Buongiorno, oggi è il 12 dicembre.
Il 12 dicembre 2001 muore, all'età di 104 anni, Ardito Desio.
Nato il 18 aprile del 1897 a Palmanova nel Friuli, Ardito Desio è stata una singolare quanto nobile figura di geologo ed esploratore. Lungi dal passare il proprio tempo nel chiuso di un laboratorio, oltre ad essere paleontologo, geologo e scienziato, è stato anche esploratore, alpinista e pioniere, fino ad essere colui che guidò la spedizione che per prima mise piede sulla temibile vetta del K2.
La sua carriera inizia come docente al Politecnico di Milano nei primi anni '20, dopo essere scappato da casa per combattere come volontario nella prima guerra mondiale e dopo un anno passato come prigioniero in Boemia. La causa della prigionia è dovuta al fatto che durante la guerra partì per il fronte unendosi al gruppo «Volontari Ciclisti», con lo scopo di portare ordini alle prime linee. Una volta sciolto il Corpo dei ciclisti, fu assegnato alla Cavalleria finché cadde appunto prigioniero. A guerra finita il giovane Desio si iscrisse alla Facoltà di Scienze Naturali della Università di Firenze.
Contemporaneamente alla carriera accademica, inizia anche quella di esploratore e alpinista, mettendo così a frutto, oltre alle sue doti di intelligenza e perspicacia, anche quelle di organizzatore. Grazie a lui prendono corpo numerose spedizioni, impegnate nella conquista delle mete più ardite e ambiziose. Non solo montagne, ma anche deserti, ghiacciai e quant'altro. L'impresa più importante rimane senz'altro quella intrapresa dalla spedizione che lo vede al fianco di Lacedelli e Compagnoni per la conquista del K2, la seconda vetta del mondo. Un primo tentativo sotto la guida del Duca di Spoleto fallisce. Mancanza di viveri, temperatura sotto zero, valanghe e bufere di neve impauriscono i portatori che abbandonano la spedizione, oltre a stremare gli audaci esploratori. Spinto dall'esempio dell'inglese Hillary, che scala l'Everest nel 1953, Desio però ritenta l'impresa. E' il 31 luglio 1954 quando i tre alpinisti, segnando una tappa storica di questa disciplina, giungono finalmente in cima al colosso, dopo settimane di strenui sforzi e di prove sovraumane (non bisogna dimenticare che all'epoca la strumentazione tecnica era ben lontana dai livelli raggiunti oggi).
Ma se gettiamo uno sguardo alle esperienze precedenti, ci si rende conto di quale mole di lavoro e di quale preparazione ci fosse alle spalle di questi temerari. La prima impresa è datata 1922, anno che lo vede protagonista di un lungo viaggio solitario nel mar Egeo. Nel 1926 parte per un viaggio in Libia, incaricato da Guglielmo Marconi presidente dell'Accademia che allora finanziava il progetto. Attraversa il Sahara guidando una carovana di 140 cammelli e nel 1938, tornando negli stessi luoghi alla ricerca di acqua e di minerali, nel sottosuolo scopre del petrolio. Non fa in tempo a riprendersi dalla fatica che già è in fase di preparazione per un'altra partenza. Questa volta tocca al Karakorum, il noto massiccio asiatico, sfidato insieme ad Aimone di Savoia.
Nel 1931 intraprende una traversata del Sahara in cammello, nel 1933 è sui monti della Persia, nel 1937 alla ricerca di oro in Etiopia e nel 1940 esegue ricerche geologiche in Albania. Dopo la conquista del K2 le esplorazioni di Desio sono proseguite con l'Afghanistan nel 1961, l'Antartide nel 1962 (è stato il primo italiano a raggiungere il Polo Sud), la Birmania nel 1966 e il Tibet nel 1980. A partire dal 1987 è stato ancora sull'Himalaya per ricerche con il Cnr con i suoi oltre 90 anni di età.
In mezzo a questa vita dinamica e piena di avvenimenti, non sarebbe lecito tralasciare il suo contributo all'insegnamento, dispiegatosi in più di mezzo secolo di lezioni universitarie e le oltre 450 pubblicazioni a suo nome. Scrittore di grande eleganza formale e di notevole chiarezza, fra i suoi libri più riusciti bisogna almeno citare "Sulle vie della sete, dei ghiacci e dell'oro", avvincente racconto della sua vita e delle imprese che lo hanno reso famoso.
La sua morte, avvenuta il 12 dicembre 2001 alla strabiliante età di 104 anni, segna la scomparsa di una figura mitica: uno scienziato che coniugò mirabilmente l'intelligenza, il coraggio e la curiosità per l'esplorazione.
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giovedì 12 dicembre 2024
mercoledì 11 dicembre 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è l'11 dicembre.
L'11 dicembre 1964 Ernesto "Che" Guevara tiene un discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite.
