costruite ex novo alcune infrastrutture, come il Palazzo dello Sport, il Velodromo, la Piscina delle Rose e i campi del Tre Fontane.
Il Comitato Olimpico assegnò all'Istituto Luce il film ufficiale, che documentò tutti i momenti più significativi dell’evento.
La fiamma olimpica, da Olimpia, fu portata dalla motonave Amerigo Vespucci sino a Siracusa e da lì i tedofori, a staffetta, percorsero tutta l’Italia meridionale, sino a Roma.
Tra gli Italiani vi furono atleti che lasciarono una grande impronta nella storia dello sport e nel cuore di tutti: i pugili Francesco Musso, Francesco De Piccoli e Nino Benvenuti, vincitori della medaglia d’oro; Livio Berruti, che correva con gli occhiali scuri , vincitore dei 200 metri e doppio record mondiale; Raimondo D’Inzeo, medaglia d’oro per l’ippica; il ciclista Sante Gaiardoni, con due medaglie d’oro.
La diciassettesima Olimpiade si svolse a Roma dal 25 agosto all’11 settembre 1960. Fu un’Olimpiade straordinaria, il più grande evento dell’era moderna, caratterizzata dal record dei concorrenti (5346) e dalla partecipazione di grandi e straordinari atleti, rimasti nella memoria collettiva: come non ricordare l’etiope Abebe Bikila, il vincitore della maratona che correva a piedi nudi, o Cassius Clay, allora diciottenne, vincitore del titolo dei pesi medio–massimi, che diventerà il più grande pugile della storia? Fu un evento rivoluzionario che coinvolse tutto il mondo, sia per le nuove tecniche di organizzazione e di comunicazione di massa che vennero sperimentate per la prima volta, sia per la diffusione di idee nuove e per la presenza di popoli con modi di vivere diversi che in quei giorni vissero insieme in un clima di fratellanza.
Essa fu considerata un’Olimpiade moderna, perché cambiò non solo la mentalità delle persone, ma soprattutto mutò la concezione dei giochi: da espressione dello sport “puro“, in cui gli atleti gareggiavano per il solo piacere di misurarsi con gli altri, si passò ad un tipo di sport in cui gli atleti erano dei professionisti, legati agli sponsor, agli ingaggi, alla pubblicità.
La visione dello sport alla De Coubertin era superata da nuove problematiche legate alle contrattazioni economiche, all'ansia di prestazione, all'incubo delle classifiche.
Iniziava ad emergere anche il problema del “doping “, con la morte del ciclista danese Knud Jensen, ufficialmente stroncato da un colpo di sole.
Anche durante le Olimpiadi di Roma la Guerra fredda si manifestò con la rivalità tra le squadre sovietiche e statunitensi, come era successo già ad Helsinki nel 1952 e a Melbourne nel 1956, ma in maniera più accentuata, con la propaganda, la continua sfida per la conquista del primato e la netta separazione degli atleti, che non comunicavano tra di loro.
Le Olimpiadi di Roma rappresentarono un evento straordinario per gli Italiani: furono le prime Olimpiadi in mondovisione e in Italia, per l’occasione, ci fu una massiccia diffusione degli apparecchi televisivi, allora in bianco e nero. E quello fu considerato come un miracolo del dopoguerra; l’inizio dello sviluppo economico degli anni ’60 fu anche l’inizio della comunicazione di massa e della formazione di una nuova mentalità collettiva moderna, proiettata verso il futuro, avente come capisaldi l’ottimismo, il pragmatismo e l’aspirazione al benessere.
Roma subì un cambiamento radicale, sia nella struttura urbana, sia nelle infrastrutture costruite per l’evento. Già nel 1954, con la nascita del Comitato Costruzioni Olimpiche, si iniziò a lavorare in città: fu inaugurata la metropolitana, che, iniziata nel 1938, era stata interrotta più volte a causa della guerra; fu creato il quartiere dell’Eur, concepito come un quartiere moderno, fulcro economico della città. In questa zona furono costruite ex novo alcune infrastrutture, come il Palazzo dello Sport, il Velodromo, la Piscina delle Rose e i campi del Tre Fontane.
Il Comitato Olimpico assegnò all'Istituto Luce il film ufficiale, che documentò tutti i momenti più significativi dell’evento.
La fiamma olimpica, da Olimpia, fu portata dalla motonave Amerigo Vespucci sino a Siracusa e da lì i tedofori, a staffetta, percorsero tutta l’Italia meridionale, sino a Roma.
Tra gli Italiani vi furono atleti che lasciarono una grande impronta nella storia dello sport e nel cuore di tutti: i pugili Francesco Musso, Francesco De Piccoli e Nino Benvenuti, vincitori della medaglia d’oro; Livio Berruti, che correva con gli occhiali scuri , vincitore dei 200 metri e doppio record mondiale; Raimondo D’Inzeo, medaglia d’oro per l’ippica; il ciclista Sante Gaiardoni, con due medaglie d’oro.
lunedì 24 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 agosto.
Il 24 agosto 1981 Mark David Chapman veniva condannato all'ergastolo dallo stato di New York per l'omicidio di John Lennon.
26 anni, guardia giurata dal passato burrascoso, con episodi di tossicodipendenza e scarsa lucidità mentale, Chapman era furioso con Lennon perchè il suo idolo aveva rinnegato il passato dei Beatles e professava addirittura un mondo in cui venisse abolita la religione o la proprietà privata. Era deciso a fargliela pagare.
L'8 dicembre 1980 Chapman intercettò Lennon all'uscita dalla sua residenza e si fece fare una dedica sulla copertina del suo ultimo album. Da notare che un fotografo nei pressi, Paul Goresh, immortalò la scena; dunque abbiamo una foto di Lennon col suo assassino (quella qui riprodotta). Chapman rimase davanti alla casa di Lennon, e quando due ore dopo lui tornò, gli urlo "Ehi Lennon, stai per entrare nella storia" sparandogli 5 colpi di pistola nel petto. Poi si mise a leggere "Il giovane Holden", romanzo che fin dall'adolescenza aveva ispirato il suo modo di essere. Quando giunsero sul posto i poliziotti gli chiesero "ma lo sai cosa hai fatto?" e lui rispose "si, ho ucciso John Lennon".
Chapman si trova da 39 anni in carcere, attualmente nella prigione di Wende, nello stato di New York. Nel 2014 ha ammesso di essere stato «un idiota» e s'è detto dispiaciuto, davanti alla commissione che doveva decidere se concedergli la libertà condizionata, «di aver causato tanto dolore».
Alla commissione, l'uomo ha detto che John Lennon «era un uomo di grande talento» e «molte, molte persone lo amavano e ancora lo amano», aggiungendo che, in prigione ancora riceve molte lettere di persone che gli raccontano del dolore che la morte dell'ex Beatles ha causato loro.
Nel progetto di ucciderlo, ha spiegato Chapman «ho visto una via d'uscita, un modo facile per superare la mia depressione», salvo poi accorgersi di aver preso una «decisione terribile», pur sapendo ciò che stava facendo: «Mi dispiace di essere stato così idiota e di aver scelto la parte sbagliata della gloria».
Ma al 65enne non è bastato il dietrofront: per l'ottava volta la sua richiesta è stata bocciata (è dal 2000 che ci prova) e lui è così rimasto in carcere dove sta scontando una condanna all'ergastolo. Il 29 agosto 2016 la sua richiesta è stata bocciata per la nona volta.
Il 24 agosto 1981 Mark David Chapman veniva condannato all'ergastolo dallo stato di New York per l'omicidio di John Lennon.
26 anni, guardia giurata dal passato burrascoso, con episodi di tossicodipendenza e scarsa lucidità mentale, Chapman era furioso con Lennon perchè il suo idolo aveva rinnegato il passato dei Beatles e professava addirittura un mondo in cui venisse abolita la religione o la proprietà privata. Era deciso a fargliela pagare.
L'8 dicembre 1980 Chapman intercettò Lennon all'uscita dalla sua residenza e si fece fare una dedica sulla copertina del suo ultimo album. Da notare che un fotografo nei pressi, Paul Goresh, immortalò la scena; dunque abbiamo una foto di Lennon col suo assassino (quella qui riprodotta). Chapman rimase davanti alla casa di Lennon, e quando due ore dopo lui tornò, gli urlo "Ehi Lennon, stai per entrare nella storia" sparandogli 5 colpi di pistola nel petto. Poi si mise a leggere "Il giovane Holden", romanzo che fin dall'adolescenza aveva ispirato il suo modo di essere. Quando giunsero sul posto i poliziotti gli chiesero "ma lo sai cosa hai fatto?" e lui rispose "si, ho ucciso John Lennon".
Chapman si trova da 39 anni in carcere, attualmente nella prigione di Wende, nello stato di New York. Nel 2014 ha ammesso di essere stato «un idiota» e s'è detto dispiaciuto, davanti alla commissione che doveva decidere se concedergli la libertà condizionata, «di aver causato tanto dolore».
Alla commissione, l'uomo ha detto che John Lennon «era un uomo di grande talento» e «molte, molte persone lo amavano e ancora lo amano», aggiungendo che, in prigione ancora riceve molte lettere di persone che gli raccontano del dolore che la morte dell'ex Beatles ha causato loro.
Nel progetto di ucciderlo, ha spiegato Chapman «ho visto una via d'uscita, un modo facile per superare la mia depressione», salvo poi accorgersi di aver preso una «decisione terribile», pur sapendo ciò che stava facendo: «Mi dispiace di essere stato così idiota e di aver scelto la parte sbagliata della gloria».
Ma al 65enne non è bastato il dietrofront: per l'ottava volta la sua richiesta è stata bocciata (è dal 2000 che ci prova) e lui è così rimasto in carcere dove sta scontando una condanna all'ergastolo. Il 29 agosto 2016 la sua richiesta è stata bocciata per la nona volta.
domenica 23 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
buongiorno. Oggi è il 23 agosto.
Il 23 agosto 1927 alle ore 00.27 (ora di Boston) Nicola Sacco e 7 minuti dopo Bartolomeo Vanzetti venivano giustiziati dallo stato del Massachusetts per l'omicidio di due persone.
Il 23 agosto 1927 alle ore 00.27 (ora di Boston) Nicola Sacco e 7 minuti dopo Bartolomeo Vanzetti venivano giustiziati dallo stato del Massachusetts per l'omicidio di due persone.
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti,
pugliese il primo e piemontese il secondo emigrarono negli Stati Uniti
nel 1908. Vissero e lavorarono nel Massachusetts facendo i mestieri più
disparati come consuetudine in quegli anni per gli immigrati, (alla fine
Sacco calzolaio e Vanzetti pescivendolo), professando le loro idee
socialiste di colore anarchico e pacifista. Nell’aprile del 1920 in un
clima permeato da pregiudizi e da ostilità verso gli stranieri, furono
accusati di essere gli autori di una rapina ad una fabbrica di calzature
in cui rimasero vittime un cassiere e una guardia armata.
Il processo istituito
contro di loro non giunse mai alla certezza di prove accusatorie
sicure, ma fu fortemente condizionato dall'ansia di placare un opinione
pubblica furiosa e avvelenata dalla violenza, a cui bisognava dare dei
colpevoli e dal pretesto fornito dall'evento per la scalata al successo
personale del giudice Thayer e del pubblico ministero Katzmann.
Di certo Sacco e
Vanzetti pagarono per le loro idee anarchiche, idealiste e pacifiste (al
momento dell’intervento americano del conflitto del 15-18 si
rifugiarono in Messico per non essere arruolati) e per il fatto di far
parte di una minoranza etnica disprezzata ed osteggiata come quella
italiana. Non da meno pesarono le azioni violente e terroristiche
dell’altra ala del pensiero anarchica dei primi anni del secolo (ad es.
Gaetano Cresci e Giovanni Passanante) e non ultime alcune contraddizioni
della linea difensiva. Dopo circa un anno di processo il 14 luglio 1921
furono condannati alla sedia elettrica.
Sacco e Vanzetti
ribadirono fino all'ultimo la loro innocenza, ma nonostante nel 1925 un
pregiudicato, tal Celestino Madeiros si accusasse di aver partecipato
alla rapina assieme ad altri complici scagionando completamente i due
italiani e nonostante appelli e manifestazioni di solidarietà e di
richiesta di assoluzione da parte dell’opinione pubblica mondiale, la
notte del 23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti furono giustiziati sulla sedia
elettrica.
Nel 1977 dopo che il
caso era stato più volte riaperto, il governatore del Massachusetts,
Michael s. Dukakis, riabilitò le figure di Sacco e Vanzetti, scrivendo
nel documento che proclama per il 23 agosto di ogni anno il S.&V.
Memorial Day che “il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti devono
ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia
contro i propri pregiudizi, l’intolleranza verso le idee non ortodosse,
con l’impegno di difendere sempre i diritti delle persone che
consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità”.
Di tutta la
vicenda (che per la durata della prigionia e i contorni della fine
assume quasi caratteri martirologici) preme far rilevare l’estrema
coerenza e convinzione nei valori professati da Sacco e Vanzetti, mai
rinnegati fino alla fine e non ultimo il forte legame di amicizia che li
tenne uniti e spiritualmente vicini per tutta la loro esistenza, anche
nel momento in cui salirono sulla sedia elettrica, con un coraggio, uno
stoicismo ed una umanità su cui tutti dovremmo riflettere e
confrontarci. Perché in ogni caso la vera memoria ha un futuro dentro
ognuno di noi.
sabato 22 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 agosto.
Il 22 agosto 1904 nasceva a Guang'an Deng Xiao Ping, figura cardine della Cina del secolo scorso.
Nato nel Sichuan, dopo brevi studi tradizionali si recò in Francia a studiare e lavorare; vi soggiornò dal 1920 al 1926 e qui aderì ai gruppi comunisti formati da Zhou Enlai. Passato brevemente per le scuole di partito a Mosca, ritornò nel 1927 in Cina, appena prima della repressione contro i comunisti. Impegnato nel lavoro clandestino nelle città e nelle campagne, raggiunse la zona di guerriglia di Mao, che sostenne pienamente contro le pressioni dei gruppi legati all'Internazionale comunista e ai sovietici, subendo da questi un durissimo attacco alla vigilia della Lunga marcia, alla quale partecipò come dirigente politico-militare. Sostenitore convinto della linea maoista, diresse la resistenza antigiapponese nello Shanxi e nel Hebei riportando vittorie decisive nella guerra civile contro il Guomindang nelle pianure del centronord. Nei confronti dell'Urss mantenne sempre un'ostile diffidenza, motivata poi esplicitamente durante il contrasto tra i due paesi negli anni sessanta. Dopo la vittoria svolse compiti amministrativi ed economici nel ricco sudovest, ma passò presto a Pechino al vertice del governo e del partito del quale diresse la segreteria difendendo sempre il potere supremo del partito su tutte le istanze sociali, in particolare contro le critiche degli intellettuali. Convinto che il Grande balzo in avanti fosse stato un errore, sostenne le iniziative dei contadini per aumentare la produzione; per questa sua linea moderata e per la sua difesa istituzionale del partito fu attaccato violentemente durante la rivoluzione culturale, rimosso dalle sue posizioni e inviato in campagna. Ritornò al vertice nel 1973 e cercò di restituire la direzione della società ai gruppi più qualificati per cultura ed esperienza. Per questo fu nuovamente attaccato e condannato nel 1976, ma subito dopo la morte di Mao intraprese una battaglia per ritornare al potere cercando l'appoggio degli intellettuali e anche della dissidenza in nome dell'efficientismo e del merito professionale contro l'ugualitarismo e l'impreparazione. Con una vasta schiera di seguaci riuscì a destituire Hua Guofeng dal vertice del partito alla fine del 1978; intraprese in seguito una serie di riforme radicali miranti a decollettivizzare l'economia, prima rurale e poi urbana, premiando i lavoratori più attivi e preparati. Nell'attuazione di queste riforme, coronate da sostanziali successi economici soprattutto in agricoltura nonostante l'accentuarsi delle disparità regionali e l'espulsione di rilevanti masse dall'attività agricola, Deng Xiaoping mantenne sempre con rigore il principio dell'autorità assoluta del partito contro ogni prospettiva di pluralismo e di liberalizzazione politica. Nel 1987, e soprattutto nel 1989, si schierò contro le richieste di democrazia avanzate da giovani e intellettuali, sostenendo la sanguinosa repressione di piazza Tiananmen attuata dall'esercito nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989.
