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mercoledì 23 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 aprile.

Il 23 aprile 1982 viene presentato il computer Zx Spectrum.

Quando aprivate la scatola dello Zx Spectrum Sinclair si trovava:

• Un calcolatore che aveva 3 prese jack ( 9V DC IN, EAR e MIC) una presa per il cavo televisivo e un connettore multipista per collegare altre periferiche.

• L’alimentatore da 9V in DC a 1,2 A. Lo ZX non aveva interruttori, per accenderlo s’inseriva lo spinotto dell’alimentatore.

• Un cavetto televisivo schermato per il collegamento al televisore.

• Una coppia di cavetti con dei jack da 3,5 mm a ogni capo per il collegamento con il registratore.

Veniva collegato all’entrata UHF del televisore con un adattatore d’impedenza (non era commercializzato un monitor dedicato), si collegava a televisore PAL UHF a colori o B/N, sul canale 36, mentre a partire dal modello 128k del 1985, oltre a un chip audio AY e una uscita RS232 , si aggiunse anche una porta RGB.

La memoria del calcolatore poteva essere usata per memorizzare qualunque tipo di dati; ad esempio con la funzione PRINT, per stampare lettere e numeri. É singolare oggi pensare che si doveva introdurre nel calcolatore un programma ogni volta che lo si voleva usare. Per questo c’era la possibilità di registrare i programmi su un nastro magnetico di un qualunque registratore a cassette e ricaricarli. 

Il Sinclair ZX Spectrum era un home computer creato nel 1982 e prodotto fino al 1986 dall’azienda inglese Sinclair Research Ltd, poi dal 1986 al 1992 dalla Amstrad. Fa parte della storia dell’informatica.

Fu il principale concorrente del Commodore 64 e conquistò una buon successo in Europa, grazie al prezzo di listino più abbordabile. Fu anche distribuito negli USA con il marchio Timex, con il nome Timex Sinclair 2068. Le piccole dimensioni, la velocità di calcolo e il prezzo relativamente basso, lo resero popolare negli anni ottanta in tutto il mondo.

Se ne ebbero versioni clonate e praticamente uguali in estetica ma con nomi diversi, come l'”Inves Spectrum” in Spagna, il “Moscow” e poi il “Baltic” in Russia.

Con lo ZX Spectrum la Sinclair intendeva riproporre la filosofia minimale introdotta negli anni precedenti con lo ZX80 (1980) e lo ZX81 (1981). Il nome in codice, ZX82 (o ZX81 Colour) venne sostituito dal nome commerciale ZX Spectrum. Con tale nome si voleva sottolineare la possibilità di visualizzare immagini con un ampio spettro di colori . I due modelli proposti sul mercato disponevano di 16kB e di 48kB di memoria.

Lo Spectrum venne venduto in milioni di unità in Europa (fino alla prima metà del 1983 lo Spectrum doveva essere acquistato direttamente in Inghilterra) e riscosse immediatamente un notevole interesse. Le prime crisi settoriali dopo il 1984 e la concorrenza, soprattutto del Commodore 64 e dell’Amstrad CPC 464, intaccarono solo in parte la sua quota di mercato. Più che altro furono altri progetti di Sinclair che si rivelarono infruttuosi, come lo ZX Microdrive (da tempo annunciato per lo Spectrum e reso disponibile solo nella metà del 1984) e il Sinclair C5, e determinarono il fallimento dell’azienda produttrice.

Nel marzo 1986 la Sinclair Research fu venduta alla società che era stata la sua più accanita concorrente, la Amstrad.

L’Amstrad invece di eliminare i prodotti Sinclair in favore della propria linea di macchine (denominate “CPC”), promosse lo ZX Spectrum 128K +2, dotato di 128 Kb di RAM e di una tastiera migliorata. La nuova macchina presentava tre caratteristiche derivate dagli Amstrad CPC 464 e 4128: un registratore a cassette incorporato, una interfaccia joystick, e soprattutto un chip audio. Così facendo continuò a detenere un alto livello di vendite nella fascia bassa del mercato. Nel 1987 incominciarono a comparire i primi computer a 16 bit, con il boom dei 16 bit i possessori di Spectrum si spostarono verso altre piattaforme. La produzione della macchina finì nel 1992 ma non scomparve del tutto: la sua economicità e la vastissima libreria di software lo fecero diventare uno dei computer più venduti nei paesi dell’est europeo.