Ernesto Che Guevara, in qualità di Ministro dell’Industria della Repubblica di Cuba, si recò in visita a New York nel dicembre 1964 per tenere un intervento in rappresentanza dell’isola rivoluzionaria e socialista in occasione della sessione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Rileggendo le cronache di quei giorni di dicembre del 1964 emerge come New York attese la visita del rivoluzionario argentino in tuta mimetica, con grande apprensione e con grande dispiegamento di forze dell’ordine e misure di sicurezza.
Vi furono momenti di tensione, alcuni anche di valenza simbolica, che sono stati poi attribuiti in gran parte da esuli cubani legati al precedente regime, ma sui quali tutt’oggi non tutti i dubbi sono stati fugati. Uno dei più significativi fu quello del colpo di bazooka sparato in direzione del Palazzo di Vetro, proprio nello stesso momento in cui il Che stava pronunciando il suo discorso. Le cronache del tempo riferiscono di un colpo che dal quartiere di Queens, proprio sulla riva opposta a quella di Manhattan dove si trova il Palazzo delle Nazioni Unite, causò una sorta di effetto “geyser” sulle acque dell’East River, e che sicuramente venne avvertito anche dai rappresentanti dei diversi paesi seduti in quel momento nella sala dell’Assemblea Generale ascoltando le parole di Ernesto Che Guevara.
Di quel viaggio a New York del Che, oltre al celebre discorso che ricorderemo più sotto, rimangono altri importanti momenti, che rappresentano oggi un’importante eredità dell’uomo e del rivoluzionario, e soprattutto di grandi attualità anche se analizzati a posteriori dalla prospettiva di un mondo che nel frattempo ha attraversato altri 50 e più anni di capitalismo sempre più selvaggio e aggressivo.
Una bella e significativa testimonianza è l’intervista del 16 dicembre 1964, presso la sede della missione cubana all’ONU, nei pressi di Central Park, tra Che Guevara ed un gruppo di giornalisti e attivisti statunitensi di sinistra. Di questa intervista sono oggi disponibili online i tracciati audio originali, conservati dal giornalista statunitense Chris Couch, che ne è il narratore. Un’intervista condotta in un’atmosfera molto rilassata e informale, quasi una conversazione tra amici da cui traspare un bel clima di empatia tra i presenti. Alcuni passaggi dell’intervista sono molto significativi: ad esempio l’ammissione del Che degli errori strategico-tattici commessi nell’attribuire troppa importanza alla guerriglia nei centri urbani, azioni spettacolari, le definisce il Che, ma molto dispendiose in termini di vite umane e poco efficaci. Interessante quando, con una punta di amarezza, constata che la guerriglia in Venezuela sta compiendo gli stessi errori compiuti da loro cubani. Altra interessante considerazione del Che riguarda il potenziale rivoluzionario che è sì esistente in tutta l’America Latina, ma va considerato che poi i veri rivoluzionari devono essere soprattutto capaci di analizzare il singolo contesto, poiché dall’analisi corretta deriva una strategia ed una tattica vittoriosa.
Cita il caso di Porto Rico dove, trattandosi di una colonia USA, e subendo una dominazione che non è soltanto economica ma politica e soprattutto culturale e mediatica, la rivoluzione-modello cubano avrebbe maggiori difficoltà ad affermarsi. Lo stesso principio vale per la situazione delle popolazioni afroamericane e ispanoamericane oppresse negli USA. Qui il Che, dimostrando grande intelligenza, con molta modestia ammette di non conoscere a fondo la situazione per potersi pronunciare, ma esprime dubbi sulla reale efficacia della tattica della rivolta non-violenta (in quegli anni è portata avanti da Martin Luther King, ndr). Altro passaggio significativo di quell’intervista è il richiamo all’internazionalismo proletario per affermare che il sostegno tra i paesi del campo socialista è una necessità storica, e non va a beneficio del solo popolo cubano ma dell’umanità intera.
Vi è un altro passaggio molto significativo di quei giorni, che è emerso soltanto in epoca successiva, e che ebbe come protagonista il Che Guevara e la giornalista Lisa Howard, una star del giornalismo americano e reporter del canale televisivo ABC, famosa per le sue interviste a grandi personaggi della politica internazionale e che peraltro aveva già intervistato il Che, quello stesso anno, a L’Avana, per la trasmissione “Face the Nation”, che diede al Che un grande impatto mediatico di massa negli USA. Lisa Howard si era già attivata dai tempi della presidenza Kennedy per dei tentativi di ripresa delle relazioni diplomatiche tra Cuba e gli USA. L’ultimo di questi tentativi, prima della tragica fine della Howard, suicida nell’estate successiva, avvenne proprio in quei giorni della presenza di Ernesto Che Guevara a New York. In occasione di un ricevimento organizzato dalla Howard nel suo appartamento, il Che incontrò segretamente l’allora senatore democratico del Minnesota, Eugene McCarthy (nulla a che vedere con il McCarthy protagonista negli anni ‘50 della caccia alle streghe contro i comunisti, ndr). L’incontro pare ebbe un esito fallimentare, pur avendo creato allarme alla Casa Bianca, stando all’unico resoconto esistente dell’incontro, un memorandum segreto oggi custodito nella libreria presidenziale Lyndon B. Johnson di Austin in Texas, e rivelato in pubblico soltanto nel 1999, da Peter Kornbluh, allora Direttore del Cuba Documentation Project dell’Archivio di Sicurezza Nazionale (NSA) in un articolo apparso sul “Cigar Aficionado Magazine”.