Dal 94 aveva abbandonato la vita politica dimettendosi da tutte le cariche (da un'unica carica non si era mai dimesso, dalla Presidenza dell'Associazione Nazionale di bridge) e non compariva in pubblico per le sue condizioni di salute.
La sua morte è stata ufficialmente annunciata alle 21:08 del 19 febbraio 1997.
Il 22 agosto 1904 nasceva a Guang'an Deng Xiao Ping, figura cardine della Cina del secolo scorso.
Nato nel Sichuan, dopo brevi studi tradizionali si recò in Francia a studiare e lavorare; vi soggiornò dal 1920 al 1926 e qui aderì ai gruppi comunisti formati da Zhou Enlai. Passato brevemente per le scuole di partito a Mosca, ritornò nel 1927 in Cina, appena prima della repressione contro i comunisti. Impegnato nel lavoro clandestino nelle città e nelle campagne, raggiunse la zona di guerriglia di Mao, che sostenne pienamente contro le pressioni dei gruppi legati all'Internazionale comunista e ai sovietici, subendo da questi un durissimo attacco alla vigilia della Lunga marcia, alla quale partecipò come dirigente politico-militare. Sostenitore convinto della linea maoista, diresse la resistenza antigiapponese nello Shanxi e nel Hebei riportando vittorie decisive nella guerra civile contro il Guomindang nelle pianure del centronord. Nei confronti dell'Urss mantenne sempre un'ostile diffidenza, motivata poi esplicitamente durante il contrasto tra i due paesi negli anni sessanta. Dopo la vittoria svolse compiti amministrativi ed economici nel ricco sudovest, ma passò presto a Pechino al vertice del governo e del partito del quale diresse la segreteria difendendo sempre il potere supremo del partito su tutte le istanze sociali, in particolare contro le critiche degli intellettuali. Convinto che il Grande balzo in avanti fosse stato un errore, sostenne le iniziative dei contadini per aumentare la produzione; per questa sua linea moderata e per la sua difesa istituzionale del partito fu attaccato violentemente durante la rivoluzione culturale, rimosso dalle sue posizioni e inviato in campagna. Ritornò al vertice nel 1973 e cercò di restituire la direzione della società ai gruppi più qualificati per cultura ed esperienza. Per questo fu nuovamente attaccato e condannato nel 1976, ma subito dopo la morte di Mao intraprese una battaglia per ritornare al potere cercando l'appoggio degli intellettuali e anche della dissidenza in nome dell'efficientismo e del merito professionale contro l'ugualitarismo e l'impreparazione. Con una vasta schiera di seguaci riuscì a destituire Hua Guofeng dal vertice del partito alla fine del 1978; intraprese in seguito una serie di riforme radicali miranti a decollettivizzare l'economia, prima rurale e poi urbana, premiando i lavoratori più attivi e preparati. Nell'attuazione di queste riforme, coronate da sostanziali successi economici soprattutto in agricoltura nonostante l'accentuarsi delle disparità regionali e l'espulsione di rilevanti masse dall'attività agricola, Deng Xiaoping mantenne sempre con rigore il principio dell'autorità assoluta del partito contro ogni prospettiva di pluralismo e di liberalizzazione politica. Nel 1987, e soprattutto nel 1989, si schierò contro le richieste di democrazia avanzate da giovani e intellettuali, sostenendo la sanguinosa repressione di piazza Tiananmen attuata dall'esercito nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989.
Dal 94 aveva abbandonato la vita politica dimettendosi da tutte le cariche (da un'unica carica non si era mai dimesso, dalla Presidenza dell'Associazione Nazionale di bridge) e non compariva in pubblico per le sue condizioni di salute.
La sua morte è stata ufficialmente annunciata alle 21:08 del 19 febbraio 1997.
venerdì 21 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 agosto.
Il 21 agosto 1911 Vincenzo Peruggia, incredibilmente, riuscì a rubare la Gioconda dal Museo del Louvre.
Quel giorno, in un'afosa mattinata, il Peruggia, un decoratore italiano di umili origini che lavorava proprio al Louvre, uscì dal museo con il quadro della “Gioconda” sotto il braccio, dopo aver architettato un piano diabolico e perfetto per trafugarlo. Il giorno prima infatti, per dotarsi di un alibi convincente, Peruggia aveva organizzato una serata in un caffè con i suoi amici italiani, gozzovigliando fino a tardi, fingendosi ubriaco e prendendo anche una multa per schiamazzi notturni. L'indomani, poco dopo le sette del mattino, il Peruggia uscì di casa senza farsi notare da nessuno, entrò al Louvre riuscendo ad evitare di farsi vedere dal custode (perennemente addormentato), si diresse verso il Salon Carrè dov'era custodita la Gioconda, staccò il quadro dalla cornice, e se lo infilò dentro il giubbotto. Dopo pochi minuti l’imbianchino italiano era di nuovo nell’appartamento che condivideva con il cugino; nascose il dipinto sotto il tavolo dove i due solevano mangiare e si rimise a letto.
Alle nove in punto Peruggia riuscì dal suo appartamento, ridiscese nuovamente le scale, stando questa volta ben attento a farsi notare dalla portinaia (alla quale disse di andare di fretta al lavoro perché la sera prima aveva alzato troppo il gomito e si era svegliato tardi). Una volta arrivato al Louvre (dove effettivamente lavorava in quel periodo) si trovò di fronte al caos più totale.
Il museo era stato chiuso, le autorità erano state già allertate, la polizia però brancolava nel buio; alcuni dicevano che la colpa della “sparizione” era da attibuire ai tedeschi (con i quali, come al solito, i francesi non erano in buoni rapporti), altri pensavano fosse stato un folle o magari un maniaco. La vicenda ebbe anche dei risvolti comici quando si venne a sapere che il sottosegretario alla Belle Arti, il giorno prima del furto, nell'atto di partire per le vacanze, si era raccomandato così ai suoi uomini: “non chiamatemi a meno che il Louvre non prenda fuoco o la Gioconda venga rubata”.
Così quando il sottosegretario ricevette il telegramma lo gettò ridendo, sicuro che fosse stato oggetto di uno scherzo ideato dai suoi collaboratori. Tutta la polizia di Francia era alla ricerca del quadro. Il paradosso venne raggiunto quando lo stesso Prefetto di Parigi andò a perquisire la casa dove abitava il Peruggia (pratica usata per tutte le persone che lavoravano al Louvre), ed oltre a non trovare nessun indizio firmò il verbale della perquisizione sul famigerato tavolo dove era custodito il quadro.
Ancora non si conoscono bene le vicissitudini che occorsero alla Gioconda nei due anni che venne presa in consegna dal Peruggia, e anche riguardo alla stessa figura del decoratore di Dumenza nel corso del tempo si sono avvicendate una moltitudine di ipotesi.
La figlia Celestina, scomparsa alcuni anni orsono, in un'intervista di qualche tempo fa per onorare la figura del genitore dichiarò che il padre era sicuro del fatto che il quadro fosse un bottino di “guerra” di Napoleone (il Peruggia evidentemente ignorava che era stato lo stesso Leonardo, per la considerevole somma di quattromila scudi d'oro, a cedere il ritratto a Francesco I nel 1517), e quindi voleva restituirlo allo Stato Italiano. Inoltre la figlia raccontò che il padre voleva vendicarsi dei francesi che lo prendevano sempre in giro per il suo mandolino e lo deridevano chiamandolo “mangiamaccheroni”.
La storia ormai idealizzata e romanzata del ladro della Gioconda ebbe un triste epilogo: il Peruggia scrisse una lettera firmandosi “Vincent Leonard” ad un antiquario fiorentino (Alfredo Geri), dandogli appuntamento all'albergo “Tripoli e Italia”, per effettuare la restituzione del quadro. Geri lo denunciò subito, e Peruggia venne portato in questura. Il tribunale di Firenze ebbe un occhio di riguardo nei suoi confronti, e lo giudicò con una certa clemenza, condannandolo ad un anno e quindici giorni di reclusione. Fu così che l'autore del furto del secolo finì nella prigione delle Murate dove scontò per intero la sua pena.
Vincenzo Peruggia morì in Francia nel 1925.
Il 21 agosto 1911 Vincenzo Peruggia, incredibilmente, riuscì a rubare la Gioconda dal Museo del Louvre.
Quel giorno, in un'afosa mattinata, il Peruggia, un decoratore italiano di umili origini che lavorava proprio al Louvre, uscì dal museo con il quadro della “Gioconda” sotto il braccio, dopo aver architettato un piano diabolico e perfetto per trafugarlo. Il giorno prima infatti, per dotarsi di un alibi convincente, Peruggia aveva organizzato una serata in un caffè con i suoi amici italiani, gozzovigliando fino a tardi, fingendosi ubriaco e prendendo anche una multa per schiamazzi notturni. L'indomani, poco dopo le sette del mattino, il Peruggia uscì di casa senza farsi notare da nessuno, entrò al Louvre riuscendo ad evitare di farsi vedere dal custode (perennemente addormentato), si diresse verso il Salon Carrè dov'era custodita la Gioconda, staccò il quadro dalla cornice, e se lo infilò dentro il giubbotto. Dopo pochi minuti l’imbianchino italiano era di nuovo nell’appartamento che condivideva con il cugino; nascose il dipinto sotto il tavolo dove i due solevano mangiare e si rimise a letto.
Alle nove in punto Peruggia riuscì dal suo appartamento, ridiscese nuovamente le scale, stando questa volta ben attento a farsi notare dalla portinaia (alla quale disse di andare di fretta al lavoro perché la sera prima aveva alzato troppo il gomito e si era svegliato tardi). Una volta arrivato al Louvre (dove effettivamente lavorava in quel periodo) si trovò di fronte al caos più totale.
Il museo era stato chiuso, le autorità erano state già allertate, la polizia però brancolava nel buio; alcuni dicevano che la colpa della “sparizione” era da attibuire ai tedeschi (con i quali, come al solito, i francesi non erano in buoni rapporti), altri pensavano fosse stato un folle o magari un maniaco. La vicenda ebbe anche dei risvolti comici quando si venne a sapere che il sottosegretario alla Belle Arti, il giorno prima del furto, nell'atto di partire per le vacanze, si era raccomandato così ai suoi uomini: “non chiamatemi a meno che il Louvre non prenda fuoco o la Gioconda venga rubata”.
Così quando il sottosegretario ricevette il telegramma lo gettò ridendo, sicuro che fosse stato oggetto di uno scherzo ideato dai suoi collaboratori. Tutta la polizia di Francia era alla ricerca del quadro. Il paradosso venne raggiunto quando lo stesso Prefetto di Parigi andò a perquisire la casa dove abitava il Peruggia (pratica usata per tutte le persone che lavoravano al Louvre), ed oltre a non trovare nessun indizio firmò il verbale della perquisizione sul famigerato tavolo dove era custodito il quadro.
Ancora non si conoscono bene le vicissitudini che occorsero alla Gioconda nei due anni che venne presa in consegna dal Peruggia, e anche riguardo alla stessa figura del decoratore di Dumenza nel corso del tempo si sono avvicendate una moltitudine di ipotesi.
La figlia Celestina, scomparsa alcuni anni orsono, in un'intervista di qualche tempo fa per onorare la figura del genitore dichiarò che il padre era sicuro del fatto che il quadro fosse un bottino di “guerra” di Napoleone (il Peruggia evidentemente ignorava che era stato lo stesso Leonardo, per la considerevole somma di quattromila scudi d'oro, a cedere il ritratto a Francesco I nel 1517), e quindi voleva restituirlo allo Stato Italiano. Inoltre la figlia raccontò che il padre voleva vendicarsi dei francesi che lo prendevano sempre in giro per il suo mandolino e lo deridevano chiamandolo “mangiamaccheroni”.
La storia ormai idealizzata e romanzata del ladro della Gioconda ebbe un triste epilogo: il Peruggia scrisse una lettera firmandosi “Vincent Leonard” ad un antiquario fiorentino (Alfredo Geri), dandogli appuntamento all'albergo “Tripoli e Italia”, per effettuare la restituzione del quadro. Geri lo denunciò subito, e Peruggia venne portato in questura. Il tribunale di Firenze ebbe un occhio di riguardo nei suoi confronti, e lo giudicò con una certa clemenza, condannandolo ad un anno e quindici giorni di reclusione. Fu così che l'autore del furto del secolo finì nella prigione delle Murate dove scontò per intero la sua pena.
Vincenzo Peruggia morì in Francia nel 1925.
giovedì 20 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno. Oggi è il 20 agosto.
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, più di 200000 uomini e 5000 carri armati, provenienti dall'Unione Sovietica e dagli altri paesi del patto di Varsavia, invasero la Cecoslovacchia e giunti a Praga posero fine alla cosiddetta Primavera di Praga.
Durante il VI congresso degli scrittori a Praga (29 giugno 1967) numerosi partecipanti chiesero la libertà di stampa e accusarono il regime comunista per gli abusi commessi in passato. In seguito a ciò il premier Alexander Dubcek sostituì Novotn nella carica di primo segretario del Partito comunista cecoslovacco. Il 5 marzo Dubcek annunciò la soppressione della censura; poco più tardi (21 marzo) le dimissioni di Novotn da capo dello stato furono accolte con molto sollievo dall'opinione pubblica. Nuovo presidente fu eletto Svoboda, mentre nel governo entrarono esponenti moderati di grande prestigio quali Oldrich Cernik, Jiri Hajek, Ota Sik. Emerse allora la volontà sia di riformare radicalmente l'economia del paese, abbandonando il centralismo e l'industrializzazione pesante, sia di espandere le libertà fino a favorire una articolazione pluralista del sistema politico. Il nuovo orientamento, definito "socialismo dal volto umano", venne confermato durante la riunione del comitato centrale del 4 e 5 aprile. L'accelerazione al processo di liberalizzazione impressa dagli intellettuali firmatari del cosiddetto Manifesto delle duemila parole preoccupò i dirigenti sovietici, che intravidero nella primavera di Praga una minaccia per il regime comunista e per il patto di Varsavia, temendo un "contagio" nel campo socialista. Nel corso di alcuni colloqui a Karlovy Vary (17 maggio), a Cierna-nad-Tisu (19 luglio e 1° agosto) e a Bratislava (3 agosto), Dubcek tentò invano di rassicurare i sovietici. La notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia. Tuttavia stroncare la primavera di Praga si rivelò più arduo del previsto per le difficoltà di individuare un gruppo dirigente disposto a sostituire Dubcek. Nonostante le pressioni di Mosca la situazione rimase incerta per altri nove mesi e in autunno venne approvata la riforma istituzionale del paese con il riconoscimento dello stato federale fra le regioni ceche e la Slovacchia. Nel marzo 1969 i sindacati promossero una serie di iniziative a favore della libertà di sciopero, ma a quel punto Breznev, facendo leva sulla "questione nazionale", riuscì a imporre le dimissioni a Dubcek e la sua sostituzione con Husák. La primavera di Praga era definitivamente tramontata.
Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, più di 200000 uomini e 5000 carri armati, provenienti dall'Unione Sovietica e dagli altri paesi del patto di Varsavia, invasero la Cecoslovacchia e giunti a Praga posero fine alla cosiddetta Primavera di Praga.