Lo ZX Spectrum era basato su un microprocessore a 8 bit Zilog Z80A, originariamente dotato di 16 kB di ROM contenenti il linguaggio BASIC, di 16kB di RAM espandibili a 48kB e di una caratteristica tastiera in lattice con 40 tasti multifunzione. L’interprete BASIC venne fortemente personalizzato dalla Sinclair Research Ltd per compensare i limiti della tastiera e per sfruttare al massimo le caratteristiche grafiche e sonore della macchina.

Furono prodotte varie versioni dello Spectrum: oltre alle prime con 16 o 48kB di RAM, si ricorda quella con una tastiera migliorata (a membrana, ma con i tasti in plastica rigida) derivata da quella del Sinclair QL (Spectrum +) e le ultime, dopo l’acquisizione del progetto da parte di Amstrad, con BASIC esteso, 128kB di RAM e registratore a cassette o floppy incorporato (Spectrum +2 e Spectrum +3).

Lo ZX Spectrum opera costantemente in modalità grafica, e la sua memoria video può essere indirizzata direttamente. La mappa dello schermo prevede 256×192 pixel, e il font di caratteri, di dimensioni 8×8 pixel, permette la visualizzazione di 24 righe da 32 caratteri. Con l’utilizzo di caratteri più compatti i programmatori arrivarono comunque a ottenere fino a 85 caratteri per riga, sebbene raramente si superasse il limite delle 64 colonne.

Testo e grafica possono essere tranquillamente usati contemporaneamente. Lo schermo è diviso in due sezioni: quella superiore normalmente occupa le prime 22 linee di caratteri e mostra il listato o l’output dei programmi in esecuzione; quella inferiore, costituita dalle ultime 2 righe, mostra il comando digitato o la linea di programma che si sta modificando o eventuali messaggi di sistema. I comandi possono essere editati con l’ausilio dei tasti cursor left, cursor right, insert e delete con ripetizione automatica.

A differenza delle console per videogiochi dell’epoca (e di diversi home-computer indirizzati al mercato dei videogiochi), l’hardware dello ZX Spectrum non implementava un chip grafico in grado di generare i cosiddetti sprite, né vi erano porte joystick di serie.

Come molti altri microcomputer dei primi anni ottanta, per la generazione dei suoni lo ZX Spectrum è dotato solo di un limitato buzzer. Esso teoricamente è in grado di generare esclusivamente segnali a onda quadra. Grazie alla discreta velocità di calcolo del microprocessore questi limiti sono stati comunque spesso superati con accorgimenti software. Tramite accurate temporizzazioni infatti i programmatori hanno sintetizzato svariati effetti sonori, brani polifonici e addirittura un minimo di sintesi vocale.

martedì 22 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 22 aprile.

Il 22 aprile 1967 la Fiat presenta la 125.

Due auto italiane che si sfidano al top del segmento delle berline medie, quello che oggi, di fatto, è monopolizzato da Audi A4, BMW Serie 3 e Mercedes Classe C: non è una storia di fantasia, ma è storia. Sì, leggerlo oggi sembra quasi incredibile, ma c’è stato un tempo in cui questo accadeva, davvero. Erano gli anni Sessanta e, nel 1962, Alfa Romeo presenta la Giulia. Macchina azzeccata sotto ogni punto di vista e che mette “fuori gioco” immediatamente la Fiat 1500. Cosa di cui a Torino non si accorgono immediatamente, a dir la verità, come dimostra il fatto che prima di dare il via al progetto attendono fino al 1966, perché nel frattempo si sta lavorando alla vera erede della 1500, la 132. Anzi, questo ritardo è uno dei primi segnali che qualcosa è destinato a cambiare, che l’industria tedesca, più organizzata, di lì a qualche anno farà suo il mercato; delle berline e non solo… Ma torniamo a lei, alla 125, che è una sorta di ancora di salvataggio in attesa, appunto della 132. Va da sé che le risorse investite non sono da record, anzi, e i grandi capi Fiat chiedono al mitico Dante Giacosa (il papà, tra le altre, della 500 del 1957), di ricavare qualcosa di buono da quanto disponibile in casa. Un’operazione “al risparmio” che a Giacosa e al suo team riesce benissimo, date le risorse a disposizione, ma che il cliente, non solo il più esigente, non può non notare.