In quegli anni l’amministrazione Johnson, diversamente dall’ultima fase dell’amministrazione Kennedy, aveva deciso di adottare una linea di netta chiusura ad ogni riavvicinamento diplomatico con Cuba, con il timore di non attirarsi addosso accuse di comunismo in vista delle imminenti elezioni presidenziali.
Ma il momento centrale e di maggiore rilevanza storica di quel viaggio si ebbe l’11 dicembre 1964, il giorno del discorso del Che all’ONU, uno dei momenti di massima visibilità del leader rivoluzionario cubano di origini argentine, che ha sicuramente contribuito alla formazione del suo mito, e può considerarsi un documento storico di grande importanza. Esso infatti rappresenta una sorta di compendio di quel particolare contesto storico, nel quale allo schema del bipolarismo tra il campo occidentale capitalista e quello orientale socialista, emerso dalla fine della seconda guerra mondiale, distante poco più di un decennio, si stava ormai sovrapponendo il confronto tra Occidente e Terzo Mondo, un confronto che prese forma, per una breve ma intensa stagione di politica internazionale, nel cosiddetto blocco dei paesi non allineati.
Che Guevara, nel suo discorso, tocca tutti i temi fondamentali della politica internazionale di quegli anni e definisce anche il ruolo di Cuba in quel contesto. Significativo il suo saluto di apertura ai tre nuovi paesi membri, che avevano conquistato l’indipendenza nel corso di quell’anno, Zambia, Malawi e Malta, auspicando che essi decidano di prendere parte al movimento dei non-allineati. Un movimento, sottolinea il Che, al quale Cuba, pur riconoscendosi come paese fondato sui principii del marxismo-leninismo, è orgogliosa di appartenere e nel quale intende esercitare un ruolo attivo e di guida, riconoscendo la necessità storica di dover fronteggiare il blocco dell’imperialismo, del colonialismo e del neo-colonialismo.
Interessante il passaggio dedicato al tema della coesistenza pacifica tra i blocchi e le nazioni, di grande attualità nella politica internazionale di quegli anni. Qui Che Guevara introduce un concetto molto importante, richiamandosi apertamente al marxismo che ispira la politica di Cuba: la ricerca di una coesistenza pacifica non può prescindere dal riconoscere il ruolo dell’imperialismo, ed in particolare dell’imperialismo degli USA, che, opprimendo i popoli soprattutto dei paesi più poveri, che abbiano raggiunto l’indipendenza politica o che siano ancora sotto il giogo colonialista, intende imporre a questi popoli i propri prevalenti interessi politici ed economici. Il Che cita le aggressioni degli USA in Vietnam e nel Sud Est Asiatico, nonché a Panama, e l’aggressione della Turchia, appoggiata dalla NATO, a Cipro. Rivendica il diritto dei popoli a lottare per l’autodeterminazione, perché coesistenza pacifica non può significare accettazione passiva di uno stato di oppressione e sfruttamento.
Altro passaggio fondamentale di quel discorso è quello sulla corsa agli armamenti e sul disarmo nucleare, un tema che in quegli anni era diventato centrale nel dibattito di politica internazionale, e all’ONU in particolare, e questa centralità era anche stato effetto della crisi dei missili a Cuba dell’anno precedente. Il Che spiega che il disarmo e la pace sono il desiderio di tutti i popoli, ma respinge la pretesa strumentale di negare il diritto dei popoli che si sono resi indipendenti all’autodifesa dalle aggressioni imperialiste. Il Che conferma che Cuba è disponibile a partecipare attivamente ad un processo di negoziato multilaterale, ma se il disarmo diventa uno strumento in mano alle potenze imperialiste per esercitare un’ingerenza nel diritto all’autodifesa di altri paesi indipendenti, allora - sottolinea il Che - non ci sono le condizioni di un autentico approccio multilaterale. Il Che inoltre ricorda che le aggressioni ai popoli possono avvenire anche con le armi convenzionali, senza la necessità del ricorso ad armi nucleari, ricordando la presenza militare USA a Guantanamo.
Nel rievocare la vicenda della crisi dei missili traspare anche una sottile ed implicita vena polemica nei confronti dell’URSS, che aveva unilateralmente ritirato i missili dopo aver raggiunto l’accordo con gli USA senza coinvolgere direttamente il governo di Cuba. Il difficile rapporto con l’URSS che caratterizzava la politica estera cubana di quegli anni emerge inoltre chiaramente anche dal continuo richiamo, nel discorso del Che, al ruolo decisivo che deve giocare il blocco dei paesi non allineati, sebbene questo deve poi trovare un’intesa con il blocco dei paesi socialisti.