Durante il VI congresso degli scrittori a Praga (29 giugno 1967) numerosi partecipanti chiesero la libertà di stampa e accusarono il regime comunista per gli abusi commessi in passato. In seguito a ciò il premier Alexander Dubcek sostituì Novotn nella carica di primo segretario del Partito comunista cecoslovacco. Il 5 marzo Dubcek annunciò la soppressione della censura; poco più tardi (21 marzo) le dimissioni di Novotn da capo dello stato furono accolte con molto sollievo dall'opinione pubblica. Nuovo presidente fu eletto Svoboda, mentre nel governo entrarono esponenti moderati di grande prestigio quali Oldrich Cernik, Jiri Hajek, Ota Sik. Emerse allora la volontà sia di riformare radicalmente l'economia del paese, abbandonando il centralismo e l'industrializzazione pesante, sia di espandere le libertà fino a favorire una articolazione pluralista del sistema politico. Il nuovo orientamento, definito "socialismo dal volto umano", venne confermato durante la riunione del comitato centrale del 4 e 5 aprile. L'accelerazione al processo di liberalizzazione impressa dagli intellettuali firmatari del cosiddetto Manifesto delle duemila parole preoccupò i dirigenti sovietici, che intravidero nella primavera di Praga una minaccia per il regime comunista e per il patto di Varsavia, temendo un "contagio" nel campo socialista. Nel corso di alcuni colloqui a Karlovy Vary (17 maggio), a Cierna-nad-Tisu (19 luglio e 1° agosto) e a Bratislava (3 agosto), Dubcek tentò invano di rassicurare i sovietici. La notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia. Tuttavia stroncare la primavera di Praga si rivelò più arduo del previsto per le difficoltà di individuare un gruppo dirigente disposto a sostituire Dubcek. Nonostante le pressioni di Mosca la situazione rimase incerta per altri nove mesi e in autunno venne approvata la riforma istituzionale del paese con il riconoscimento dello stato federale fra le regioni ceche e la Slovacchia. Nel marzo 1969 i sindacati promossero una serie di iniziative a favore della libertà di sciopero, ma a quel punto Breznev, facendo leva sulla "questione nazionale", riuscì a imporre le dimissioni a Dubcek e la sua sostituzione con Husák. La primavera di Praga era definitivamente tramontata.
mercoledì 19 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 agosto.
Il 19 agosto 1960 Francis Gary Powers viene condannato a dieci anni di prigione per spionaggio da parte dell'Unione Sovietica.
Il capitano Gary Powers lavorava per la CIA, effettuando missioni di spionaggio a bordo del suo aereo spia U-2. Il Lockheed U-2 poteva volare fino a a 70.000 piedi (fuori dalla portata della maggior parte delle armi sovietiche); il suo compito era quello di volare sopra obiettivi militari e fotografarli per la U.S. Intelligence.
La popolazione americana non era a conoscenza di queste missioni di spionaggio fino all'incidente di Powers, ma i russi ne erano al corrente da anni, quando finalmente riuscirono ad abbattere, il primo maggio 1960, la "Dragon Lady", questo il nome dell'aereo di Powers. Powers venne condannato a 10 anni di prigione e lavori forzati, ma dopo 21 mesi fu scambiato, insieme a un altro prigioniero americano, per il colonnello del KGB Vilyam Fisher, noto anche come Rudolf Abel, catturato a New York nel 1957.
Il ruolo di Powers nella Guerra Fredda finì lì.
Il contenuto dell'aereo fu recuperato dai sovietici nel luogo dell'impatto. Un pacchetto di sigarette Kent, una pistola calibro 22, soldi, una pillola di veleno per il suicidio in caso di disastro. Molti all'epoca sostenevano che Powers avrebbe dovuto distruggere la fotocamera dell'aereo e prendere la pillola prima di venire catturato dai sovietici.
In effetti il pilota tentò senza successo di attivare il sistema di autodistruzione del velivolo prima di paracadutarsi. La Commissione del Senato sui Servizi Armati concluse che Powers non tradì il suo paese né agì in modo non professionale durante la sua cattura.
Lo scambio di spie che lo riportò a casa sembrò una scena studiata a Hollywood: Powers camminava lungo un ponte che collega Berlino Est e Berlino Ovest, e Abel camminava in direzione opposta, sotto gli occhi vigili delle truppe armate di entrambi i fronti.
Dopo il 1963 divenne collaudatore di aerei per la Lockheed, scrisse un libro sul suo incidente, in seguito divenne pilota di elicotteri per la rubrica sul traffico di una radio di Los Angeles; fu proprio su quell'elicottero che trovò la morte nel 1977 per la caduta del suo mezzo.
23 anni dopo la sua morte, il primo maggio 2000, al quarantesimo anniversario della caduta dell'U-2, Powers fu insignito degli onori militari. Fu consegnata alla famiglia la Medaglia di Prigioniero di Guerra, la "Distinguished Flying Cross" e la Medaglia del Servizio per la Difesa Nazionale.
Una diceria, mai confermata da Bono, dice che il gruppo U2 prende il nome dall'aereo di Powers, poichè Bono è nato pochi giorni dopo la sua cattura.
Nel 2015 Steven Spielberg ha girato un film sulla sua storia, chiamato "Il ponte delle Spie", con protagonista Tom Hanks.
Il 19 agosto 1960 Francis Gary Powers viene condannato a dieci anni di prigione per spionaggio da parte dell'Unione Sovietica.
Il capitano Gary Powers lavorava per la CIA, effettuando missioni di spionaggio a bordo del suo aereo spia U-2. Il Lockheed U-2 poteva volare fino a a 70.000 piedi (fuori dalla portata della maggior parte delle armi sovietiche); il suo compito era quello di volare sopra obiettivi militari e fotografarli per la U.S. Intelligence.
La popolazione americana non era a conoscenza di queste missioni di spionaggio fino all'incidente di Powers, ma i russi ne erano al corrente da anni, quando finalmente riuscirono ad abbattere, il primo maggio 1960, la "Dragon Lady", questo il nome dell'aereo di Powers. Powers venne condannato a 10 anni di prigione e lavori forzati, ma dopo 21 mesi fu scambiato, insieme a un altro prigioniero americano, per il colonnello del KGB Vilyam Fisher, noto anche come Rudolf Abel, catturato a New York nel 1957.
Il ruolo di Powers nella Guerra Fredda finì lì.
Il contenuto dell'aereo fu recuperato dai sovietici nel luogo dell'impatto. Un pacchetto di sigarette Kent, una pistola calibro 22, soldi, una pillola di veleno per il suicidio in caso di disastro. Molti all'epoca sostenevano che Powers avrebbe dovuto distruggere la fotocamera dell'aereo e prendere la pillola prima di venire catturato dai sovietici.
In effetti il pilota tentò senza successo di attivare il sistema di autodistruzione del velivolo prima di paracadutarsi. La Commissione del Senato sui Servizi Armati concluse che Powers non tradì il suo paese né agì in modo non professionale durante la sua cattura.
Lo scambio di spie che lo riportò a casa sembrò una scena studiata a Hollywood: Powers camminava lungo un ponte che collega Berlino Est e Berlino Ovest, e Abel camminava in direzione opposta, sotto gli occhi vigili delle truppe armate di entrambi i fronti.
Dopo il 1963 divenne collaudatore di aerei per la Lockheed, scrisse un libro sul suo incidente, in seguito divenne pilota di elicotteri per la rubrica sul traffico di una radio di Los Angeles; fu proprio su quell'elicottero che trovò la morte nel 1977 per la caduta del suo mezzo.
23 anni dopo la sua morte, il primo maggio 2000, al quarantesimo anniversario della caduta dell'U-2, Powers fu insignito degli onori militari. Fu consegnata alla famiglia la Medaglia di Prigioniero di Guerra, la "Distinguished Flying Cross" e la Medaglia del Servizio per la Difesa Nazionale.
Una diceria, mai confermata da Bono, dice che il gruppo U2 prende il nome dall'aereo di Powers, poichè Bono è nato pochi giorni dopo la sua cattura.
Nel 2015 Steven Spielberg ha girato un film sulla sua storia, chiamato "Il ponte delle Spie", con protagonista Tom Hanks.
martedì 18 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 agosto.
Il 18 agosto del 52 nasce a Houston Patrick Swayze.
Patrick cresce insieme ai suoi fratelli e sorelle a stretto contatto con il mondo della danza e dello spettacolo. Frequenta il San Jacinto College e diverse scuole di ballo tra cui la Joffrey Ballet Company, Houston Jazz Ballet Company da Harkness Ballet Theater School di New York.
Dimostra di essere anche un talentuoso giocatore di football: a diciassette anni la sua carriera sembra essere compromessa da un infortunio avvenuto durante una partita, ma Patrick dimostra grande tenacia riabilitandosi completamente.
La sua prima apparizione professionale nel mondo della danza arriva con un balletto per "Disney on Parade", dove interpreta il principe Charming; poi partecipa a "Grease", produzione di Broadway. Intanto studia recitazione: debutta al cinema interpretando Ace in "Skatetown, U.S.A." nel 1979.
Seguono numerose parti in serial televisivi; nel 1983 lavora con Francis Ford Coppola nel film "I ragazzi della 56° strada", che lancia la carriera di attori come Tom Cruise, Matt Dillon e Diane Lane.
Deve la sua fama alle sue interpretazioni a film come "Dirty Dancing - Balli proibiti" (1987), per il quale ha anche composto la canzone "She's Like the Wind"; "Il duro del Road House" (1989); "Ghost - Fantasma" (1990, con Demi Moore); "Point Break" (1991, con Keanu Reeves); "La città della gioia" (1992); "A Wong Foo, grazie di tutto, Julie Newmar" (1995), film in cui veste i panni di una drag queen; "Black Dog" (1998); "Donnie Darko" (2001).
Sposato dal 1975 con l'attrice Lisa Niemi, alla fine del mese di gennaio 2008 gli è stato diagnosticato un tumore al pancreas, uno dei tumori più letali. In seguito alla malattia è morto a Los Angeles il 14 settembre 2009.
In base alle sue ultime volontà, il suo corpo venne cremato e le ceneri vennero sparse presso il suo ranch nel New Mexico.
Il 18 agosto del 52 nasce a Houston Patrick Swayze.
Patrick cresce insieme ai suoi fratelli e sorelle a stretto contatto con il mondo della danza e dello spettacolo. Frequenta il San Jacinto College e diverse scuole di ballo tra cui la Joffrey Ballet Company, Houston Jazz Ballet Company da Harkness Ballet Theater School di New York.
Dimostra di essere anche un talentuoso giocatore di football: a diciassette anni la sua carriera sembra essere compromessa da un infortunio avvenuto durante una partita, ma Patrick dimostra grande tenacia riabilitandosi completamente.
La sua prima apparizione professionale nel mondo della danza arriva con un balletto per "Disney on Parade", dove interpreta il principe Charming; poi partecipa a "Grease", produzione di Broadway. Intanto studia recitazione: debutta al cinema interpretando Ace in "Skatetown, U.S.A." nel 1979.
Seguono numerose parti in serial televisivi; nel 1983 lavora con Francis Ford Coppola nel film "I ragazzi della 56° strada", che lancia la carriera di attori come Tom Cruise, Matt Dillon e Diane Lane.
Deve la sua fama alle sue interpretazioni a film come "Dirty Dancing - Balli proibiti" (1987), per il quale ha anche composto la canzone "She's Like the Wind"; "Il duro del Road House" (1989); "Ghost - Fantasma" (1990, con Demi Moore); "Point Break" (1991, con Keanu Reeves); "La città della gioia" (1992); "A Wong Foo, grazie di tutto, Julie Newmar" (1995), film in cui veste i panni di una drag queen; "Black Dog" (1998); "Donnie Darko" (2001).
Sposato dal 1975 con l'attrice Lisa Niemi, alla fine del mese di gennaio 2008 gli è stato diagnosticato un tumore al pancreas, uno dei tumori più letali. In seguito alla malattia è morto a Los Angeles il 14 settembre 2009.
In base alle sue ultime volontà, il suo corpo venne cremato e le ceneri vennero sparse presso il suo ranch nel New Mexico.
lunedì 17 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 17 agosto.
Il 17 agosto 2002 ha aperto, a Santa Rosa in California, il museo Charles Schulz.
Charles Monroe Schulz, nato a St Paul (la città che con Minneapolis è una delle Twin Cities città gemelle del Minnesota) il 26 novembre 1922, da subito sembra destinato al fumetto. Appena nato, infatti, uno zio lo soprannomina Sparky, abbreviazione di Sparkplug, il cavallo di "Barney Google", striscia allora popolarissima (nella versione italiana, Barnabò Goggoloni o Bertoldo Scalzapolli).
Così Charles diventa Sparky per tutti, nomignolo con cui firmò i suoi primi lavori e con il quale lo chiamarono sempre gli amici. L'aneddotica ci regala anche un altro stralcio di intuizione legato a un'insegnante che guardando un disegno del giovanissimo Sparky commentò: "Un giorno, Charles, sarai un artista".
Molto bravo a scuola, eccelleva naturalmente in arte, amando, quasi come da copione, leggere le strisce di fumetti che apparivano sui giornali dell'epoca, augurandosi intimamente di poterne un giorno pubblicare di proprie.
Quando aveva tredici anni, gli regalarono un cane bianco e nero di nome Spike, buffo e intelligente, il modello di quello che più tardi sarà Snoopy (uno Spike, brachetto alto, allampanato e dall'aria perennemente assonnata, apparirà in Peanuts impersonando il fratello di Snoopy).
Frequentando le superiori, invece, strinse amicizia con un ragazzo di nome Charlie Brown, poi utilizzato nell'invenzione della figura dell'omonimo bambino. Non si sa se il carattere sia simile, ma il nome sicuramente sì....
Dopo il diploma e una breve esperienza di guerra nella Francia del 1945, viene assunto come insegnante alla Art Instruction School, una scuola di disegno per corrispondenza dove Schulz incontra numerosi giovani colleghi e trae ispirazioni e suggerimenti per i suoi futuri personaggi. Ad esempio, l'impiegata della contabilità Donna World, suo primo amore non corrisposto, gli ispirerà quel singolare personaggio fuori campo che è la ragazzina dai capelli rossi, eterna innamorata di Charlie Brown.
"Sparky" spedisce così i suoi disegni a varie redazioni, finché alla fine il giornale di St. Paul decide di pubblicare alcune sue strisce. Dopo questo piccolo riconoscimento, galvanizzato, si convince a mettere insieme la sua migliore produzione e di mandarla all'United Feature Syndacate di New York. La risposta è subito positiva e Charles riceve una breve lettera con la conferma dell'interessamento. Detto fatto, si sposta a New York con l'intento di consegnare le sue strisce, poi chiamate dall'editore, con un termine inizialmente aborrito da Schulz, Peanuts (letteralmente: "noccioline", a causa della velocità e dell'insaziabilità con cui si consumavano). Presto Schulz creò una galleria indimenticabile di personaggi, oggi noti in tutto il mondo: Snoopy, Lucy, Linus, Sally, Woodstock, Schroeder e molti altri. I Peanuts debuttano quindi ufficialmente il 2 ottobre 1950, data in cui la prima striscia uscì su sette quotidiani americani.
In pochi anni, però, i Peanuts divennero il fumetto più popolare del globo. I suoi personaggi vengono pubblicati su 2293 giornali di 67 paesi, comparendo in programmi di animazione, nei film per il cinema, tra diari di scuola e raccolte di fumetti (addirittura, in occasione del 40° dei Peanuts, fu ospitata a Parigi, nel Pavillon Marsan, l'ala del Louvre che accoglie il Musée des Arts Décoratifs, una mostra a lui dedicata).
Nell'aprile del 1951 "Sparky" sposa Joyce Halverson ma il matrimonio dura solamente due anni. Nel 1976 ci riprova, sposando Jeannie Forsyht, un matrimonio, questo, durato per ventuno anni e che ha visto la nascita di cinque figli, diventati la principale fonte d'ispirazione per le strisce del geniale autore.