La base meccanica che Giacosa si trova a disposizione è quella della 1500C (è quella col passo più lungo disponibile in Fiat), mentre per quello che riguarda la carrozzeria decide di utilizzare, dopo averla modificata, quella molto squadrata della 124. Il motore? Preso dalla 124 Sport e aumentato da 1,4 a 1,6 litri di cilindrata. Anno inizio lavori: 1966. Tempo a disposizione per completare il lavoro: meno di 18 mesi. Il tutto, reso più complicato dal fatto che i manager Fiat impongono a Giacosa di spendere poco, pochissimo, perché la vera novità sarà la 132 e la 125 è destinata ad avere vita breve. Queste le sue caratteristiche tecniche principali: motore anteriore; trazione posteriore; alimentazione a carburatore doppio corpo Weber 34; due alberi a camme in testa; carrozzeria portante; sterzo a vite e rullo; avantreno a ruote indipendenti; retrotreno ad assale rigido; peso di 1.000 kg; lunghezza/larghezza/altezza/passo di 4,22/1,61/1,39/2,5 metri. Le prestazioni? 160 km/h di velocità massima, per 9,5 l/100 km di consumo medio.

Nonostante le condizioni a dir poco sfavorevoli, il pubblico, almeno in Italia, gradisce questa berlina a 3 volumi, dotata di retrotreno ad assale rigido e sospensioni a balestra, trazione posteriore e cambio a 4 marce, proposta al prezzo di 1.300.000 lire. Esteticamente, i 4 fari quadrati anteriori e i due rettangolari verticali in coda (di sapore vagamente americano) sono gli elementi maggiormente caratterizzanti. Sono tipiche di quegli anni, invece, le abbondanti cromature sparse un po’ ovunque. Quanto agli interni, la qualità generale non è male, sia dal punto di vista dei materiali sia da quello della cura per le finiture; i più esigenti non apprezzano del tutto il trattamento di superficie del finto legno della plancia e lo skay dei sedili. La 125, in compenso, era una delle poche macchine del suo segmento (e di quell’epoca) senza lamiera a vista nell’abitacolo; soprattutto, si tratta di una macchina molto solida e affidabile, che offre un buon comfort e una guidabilità soddisfacente, anche se non all’altezza di quella della Giulia.

Un solo anno dopo il debutto della 125, ecco la Special: 90.000 lire in più di prezzo per avere, in cambio: nuovi profili cromati sui passaruota, le griglie sul cofano motore anch’esse cromate, sfoghi dell’aria sui montanti posteriori più ampie. Qualche attenzione in più viene posta anche nella realizzazione dell’abitacolo (fascia in tessuto nella parte centrale dei sedili, portaoggetti aggiuntivi sulla plancia, nuovo impianto di riscaldamento, rivestimenti in plastica dove prima c’era finto legno), mentre la potenza del 4 cilindri con due alberi a camme in testa aumenta fino a quota 100 cavalli, sfruttati al meglio da un cambio che mette una marcia in più: la quinta. Nonostante la sua vita breve (la 132 arriverà nel 1972), la 125 passa anche attraverso un restyling: è del 1970 e apporta una mascherina rivisitata, gli indicatori di direzione “annegati” nel paraurti, fari posteriori più grandi e nuovi, ricercati accessori a pagamento. Fra tutti, spicca il cambio automatico a tre marce di fabbricazione americana, General Motors per la precisione.

lunedì 21 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 aprile.

Il 21 aprile 272 d.C., secondo alcune agiografie, è la data in cui nacque San Gennaro.

Fra i santi dell’antichità è certamente uno dei più venerati dai fedeli e se poi consideriamo che questi fedeli, sono primariamente napoletani, si può comprendere per la nota estemporaneità e focosa fede che li distingue, perché il suo culto, travalicando i secoli, sia giunto intatto fino a noi, accompagnato periodicamente dal misterioso prodigio della liquefazione del suo sangue, che tanto attira i napoletani.