Altro elemento che potremmo interpretare come presa di distanza dall’Unione Sovietica, è il forte riferimento al diritto della Repubblica Popolare Cinese ad ottenere il riconoscimento internazionale e l’ingresso nell’ONU, per occupare il seggio permanente del Consiglio di Sicurezza, cosa che poi avvenne diversi anni dopo, nel 1971, a seguito del riavvicinamento, puramente tattico, tra USA e Cina in occasione del viaggio di Nixon a Pechino. Dal problema delle due Cine, a quello delle due Germanie, con la rivendicazione del diritto della Germania Est a sedere al tavolo dei negoziati per la risoluzione del problema dei confini.
La parte conclusiva del suo discorso è dedicata all’America Latina, un continente che per il Che rappresenta una vera e propria patria che unisce tutte le nazioni. Qui è ancora più forte e decisa la denuncia dell’imperialismo statunitense, della politica continua di ingerenza nelle vicende politiche interne di quei paesi, nell’utilizzo dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) come uno strumento di politica estera (la definisce “il Ministero delle Colonie degli Stati Uniti”). Un interventismo, quello degli USA, sempre ipocritamente motivato con la volontà di portare in quei paesi libertà e democrazia: “Costoro che uccidono i propri cittadini e li discriminano a causa del coloro della pelle; costoro che lasciano in libertà gli assassini dei neri, proteggendoli, e punendo invece la popolazione nera per la loro legittima rivendicazione di diritti da uomini liberi, come possono costoro autodefinirsi guardiani della libertà?”. Sono parole, quelle del Che, che, a distanza di oltre 50 anni, rimangono, purtroppo, di un’attualità sconcertante.
Molto toccante infine la conclusione con la citazione della Seconda Dichiarazione de L’Avana sull’America Latina. Il filmato d’epoca in bianco e nero, con il corpulento Ernesto Che Guevara, in mimetica e scarponi, che lascia lo scranno e risale, con andamento un po’ dimesso, la platea dell’assemblea accolto da uno scrosciante applauso, rimane, a nostro avviso, un’immagine emblematica della storia del Novecento.
Per il Che quel viaggio a New York sarebbe stata una parentesi un po’ atipica della sua vita di rivoluzionario permanente, le immagini fanno trasparire un certo disagio a muoversi in quegli ambienti ovattati della diplomazia internazionale ed in quella sofisticata atmosfera urbana della “Grande Mela” che viveva forse i suoi anni di massimo splendore. Pochi mesi dopo si sarebbe rimesso in cammino per le strade del mondo alla ricerca della liberazione di altri popoli oppressi, ma purtroppo la storia gloriosa della rivoluzione cubana per lui non si ripeterà e meno di tre anni dopo troverà la morte in quella sua patria latino-americana, per mano di suoi stessi fratelli scelsero la strada più comoda di asservirsi all’imperialismo americano. Quel grido “Patria o Muerte!”, pronunciato dinnanzi a quell’Assemblea Generale al termine del suo discorso, fu veramente profetico e nelle memorie di comunisti e rivoluzionari di tutto il mondo l’immagine del guerrigliero caduto nella lotta offuscherà quella dell’orgoglioso rivoluzionario in veste di rappresentante diplomatico che prende parte, per una sola volta, al consesso dei grandi e dei potenti della Terra, pur non appartenendovi.
L'11 dicembre 1964 Ernesto "Che" Guevara tiene un discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite.
Ernesto Che Guevara, in qualità di Ministro dell’Industria della Repubblica di Cuba, si recò in visita a New York nel dicembre 1964 per tenere un intervento in rappresentanza dell’isola rivoluzionaria e socialista in occasione della sessione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Rileggendo le cronache di quei giorni di dicembre del 1964 emerge come New York attese la visita del rivoluzionario argentino in tuta mimetica, con grande apprensione e con grande dispiegamento di forze dell’ordine e misure di sicurezza.
Vi furono momenti di tensione, alcuni anche di valenza simbolica, che sono stati poi attribuiti in gran parte da esuli cubani legati al precedente regime, ma sui quali tutt’oggi non tutti i dubbi sono stati fugati. Uno dei più significativi fu quello del colpo di bazooka sparato in direzione del Palazzo di Vetro, proprio nello stesso momento in cui il Che stava pronunciando il suo discorso. Le cronache del tempo riferiscono di un colpo che dal quartiere di Queens, proprio sulla riva opposta a quella di Manhattan dove si trova il Palazzo delle Nazioni Unite, causò una sorta di effetto “geyser” sulle acque dell’East River, e che sicuramente venne avvertito anche dai rappresentanti dei diversi paesi seduti in quel momento nella sala dell’Assemblea Generale ascoltando le parole di Ernesto Che Guevara.
Di quel viaggio a New York del Che, oltre al celebre discorso che ricorderemo più sotto, rimangono altri importanti momenti, che rappresentano oggi un’importante eredità dell’uomo e del rivoluzionario, e soprattutto di grandi attualità anche se analizzati a posteriori dalla prospettiva di un mondo che nel frattempo ha attraversato altri 50 e più anni di capitalismo sempre più selvaggio e aggressivo.