I Peanuts sono dunque diventati non solo un fenomeno di culto, ma persino oggetto di studio da parte di letterati, saggisti e psicologi (indimenticabili, a proposito, le analisi di Umberto Eco, che ha acutamente scritto più volte intorno ai personaggi di Schulz), in quanto, in un modo o nell'altro, fanno riflettere su quelli che sono i piccoli problemi di tutti i bambini (e non solo) di questo mondo.
In una celebre intervista ha detto: "Perché i musicisti compongono sinfonie e i poeti scrivono poesie? Lo fanno perché per loro la vita non avrebbe alcun significato se non lo facessero. Questo é il motivo per cui disegno i miei fumetti: é la mia vita". E lo dimostra il fatto che una clausola nel suo contratto prevede che i personaggi muoiano con il loro creatore.
Infatti, fin dagli esordi, egli ripeteva: "Quando non potrò più disegnare, non voglio che nessuno prenda il mio posto. Charlie Brown, Snoopy, Linus, Lucy e gli altri miei personaggi usciranno di scena con me".
E così é stato. Charles Monroe Schulz é morto il 12 febbraio 2000, all'età di 77 anni, colpito dal cancro, e assieme a lui sono uscite di scena anche le sue creazioni.
Il 14 febbraio il Times ne diede l'annuncio scrivendo "Charles Schulz lascia una moglie, 5 figli, e un piccolo bambino dalla testa rotonda con un cane straordinario"
Il 17 agosto 2002 ha aperto, a Santa Rosa in California, il museo Charles Schulz.
Charles Monroe Schulz, nato a St Paul (la città che con Minneapolis è una delle Twin Cities città gemelle del Minnesota) il 26 novembre 1922, da subito sembra destinato al fumetto. Appena nato, infatti, uno zio lo soprannomina Sparky, abbreviazione di Sparkplug, il cavallo di "Barney Google", striscia allora popolarissima (nella versione italiana, Barnabò Goggoloni o Bertoldo Scalzapolli).
Così Charles diventa Sparky per tutti, nomignolo con cui firmò i suoi primi lavori e con il quale lo chiamarono sempre gli amici. L'aneddotica ci regala anche un altro stralcio di intuizione legato a un'insegnante che guardando un disegno del giovanissimo Sparky commentò: "Un giorno, Charles, sarai un artista".
Molto bravo a scuola, eccelleva naturalmente in arte, amando, quasi come da copione, leggere le strisce di fumetti che apparivano sui giornali dell'epoca, augurandosi intimamente di poterne un giorno pubblicare di proprie.
Quando aveva tredici anni, gli regalarono un cane bianco e nero di nome Spike, buffo e intelligente, il modello di quello che più tardi sarà Snoopy (uno Spike, brachetto alto, allampanato e dall'aria perennemente assonnata, apparirà in Peanuts impersonando il fratello di Snoopy).
Frequentando le superiori, invece, strinse amicizia con un ragazzo di nome Charlie Brown, poi utilizzato nell'invenzione della figura dell'omonimo bambino. Non si sa se il carattere sia simile, ma il nome sicuramente sì....
Dopo il diploma e una breve esperienza di guerra nella Francia del 1945, viene assunto come insegnante alla Art Instruction School, una scuola di disegno per corrispondenza dove Schulz incontra numerosi giovani colleghi e trae ispirazioni e suggerimenti per i suoi futuri personaggi. Ad esempio, l'impiegata della contabilità Donna World, suo primo amore non corrisposto, gli ispirerà quel singolare personaggio fuori campo che è la ragazzina dai capelli rossi, eterna innamorata di Charlie Brown.
"Sparky" spedisce così i suoi disegni a varie redazioni, finché alla fine il giornale di St. Paul decide di pubblicare alcune sue strisce. Dopo questo piccolo riconoscimento, galvanizzato, si convince a mettere insieme la sua migliore produzione e di mandarla all'United Feature Syndacate di New York. La risposta è subito positiva e Charles riceve una breve lettera con la conferma dell'interessamento. Detto fatto, si sposta a New York con l'intento di consegnare le sue strisce, poi chiamate dall'editore, con un termine inizialmente aborrito da Schulz, Peanuts (letteralmente: "noccioline", a causa della velocità e dell'insaziabilità con cui si consumavano). Presto Schulz creò una galleria indimenticabile di personaggi, oggi noti in tutto il mondo: Snoopy, Lucy, Linus, Sally, Woodstock, Schroeder e molti altri. I Peanuts debuttano quindi ufficialmente il 2 ottobre 1950, data in cui la prima striscia uscì su sette quotidiani americani.
In pochi anni, però, i Peanuts divennero il fumetto più popolare del globo. I suoi personaggi vengono pubblicati su 2293 giornali di 67 paesi, comparendo in programmi di animazione, nei film per il cinema, tra diari di scuola e raccolte di fumetti (addirittura, in occasione del 40° dei Peanuts, fu ospitata a Parigi, nel Pavillon Marsan, l'ala del Louvre che accoglie il Musée des Arts Décoratifs, una mostra a lui dedicata).
Nell'aprile del 1951 "Sparky" sposa Joyce Halverson ma il matrimonio dura solamente due anni. Nel 1976 ci riprova, sposando Jeannie Forsyht, un matrimonio, questo, durato per ventuno anni e che ha visto la nascita di cinque figli, diventati la principale fonte d'ispirazione per le strisce del geniale autore.
I Peanuts sono dunque diventati non solo un fenomeno di culto, ma persino oggetto di studio da parte di letterati, saggisti e psicologi (indimenticabili, a proposito, le analisi di Umberto Eco, che ha acutamente scritto più volte intorno ai personaggi di Schulz), in quanto, in un modo o nell'altro, fanno riflettere su quelli che sono i piccoli problemi di tutti i bambini (e non solo) di questo mondo.
In una celebre intervista ha detto: "Perché i musicisti compongono sinfonie e i poeti scrivono poesie? Lo fanno perché per loro la vita non avrebbe alcun significato se non lo facessero. Questo é il motivo per cui disegno i miei fumetti: é la mia vita". E lo dimostra il fatto che una clausola nel suo contratto prevede che i personaggi muoiano con il loro creatore.
Infatti, fin dagli esordi, egli ripeteva: "Quando non potrò più disegnare, non voglio che nessuno prenda il mio posto. Charlie Brown, Snoopy, Linus, Lucy e gli altri miei personaggi usciranno di scena con me".
E così é stato. Charles Monroe Schulz é morto il 12 febbraio 2000, all'età di 77 anni, colpito dal cancro, e assieme a lui sono uscite di scena anche le sue creazioni.
Il 14 febbraio il Times ne diede l'annuncio scrivendo "Charles Schulz lascia una moglie, 5 figli, e un piccolo bambino dalla testa rotonda con un cane straordinario"
domenica 16 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 16 agosto.
Il 16 agosto 2009, ai mondiali di atletica leggera di Berlino, Usain Bolt stabilisce il nuovo record mondiale sui 100 metri piani, fermando il cronometro a 9.58. Nella stessa manifestazione abbasserà anche il record sui 200. Suo, e degli altri componenti della squadra, anche il record sulla staffetta 4x100, stabilito l'anno prima alle olimpiadi di Pechino.
Bolt inizia la stagione 2009 correndo i 400 metri in un paio di gare e facendo segnare il tempo di 45"54 a Kingston. Nel mese di aprile viene coinvolto in un incidente d'auto, che gli procura un piccolo infortunio alla gamba da cui tuttavia recupera velocemente.
Successivamente prende parte ad una gara sull'insolita distanza dei 150 metri piani (corsi in rettilineo) nella città di Manchester; con 14"35, Bolt realizza il tempo più veloce di sempre sulla distanza, migliorando il 14"75 di Tyson Gay (corso durante la finale dei 200 m ai Mondiali del 2007) e il 14"8 (manuale) di Pietro Mennea, tempi che rimangono tuttavia le migliori prestazioni per i 150 metri corsi in curva. Ai campionati nazionali giamaicani, nonostante una condizione non ancora ottimale, vince le prove sui 100 e 200 metri correndo rispettivamente in 9"86 e 20"25, ottenendo così la qualificazione per i Mondiali di Berlino che si sarebbero tenuti nei mesi a venire.
Il 2 luglio, durante un'intervista, dichiara di essere in grado di ritoccare i primati dei 100 e 200 m che già gli appartengono: "Penso di poter andare più forte. Ritengo che arrivare a 9"50 nei 100 metri sia possibile, ci sto lavorando. Ora non sono nella migliore condizione, ma penso che lentamente sarò in grado di rimettermi in forma in vista dei mondiali".A pochi giorni da queste dichiarazioni, il 7 luglio, durante il meeting internazionale Athletissima di Losanna, Bolt corre i 200 metri in 19"59, quarta miglior prestazione di sempre, ma con quasi un metro di vento contrario e sotto una pioggia torrenziale, oltretutto rallentando vistosamente negli ultimi 30 metri.
Il 16 agosto vince la finale dei 100 metri piani dei Mondiali di Berlino con il tempo di 9"58, nuovo primato del mondo, con la media di 2 metri e 44 centimetri ogni passo, superando i 41 km/h di velocità media nei secondi 50 metri e toccando un picco di velocità massima di oltre 44 km/h. Il secondo classificato, lo statunitense Tyson Gay argento in 9"71 (nuovo primato nazionale) è distanziato di ben 13 centesimi, mentre Asafa Powell chiude al terzo posto in 9"84, tempi che assieme a tutte le altre prestazioni formano la gara più veloce di tutti i tempi.
Il 16 agosto 2009, ai mondiali di atletica leggera di Berlino, Usain Bolt stabilisce il nuovo record mondiale sui 100 metri piani, fermando il cronometro a 9.58. Nella stessa manifestazione abbasserà anche il record sui 200. Suo, e degli altri componenti della squadra, anche il record sulla staffetta 4x100, stabilito l'anno prima alle olimpiadi di Pechino.
Bolt inizia la stagione 2009 correndo i 400 metri in un paio di gare e facendo segnare il tempo di 45"54 a Kingston. Nel mese di aprile viene coinvolto in un incidente d'auto, che gli procura un piccolo infortunio alla gamba da cui tuttavia recupera velocemente.
Successivamente prende parte ad una gara sull'insolita distanza dei 150 metri piani (corsi in rettilineo) nella città di Manchester; con 14"35, Bolt realizza il tempo più veloce di sempre sulla distanza, migliorando il 14"75 di Tyson Gay (corso durante la finale dei 200 m ai Mondiali del 2007) e il 14"8 (manuale) di Pietro Mennea, tempi che rimangono tuttavia le migliori prestazioni per i 150 metri corsi in curva. Ai campionati nazionali giamaicani, nonostante una condizione non ancora ottimale, vince le prove sui 100 e 200 metri correndo rispettivamente in 9"86 e 20"25, ottenendo così la qualificazione per i Mondiali di Berlino che si sarebbero tenuti nei mesi a venire.
Il 2 luglio, durante un'intervista, dichiara di essere in grado di ritoccare i primati dei 100 e 200 m che già gli appartengono: "Penso di poter andare più forte. Ritengo che arrivare a 9"50 nei 100 metri sia possibile, ci sto lavorando. Ora non sono nella migliore condizione, ma penso che lentamente sarò in grado di rimettermi in forma in vista dei mondiali".A pochi giorni da queste dichiarazioni, il 7 luglio, durante il meeting internazionale Athletissima di Losanna, Bolt corre i 200 metri in 19"59, quarta miglior prestazione di sempre, ma con quasi un metro di vento contrario e sotto una pioggia torrenziale, oltretutto rallentando vistosamente negli ultimi 30 metri.
Il 16 agosto vince la finale dei 100 metri piani dei Mondiali di Berlino con il tempo di 9"58, nuovo primato del mondo, con la media di 2 metri e 44 centimetri ogni passo, superando i 41 km/h di velocità media nei secondi 50 metri e toccando un picco di velocità massima di oltre 44 km/h. Il secondo classificato, lo statunitense Tyson Gay argento in 9"71 (nuovo primato nazionale) è distanziato di ben 13 centesimi, mentre Asafa Powell chiude al terzo posto in 9"84, tempi che assieme a tutte le altre prestazioni formano la gara più veloce di tutti i tempi.
sabato 15 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Il 15 Agosto 1483 Papa Sisto IV consacra e dedica all'Assunta la cappella che prenderà il suo nome, conosciuta in tutto il mondo come Cappella Sistina.
Papa Sisto IV della Rovere (pontefice dal 1471 al 1484) fece ristrutturare l'antica Cappella Magna tra il 1477 e il 1480. La decorazione quattrocentesca delle pareti comprende: i finti tendaggi, le Storie di Mosè (pareti sud - ingresso) e di Cristo (pareti nord - ingresso) e i ritratti dei Pontefici (pareti nord - sud - ingresso). Essa fu eseguita da un'équipe di pittori costituita inizialmente da Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, coadiuvati dalle rispettive botteghe e da alcuni più stretti collaboratori tra i quali spiccano Biagio di Antonio, Bartolomeo della Gatta e Luca Signorelli. Sulla volta Pier Matteo d'Amelia dipinse un cielo stellato. L’esecuzione degli affreschi ebbe inizio nel 1481 e fu portata a termine nel 1482. A quest’epoca risalgono anche le opere in marmo: la transenna, la cantoria (ove prendevano posto i cantori), e lo stemma pontificio sopra la porta d’ingresso. Il 15 agosto del 1483 Sisto IV consacrò la nuova cappella dedicandola all'Assunta. Giulio II della Rovere (pontefice dal 1503 al 1513), nipote di Sisto IV, decise di modificarne in parte la decorazione, affidando nel 1508 l'incarico a Michelangelo Buonarroti, il quale dipinse la volta e, sulla parte alta delle pareti, le lunette. Nell'ottobre 1512 il lavoro era compiuto e il giorno di Ognissanti (1° novembre) Giulio II inaugurò la Sistina con una messa solenne. Nei nove riquadri centrali sono raffigurate le Storie della Genesi, dalla Creazione alla Caduta dell'uomo, al Diluvio e al successivo rinascere dell'umanità con la famiglia di Noè.