Prima di tutto il suo nome diffuso in Campania e anche nel Sud Italia, risale al latino ‘Ianuarius’ derivato da ‘Ianus’ (Giano) il dio bifronte delle chiavi del cielo, dell’inizio dell’anno e del passaggio delle porte e delle case.

Il nome era in genere attribuito ai bambini nati nel mese di gennaio “Ianuarius”, undicesimo mese dell’anno secondo il calendario romano, ma il primo dopo la riforma del II secolo d.C.

Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, perché Ianuarius che significa “consacrato al dio Ianus” non era il suo nome, che non ci è pervenuto, ma il gentilizio corrispondente al nostro cognome.

Vi sono ben sette antichi ‘Atti’, ‘Passio’, ‘Vitae’, che parlano di Gennaro, fra i più celebri gli “Atti Bolognesi” e gli “Atti Vaticani”. Da questi documenti si apprende che Gennaro nato a Napoli (?) nella seconda metà del III secolo, fu eletto vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai pagani per la cura, che impiegava nelle opere di carità a tutti indistintamente; si era nel primo periodo dell’impero di Diocleziano (243-313), il quale permise ai cristiani di occupare anche posti di prestigio e una certa libertà di culto.

Nella sua vecchiaia però, sotto la pressione del suo cesare Galerio (293), firmò ben tre editti contro i cristiani, provocando una delle più feroci persecuzioni, colpendo la Chiesa nei suoi membri e nei suoi averi per impedirle di soccorrere i poveri e spezzare così il favore popolare.

E in questo contesto s’inserisce la storia del martirio di Gennaro; egli conosceva il diacono Sosso (o Sossio) che guidava la comunità cristiana di Miseno, importante porto romano sulla costa occidentale del litorale flegreo; Sosso fu incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania, per le funzioni religiose che quotidianamente venivano celebrate nonostante i divieti.

In quel periodo il vescovo di Benevento Gennaro, accompagnato dal diacono Festo e dal lettore Desiderio, si trovava a Pozzuoli in incognito, visto il gran numero di pagani che si recavano nella vicinissima Cuma ad ascoltare gli oracoli della Sibilla Cumana e aveva ricevuto di nascosto anche qualche visita del diacono di Miseno (località tutte vicinissime tra loro).

Gennaro, saputo dell’arresto di Sosso, volle recarsi insieme ai suoi due compagni Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere e anche con alcuni scritti, per esortarlo insieme agli altri cristiani prigionieri a resistere nella fede.

Il giudice Dragonio informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio.

Anche questi tre furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell’anfiteatro, ancora oggi esistente, per essere sbranati dagli orsi, in un pubblico spettacolo. Ma durante i preparativi, il proconsole Dragonio si accorse che il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi, cambiò decisione e il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri cristiani nel Foro di Vulcano, presso la celebre Solfatara di Pozzuoli.

Si racconta che una donna di nome Eusebia riuscì a raccogliere in due ampolle (i cosiddetti lacrimatoi) parte del sangue del vescovo e conservarlo con molta venerazione; era usanza dei cristiani dell’epoca di cercare di raccogliere corpi o parte di corpi, abiti, ecc. per poter poi venerarli come reliquie dei loro martiri.

I cristiani di Pozzuoli nottetempo seppellirono i corpi dei martiri nell’agro Marciano presso la Solfatara; si presume che s. Gennaro avesse sui 35 anni, come pure giovani erano i suoi compagni di martirio. Oltre un secolo dopo, nel 431 (13 aprile) si trasportarono le reliquie del solo s. Gennaro da Pozzuoli nelle catacombe di Capodimonte a Napoli, dette poi “Catacombe di S. Gennaro”, per volontà del vescovo di Napoli, s. Giovanni I e sistemate vicino a quelle di s. Agrippino vescovo.

Le reliquie degli altri sei martiri hanno una storia a parte per le loro traslazioni, ma in maggioranza ebbero culto e spostamento nelle loro zone di origine.