Una bella e significativa testimonianza è l’intervista del 16 dicembre 1964, presso la sede della missione cubana all’ONU, nei pressi di Central Park, tra Che Guevara ed un gruppo di giornalisti e attivisti statunitensi di sinistra. Di questa intervista sono oggi disponibili online i tracciati audio originali, conservati dal giornalista statunitense Chris Couch, che ne è il narratore. Un’intervista condotta in un’atmosfera molto rilassata e informale, quasi una conversazione tra amici da cui traspare un bel clima di empatia tra i presenti. Alcuni passaggi dell’intervista sono molto significativi: ad esempio l’ammissione del Che degli errori strategico-tattici commessi nell’attribuire troppa importanza alla guerriglia nei centri urbani, azioni spettacolari, le definisce il Che, ma molto dispendiose in termini di vite umane e poco efficaci. Interessante quando, con una punta di amarezza, constata che la guerriglia in Venezuela sta compiendo gli stessi errori compiuti da loro cubani. Altra interessante considerazione del Che riguarda il potenziale rivoluzionario che è sì esistente in tutta l’America Latina, ma va considerato che poi i veri rivoluzionari devono essere soprattutto capaci di analizzare il singolo contesto, poiché dall’analisi corretta deriva una strategia ed una tattica vittoriosa.
Cita il caso di Porto Rico dove, trattandosi di una colonia USA, e subendo una dominazione che non è soltanto economica ma politica e soprattutto culturale e mediatica, la rivoluzione-modello cubano avrebbe maggiori difficoltà ad affermarsi. Lo stesso principio vale per la situazione delle popolazioni afroamericane e ispanoamericane oppresse negli USA. Qui il Che, dimostrando grande intelligenza, con molta modestia ammette di non conoscere a fondo la situazione per potersi pronunciare, ma esprime dubbi sulla reale efficacia della tattica della rivolta non-violenta (in quegli anni è portata avanti da Martin Luther King, ndr). Altro passaggio significativo di quell’intervista è il richiamo all’internazionalismo proletario per affermare che il sostegno tra i paesi del campo socialista è una necessità storica, e non va a beneficio del solo popolo cubano ma dell’umanità intera.
Vi è un altro passaggio molto significativo di quei giorni, che è emerso soltanto in epoca successiva, e che ebbe come protagonista il Che Guevara e la giornalista Lisa Howard, una star del giornalismo americano e reporter del canale televisivo ABC, famosa per le sue interviste a grandi personaggi della politica internazionale e che peraltro aveva già intervistato il Che, quello stesso anno, a L’Avana, per la trasmissione “Face the Nation”, che diede al Che un grande impatto mediatico di massa negli USA. Lisa Howard si era già attivata dai tempi della presidenza Kennedy per dei tentativi di ripresa delle relazioni diplomatiche tra Cuba e gli USA. L’ultimo di questi tentativi, prima della tragica fine della Howard, suicida nell’estate successiva, avvenne proprio in quei giorni della presenza di Ernesto Che Guevara a New York. In occasione di un ricevimento organizzato dalla Howard nel suo appartamento, il Che incontrò segretamente l’allora senatore democratico del Minnesota, Eugene McCarthy (nulla a che vedere con il McCarthy protagonista negli anni ‘50 della caccia alle streghe contro i comunisti, ndr). L’incontro pare ebbe un esito fallimentare, pur avendo creato allarme alla Casa Bianca, stando all’unico resoconto esistente dell’incontro, un memorandum segreto oggi custodito nella libreria presidenziale Lyndon B. Johnson di Austin in Texas, e rivelato in pubblico soltanto nel 1999, da Peter Kornbluh, allora Direttore del Cuba Documentation Project dell’Archivio di Sicurezza Nazionale (NSA) in un articolo apparso sul “Cigar Aficionado Magazine”.
In quegli anni l’amministrazione Johnson, diversamente dall’ultima fase dell’amministrazione Kennedy, aveva deciso di adottare una linea di netta chiusura ad ogni riavvicinamento diplomatico con Cuba, con il timore di non attirarsi addosso accuse di comunismo in vista delle imminenti elezioni presidenziali.
Ma il momento centrale e di maggiore rilevanza storica di quel viaggio si ebbe l’11 dicembre 1964, il giorno del discorso del Che all’ONU, uno dei momenti di massima visibilità del leader rivoluzionario cubano di origini argentine, che ha sicuramente contribuito alla formazione del suo mito, e può considerarsi un documento storico di grande importanza. Esso infatti rappresenta una sorta di compendio di quel particolare contesto storico, nel quale allo schema del bipolarismo tra il campo occidentale capitalista e quello orientale socialista, emerso dalla fine della seconda guerra mondiale, distante poco più di un decennio, si stava ormai sovrapponendo il confronto tra Occidente e Terzo Mondo, un confronto che prese forma, per una breve ma intensa stagione di politica internazionale, nel cosiddetto blocco dei paesi non allineati.
