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sabato 5 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 5 luglio.

Il 5 luglio 1947 Ennio Flaiano vince il premio Strega con il romanzo "Tempo di uccidere".

Scrittore, sceneggiatore e giornalista, Ennio Flaiano nasce a Pescara il 5 marzo 1910.

Giornalista specializzato in apprezzati elzeviri (articoli di approfondimento solitamente non legati alla cronaca), Flaiano è ricordato anche come brillante umorista, critico teatrale e cinematografico.

La sua infanzia è caratterizzata da continui spostamenti che lo vedono trasferirsi tra scuole e collegi di Pescara, Camerino, Senigallia, Fermo e Chieti. Giunge a Roma a cavallo tra il 1921 e il 1922: nella capitale termina gli studi e si iscrive alla facoltà di architettura. Non porterà a termine tuttavia il corso universitario.

All'inizio degli anni '30 Flaiano conosce Mario Pannunzio, così come altre grandi firme del giornalismo italiano: inizia così a collaborare per le riviste "Oggi", "Il Mondo" e "Quadrivio".

Si unisce in matrimonio nel 1940 con Rosetta Rota, sorella del musicista Nino Rota. Due anni più tardi nasce la figlia Lelè, che dopo solo pochi mesi inizia a manifestare i primi segni di una gravissima forma di encefalopatia. La malattia comprometterà tragicamente la vita della figlia, la quale morirà nel 1992, a 40 anni: splendide pagine di Flaiano che raccontano di questa drammatica vicenda, si possono trovare nel suo lavoro "La Valigia delle Indie".

Nel 1943 inizia a lavorare per il cinema assieme a registi del calibro di Federico Fellini, Alessandro Blasetti, Mario Monicelli, Michelangelo Antonioni e altri. Il rapporto di Flaiano con il mondo del cinema sarà sempre un rapporto di amore-odio. Tra i numerosi film cui partecipa sono da ricordare "Roma città libera" (1948), "Guardie e ladri" (1951), "La romana" (1954), "Peccato che sia una canaglia" (1955), "La notte" (1961), "Fantasmi a Roma" (1961), "La decima vittima" (1965), "La cagna" (1972). Con Federico Fellini collabora alla sceneggiatura dei film "I vitelloni" (1953), "La strada" (1954), "Le notti di Cabiria" (1957), "La dolce vita" (1960) e "8 e mezzo" (1963).

Scrive e pubblica "Tempo di uccidere" nel 1947; questo suo appassionato romanzo sulla sua esperienza in Etiopia gli fa ottenere il primo Premio Strega. Da qui e per i successivi 25 anni Ennio Flaiano scriverà alcune tra le più belle sceneggiature del cinema del dopoguerra.

Il nome di Flaiano si lega a doppio filo alla città di Roma, amata ma anche odiata. Lo scrittore è di fatto un testimone delle evoluzioni e degli stravolgimenti urbanistici, dei vizi e delle virtù dei cittadini romani; Flaiano saprà vivere la Capitale in tutti i suoi aspetti, tra i suoi cantieri, i locali della "Dolce Vita" e le trafficate strade.

La sua produzione narrativa è percorsa da un'originale vena satirica ed un vivo senso del grottesco, elementi attraverso cui stigmatizza gli aspetti paradossali della realtà contemporanea. Acre, diretto e tragico, il suo stile è soprattutto quello di un ironico moralista. A lui si deve l'introduzione nella lingua italiana del detto "saltare sul carro del vincitore".

Dopo essere stato colpito nel 1971 da un primo infarto, Ennio Flaiano inizia a rimettere ordine tra le sue carte: il suo intento è quello di pubblicare una raccolta organica di tutti quegli appunti sparsi che rappresentano la sua instancabile vena creativa. Gran parte di questa catalogazione sarà pubblicata postuma.