Durante il trasporto delle reliquie di s. Gennaro a Napoli, la suddetta Eusebia o altra donna, alla quale le aveva affidate prima di morire, consegnò al vescovo le due ampolline contenenti il sangue del martire; a ricordo delle tappe della solenne traslazione vennero erette due cappelle: S. Gennariello al Vomero e San Gennaro ad Antignano.

Il culto per il santo vescovo si diffuse fortemente con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba. Affreschi, iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano ornate di sue immagini.

Va notato che già nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. La tomba divenne, come già detto, meta di continui pellegrinaggi per i grandi prodigi che gli venivano attribuiti; nel 472 ad esempio, in occasione di una violenta eruzione del Vesuvio, i napoletani accorsero in massa nella catacomba per chiedere la sua intercessione, iniziando così l’abitudine ad invocarlo nei terremoti e nelle eruzioni, e mentre aumentava il culto per s. Gennaro, diminuiva man mano quello per s. Agrippino vescovo, fino allora patrono della città di Napoli; dal 472 s. Gennaro cominciò ad assumere il rango di patrono principale della città.

Durante un’altra eruzione nel 512, fu lo stesso vescovo di Napoli, s. Stefano I, ad iniziare le preghiere propiziatorie; dopo fece costruire in suo onore, accanto alla basilica costantiniana di S. Restituta (prima cattedrale di Napoli), una chiesa detta Stefania, sulla quale verso la fine del secolo XIII, venne eretto il Duomo; riponendo nella cripta il cranio e la teca con le ampolle del sangue.

Questa provvidenziale decisione preservò le suddette reliquie dal furto operato dal longobardo Sicone, che durante l’assedio di Napoli dell’831, penetrò nelle catacombe, allora fuori della cinta muraria della città, asportando le altre ossa del santo che furono portate a Benevento, sede del ducato longobardo.

Le ossa restarono in questa città fino al 1156, quando vennero traslate nel santuario di Montevergine (AV), dove rimasero per tre secoli; addirittura se ne persero le tracce, finché durante alcuni scavi effettuati nel 1480 furono ritrovate casualmente sotto l’altare maggiore, insieme a quelle di altri santi, ma ben individuate da una lamina di piombo con il nome.

Il 13 gennaio 1492, dopo interminabili discussioni e trattative con i monaci dell’abbazia verginiana, le ossa furono riportate a Napoli nel succorpo del Duomo ed unite al capo ed alle ampolle. Intanto le ossa del cranio erano state sistemate in un preziosissimo busto d’argento, opera di tre orafi provenzali, dono di Carlo II d’Angiò nel 1305, al Duomo di Napoli.

Successivamente nel 1646 il busto d’argento con il cranio e le ormai famose ampolline col sangue furono poste nella nuova artistica Cappella del Tesoro, ricca di capolavori d’arte d’ogni genere. Le ampolle erano state incastonate in una teca preziosa fatta realizzare da Roberto d’Angiò, in un periodo imprecisato del suo lungo regno (1309-1343).

La teca assunse l’aspetto attuale nel XVII secolo: racchiuse fra due vetri circolari di circa dodici centimetri di diametro, vi sono le due ampolline, una più grande di forma ellittica schiacciata, ripiena per circa il 60% di sangue e quella più piccola cilindrica con solo alcune macchie rosso-brunastre sulle pareti; la liquefazione del sangue avviene solo in quella più grande.

Le altre reliquie poste in un’antica anfora sono rimaste nella cripta del Duomo, su cui s’innalza l’abside e l’altare maggiore della grande Cattedrale. San Gennaro è conosciuto in tutto il mondo, grazie anche al culto esportato insieme ai tantissimi emigranti napoletani, suoi fedeli, non solo per i suoi prodigiosi interventi nel bloccare le calamità naturali, purtroppo ricorrenti che colpivano Napoli, come pestilenze, terremoti e le numerose eruzioni del vulcano Vesuvio, croce e vanto di tutto il Golfo di Napoli; ma anche per il famoso prodigio della liquefazione del sangue contenuto nelle antiche ampolle, completamente sigillate e custodite in una nicchia chiusa con porte d’argento, situata dietro l’altare principale, della già menzionata Cappella del Tesoro.

Il Tesoro è oggi custodito in un caveau di una banca, essendo ingente e preziosissimo, quale testimonianza dei doni fatti al santo patrono da sovrani, nobili e quanti altri abbiano ricevuto grazie per sua intercessione, o alla loro persona e famiglia o alla città stessa.