E' probabile il riferimento alla prima lettera di Pietro (3,20-22) dove l'acqua del diluvio è vista come segno profetico dell'acqua del Battesimo, dalla quale esce un'umanità nuova, quella dei salvati da Cristo. Negli spazi tra le vele compaiono, seduti su monumentali troni, cinque Sibille e sette Profeti. Nei quattro pennacchi angolari sono le Salvazioni miracolose di Israele mentre nelle vele e nelle lunette (pareti nord - sud - ingresso) figurano gli Antenati di Cristo. Verso la fine del 1533 Clemente VII de' Medici (pontefice dal 1523 al 1534) incaricò Michelangelo di modificare ulteriormente la decorazione della Sistina dipingendo sulla parete d'altare il Giudizio Universale. Ciò causò la perdita degli affreschi quattrocenteschi, vale a dire della pala con la Vergine Assunta tra gli Apostoli e i primi due episodi delle storie di Mosè e di Cristo, dipinti dal Perugino. In questo affresco Michelangelo volle rappresentare il ritorno glorioso di Cristo alla luce dei testi del Nuovo Testamento (cfr. Matteo 24,30-31; 25,31-46; I lettera ai Corinzi 15,51-55). L'artista iniziò la grandiosa opera nel 1536 durante il pontificato di Paolo III e la portò a compimento nell'autunno del 1541. Michelangelo, servendosi delle sue straordinarie capacità artistiche, ha cercato di tradurre in forme visibili l'invisibile bellezza e maestà di Dio e guidato dalle parole della Genesi ha fatto della Cappella Sistina "il santuario della teologia del corpo umano" (Omelia, pronunciata da S.S. Giovanni Paolo II, 8 aprile 1994). Nella seconda metà del Cinquecento vennero rifatti gli affreschi della Parete d'ingresso: Hendrik van den Broeck ridipinse la Resurrezione di Cristo del Ghirlandaio, mentre Matteo da Lecce la Disputa sul corpo di Mosè del Signorelli, i quali erano stati gravemente danneggiati dal crollo della porta avvenuto nel 1522. Gli affreschi della Cappella Sistina hanno subito un completo restauro tra il 1979 e il 1999. L'intervento ha riguardato anche le parti marmoree e cioè la cantoria, la transenna e lo stemma di Sisto IV. Nella Cappella viene ancor oggi tenuto il Conclave per l'elezione del Sommo Pontefice. Sono ancora le parole dell'Omelia pronunciata da Sua Santità Giovanni Paolo II a sottolineare la primaria importanza della Sistina nella vita della Chiesa: "La Cappella Sistina è il luogo che, per ogni Papa, racchiude il ricordo di un giorno particolare della sua vita [...]. Proprio qui, in questo spazio sacro, si raccolgono i Cardinali, aspettando la manifestazione della volontà di Cristo riguardo alla persona del Successore di San Pietro [...] E qui, in spirito di obbedienza a Cristo e affidandomi alla sua Madre, ho accettato l'elezione scaturita dal Conclave, dichiarando [...] la mia disponibilità a servire la Chiesa. Così dunque la Cappella Sistina ancora una volta è diventata davanti a tutta la Comunità cattolica il luogo dell'azione dello Spirito Santo che costituisce nella Chiesa i Vescovi, costituisce in modo particolare colui che deve essere il Vescovo di Roma e il Successore di Pietro."
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vite di papi
venerdì 14 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 14 agosto.
Il 14 agosto 1899 nasce a Novi Ligure Sante Pollastri. Non si conoscono esattamente i motivi per cui Sante Pollastri (o Pollastro, come veniva chiamato nei rapporti giudiziari e come egli stesso si firmava) intraprese una tragica carriera criminale. Tralasciando le molte tesi, reperibili ormai anche su internet, ne esiste una che al tempo era il denominatore comune di molti che intraprendevano una strada lontana dalle leggi: la spinta del bisogno, della fame, della voglia di riscatto sociale.
Fatto sta che dai primi furti, soprattutto ai treni in transito nei pressi del "borgo delle lavandaie" (ora via San Giovanni Bosco, dove abitava), e alle ville estive dei genovesi, arriva la prima rapina e ci scappa il primo morto.
E' il 14 luglio del 1922 e Sante aspetta con tre complici, tra cui il fido Luigi Peotta detto "Singru" Achille Casalegno sulla strada tra Novi e Serravalle. Casalegno è un ex carabiniere diventato cassiere della filiale di Tortona della Banca Agricola Italiana. Con sé ha la cassa della Banca. Viene fatto cadere dalla bici, mentre torna a casa. Il cassiere ha un gesto di ribellione, forse cerca di estrarre la pistola dalla giacca, e viene freddato con un colpo di rivoltella. Sante poi negherà di essere stato lui a sparare, comunque è sua l'idea del colpo. Il bottino è consistente: quasi 38mila lire, che a quell'epoca rappresentano una grossa cifra. Casalegno, di appena trenta anni, lascia la moglie e tre figli piccoli.
Pollastro e la sua banda si danno alla macchia. Sulle sue tracce, i Carabinieri di tutta la Provincia e in particolare quelli di Novi. Arriva la fiera di Santa Caterina e i Carabinieri vengono a sapere che Sante è dalla sorella Carmelina, in una cascina che viene accerchiata. Il Maresciallo Lupano e il Brigadiere Castioni vanno a bussare alla porta. Apre Carmelina, che dice "sono sola, non c'è nessuno", ma la tavola è imbandita per tre. Sante e Emilio Colombo, il fidanzato di Carmelina, sono saliti al primo piano. Di lì fanno fuoco sui carabinieri appostati fuori, e saltano dalla finestra. Anche i Carabinieri fanno fuoco, e li rincorrono. Dopo poche centinaia di metri trovano un corpo. E' Emilio, che spira lì ad un passo da una fila di gelsi. Pollastro riesce a fuggire, pistole alla mano. Carmelina resta sola con due figli da crescere.
Intanto un altro novese fa parlare di sé, questa volta in bene: è quel Costante Girardengo che dal 1919 al 1927 vince tutto nel ciclismo, in Italia e all'estero.
Pochi giorni dopo, il 29 novembre, Pollastro è a Teglia, sopra Genova, a pranzo con Abele Ricieri Ferrari, un poeta anarchico genovese più noto con lo pseudonimo di Renzo Novatore. Sulle sue tracce il maresciallo Lupano, tanto che lui e i suoi uomini si sistemano in borghese in un altro tavolo dell'Osteria della Salute. Pollastro li riconosce, estrae la pistola, ne risulta una sparatoria in cui perdono la vita sia Novatore che Lupano. A quest'ultimo verrà intitolata la Caserma dei Carabinieri di Novi. Sante riesce ancora a scappare e a sfuggire dai posti di blocco. Leggenda dice che si sia nascosto su un albero nei pressi dell'osteria, e abbia aspettato lì che le acque si calmassero.
La vita di Pollastro è sempre più criminale, avventurosa e fortunosa. Opera in Italia e in Francia, a capo di una banda sempre più grossa. Realtà e leggenda si sovrappongono, e dietro ad ogni colpo si vede la banda di Pollastro, tanto che alla fine non si riusciranno a contare gli omicidi del bandito. Sante è audace, al punto che ricercato torna a Novi per assistere ai funerali della madre, travestito da frate. Molti forse lo riconoscono e tacciono, forse per solidarietà, forse per paura. Ma anche qui la leggenda forse si sovrappone alla realtà.
Mussolini in persona mette sulle sue tracce il questore Rizzo, con "la più amplia possibilità di azione".
Alla fine è il commissario Guillame (personaggio a cui Georges Simenon si ispirò per il suo Maigret) che riesce ad arrestare Pollastro sulla metrò di Parigi: è il 10 agosto 1927. Accanto a lui, Rizzo.
Viene processato a Parigi, e poi estradato in Italia. La condanna è all'ergastolo, da scontare nel carcere dell'Isola di Santo Stefano. Pollastro ha 28 anni e alle spalle decine di omicidi.
Anche in carcere Sante si distingue: riesce a sedare un rivolta durante la guerra, sebbene con una gamba rotta. Resta in carcere fino al 1959, quando viene graziato dal Presidente della Repubblica Gronchi e torna a vivere a Novi con Carmelina, in via Cavanna. Ha 60 anni.
A Novi Sante cerca di tirare avanti. Si dedica al piccolo commercio, sulla sua bicicletta. Stringe amicizia con Fulvio Rebora, che gli insegna a fare fotografie. Muore a Novi il 30 aprile del 1979, a 79 anni.
Il 14 agosto 1899 nasce a Novi Ligure Sante Pollastri. Non si conoscono esattamente i motivi per cui Sante Pollastri (o Pollastro, come veniva chiamato nei rapporti giudiziari e come egli stesso si firmava) intraprese una tragica carriera criminale. Tralasciando le molte tesi, reperibili ormai anche su internet, ne esiste una che al tempo era il denominatore comune di molti che intraprendevano una strada lontana dalle leggi: la spinta del bisogno, della fame, della voglia di riscatto sociale.
Fatto sta che dai primi furti, soprattutto ai treni in transito nei pressi del "borgo delle lavandaie" (ora via San Giovanni Bosco, dove abitava), e alle ville estive dei genovesi, arriva la prima rapina e ci scappa il primo morto.
E' il 14 luglio del 1922 e Sante aspetta con tre complici, tra cui il fido Luigi Peotta detto "Singru" Achille Casalegno sulla strada tra Novi e Serravalle. Casalegno è un ex carabiniere diventato cassiere della filiale di Tortona della Banca Agricola Italiana. Con sé ha la cassa della Banca. Viene fatto cadere dalla bici, mentre torna a casa. Il cassiere ha un gesto di ribellione, forse cerca di estrarre la pistola dalla giacca, e viene freddato con un colpo di rivoltella. Sante poi negherà di essere stato lui a sparare, comunque è sua l'idea del colpo. Il bottino è consistente: quasi 38mila lire, che a quell'epoca rappresentano una grossa cifra. Casalegno, di appena trenta anni, lascia la moglie e tre figli piccoli.
Pollastro e la sua banda si danno alla macchia. Sulle sue tracce, i Carabinieri di tutta la Provincia e in particolare quelli di Novi. Arriva la fiera di Santa Caterina e i Carabinieri vengono a sapere che Sante è dalla sorella Carmelina, in una cascina che viene accerchiata. Il Maresciallo Lupano e il Brigadiere Castioni vanno a bussare alla porta. Apre Carmelina, che dice "sono sola, non c'è nessuno", ma la tavola è imbandita per tre. Sante e Emilio Colombo, il fidanzato di Carmelina, sono saliti al primo piano. Di lì fanno fuoco sui carabinieri appostati fuori, e saltano dalla finestra. Anche i Carabinieri fanno fuoco, e li rincorrono. Dopo poche centinaia di metri trovano un corpo. E' Emilio, che spira lì ad un passo da una fila di gelsi. Pollastro riesce a fuggire, pistole alla mano. Carmelina resta sola con due figli da crescere.
Intanto un altro novese fa parlare di sé, questa volta in bene: è quel Costante Girardengo che dal 1919 al 1927 vince tutto nel ciclismo, in Italia e all'estero.
Pochi giorni dopo, il 29 novembre, Pollastro è a Teglia, sopra Genova, a pranzo con Abele Ricieri Ferrari, un poeta anarchico genovese più noto con lo pseudonimo di Renzo Novatore. Sulle sue tracce il maresciallo Lupano, tanto che lui e i suoi uomini si sistemano in borghese in un altro tavolo dell'Osteria della Salute. Pollastro li riconosce, estrae la pistola, ne risulta una sparatoria in cui perdono la vita sia Novatore che Lupano. A quest'ultimo verrà intitolata la Caserma dei Carabinieri di Novi. Sante riesce ancora a scappare e a sfuggire dai posti di blocco. Leggenda dice che si sia nascosto su un albero nei pressi dell'osteria, e abbia aspettato lì che le acque si calmassero.
La vita di Pollastro è sempre più criminale, avventurosa e fortunosa. Opera in Italia e in Francia, a capo di una banda sempre più grossa. Realtà e leggenda si sovrappongono, e dietro ad ogni colpo si vede la banda di Pollastro, tanto che alla fine non si riusciranno a contare gli omicidi del bandito. Sante è audace, al punto che ricercato torna a Novi per assistere ai funerali della madre, travestito da frate. Molti forse lo riconoscono e tacciono, forse per solidarietà, forse per paura. Ma anche qui la leggenda forse si sovrappone alla realtà.
Mussolini in persona mette sulle sue tracce il questore Rizzo, con "la più amplia possibilità di azione".
Alla fine è il commissario Guillame (personaggio a cui Georges Simenon si ispirò per il suo Maigret) che riesce ad arrestare Pollastro sulla metrò di Parigi: è il 10 agosto 1927. Accanto a lui, Rizzo.
Viene processato a Parigi, e poi estradato in Italia. La condanna è all'ergastolo, da scontare nel carcere dell'Isola di Santo Stefano. Pollastro ha 28 anni e alle spalle decine di omicidi.
Anche in carcere Sante si distingue: riesce a sedare un rivolta durante la guerra, sebbene con una gamba rotta. Resta in carcere fino al 1959, quando viene graziato dal Presidente della Repubblica Gronchi e torna a vivere a Novi con Carmelina, in via Cavanna. Ha 60 anni.
A Novi Sante cerca di tirare avanti. Si dedica al piccolo commercio, sulla sua bicicletta. Stringe amicizia con Fulvio Rebora, che gli insegna a fare fotografie. Muore a Novi il 30 aprile del 1979, a 79 anni.
giovedì 13 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno. Oggi è il 13 agosto.
Il 13 agosto 1961, per arginare le continue fughe dalla parte orientale della città, iniziava la costruzione del muro di Berlino.
Per 28 anni, dal 1961 al 1989, il muro di Berlino ha tagliato in due non solo una città, ma un intero paese. Fu il simbolo delle divisione del mondo in una sfera americana e una sovietica, fu il simbolo più crudele della Guerra Fredda.
Già nel 1945, appena finita la seconda guerra mondiale scoppiò la Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti e la Germania fu il territorio di questa guerra che si sarebbe trascinata in forme più o meno aspre fino agli anni ottanta.
La Germania era occupata dai vincitori della guerra e divisa in quattro zone. L'Unione Sovietica cominciò immediatamente a ricostruire la "sua" parte della Germania secondo i propri piani. Durante la guerra aveva pagato il prezzo più alto in vite umane e risorse e ora chiese un risarcimento altissimo alla Germania: intere fabbriche, tra cui quelle più importanti, furono portate in Russia, ingenti quantità di materie prime furono pretese per anni come pagamento dei danni della guerra. Ma in questa maniera Stalin si creò molti nemici in Germania, compromettendo molto l'immagine dei russi come "liberatori dal nazismo".
Gli americani invece avevano capito che in questa Guerra Fredda avevano bisogno di alleati in Germania affinché diventasse l'avamposto contro l'Unione Sovietica. Quasi subito cominciarono ad organizzare aiuti per la Germania. Decine di migliaia di pacchi "Care" con generi alimentari, medicine e vestiti arrivarono in Germania nei primi anni del dopoguerra. Ancor più che un aiuto materiale reale era un segnale politico e psicologico: gli americani, dopo essere stati nemici dei tedeschi volevano dimostrare di essere adesso loro amici. Fin dall'inizio gli americani cercarono di unire la loro zona a quelle occupate da inglesi e francesi, con l'intenzione di rafforzare la propria posizione contro la zona occupata dai russi.
Già pochi mesi dopo la fine della guerra la divisione della Germania era diventata praticamente inevitabile, anche se dovevano passare ancora 4 anni fino alla definitiva separazione nel 1949. In realtà, tranne la maggioranza dei tedeschi stessi, nessuno voleva veramente una Germania unita, nonostante le parole contrarie di tutti gli alleati.
In fondo, la divisione accontentò un po' tutti, a parte naturalmente i tedeschi, e creò meno problemi nella gestione della Germania vinta. La Germania era diventata oggetto della Guerra Fredda e non aveva ancora né la forza, né la reale possibilità di sottrarsi al dominio e alla concorrenza delle 2 superpotenze USA e URSS.
La "DDR" (Deutsche Demokratische Republik" - Repubblica Democartica Tedesca) all'est stava sotto l'influenza dell'Unione Sovietica e la "BRD" ("Bundesrepublik Deutschland" - Repubblica Federale della Germania) all'ovest, sotto l'influenza degli Stati Uniti. Sul piano economico la Germania occidentale visse negli anni 50 un fortissimo boom, erano gli anni del cosiddetto "Wirtschaftswunder" (miracolo economico). Aiutata all'inizio dai soldi americani, la Germania Federale riuscì in breve tempo a diventare nuovamente una nazione rispettata per la sua forza economica.
La parte orientale faceva molto più fatica a riprendersi: era svantaggiata all'inizio per le pesanti richieste economiche fatte dall'Unione Sovietica per riparare i danni subiti nella guerra e per la mancanza di aiuti paragonabili a quelli che riceveva la parte occidentale. Inoltre la rigida struttura di pianificazione nazionale dell'economia non favorì lo stesso sviluppo come nella parte occidentale del paese. Più i due paesi si stabilivano al livello politico, più si facevano sentire le differenze per quanto riguarda lo standard di vita.