Dal 1972 pubblica sul Corriere della Sera alcuni brani autobiografici. Il 20 novembre dello stesso anno si trova in clinica per alcuni semplici accertamenti, quando viene colpito da un secondo infarto che stronca la sua vita.

Dopo la morte della moglie Rosetta, spentasi alla fine del 2003, le salme della famiglia vengono riunite nel cimitero di Maccarese, vicino Roma.

Ad Ennio Flaiano sono stati dedicati un monumento all'ingresso del centro storico di Pescara, e un premio alla sua memoria: il più importante concorso (che dal 1974 si svolge a Pescara) per soggettisti e sceneggiatori del cinema.

venerdì 4 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 4 luglio

Il 4 luglio 1910 si incontrano a Reno, in Nevada, il pugile afroamericano Jack Johnson, detentore del titolo dei pesi massimi, e il bianco Jim Jeffries.

Jim non era un razzista, ma dovette recitare la parte della Grande Speranza Bianca per far ritornare il massimo titolo della boxe alla “razza superiore”. L’incontro del secolo fu chiamato, vi era anche quale corrispondente il giovane Jack London a bordo ring quando la speranza bianca Jim Jeffries salì sul ring a Reno nel Nevada il 4 luglio 1910 per tentare di strappare il titolo dei Massimi al “negro” Jack Johnson. Troppo Forte, Troppo Irrispettoso, Troppo Ciarliero e soprattutto troppo nero per tenere la corona dei Massimi che fu di Sullivan, Corbett e di Jeffries. Il californiano ritornò controvoglia e costretto sulle 4 corde dopo sei anni di assenza, imbattuto e ritenuto imbattibile. Fu il primo match del secolo, si organizzarono treni speciali e vi fu tanto tanto pubblico pagante. Era dato per favorito il bianco invitto campione e prima che il gong suonasse Jeffries dichiarò: "Sto affrontando questo incontro con il solo proposito di provare che un uomo bianco è meglio di un Negro." Prima dell’incontro ci fu un’esplosione di entusiasmo, quando una banda a bordo ring suonò un pezzo che si intitolava: "All coons look alike to me" (che tradotto significa: "tutti i procioni per me sono uguali", dove per procioni si alludeva chiaramente al nomignolo spregiativo con cui venivano indicati i neri). Johnson vinse, anzi stravinse; il vecchio campione era troppo ingrassato e troppo lento per controbattere l’atletico nero, dalla grande velocità e tecnica sopraffina. Il massacro di Reno terminò al 15° round, quando dall’angolo di Jeffries fu gettata la spugna. Jeffries finita la parte del vendicatore della razza bianca non accampò scuse, riconoscendo che non sarebbe riuscito a sconfiggere Johnson nemmeno nei suoi momenti migliori. Questo non potremmo mai saperlo, di certo James Jeffries arrivò per caso alla boxe e anche in ritardo spinto dalla madre e dal padre; di certo amava di più la caccia, ma poi diventò uno dei migliori massimi di tutti i tempi. Forte, erculeo ed atleta completo: alto 183 cm, pesava 101 kg e, a dispetto della propria mole, era uno sprinter che poteva correre i 100 m in poco più di 10 secondi e saltare in alto oltre alla propria altezza.