Che Guevara, nel suo discorso, tocca tutti i temi fondamentali della politica internazionale di quegli anni e definisce anche il ruolo di Cuba in quel contesto. Significativo il suo saluto di apertura ai tre nuovi paesi membri, che avevano conquistato l’indipendenza nel corso di quell’anno, Zambia, Malawi e Malta, auspicando che essi decidano di prendere parte al movimento dei non-allineati. Un movimento, sottolinea il Che, al quale Cuba, pur riconoscendosi come paese fondato sui principii del marxismo-leninismo, è orgogliosa di appartenere e nel quale intende esercitare un ruolo attivo e di guida, riconoscendo la necessità storica di dover fronteggiare il blocco dell’imperialismo, del colonialismo e del neo-colonialismo.
Interessante il passaggio dedicato al tema della coesistenza pacifica tra i blocchi e le nazioni, di grande attualità nella politica internazionale di quegli anni. Qui Che Guevara introduce un concetto molto importante, richiamandosi apertamente al marxismo che ispira la politica di Cuba: la ricerca di una coesistenza pacifica non può prescindere dal riconoscere il ruolo dell’imperialismo, ed in particolare dell’imperialismo degli USA, che, opprimendo i popoli soprattutto dei paesi più poveri, che abbiano raggiunto l’indipendenza politica o che siano ancora sotto il giogo colonialista, intende imporre a questi popoli i propri prevalenti interessi politici ed economici. Il Che cita le aggressioni degli USA in Vietnam e nel Sud Est Asiatico, nonché a Panama, e l’aggressione della Turchia, appoggiata dalla NATO, a Cipro. Rivendica il diritto dei popoli a lottare per l’autodeterminazione, perché coesistenza pacifica non può significare accettazione passiva di uno stato di oppressione e sfruttamento.
Altro passaggio fondamentale di quel discorso è quello sulla corsa agli armamenti e sul disarmo nucleare, un tema che in quegli anni era diventato centrale nel dibattito di politica internazionale, e all’ONU in particolare, e questa centralità era anche stato effetto della crisi dei missili a Cuba dell’anno precedente. Il Che spiega che il disarmo e la pace sono il desiderio di tutti i popoli, ma respinge la pretesa strumentale di negare il diritto dei popoli che si sono resi indipendenti all’autodifesa dalle aggressioni imperialiste. Il Che conferma che Cuba è disponibile a partecipare attivamente ad un processo di negoziato multilaterale, ma se il disarmo diventa uno strumento in mano alle potenze imperialiste per esercitare un’ingerenza nel diritto all’autodifesa di altri paesi indipendenti, allora - sottolinea il Che - non ci sono le condizioni di un autentico approccio multilaterale. Il Che inoltre ricorda che le aggressioni ai popoli possono avvenire anche con le armi convenzionali, senza la necessità del ricorso ad armi nucleari, ricordando la presenza militare USA a Guantanamo.
Nel rievocare la vicenda della crisi dei missili traspare anche una sottile ed implicita vena polemica nei confronti dell’URSS, che aveva unilateralmente ritirato i missili dopo aver raggiunto l’accordo con gli USA senza coinvolgere direttamente il governo di Cuba. Il difficile rapporto con l’URSS che caratterizzava la politica estera cubana di quegli anni emerge inoltre chiaramente anche dal continuo richiamo, nel discorso del Che, al ruolo decisivo che deve giocare il blocco dei paesi non allineati, sebbene questo deve poi trovare un’intesa con il blocco dei paesi socialisti.
Altro elemento che potremmo interpretare come presa di distanza dall’Unione Sovietica, è il forte riferimento al diritto della Repubblica Popolare Cinese ad ottenere il riconoscimento internazionale e l’ingresso nell’ONU, per occupare il seggio permanente del Consiglio di Sicurezza, cosa che poi avvenne diversi anni dopo, nel 1971, a seguito del riavvicinamento, puramente tattico, tra USA e Cina in occasione del viaggio di Nixon a Pechino. Dal problema delle due Cine, a quello delle due Germanie, con la rivendicazione del diritto della Germania Est a sedere al tavolo dei negoziati per la risoluzione del problema dei confini.
La parte conclusiva del suo discorso è dedicata all’America Latina, un continente che per il Che rappresenta una vera e propria patria che unisce tutte le nazioni. Qui è ancora più forte e decisa la denuncia dell’imperialismo statunitense, della politica continua di ingerenza nelle vicende politiche interne di quei paesi, nell’utilizzo dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) come uno strumento di politica estera (la definisce “il Ministero delle Colonie degli Stati Uniti”). Un interventismo, quello degli USA, sempre ipocritamente motivato con la volontà di portare in quei paesi libertà e democrazia: “Costoro che uccidono i propri cittadini e li discriminano a causa del coloro della pelle; costoro che lasciano in libertà gli assassini dei neri, proteggendoli, e punendo invece la popolazione nera per la loro legittima rivendicazione di diritti da uomini liberi, come possono costoro autodefinirsi guardiani della libertà?”. Sono parole, quelle del Che, che, a distanza di oltre 50 anni, rimangono, purtroppo, di un’attualità sconcertante.