In quegli anni il confine tra est ed ovest non era ancora insuperabile e per tutti gli anni '50 centinaia di migliaia di persone fuggivano ogni anno dall'est all'ovest, per la maggior parte erano giovani con meno di 30 anni e spesso persone con una buona formazione professionale, laureati, operai specializzati e artigiani, che all'ovest si aspettavano un futuro più redditizio e più libero. Questo continuo dissanguamento stava diventando un serio pericolo per la Germania dell'est ed era un'ulteriore causa delle difficoltà economiche di questo stato.
Nelle prime ore del 13 agosto del 1961 le unità armate della Germania dell'est interruppero tutti i collegamenti tra Berlino est e ovest e iniziavano a costruire, davanti agli occhi esterrefatti degli abitanti di tutte e due le parti, un muro insuperabile che avrebbe attraversato tutta la città, che avrebbe diviso le famiglie in due e tagliato la strada tra casa e posto di lavoro, scuola e università. Non solo a Berlino ma in tutta la Germania il confine tra est ed ovest diventò una trappola mortale. I soldati ricevettero l'ordine di sparare su tutti quelli che cercavano di attraversare la zona di confine che con gli anni fu attrezzata con dei macchinari sempre più terrificanti, con mine anti-uomo, filo spinato alimentato con corrente ad alta tensione, e addirittura con degli impianti che sparavano automaticamente su tutto quello che si muoveva nella cosiddetta "striscia della morte".
Bloccato quasi completamente il dissanguamento economico dello stato, negli anni 60 e 70 la DDR visse anch'essa un boom economico. Tra gli stati dell'est diventò la nazione economicamente più forte e i tedeschi, sia all'est che all'ovest, cominciarono a rassegnarsi alla divisione. Di riunificazione si parlava sempre meno e solo durante le commemorazioni e le feste nazionali.
Quello che infine, per la grande sorpresa di tutti e nel giro di pochissimo tempo portò alla riunificazione furono due fattori: l'arrivo di Gorbaciov come leader dell'Unione Sovietica e le crescenti difficoltà politiche ed economiche dei paesi dell'est e specialmente della DDR. Con la "Perestroika", cioè la radicale trasformazione della politica e della economia e con la "Glasnost", che doveva portare alla trasparenza politica. Decisivo per gli eventi che portarono infine alla caduta del muro fu invece la decisione di Gorbaciov di lasciare libertà agli altri paesi del Patto di Varsavia promettendo di non intromettersi più nei loro affari interni.
I dirigenti della DDR videro questo processo prima con un certo imbarazzo e poi con crescente resistenza. In Polonia e in Ungheria, dove la crisi economica e le spinte per una riforma sono più forti, la politica di Gorbaciov trovò invece più amici anche tra i governanti. Più arrivavano dall'URSS e dagli altri stati dell'est notizie di riforme economiche e democratiche, e più la popolazione della DDR chiedeva di fare lo stesso nel loro paese, più i leader della DDR si chiudono a ogni richiesta del genere. Lo stacco tra popolazione e governo diventa un abisso ma la reazione più diffusa tra la gente è ancora la rassegnazione. Alla fine degli anni 80 la DDR è, o almeno sembra, economicamente abbastanza forte, l'apparato statale sembra indistruttibile e così nessuno può prevedere il crollo verticale che nel 1989 sarebbe avvenuto in pochissimi mesi.
Ogni tentativo di lasciare la DDR in direzione ovest equivaleva ancora a un suicidio, ma nell'estate del '89 la gente della DDR trovò un'altra via di fuga: erano le ambasciate della Germania Federale a Praga, Varsavia e Budapest il territorio occidentale dove si poteva arrivare molto più facilmente!
Cominciò un assalto in massa a queste tre ambasciate che dovevano ospitare migliaia di persone stanche di vivere nella DDR. Ma il colpo decisivo all'esistenza della DDR arrivò quando l'Ungheria, il 10 settembre del 1989, aprì i suoi confini con l'Austria. Ora, la strada dalla Germania dell'est all'ovest (attraverso l'Ungheria e l'Austria) era libera!
Mentre il flusso di persone che arrivò nella Germania dell'ovest attraverso l'Ungheria e l'Austria aumentò di giorno in giorno, anche nella DDR crescevano le proteste e la gente si fece più coraggiosa. Ogni lunedì a Lipsia decine di migliaia di persone manifestavano contro il governo ed ogni lunedì le manifestazioni erano più affollate - anche se manifestare apertamente contro il governo era ancora un rischio enorme dato che il regime aveva ancora il pieno controllo della polizia, dell'esercito e dell'intero apparato repressivo.
Ma anche l'ultimo tentativo da parte del governo della DDR di salvare il salvabile, cioè il cambiamento dei vertici del partito comunista e del governo non servì a nulla. Quando la sera del 9 novembre un portavoce del governo della DDR annunciò una riforma piuttosto ampia della legge sui viaggi all'estero, la gente di Berlino est lo interpretò a modo suo: il muro doveva sparire. Migliaia di persone si riunivano all'est davanti al muro, ancora sorvegliato dai soldati, ma migliaia di persone stavano anche aspettando dall'altra parte del muro, all'ovest, con ansia e preoccupazione. Nell'incredibile confusione di quella notte, qualcuno, e ancora oggi non si sa esattamente chi sia stato, dette l'ordine ai soldati dei posti di blocco di ritirarsi e, tra lacrime ed abbracci, migliaia di persone dall'est e dall'ovest, scavalcando il muro, si incontravano per la prima volta dopo 29 anni.
Il muro era caduto ma esistevano ancora due stati tedeschi, due stati con sistemi politici ed economici completamente diversi. Le leggi, le scuole, le università, tutta l'organizzazione della vita pubblica era diversa. La riunificazione era di colpo diventata possibile, ma nelle prime settimane dopo il 9 novembre dell'89 nessuno sapeva ancora come realizzarla e quando. Tutti, anche i più ottimisti, prevedevano un periodo di alcuni anni, ma ancora gli eventi stravolsero tutti i progetti.
Adesso la libertà tanto a lungo desiderata c'era, mancava però il benessere e la gente all'est non voleva più aspettare: infatti, dopo la caduta del muro il flusso dall'est all'ovest non diminuì, anzi aumentò di colpo e di nuovo si poneva il problema di un dissanguamento dell'est, di nuovo erano soprattutto i giovani che volevano tutto e lo vogliono subito, e non fra dieci anni. "Se il marco non viene da noi, saremo noi ad andare dov'è il marco" era uno degli slogan più gridati contro quelli che chiedevano pazienza.
Nella DDR cominciò a regnare il caos. Già dopo pochi mesi la riunificazione non era più una possibilità, ma una necessità, era diventata l'unico modo per poter fermare il degrado dell'est. Ma riunire due stati non è così facile e nel caso della Germania si doveva considerare anche il fatto che la DDR faceva ancora parte di un sistema di sicurezza militare con l'Unione Sovietica e che anche la Germania Federale non poteva agire senza il consenso degli ex-alleati della Seconda Guerra Mondiale. Questo rendeva la riunificazione un problema internazionale e solo dopo trattative non facili tra Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Gran Britannia e dopo il "sì" definitivo di Gorbaciov, la strada per la riunificazione era libera.
Il modo in cui alla fine i due stati vennero unificati era senz'altro dettato più dalla fretta che da considerazioni ragionevoli, ma probabilmente non c'era altra possibilità. Infatti, il 3 ottobre del 1990, i due stati non vengono riuniti, ma uno dei due stati, cioè la DDR, si auto-scioglie e le regioni della DDR vengono annesse in blocco alla Repubblica Federale.
Nessun politico dell'ovest può reclamare alcun merito concreto per quanto riguarda gli eventi che portarono alla riunificazione. Tutti, compreso il cancelliere Helmut Kohl, erano trascinati e travolti dai fatti, Kohl ebbe solo la fortuna di essere cancelliere della Germania quando si verificarono questi eventi. Kohl ha comunque avuto il fiuto giusto di scavalcare la valanga che si era messa in movimento senza nessuna guida politica. L'unico uomo politico che, in realtà, ha contribuito in modo decisivo a iniziare e ad accelerare il processo della caduta del muro è stato Gorbaciov, che con la sua politica ha reso possibile tutto quello che è successo. I tedeschi lo sanno bene, e ancora oggi, Gorbaciov gode di una straordinaria popolarità in Germania.
Il 13 agosto 1961, per arginare le continue fughe dalla parte orientale della città, iniziava la costruzione del muro di Berlino.
Per 28 anni, dal 1961 al 1989, il muro di Berlino ha tagliato in due non solo una città, ma un intero paese. Fu il simbolo delle divisione del mondo in una sfera americana e una sovietica, fu il simbolo più crudele della Guerra Fredda.
Già nel 1945, appena finita la seconda guerra mondiale scoppiò la Guerra Fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti e la Germania fu il territorio di questa guerra che si sarebbe trascinata in forme più o meno aspre fino agli anni ottanta.
La Germania era occupata dai vincitori della guerra e divisa in quattro zone. L'Unione Sovietica cominciò immediatamente a ricostruire la "sua" parte della Germania secondo i propri piani. Durante la guerra aveva pagato il prezzo più alto in vite umane e risorse e ora chiese un risarcimento altissimo alla Germania: intere fabbriche, tra cui quelle più importanti, furono portate in Russia, ingenti quantità di materie prime furono pretese per anni come pagamento dei danni della guerra. Ma in questa maniera Stalin si creò molti nemici in Germania, compromettendo molto l'immagine dei russi come "liberatori dal nazismo".
Gli americani invece avevano capito che in questa Guerra Fredda avevano bisogno di alleati in Germania affinché diventasse l'avamposto contro l'Unione Sovietica. Quasi subito cominciarono ad organizzare aiuti per la Germania. Decine di migliaia di pacchi "Care" con generi alimentari, medicine e vestiti arrivarono in Germania nei primi anni del dopoguerra. Ancor più che un aiuto materiale reale era un segnale politico e psicologico: gli americani, dopo essere stati nemici dei tedeschi volevano dimostrare di essere adesso loro amici. Fin dall'inizio gli americani cercarono di unire la loro zona a quelle occupate da inglesi e francesi, con l'intenzione di rafforzare la propria posizione contro la zona occupata dai russi.
Già pochi mesi dopo la fine della guerra la divisione della Germania era diventata praticamente inevitabile, anche se dovevano passare ancora 4 anni fino alla definitiva separazione nel 1949. In realtà, tranne la maggioranza dei tedeschi stessi, nessuno voleva veramente una Germania unita, nonostante le parole contrarie di tutti gli alleati.
In fondo, la divisione accontentò un po' tutti, a parte naturalmente i tedeschi, e creò meno problemi nella gestione della Germania vinta. La Germania era diventata oggetto della Guerra Fredda e non aveva ancora né la forza, né la reale possibilità di sottrarsi al dominio e alla concorrenza delle 2 superpotenze USA e URSS.
La "DDR" (Deutsche Demokratische Republik" - Repubblica Democartica Tedesca) all'est stava sotto l'influenza dell'Unione Sovietica e la "BRD" ("Bundesrepublik Deutschland" - Repubblica Federale della Germania) all'ovest, sotto l'influenza degli Stati Uniti. Sul piano economico la Germania occidentale visse negli anni 50 un fortissimo boom, erano gli anni del cosiddetto "Wirtschaftswunder" (miracolo economico). Aiutata all'inizio dai soldi americani, la Germania Federale riuscì in breve tempo a diventare nuovamente una nazione rispettata per la sua forza economica.
La parte orientale faceva molto più fatica a riprendersi: era svantaggiata all'inizio per le pesanti richieste economiche fatte dall'Unione Sovietica per riparare i danni subiti nella guerra e per la mancanza di aiuti paragonabili a quelli che riceveva la parte occidentale. Inoltre la rigida struttura di pianificazione nazionale dell'economia non favorì lo stesso sviluppo come nella parte occidentale del paese. Più i due paesi si stabilivano al livello politico, più si facevano sentire le differenze per quanto riguarda lo standard di vita.
In quegli anni il confine tra est ed ovest non era ancora insuperabile e per tutti gli anni '50 centinaia di migliaia di persone fuggivano ogni anno dall'est all'ovest, per la maggior parte erano giovani con meno di 30 anni e spesso persone con una buona formazione professionale, laureati, operai specializzati e artigiani, che all'ovest si aspettavano un futuro più redditizio e più libero. Questo continuo dissanguamento stava diventando un serio pericolo per la Germania dell'est ed era un'ulteriore causa delle difficoltà economiche di questo stato.
Nelle prime ore del 13 agosto del 1961 le unità armate della Germania dell'est interruppero tutti i collegamenti tra Berlino est e ovest e iniziavano a costruire, davanti agli occhi esterrefatti degli abitanti di tutte e due le parti, un muro insuperabile che avrebbe attraversato tutta la città, che avrebbe diviso le famiglie in due e tagliato la strada tra casa e posto di lavoro, scuola e università. Non solo a Berlino ma in tutta la Germania il confine tra est ed ovest diventò una trappola mortale. I soldati ricevettero l'ordine di sparare su tutti quelli che cercavano di attraversare la zona di confine che con gli anni fu attrezzata con dei macchinari sempre più terrificanti, con mine anti-uomo, filo spinato alimentato con corrente ad alta tensione, e addirittura con degli impianti che sparavano automaticamente su tutto quello che si muoveva nella cosiddetta "striscia della morte".
Bloccato quasi completamente il dissanguamento economico dello stato, negli anni 60 e 70 la DDR visse anch'essa un boom economico. Tra gli stati dell'est diventò la nazione economicamente più forte e i tedeschi, sia all'est che all'ovest, cominciarono a rassegnarsi alla divisione. Di riunificazione si parlava sempre meno e solo durante le commemorazioni e le feste nazionali.
Quello che infine, per la grande sorpresa di tutti e nel giro di pochissimo tempo portò alla riunificazione furono due fattori: l'arrivo di Gorbaciov come leader dell'Unione Sovietica e le crescenti difficoltà politiche ed economiche dei paesi dell'est e specialmente della DDR. Con la "Perestroika", cioè la radicale trasformazione della politica e della economia e con la "Glasnost", che doveva portare alla trasparenza politica. Decisivo per gli eventi che portarono infine alla caduta del muro fu invece la decisione di Gorbaciov di lasciare libertà agli altri paesi del Patto di Varsavia promettendo di non intromettersi più nei loro affari interni.
I dirigenti della DDR videro questo processo prima con un certo imbarazzo e poi con crescente resistenza. In Polonia e in Ungheria, dove la crisi economica e le spinte per una riforma sono più forti, la politica di Gorbaciov trovò invece più amici anche tra i governanti. Più arrivavano dall'URSS e dagli altri stati dell'est notizie di riforme economiche e democratiche, e più la popolazione della DDR chiedeva di fare lo stesso nel loro paese, più i leader della DDR si chiudono a ogni richiesta del genere. Lo stacco tra popolazione e governo diventa un abisso ma la reazione più diffusa tra la gente è ancora la rassegnazione. Alla fine degli anni 80 la DDR è, o almeno sembra, economicamente abbastanza forte, l'apparato statale sembra indistruttibile e così nessuno può prevedere il crollo verticale che nel 1989 sarebbe avvenuto in pochissimi mesi.
Ogni tentativo di lasciare la DDR in direzione ovest equivaleva ancora a un suicidio, ma nell'estate del '89 la gente della DDR trovò un'altra via di fuga: erano le ambasciate della Germania Federale a Praga, Varsavia e Budapest il territorio occidentale dove si poteva arrivare molto più facilmente!
Cominciò un assalto in massa a queste tre ambasciate che dovevano ospitare migliaia di persone stanche di vivere nella DDR. Ma il colpo decisivo all'esistenza della DDR arrivò quando l'Ungheria, il 10 settembre del 1989, aprì i suoi confini con l'Austria. Ora, la strada dalla Germania dell'est all'ovest (attraverso l'Ungheria e l'Austria) era libera!