Ed era un tecnico, fu tra gli innovatori della boxe: usava una tecnica insegnatagli dal suo allenatore ed ex straordinario campione dei pesi welter e medi Tommy Ryan; Jeffries combatteva con il braccio sinistro disteso in avanti. Mancino naturale, aveva una potenza da KO con un solo pugno nel proprio gancio sinistro. Jeffries ruppe le costole di tre avversari in incontri validi per il titolo: Jim Corbett, Gus Ruhlin e Tom Sharkey. L’allenamento quotidiano di Jeffries comprendeva 8 km di corsa, 2 ore di salto alla fune, allenamenti con la palla della salute, 20 minuti di allenamento con il sacco pesante, e come minimo 12 round di allenamento sul ring. L’allenamento comprendeva anche la lotta. Eccezionale colpitore ma anche grande incassatore: una vera roccia umana quando incontrò nella rivincita mondiale a San Francisco, il 25 luglio 1902, l’inglese di Australia Bob Fitzsimmons; per quasi otto round subì le mazzate di Fitz, un pestaggio violentissimo. Jeffries subì una frattura al naso, su tutti e due gli zigomi la pelle era aperta fino all’osso, e le sopracciglia di entrambi gli occhi erano tagliate profondamente. Sembrava che l’incontro dovesse essere arrestato, perché il sangue scorreva negli occhi di Jeffries. Poi, nell’8° round, Jeffries fece partire un terrificante destro allo stomaco, seguito da un gancio sinistro alla mandibola, che lasciarono a terra Fitzsimmons privo di sensi. Il grande mediomassimo e massimo Sam Langford, uno dei maggiori di tutti i tempi e che non aveva paura nemmeno di Belfagor pubblicizzò sui quotidiani il proprio desiderio di sfidare chiunque al mondo, eccetto Jim Jeffries. Il suo record fu di 18 vittore (15 ko) due pari e una sola sconfitta contro l’immenso Jack Johnson. Jeffries è osannato dagli uomini della boxe e fu un vero idolo delle folle, anche dopo tanti anni dal suo ritiro. Jeffries si dedicò all’agricoltura e all’allevamento, inoltre dedicava molto tempo alla propria comunità specie per i giovani.

Alla sua morte, avvenuta nel 1953, James Jackson Jeffries fu sepolto nell’Inglewood Park Cemetery di Inglewood, in California.

giovedì 3 luglio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 3 luglio.

Il 3 luglio 1985 esce nelle sale Ritorno al Futuro, di Robert Zemeckis.

Il capolavoro per eccellenza di Robert Zemeckis, uno dei film più iconici e rappresentativi della Hollywood degli anni Ottanta, con il mito di Michael J. Fox destinato a imprimersi con forza nella memoria collettiva. 

C’è nessuno in casa?

Hill Valley, California, 25 ottobre 1985. Marty McFly è un diciassettenne studente di liceo, poco disciplinato e spesso ritardatario ma coraggioso, gentile e di buon cuore, fidanzato con Jennifer Parker, sua coetanea e compagna di scuola. Il suo unico amico è il pazzoide inventore Emmett “Doc” Brown. Una notte quest’ultimo mostra al ragazzo la sua ultima invenzione, una macchina per viaggiare nel tempo creata modificando una DeLorean. Per permettere il viaggio è necessaria una gigantesca dose di plutonio, che l’inventore ha rubato a un gruppo di terroristi libici. I libici irrompono in scena, uccidono Doc e si mettono alle calcagna di Marty, che si ritrova a viaggiare indietro nel tempo per trent’anni, fino al 5 novembre del 1955… 