Le chiavi della nicchia sono conservate dalla Deputazione del Tesoro di S. Gennaro, da secoli composta da nobili e illustri personaggi napoletani con a capo il sindaco della città. Il miracolo della liquefazione del sangue, che è opportuno dire non è un’esclusiva del santo vescovo, ma anche di altri santi e in altre città, ma che a Napoli ha assunto una valenza incredibile, secondo un antico documento è avvenuto per la prima volta nel lontano 17 agosto 1389; non è escluso, perché non documentato, che sia avvenuto anche in precedenza.

Detto prodigio avviene da allora tre volte l’anno; nel primo sabato di maggio, in cui il busto ornato di preziosissimi paramenti vescovili e il reliquiario con la teca e le ampolle viene portato in processione, insieme ai busti d’argento dei numerosi santi compatroni di Napoli, anch’essi esposti nella suddetta Cappella del Tesoro, dal Duomo alla Basilica di S. Chiara, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli, e qui dopo le rituali preghiere, avviene la liquefazione del sangue raggrumito; la seconda avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione; una volta avveniva nella Cappella del Tesoro, ma per il gran numero di fedeli il busto e le reliquie sono oggi esposte sull’altare maggiore del Duomo, dove anche qui dopo ripetute preghiere, con la presenza del cardinale arcivescovo, autorità civili e fedeli, avviene il prodigio tra il tripudio generale.

Avvenuta la liquefazione, la teca sorretta dall’arcivescovo viene mostrata quasi capovolgendola ai fedeli e al bacio dei più vicini; il sangue rimane sciolto per tutta l’ottava successiva e i fedeli sono ammessi a vedere da vicini la teca e baciarla con un prelato che la muove per far constatare la liquidità, dopo gli otto giorni viene di nuovo riposta nella nicchia e chiusa a chiave.

Una terza liquefazione avviene il 16 dicembre “festa del patrocinio di s. Gennaro”, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo. Il prodigio così puntuale non è sempre avvenuto, esiste un diario dei Canonici del Duomo che riporta nei secoli anche le volte che il sangue non si è sciolto, oppure con ore e giorni di ritardo, oppure a volte è stato trovato già liquefatto quando sono state aperte le porte argentee per prelevare le ampolle; il miracolo a volte è avvenuto al di fuori delle date solite, per eventi straordinari.

Il popolo napoletano nei secoli ha voluto vedere nella velocità del prodigio un auspicio positivo per il futuro della città, mentre una sua assenza o un prolungato ritardo è visto come fatto negativo per possibili calamità da venire. La catechesi costante degli ultimi arcivescovi di Napoli ha convinto la maggioranza dei fedeli che anche la mancanza del prodigio o il ritardo vanno vissuti con serenità e intensificazione semmai di una vita più cristiana.

Del resto questo “miracolo ballerino”, imprevedibile, è stato oggetto di profondi studi scientifici, l’ultimo nel 1988, con i quali usando l’esame spettroscopico, non potendosi aprire le ampolline sigillate da tanti secoli, si è potuto stabilire la presenza nel liquido di emoglobina, dunque sangue.

La liquefazione del sangue è innegabile e spiegazioni scientifiche finora non se ne sono trovate, come tutte le ipotesi contrarie formulate nei secoli, non sono mai state provate. È singolare il fatto che a Pozzuoli, contemporaneamente al miracolo che avviene a Napoli, la pietra conservata nella chiesa di S. Gennaro vicino alla Solfatara e che si crede sia il ceppo su cui il martire poggiò la testa per essere decapitato, diventa più rossa.

Pur essendo venuti tanti papi a Napoli in devoto omaggio, baciando personalmente la teca e lasciando doni, la Chiesa, è bene ricordarlo, non si è mai pronunciata ufficialmente sul miracolo di s. Gennaro.

Papa Paolo VI nel 1966, in un discorso ad un gruppo di pellegrini partenopei, richiamò chiaramente il prodigio: “…come questo sangue che ribolle ad ogni festa, così la fede del popolo di Napoli possa ribollire, rifiorire ed affermarsi”.


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