Mentre il flusso di persone che arrivò nella Germania dell'ovest attraverso l'Ungheria e l'Austria aumentò di giorno in giorno, anche nella DDR crescevano le proteste e la gente si fece più coraggiosa. Ogni lunedì a Lipsia decine di migliaia di persone manifestavano contro il governo ed ogni lunedì le manifestazioni erano più affollate - anche se manifestare apertamente contro il governo era ancora un rischio enorme dato che il regime aveva ancora il pieno controllo della polizia, dell'esercito e dell'intero apparato repressivo.
Ma anche l'ultimo tentativo da parte del governo della DDR di salvare il salvabile, cioè il cambiamento dei vertici del partito comunista e del governo non servì a nulla. Quando la sera del 9 novembre un portavoce del governo della DDR annunciò una riforma piuttosto ampia della legge sui viaggi all'estero, la gente di Berlino est lo interpretò a modo suo: il muro doveva sparire. Migliaia di persone si riunivano all'est davanti al muro, ancora sorvegliato dai soldati, ma migliaia di persone stavano anche aspettando dall'altra parte del muro, all'ovest, con ansia e preoccupazione. Nell'incredibile confusione di quella notte, qualcuno, e ancora oggi non si sa esattamente chi sia stato, dette l'ordine ai soldati dei posti di blocco di ritirarsi e, tra lacrime ed abbracci, migliaia di persone dall'est e dall'ovest, scavalcando il muro, si incontravano per la prima volta dopo 29 anni.
Il muro era caduto ma esistevano ancora due stati tedeschi, due stati con sistemi politici ed economici completamente diversi. Le leggi, le scuole, le università, tutta l'organizzazione della vita pubblica era diversa. La riunificazione era di colpo diventata possibile, ma nelle prime settimane dopo il 9 novembre dell'89 nessuno sapeva ancora come realizzarla e quando. Tutti, anche i più ottimisti, prevedevano un periodo di alcuni anni, ma ancora gli eventi stravolsero tutti i progetti.
Adesso la libertà tanto a lungo desiderata c'era, mancava però il benessere e la gente all'est non voleva più aspettare: infatti, dopo la caduta del muro il flusso dall'est all'ovest non diminuì, anzi aumentò di colpo e di nuovo si poneva il problema di un dissanguamento dell'est, di nuovo erano soprattutto i giovani che volevano tutto e lo vogliono subito, e non fra dieci anni. "Se il marco non viene da noi, saremo noi ad andare dov'è il marco" era uno degli slogan più gridati contro quelli che chiedevano pazienza.
Nella DDR cominciò a regnare il caos. Già dopo pochi mesi la riunificazione non era più una possibilità, ma una necessità, era diventata l'unico modo per poter fermare il degrado dell'est. Ma riunire due stati non è così facile e nel caso della Germania si doveva considerare anche il fatto che la DDR faceva ancora parte di un sistema di sicurezza militare con l'Unione Sovietica e che anche la Germania Federale non poteva agire senza il consenso degli ex-alleati della Seconda Guerra Mondiale. Questo rendeva la riunificazione un problema internazionale e solo dopo trattative non facili tra Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Gran Britannia e dopo il "sì" definitivo di Gorbaciov, la strada per la riunificazione era libera.
Il modo in cui alla fine i due stati vennero unificati era senz'altro dettato più dalla fretta che da considerazioni ragionevoli, ma probabilmente non c'era altra possibilità. Infatti, il 3 ottobre del 1990, i due stati non vengono riuniti, ma uno dei due stati, cioè la DDR, si auto-scioglie e le regioni della DDR vengono annesse in blocco alla Repubblica Federale.
Nessun politico dell'ovest può reclamare alcun merito concreto per quanto riguarda gli eventi che portarono alla riunificazione. Tutti, compreso il cancelliere Helmut Kohl, erano trascinati e travolti dai fatti, Kohl ebbe solo la fortuna di essere cancelliere della Germania quando si verificarono questi eventi. Kohl ha comunque avuto il fiuto giusto di scavalcare la valanga che si era messa in movimento senza nessuna guida politica. L'unico uomo politico che, in realtà, ha contribuito in modo decisivo a iniziare e ad accelerare il processo della caduta del muro è stato Gorbaciov, che con la sua politica ha reso possibile tutto quello che è successo. I tedeschi lo sanno bene, e ancora oggi, Gorbaciov gode di una straordinaria popolarità in Germania.
mercoledì 12 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 12 agosto.
Il 12 agosto 2000, durante un'esercitazione nel mare di Barents, il sommergibile nucleare russo Kursk affondò, uccidendo tutti i 118 marinai imbarcati.
Il K-141 Kursk era uno dei migliori sottomarini della marina russa. Fu varato nel 1995 e apparteneva alla Classe Oscar II, nome in codice dato dalla Nato ai sottomarini russi dotati di missili antinave e di testate nucleari. Era lungo154 metri, largo 18,2 metri e alto 9,2 metri. Poteva raggiungere una velocità di 32 nodi. L’equipaggio era formato da 118 uomini di cui 52 ufficiali. Il suo utilizzo abituale era il pattugliamento dei mari direttamente controllati dalla Russia e lo svolgimento di alcune esercitazioni che potevano riguardare manovre di attacco e difesa e il lancio di siluri a salve.
Nell’agosto del 2000 il sottomarino Kursk si trovava nel mare di Barens e la sua missione consisteva in una esercitazione durante la quale avrebbe dovuto sparare alcuni siluri a salve contro l’incrociatore “Pietro il Grande” appartenente alla classe Kirov.
Il 12 agosto durante le operazioni balistiche ci fu un’esplosione nella zona di lancio dei siluri, il sommergibile fu gravemente danneggiato ed iniziò ad imbarcare acqua, il sistema di controllo andò in tilt e una parte consistente dell’equipaggio morì. Una seconda esplosione, più deflagrante della prima, seppellì il Kursk, che si era già adagiato sul fondo marino, di detriti che intralciarono in seguito le operazioni di recupero.
Quando il sottomarino fu coperto dai detriti quasi tutti i membri dell’equipaggio erano morti. Solo 23 persone si spostarono in una zona non ancora invasa dall'acqua che tuttavia aveva delle forti infiltrazioni. Le comunicazioni con i superstiti erano impossibili ma in seguito, quando i soccorritori riuscirono a riportare in superficie il Kursk, trovarono alcuni lettere lasciate da alcuni di loro. Le ultime ore furono terribili perché, mentre l’ossigeno veniva consumato e l’acqua saliva di livello, poche erano le luci accese che si affievolirono nel giro di alcune ore e i marinai sopravvissuti morirono al buio.
La commozione fu intensissima in tutta la Russia e in gran parte del mondo anche perché l’allarme, a livello internazionale, fu dato dopo 48 ore poiché il governo russo voleva tenere nascosta la notizia; questo affievolì ulteriormente le speranze dei superstiti che, infatti, furono recuperati già morti da una nave norvegese chiamata troppo tardi per effettuare un intervento di salvataggio.
La questione del salvataggio fu controversa, i tentativi russi fallirono tutti: prima si cercò di raggiungere il sottomarino con due capsule ma le condizioni del mare impedirono il successo dell’operazione che comunque si effettuò con una strumentazione inadeguata. Dopo questi fallimenti il Ministro degli Esteri Motsak ammise ufficialmente le difficoltà del suo governo e chiese aiuto a livello internazionale per un recupero veloce e urgente del relitto. La Norvegia inviò due navi predisposte per le operazioni di salvataggio la “Normand Pioneer” e la “Seaway Eagle”. Un mini sommergibile guidato da norvegesi e inglesi riuscì, il 19 agosto, ad introdursi nel relitto e a constatare che tutti gli uomini dell’equipaggio erano morti.
Nei giorni in cui si tentò di arrivare al sottomarino le polemiche, soprattutto all'interno della Russia, raggiunsero livelli molto acuti in particolare quando sembrò che il governo volesse nascondere le verità sull'incidente. In seguito, infatti, si parlò di una ipotesi completamente diversa da quella ufficiale sulle cause del disastro.
La versione ufficiale fu che il Kursk aveva subito l’esplosione di uno dei suoi siluri che causò una reazione a catena dirompente all'interno della struttura del sottomarino comportando una seconda esplosione fortissima e micidiale. La causa dell’esplosione fu la perdita di perossido d’idrogeno che veniva utilizzato come propellente per i siluri.
Il governo russo, tuttavia, aveva dichiarato, prima di dare questa versione ufficiale, che il sommergibile era stato colpito da un altro battello non di nazionalità russa. I primi sospetti, legati a questa ipotesi, caddero sulle due navi americane che seguivano a distanza l’esercitazione della marina russa: la “USS Memphis” e la “USS Toledo”. Il governo americano smentì immediatamente la notizia che peraltro alcuni giornali sia europei che americani avevano rilanciato senza alcuna prova, a parte le foto del sottomarino in cui appariva un foro circolare che poteva essere stata causata da un siluro.
Per insabbiare rapidamente tali sospetti e non consentire una libera analisi dei fatti, alcuni giornali ipotizzarono che il governo russo e il governo americano si fossero accordati economicamente: alla Russia sarebbe stato annullato un debito di diversi miliardi di dollari.
Questa teoria in seguito fu abbandonata sia per mancanza di prove sia perché il governo russo, dopo un’inchiesta ufficiale, decretò la tragedia del Kursk conseguenza di un incidente interno al sottomarino.
Il governo promise di trasformare la torre centrale del Kursk in un monumento nazionale ma nel 2009 il canale 21 di nazionalità russa scoprì il relitto in condizioni pietose e abbandonato in una discarica sulla penisola di Kala; tale notizia suscitò un moto di sdegno nell'opinione pubblica e l’intervento del comandante della flotta del Nord che promise di prendersi cura della torretta.
Non si ebbero notizie, in seguito, sulla fine ultima della torretta; tuttavia, con dolorosa ironia, si venne a sapere che il motivo principale del fallimento di questo progetto era stata la mancanza di fondi.
Il 12 agosto 2000, durante un'esercitazione nel mare di Barents, il sommergibile nucleare russo Kursk affondò, uccidendo tutti i 118 marinai imbarcati.
Il K-141 Kursk era uno dei migliori sottomarini della marina russa. Fu varato nel 1995 e apparteneva alla Classe Oscar II, nome in codice dato dalla Nato ai sottomarini russi dotati di missili antinave e di testate nucleari. Era lungo154 metri, largo 18,2 metri e alto 9,2 metri. Poteva raggiungere una velocità di 32 nodi. L’equipaggio era formato da 118 uomini di cui 52 ufficiali. Il suo utilizzo abituale era il pattugliamento dei mari direttamente controllati dalla Russia e lo svolgimento di alcune esercitazioni che potevano riguardare manovre di attacco e difesa e il lancio di siluri a salve.
Nell’agosto del 2000 il sottomarino Kursk si trovava nel mare di Barens e la sua missione consisteva in una esercitazione durante la quale avrebbe dovuto sparare alcuni siluri a salve contro l’incrociatore “Pietro il Grande” appartenente alla classe Kirov.
Il 12 agosto durante le operazioni balistiche ci fu un’esplosione nella zona di lancio dei siluri, il sommergibile fu gravemente danneggiato ed iniziò ad imbarcare acqua, il sistema di controllo andò in tilt e una parte consistente dell’equipaggio morì. Una seconda esplosione, più deflagrante della prima, seppellì il Kursk, che si era già adagiato sul fondo marino, di detriti che intralciarono in seguito le operazioni di recupero.
Quando il sottomarino fu coperto dai detriti quasi tutti i membri dell’equipaggio erano morti. Solo 23 persone si spostarono in una zona non ancora invasa dall'acqua che tuttavia aveva delle forti infiltrazioni. Le comunicazioni con i superstiti erano impossibili ma in seguito, quando i soccorritori riuscirono a riportare in superficie il Kursk, trovarono alcuni lettere lasciate da alcuni di loro. Le ultime ore furono terribili perché, mentre l’ossigeno veniva consumato e l’acqua saliva di livello, poche erano le luci accese che si affievolirono nel giro di alcune ore e i marinai sopravvissuti morirono al buio.
La commozione fu intensissima in tutta la Russia e in gran parte del mondo anche perché l’allarme, a livello internazionale, fu dato dopo 48 ore poiché il governo russo voleva tenere nascosta la notizia; questo affievolì ulteriormente le speranze dei superstiti che, infatti, furono recuperati già morti da una nave norvegese chiamata troppo tardi per effettuare un intervento di salvataggio.
La questione del salvataggio fu controversa, i tentativi russi fallirono tutti: prima si cercò di raggiungere il sottomarino con due capsule ma le condizioni del mare impedirono il successo dell’operazione che comunque si effettuò con una strumentazione inadeguata. Dopo questi fallimenti il Ministro degli Esteri Motsak ammise ufficialmente le difficoltà del suo governo e chiese aiuto a livello internazionale per un recupero veloce e urgente del relitto. La Norvegia inviò due navi predisposte per le operazioni di salvataggio la “Normand Pioneer” e la “Seaway Eagle”. Un mini sommergibile guidato da norvegesi e inglesi riuscì, il 19 agosto, ad introdursi nel relitto e a constatare che tutti gli uomini dell’equipaggio erano morti.
Nei giorni in cui si tentò di arrivare al sottomarino le polemiche, soprattutto all'interno della Russia, raggiunsero livelli molto acuti in particolare quando sembrò che il governo volesse nascondere le verità sull'incidente. In seguito, infatti, si parlò di una ipotesi completamente diversa da quella ufficiale sulle cause del disastro.
La versione ufficiale fu che il Kursk aveva subito l’esplosione di uno dei suoi siluri che causò una reazione a catena dirompente all'interno della struttura del sottomarino comportando una seconda esplosione fortissima e micidiale. La causa dell’esplosione fu la perdita di perossido d’idrogeno che veniva utilizzato come propellente per i siluri.
Il governo russo, tuttavia, aveva dichiarato, prima di dare questa versione ufficiale, che il sommergibile era stato colpito da un altro battello non di nazionalità russa. I primi sospetti, legati a questa ipotesi, caddero sulle due navi americane che seguivano a distanza l’esercitazione della marina russa: la “USS Memphis” e la “USS Toledo”. Il governo americano smentì immediatamente la notizia che peraltro alcuni giornali sia europei che americani avevano rilanciato senza alcuna prova, a parte le foto del sottomarino in cui appariva un foro circolare che poteva essere stata causata da un siluro.
Per insabbiare rapidamente tali sospetti e non consentire una libera analisi dei fatti, alcuni giornali ipotizzarono che il governo russo e il governo americano si fossero accordati economicamente: alla Russia sarebbe stato annullato un debito di diversi miliardi di dollari.
Questa teoria in seguito fu abbandonata sia per mancanza di prove sia perché il governo russo, dopo un’inchiesta ufficiale, decretò la tragedia del Kursk conseguenza di un incidente interno al sottomarino.
Il governo promise di trasformare la torre centrale del Kursk in un monumento nazionale ma nel 2009 il canale 21 di nazionalità russa scoprì il relitto in condizioni pietose e abbandonato in una discarica sulla penisola di Kala; tale notizia suscitò un moto di sdegno nell'opinione pubblica e l’intervento del comandante della flotta del Nord che promise di prendersi cura della torretta.
Non si ebbero notizie, in seguito, sulla fine ultima della torretta; tuttavia, con dolorosa ironia, si venne a sapere che il motivo principale del fallimento di questo progetto era stata la mancanza di fondi.
martedì 11 agosto 2020
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è l'11 agosto.
L'11 agosto 480 a.C. re Serse I di Persia vinceva contro la lega greca guidata da Sparta la battaglia delle Termopili, vendicando così la disfatta di suo padre Dario nella battaglia di Maratona.
Dopo un viaggio lunghissimo, Serse re dei re di Persia, nel 480 a. C. si trovava ad un passo dal proprio obiettivo: sottomettere i turbolenti e rissosi greci.