C’è un taglio di montaggio, in Ritorno al futuro (sulla genialità insita nel titolo ci sarà modo di tornare più tardi), che è tra i più brutali, poetici e a suo modo strazianti dell’industria statunitense degli anni Ottanta – e forse non solo, ma una riflessione sul decennio sarà a sua volta opportuna. Si tratta del momento in cui Marty McFly arriva nella piazza principale di Hill Valley e capisce finalmente di essere nella sua città natale, ma allo stesso tempo di non esserci. Lo spazio è rimasto immutato, ma è cambiato il tempo. Robert Zemeckis costruisce un passaggio semplicissimo, quasi naturale, ma al suo interno vi inserisce la più grande aberrazione pensabile per l’umano, trovarsi là dove la natura non ha in nessun modo previsto che potesse esserci. Per farlo, per rendere dolcissimo e terrificante questo balzo indietro nel tempo, Zemeckis punta tutto sull’immaginario. La piazza di Hill Valley è gremita di persone e sul panorama irrompono le note di Mr. Sandman, classico del doo-wop portato al successo commerciale dalle Chordettes (trio canoro che raggiunse i vertici della classifica anche con Lollipop, forse non a caso protagonista di uno dei passaggi più iconici di Stand by me – Ricordo di un’estate di Rob Reiner, altro successo del periodo per il cinema a stelle e strisce ambientato negli anni Cinquanta). Mr. Sandman, bring me a dream, cantano le Chordettes. E l’approdo di Marty alla città in cui è cresciuto, ma in un tempo nel quale la sua nascita non era neanche presa in considerazione – di lì a poco il padre goffo e privo del benché minimo appeal diverrà suo amico, mentre la madre si innamorerà follemente di lui –, è sfumato nell’onirismo. C’è un’inquadratura in totale, che vede il ragazzo incamminarsi nel nulla, tra campagne a perdita d’occhio: un cartello però avverte che di lì a due miglia si troverà Hill Valley. In un piano ravvicinato Marty sbuca quindi da dietro l’angolo di un muro, sospettoso e incuriosito a sua volta. Qui partono le note, qui la realtà/sogno si concretizza. Al cinema, dove i posti costano 50 centesimi di dollaro e si fa sfoggio di uno striscione che annuncia che l’aria è condizionata, proiettano Cattle Queen of Montana di Allan Dwan, vale a dire La regina del Far West, con protagonisti Barbara Stanwyck e Ronald Reagan. I successi musicali sono The Ballad of Davy Crockett di Bill Hayes e le canzoni di Patti Page. L’aria sognata sfuma, sostituita dalle note vagamente più ansiogene di Alan Silvestri, e il rintocco dell’orologio marca non solo il tempo di quella giornata, ma il tempo stesso della storia: Marty è retrocesso indietro nel tempo. La “sua” Hill Valley non esiste più, non lì. Ora c’è un’altra città, uguale e diversa, trent’anni prima.

Si potrebbero scrivere saggi solo analizzando il senso, il ritmo, la messa in scena – prima del rintocco dell’orologio l’inquadratura si fa di nuovo totale, ma ora Marty non è più solo, ma cammina spaesato nel cuore della piazza, mentre intorno a sé si muovono i suoi concittadini che concittadini non sono – di questa breve sequenza. Zemeckis tornerà a mettere in scena orologi dai rintocchi sempre più spaventosi nel suo adattamento in performance capture di A Christmas Carol, altro racconto in cui il tempo viene violato. Se però Dickens vede nell’opportunità di riscoprire il proprio passato il modo per correggere la morale, e ritrovare il senso dell’etica e del viver comune, questo aspetto è inevitabilmente assente nel personaggio dell’adolescente McFly. Non potrebbe essere altrimenti: Marty non va a incontrare il proprio passato – sarà nei capitoli successivi della saga che avrà modo di incrociare se stesso, per quei ghiribizzi spazio-temporali che renderanno sempre più difficile muoversi tra i diversi livelli – e il suo viaggio a ritroso non parte da necessità etiche, ma puramente legate all’istinto di sopravvivenza. Se non fuggisse raggiungendo le novantotto miglia orarie a bordo della DeLorean trasformata da Doc Brown in una macchina del tempo i terroristi libici che hanno già mitragliato il petto del pazzoide ma geniale inventore farebbero fare la stessa fine anche a lui.

Se c’è una morale da poter imparare, nel film di Zemeckis, occorre impararla in corso d’opera, non ha alla base una strategia o un’ideologia di riferimento. Marty è perfettamente intessuto nel proprio tempo, è un adolescente come tutti gli altri, che si lamenta di una famiglia che trova smorta, viene ripreso dal preside della scuola – l’immarcescibile Strickland, perennemente calvo: “Ma non ce li ha mai avuti i capelli?” si domanda fuor di retorica Marty quando lo rincontra nel 1955 –, scorrazza in lungo e in largo con lo skateboard ed è innamorato della sua fidanzata, Jennifer Parker (nel primo capitolo la interpreta Claudia Wells, nei successivi costretta a lasciare per gravi problemi familiari il posto a Elisabeth Shue). È semmai il suo viaggio nel tempo a metterlo di fronte a una serie di problematiche che non aveva neanche preso in considerazione: da dove nasce il rapporto così poco attrattivo tra i suoi genitori? Perché l’arcibullo Biff Tannen fa il bello e il cattivo tempo da sempre? E perché, più di ogni altra cosa, non si può evitare che Doc venga falcidiato dai proiettili libici? Un vero e proprio percorso di formazione a ritroso per ritrovarsi, e qui si torna al titolo, nel futuro.