Molto toccante infine la conclusione con la citazione della Seconda Dichiarazione de L’Avana sull’America Latina. Il filmato d’epoca in bianco e nero, con il corpulento Ernesto Che Guevara, in mimetica e scarponi, che lascia lo scranno e risale, con andamento un po’ dimesso, la platea dell’assemblea accolto da uno scrosciante applauso, rimane, a nostro avviso, un’immagine emblematica della storia del Novecento.
Per il Che quel viaggio a New York sarebbe stata una parentesi un po’ atipica della sua vita di rivoluzionario permanente, le immagini fanno trasparire un certo disagio a muoversi in quegli ambienti ovattati della diplomazia internazionale ed in quella sofisticata atmosfera urbana della “Grande Mela” che viveva forse i suoi anni di massimo splendore. Pochi mesi dopo si sarebbe rimesso in cammino per le strade del mondo alla ricerca della liberazione di altri popoli oppressi, ma purtroppo la storia gloriosa della rivoluzione cubana per lui non si ripeterà e meno di tre anni dopo troverà la morte in quella sua patria latino-americana, per mano di suoi stessi fratelli scelsero la strada più comoda di asservirsi all’imperialismo americano. Quel grido “Patria o Muerte!”, pronunciato dinnanzi a quell’Assemblea Generale al termine del suo discorso, fu veramente profetico e nelle memorie di comunisti e rivoluzionari di tutto il mondo l’immagine del guerrigliero caduto nella lotta offuscherà quella dell’orgoglioso rivoluzionario in veste di rappresentante diplomatico che prende parte, per una sola volta, al consesso dei grandi e dei potenti della Terra, pur non appartenendovi.
martedì 10 dicembre 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 10 dicembre.
Il 10 dicembre 1936 Re Edoardo VIII di Inghilterra firma l'abdicazione, lasciando il regno a suo fratello Giorgio VI, padre della futura Elisabetta II.
Nato nel 1894, Edoardo Duca di Windsor era il primogenito di Giorgio V e nipote della regina Vittoria. Fu con i Grenadiers Guard durante la Grande Guerra. Nonostante gli fosse impedita l'azione diretta, divenne popolare tra i soldati per le sue frequenti visite al fronte, un'ammirazione che fu rinforzata in patria e nel Commonwealth per la sua vicinanza ai sudditi più umili nelle frequenti visite alla popolazione più in difficoltà.
Caratterizzato dal marcato "dandismo" e dall'eleganza impeccabile che il futuro sovrano coltivava con estrema dedizione, Edoardo ebbe da sempre un debole per le donne sposate. Già negli anni '20 ebbe diverse liaison clandestine e nel 1931 conobbe la donna che avrebbe stravolto la sua vita di erede al trono: l'americana Wallis Simpson, nata Warfield, donna brillante ed estremamente colta. Quando conobbe nel 1931 il futuro re, lei aveva già alle spalle un divorzio con un ufficiale della Marina Americana violento ed alcolista e stava già rompendo il legame con Ernest Simpson, direttore di una grande azienda di trasporti marittimi. Il Principe fu rapito dalla personalità magnetica di quella borghese divorziata, e i due iniziarono poco dopo una relazione clandestina. Nel febbraio 1935 la coppia gemerò il primo scandalo internazionale per aver passato assieme le vacanze in giro per l'Europa.
Giorgio V moriva il 20 gennaio 1936. All'atto dell'incoronazione di Edoardo VIII, la Simpson fu sempre in sua compagnia, rompendo i protocolli della Corona e attirando l'astio di buona parte dei Tories. Già dai primi mesi dopo la nomina, Wallis si comportava da "first lady" costantemente seguita dalla stampa mondiale, in modo particolare quando i due partirono per una crociera nel mediterraneo nell'estate del 1936. Ad ottobre, la svolta: la Simpson ottenne infatti il divorzio dal marito. Divenne da quel momento sempre più chiaro l'intento di re Edoardo di coronare la relazione con il matrimonio, tuttavia il fatto che il re fosse anche il capo della Chiesa Anglicana rendeva impossibile la scelta di unirsi ad una donna divorziata.
Ogni tentativo di mediazione fallì anche per la risoluta ostilità della Corte ed il 10 dicembre 1936 il sovrano, salito sul trono da meno di un anno, annunciava l'abdicazione in favore del fratello Albert, che diverrà Giorgio VI.
Le nozze tra Edoardo e Wallis si celebrarono il 3 giugno 1937, anno in cui la coppia si trasferirà definitivamente in Francia con il titolo di Duchi di Windsor. L'estensione del titolo alla donna fu fonte di infinite discussioni a Londra e Buckingham Palace, mentre ai membri della famiglia Reale fu proibito di partecipare alle empie nozze.
Nel 1937 la coppia compì un viaggio in Germania dove l'ex sovrano incontrò Hitler senza nascondere la sua ammirazione per il Fuhrer, né il braccio teso nel saluto nazista. Due anni più tardi la coppia sarà costretta a lasciare la Francia, invasa l'anno successivo dal Terzo Reich. Nel frattempo l'ex sovrano fu insignito del titolo di Governatore delle Bahamas, anche per allontanare un potenziale sostenitore del fascismo dal teatro di guerra europeo.