La sua diplomazia e le sue spie avevano seminato con successo la discordia tra i nemici e oggi c'erano più greci nel suo esercito che contro di lui: i pochi che resistevano si erano segnalati per l'irritualità con la quale avevano risposto alla sua offerta di cedergli la terra e l'acqua, la formula con la quale egli chiedeva la sottomissione. Gli ateniesi avevano scaraventato i suoi emissari in una fossa e gli spartani in un pozzo, e avevano aggiunto, per colmo di misura, che se volevano la terra e l'acqua le scavassero fuori da lì.
La campagna si sarebbe comunque presto conclusa con l'invasione tanto dell'Attica e quanto del Peloponneso, le ultime aree di resistenza: un'armata mai vista prima in Grecia sarebbe avanzata inarrestabile, seppure a fatica vista la sua mole, lungo le frastagliate coste della Grecia, seguita a distanza da una flotta dalla quale dipendeva il suo sostentamento.
L'unico problema per i Persiani era riuscire a muoversi perché un esercito tanto grande avrebbe dovuto marciare su più strade per essere meno lento. Ma da un lato la Grecia non ne forniva molte e dall'altro la presenza del re dei re rendeva in qualche misura anche "coreografica" (avrebbero detto i greci) la colonna persiana che si estendeva per decine di chilometri.
Così, quando Serse giunse ad un passaggio obbligato del percorso costiero, chiamato le Termopili per via delle fonti calde che vi sgorgavano, luogo scelto dai suoi avversari per sbarrargli la strada, decise di offrire loro l'occasione di andarsene indisturbati: 5 giorni di tempo, quanto a lui serviva affinché la lunga colonna del suo esercito si radunasse.
Le Termopili oggi ricordano appena quello che erano 25 secoli fa. La terra ha preso il posto del mare ed è quindi difficile rendersi conto di quanto fosse stretto allora il passaggio: non più di 15 metri.
In una simile condizione, i persiani non avrebbero potuto impiegare altro piano di battaglia che l'attacco frontale, ammesso che si possa definire tale: sarebbe stato come fare una battaglia in un corridoio.
DI fronte a loro un esercito sicuramente risibile ma comunque nelle migiiori condizioni possibili per resistere a lungo.
Erodoto enumera con una certa precisione le forze greche presenti al comando del re spartano Leonida: 300 Lacedemoni (l'Hippeis spartana, ovvero la cavalleria, in effetti la guardia di fanteria montata del re), 500 di Tegeia e altri 500 di Mantineia, 120 dall'Orcomeno, 1.000 dall'Arcadia, 400 da Corinto, 200 da Pilos e 80 da Micene. Quindi 700 da Tespi, 400 da Tebe, 1.000 dalla Focide ai quali si deve aggiungere un numero sconosciuto ma consistente dalla Locride. QuIndi oltre 5.200, forse 6.200, secondo Erodoto.
Le cifre di Diodoro Siculo riducono i greci a 4.000, mentre Pausania arriva ad 11.000.
Dovendo aggiungere alle cifre di Erodoto anche gli Iloti al servizio dei Lacedemoni e un po' di truppe ausiliarie non si dovrebbe andare molto lontano dai 7,500 uomini.
Quanti fossero i Persiani non si sa. Per Erodoto tra esercito e truppe di supporto in Grecia entrarono oltre 4 milioni di nemici: un numero che l'avrebbe fatta sprofondare solo per il loro peso.
Erodoto cita però 29 comandanti di Baivabaram, un'unità dell'esercito persiano composta da 10.000 uomini, e quindi in linea teorica i persiani non dovevano essere più di 290.000, probabilmente molti di meno, considerando la fatica compiuta per arrivare fino alle Termopili.
Nonostante la sproporzione dei numeri, i greci non accettarono la proposta di Serse e lasciarono trascorrere i 5 giorni di tregua. Alcuni se ne sarebbero andati volentieri ma non re Leonida e gli Spartani: e il loro esempio valse a trattenere i più titubanti.
Giunto il quinto giorno Serse fece un ultimo tentativo di accordo: offrì a Leonida di nominarlo re di tutta la Grecia, con l'unica condizione di essere subordinato allo stesso re dei re.
Ricevuto il rifiuto di Leonida, Serse allora gli ingiunse di cedere le armi, ma lo Spartano rispose semplicemente "vieni a prenderle".
I Persiani si infilavano nell'imbuto costituito da quella lingua di sabbia tra mare e dirupo: in una colonna lunga quasi un chilometro, 10 mila alla volta, settecento tonnellate di carne umana si gettavano contro uno sbarramento irto di punte di lancia: già dopo poche ore davanti ai Greci dovevano esserci centinaia e centinaia di cadaveri.
La schiera degli opliti greci sembrava inattaccabile: la loro compattezza e le loro armature li difendevano dagli attacchi persiani che si succedevano uno dietro l'altro, e nelle pause i Greci si alternavano al combattimento.
I Persiani avrebbero potuto bersagliare i Greci con giavellotti e frecce, ma l'attacco corpo a corpo sembrò non solo la soluzione più rapida, ma anche l'unica praticabile.
Contro gli arcieri, infatti, i Greci avrebbero potuto chiudere la distanza con una carica e la folla di nemici si sarebbe trasformata in un caotico ingorgo di uomini ancora peggiore.
Per due giorni, Serse insistette negli attacchi, provando anche ad inviare gli Immortali, la sua guardia personale. Ma l'unico risultato visibile era l'innalzarsi della montagna di morti davanti alla posizione dei Greci.
In realtà le fila dei Greci si stavano assottigliando, la loro resistenza fisica doveva essere allo stremo perché non erano abituati a combattimenti così prolungati. Il caldo e il sudore dovevano rendere impossibile l'uso delle armature e degli elmi e persino reggere il pesante scudo oplitico doveva essere una tortura.
Alla fine del secondo giorno, un Greco di nome Efialte spiegò a Serse che il valico delle Termopili poteva essere aggirato percorrendo un sentiero sulle colline. Era un colpo di fortuna inatteso ed era l'unico modo per scardinare la posizione.
Il re dei re non perse tempo e inviò immediatamente truppe sufficienti a prendere i Greci in una tenaglia.
Sulla strada incontrarono un contingente di Focesi che Leonida aveva appositamente collocato a cavallo di un passo proprio per impedire simili eventualità.
La sorpresa fu reciproca: ma i Persiani reagirono per primi inondando di frecce i Focesi che non seppero fare di meglio che ritirarsi su un colle per apprestarsi a resistere.
Ma i Persiani non avevano tempo da perdere e un nemico più importante che li attendeva, e proseguirono per loro strada.
Avvisato dell'imminente apertura di un secondo fronte alle sue spalle Leonida permise a chi voleva di lasciare in tempo la posizione per mettersi in salvo.
Lui con gli Spartani e i loro Iloti, i Tespiesi e i Tebani, sarebbe rimasto a trattenere i Persiani.
Che i Persiani fossero tutt'altro che sprovveduti si può capire dall'abilità con cui gestirono questo doppio attacco: in entrambe le direttrici avevano un'enorme superiorità numerica ma, visto i precedenti, le cose sarebbero potute comunque andare storte.
Invece i due attacchi furono ben coordinati e i Greci furono costretti a trovare rifugio per un'ultima disperata resistenza su un poggio alle spalle del muro.
Leonida era già morto, il suo cadavere conteso cambiò di mano 4 volte e quando alla fine rimase nelle mani di Serse questi lo oltraggiò decapitandolo e facendone crocifiggere il corpo.
Per impadronirsene aveva dovuto vincere l'ultima resistenza dei Greci e sterminarli lì dove si erano arroccati: circondatili li fece sommergere di frecce per evitare di subire altre perdite.
La battaglia era finita, ma non la guerra di Serse che però non si sarebbe risolta con una battaglia di terra, ma con lo scontro navale a Salamina.
L'11 agosto 480 a.C. re Serse I di Persia vinceva contro la lega greca guidata da Sparta la battaglia delle Termopili, vendicando così la disfatta di suo padre Dario nella battaglia di Maratona.
Dopo un viaggio lunghissimo, Serse re dei re di Persia, nel 480 a. C. si trovava ad un passo dal proprio obiettivo: sottomettere i turbolenti e rissosi greci.
La sua diplomazia e le sue spie avevano seminato con successo la discordia tra i nemici e oggi c'erano più greci nel suo esercito che contro di lui: i pochi che resistevano si erano segnalati per l'irritualità con la quale avevano risposto alla sua offerta di cedergli la terra e l'acqua, la formula con la quale egli chiedeva la sottomissione. Gli ateniesi avevano scaraventato i suoi emissari in una fossa e gli spartani in un pozzo, e avevano aggiunto, per colmo di misura, che se volevano la terra e l'acqua le scavassero fuori da lì.
La campagna si sarebbe comunque presto conclusa con l'invasione tanto dell'Attica e quanto del Peloponneso, le ultime aree di resistenza: un'armata mai vista prima in Grecia sarebbe avanzata inarrestabile, seppure a fatica vista la sua mole, lungo le frastagliate coste della Grecia, seguita a distanza da una flotta dalla quale dipendeva il suo sostentamento.
L'unico problema per i Persiani era riuscire a muoversi perché un esercito tanto grande avrebbe dovuto marciare su più strade per essere meno lento. Ma da un lato la Grecia non ne forniva molte e dall'altro la presenza del re dei re rendeva in qualche misura anche "coreografica" (avrebbero detto i greci) la colonna persiana che si estendeva per decine di chilometri.
Così, quando Serse giunse ad un passaggio obbligato del percorso costiero, chiamato le Termopili per via delle fonti calde che vi sgorgavano, luogo scelto dai suoi avversari per sbarrargli la strada, decise di offrire loro l'occasione di andarsene indisturbati: 5 giorni di tempo, quanto a lui serviva affinché la lunga colonna del suo esercito si radunasse.
Le Termopili oggi ricordano appena quello che erano 25 secoli fa. La terra ha preso il posto del mare ed è quindi difficile rendersi conto di quanto fosse stretto allora il passaggio: non più di 15 metri.
In una simile condizione, i persiani non avrebbero potuto impiegare altro piano di battaglia che l'attacco frontale, ammesso che si possa definire tale: sarebbe stato come fare una battaglia in un corridoio.
DI fronte a loro un esercito sicuramente risibile ma comunque nelle migiiori condizioni possibili per resistere a lungo.
Erodoto enumera con una certa precisione le forze greche presenti al comando del re spartano Leonida: 300 Lacedemoni (l'Hippeis spartana, ovvero la cavalleria, in effetti la guardia di fanteria montata del re), 500 di Tegeia e altri 500 di Mantineia, 120 dall'Orcomeno, 1.000 dall'Arcadia, 400 da Corinto, 200 da Pilos e 80 da Micene. Quindi 700 da Tespi, 400 da Tebe, 1.000 dalla Focide ai quali si deve aggiungere un numero sconosciuto ma consistente dalla Locride. QuIndi oltre 5.200, forse 6.200, secondo Erodoto.
Le cifre di Diodoro Siculo riducono i greci a 4.000, mentre Pausania arriva ad 11.000.
Dovendo aggiungere alle cifre di Erodoto anche gli Iloti al servizio dei Lacedemoni e un po' di truppe ausiliarie non si dovrebbe andare molto lontano dai 7,500 uomini.
Quanti fossero i Persiani non si sa. Per Erodoto tra esercito e truppe di supporto in Grecia entrarono oltre 4 milioni di nemici: un numero che l'avrebbe fatta sprofondare solo per il loro peso.
Erodoto cita però 29 comandanti di Baivabaram, un'unità dell'esercito persiano composta da 10.000 uomini, e quindi in linea teorica i persiani non dovevano essere più di 290.000, probabilmente molti di meno, considerando la fatica compiuta per arrivare fino alle Termopili.
Nonostante la sproporzione dei numeri, i greci non accettarono la proposta di Serse e lasciarono trascorrere i 5 giorni di tregua. Alcuni se ne sarebbero andati volentieri ma non re Leonida e gli Spartani: e il loro esempio valse a trattenere i più titubanti.
Giunto il quinto giorno Serse fece un ultimo tentativo di accordo: offrì a Leonida di nominarlo re di tutta la Grecia, con l'unica condizione di essere subordinato allo stesso re dei re.
Ricevuto il rifiuto di Leonida, Serse allora gli ingiunse di cedere le armi, ma lo Spartano rispose semplicemente "vieni a prenderle".
I Persiani si infilavano nell'imbuto costituito da quella lingua di sabbia tra mare e dirupo: in una colonna lunga quasi un chilometro, 10 mila alla volta, settecento tonnellate di carne umana si gettavano contro uno sbarramento irto di punte di lancia: già dopo poche ore davanti ai Greci dovevano esserci centinaia e centinaia di cadaveri.
La schiera degli opliti greci sembrava inattaccabile: la loro compattezza e le loro armature li difendevano dagli attacchi persiani che si succedevano uno dietro l'altro, e nelle pause i Greci si alternavano al combattimento.
I Persiani avrebbero potuto bersagliare i Greci con giavellotti e frecce, ma l'attacco corpo a corpo sembrò non solo la soluzione più rapida, ma anche l'unica praticabile.
Contro gli arcieri, infatti, i Greci avrebbero potuto chiudere la distanza con una carica e la folla di nemici si sarebbe trasformata in un caotico ingorgo di uomini ancora peggiore.
Per due giorni, Serse insistette negli attacchi, provando anche ad inviare gli Immortali, la sua guardia personale. Ma l'unico risultato visibile era l'innalzarsi della montagna di morti davanti alla posizione dei Greci.
In realtà le fila dei Greci si stavano assottigliando, la loro resistenza fisica doveva essere allo stremo perché non erano abituati a combattimenti così prolungati. Il caldo e il sudore dovevano rendere impossibile l'uso delle armature e degli elmi e persino reggere il pesante scudo oplitico doveva essere una tortura.
Alla fine del secondo giorno, un Greco di nome Efialte spiegò a Serse che il valico delle Termopili poteva essere aggirato percorrendo un sentiero sulle colline. Era un colpo di fortuna inatteso ed era l'unico modo per scardinare la posizione.
Il re dei re non perse tempo e inviò immediatamente truppe sufficienti a prendere i Greci in una tenaglia.
Sulla strada incontrarono un contingente di Focesi che Leonida aveva appositamente collocato a cavallo di un passo proprio per impedire simili eventualità.
La sorpresa fu reciproca: ma i Persiani reagirono per primi inondando di frecce i Focesi che non seppero fare di meglio che ritirarsi su un colle per apprestarsi a resistere.
Ma i Persiani non avevano tempo da perdere e un nemico più importante che li attendeva, e proseguirono per loro strada.
Avvisato dell'imminente apertura di un secondo fronte alle sue spalle Leonida permise a chi voleva di lasciare in tempo la posizione per mettersi in salvo.
Lui con gli Spartani e i loro Iloti, i Tespiesi e i Tebani, sarebbe rimasto a trattenere i Persiani.
Che i Persiani fossero tutt'altro che sprovveduti si può capire dall'abilità con cui gestirono questo doppio attacco: in entrambe le direttrici avevano un'enorme superiorità numerica ma, visto i precedenti, le cose sarebbero potute comunque andare storte.
Invece i due attacchi furono ben coordinati e i Greci furono costretti a trovare rifugio per un'ultima disperata resistenza su un poggio alle spalle del muro.
Leonida era già morto, il suo cadavere conteso cambiò di mano 4 volte e quando alla fine rimase nelle mani di Serse questi lo oltraggiò decapitandolo e facendone crocifiggere il corpo.
Per impadronirsene aveva dovuto vincere l'ultima resistenza dei Greci e sterminarli lì dove si erano arroccati: circondatili li fece sommergere di frecce per evitare di subire altre perdite.
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