Il “ritorno al futuro” infatti non è solo quello di Marty, che spera di riuscire a sfruttare la potenza del fulmine che mandò in riparazione a data da destinarsi l’orologio del comune per ritornare nel 1985. È il ritorno al futuro di un’intera nazione. Con sublime e sardonica intelligenza Zemeckis e il sodale in fase di sceneggiatura Bob Gale (i due avevano già lavorato insieme su alcuni dei precedenti film di Zemeckis, 1964: allarme a New York, arrivano i Beatles e La fantastica sfida, e avevano scritto per Steven Spielberg l’incompreso e sottostimato gioiello comico 1941: Allarme a Hollywood) teorizzano con solide basi gli anni Ottanta come la replica in versione plastificata degli anni Cinquanta. La paura dei rossi, l’incubo atomico, la passione per le storie spaziali – Marty per spaventare e convincere il padre a chiedere alla madre di uscire si presenta da lui vestito come un alieno, alla moda dei fumetti che il genitore legge avidamente, ma per rendere credibile la propria interpretazione fa il saluto vulcaniano desunto da Star Trek e si presenta come Darth Vader, il jedi passato al lato oscuro della Forza nella prima trilogia di Star Wars –, tutto fa coincidere le due epoche storiche, la prima sopravvissuta a una guerra mondiale, la seconda alle giungle vietnamite. Una nazione in (finta) pace, e tesa dunque all’opulenza totale.

In questo gioco di sovrapposizione – che non è certo unico nella storia del cinema, come in quegli anni evidenziano tra gli altri il David Lynch di Velluto blu e la resurrezione/invenzione del teen-movie operata da John Hughes prima in un Compleanno da ricordare e quindi in Bella in rosa, quest’ultimo per la regia di Howard Deutch – Zemeckis si muove sul crinale della commedia a pochi passi dallo slapstick, sia nell’impaccio di Doc, che sembra un incrocio tutto disneyano tra Archimede Pitagorico e Pippo, sia nelle situazioni più rocambolesche, dalla provocazione con fuga dalle grinfie di Biff che terminerà con quest’ultimo sovrastato dal letame fino alla lunga e articolata sequenza durante la festa danzante “Incanto sotto il mare”.

Cinematograficamente colto, ricco di invenzioni visive e soprattutto narrative, Ritorno al futuro è una vera e propria bomba a orologeria, un congegno perfetto, forse l’apice della commedia popolare statunitense degli ultimi quarant’anni. Ma è anche un perfetto compendio della nuova rivoluzione hollywoodiana, la presa definitiva del potere degli studios da parte di Spielberg e Lucas (il cui racconto in forma ovviamente metaforica è rintracciabile nelle pieghe di Ready Player One, uscito qualche anno fa nelle sale), il punto di non ritorno di un immaginario fervido, e di una sorprendente capacità di intercettare voglie e necessità del pubblico americano. “Penso che ancora non siate pronti per questa musica… Ma ai vostri figli piacerà” si giustifica Marty con gli sbalorditi coetanei di trent’anni più vecchi che hanno appena ascoltato una versione devastata di Johnny B. Goode, che Chuck Berry porterà al successo “solo” nel 1958. Forse il senso di Ritorno al futuro, e della Hollywood degli anni Ottanta è tutto in questa frase…

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