Edoardo ritornerà in Francia dopo il 1945, visitando una sola volta (e senza la moglie) Buckingham Palace in occasione dei funerali del fratello Giorgio V morto nel 1952. La coppia dei Duchi di Windsor diventerà una colonna portante nel jet-set parigino, declinando tutti gli inviti da parte della regina Elisabetta II alle cerimonie ufficiali come l'investitura del Principe Carlo nel 1969.
La salute di Edoardo cominciò a deteriorarsi alla fine degli anni '60, per poi sfociare in un tumore alla gola che lo porterà alla morte il 28 maggio 1972. Wallis Simpson, mai digerita fino in fondo dalla Royal family, gli sopravviverà per 15 anni durante i quali sarà consumata dal morbo di Alzheimer.
Il 10 dicembre 1936 Re Edoardo VIII di Inghilterra firma l'abdicazione, lasciando il regno a suo fratello Giorgio VI, padre della futura Elisabetta II.
Nato nel 1894, Edoardo Duca di Windsor era il primogenito di Giorgio V e nipote della regina Vittoria. Fu con i Grenadiers Guard durante la Grande Guerra. Nonostante gli fosse impedita l'azione diretta, divenne popolare tra i soldati per le sue frequenti visite al fronte, un'ammirazione che fu rinforzata in patria e nel Commonwealth per la sua vicinanza ai sudditi più umili nelle frequenti visite alla popolazione più in difficoltà.
Caratterizzato dal marcato "dandismo" e dall'eleganza impeccabile che il futuro sovrano coltivava con estrema dedizione, Edoardo ebbe da sempre un debole per le donne sposate. Già negli anni '20 ebbe diverse liaison clandestine e nel 1931 conobbe la donna che avrebbe stravolto la sua vita di erede al trono: l'americana Wallis Simpson, nata Warfield, donna brillante ed estremamente colta. Quando conobbe nel 1931 il futuro re, lei aveva già alle spalle un divorzio con un ufficiale della Marina Americana violento ed alcolista e stava già rompendo il legame con Ernest Simpson, direttore di una grande azienda di trasporti marittimi. Il Principe fu rapito dalla personalità magnetica di quella borghese divorziata, e i due iniziarono poco dopo una relazione clandestina. Nel febbraio 1935 la coppia gemerò il primo scandalo internazionale per aver passato assieme le vacanze in giro per l'Europa.
Giorgio V moriva il 20 gennaio 1936. All'atto dell'incoronazione di Edoardo VIII, la Simpson fu sempre in sua compagnia, rompendo i protocolli della Corona e attirando l'astio di buona parte dei Tories. Già dai primi mesi dopo la nomina, Wallis si comportava da "first lady" costantemente seguita dalla stampa mondiale, in modo particolare quando i due partirono per una crociera nel mediterraneo nell'estate del 1936. Ad ottobre, la svolta: la Simpson ottenne infatti il divorzio dal marito. Divenne da quel momento sempre più chiaro l'intento di re Edoardo di coronare la relazione con il matrimonio, tuttavia il fatto che il re fosse anche il capo della Chiesa Anglicana rendeva impossibile la scelta di unirsi ad una donna divorziata.
Ogni tentativo di mediazione fallì anche per la risoluta ostilità della Corte ed il 10 dicembre 1936 il sovrano, salito sul trono da meno di un anno, annunciava l'abdicazione in favore del fratello Albert, che diverrà Giorgio VI.
Le nozze tra Edoardo e Wallis si celebrarono il 3 giugno 1937, anno in cui la coppia si trasferirà definitivamente in Francia con il titolo di Duchi di Windsor. L'estensione del titolo alla donna fu fonte di infinite discussioni a Londra e Buckingham Palace, mentre ai membri della famiglia Reale fu proibito di partecipare alle empie nozze.
Nel 1937 la coppia compì un viaggio in Germania dove l'ex sovrano incontrò Hitler senza nascondere la sua ammirazione per il Fuhrer, né il braccio teso nel saluto nazista. Due anni più tardi la coppia sarà costretta a lasciare la Francia, invasa l'anno successivo dal Terzo Reich. Nel frattempo l'ex sovrano fu insignito del titolo di Governatore delle Bahamas, anche per allontanare un potenziale sostenitore del fascismo dal teatro di guerra europeo.
Edoardo ritornerà in Francia dopo il 1945, visitando una sola volta (e senza la moglie) Buckingham Palace in occasione dei funerali del fratello Giorgio V morto nel 1952. La coppia dei Duchi di Windsor diventerà una colonna portante nel jet-set parigino, declinando tutti gli inviti da parte della regina Elisabetta II alle cerimonie ufficiali come l'investitura del Principe Carlo nel 1969.
La salute di Edoardo cominciò a deteriorarsi alla fine degli anni '60, per poi sfociare in un tumore alla gola che lo porterà alla morte il 28 maggio 1972. Wallis Simpson, mai digerita fino in fondo dalla Royal family, gli sopravviverà per 15 anni durante i quali sarà consumata dal morbo di Alzheimer.
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