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sabato 17 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 maggio.

Il 17 maggio 1981 gli italiani sono chiamati a votare per cancellare la legge 194 che aveva legalizzato l'aborto. La richiesta viene respinta e l'aborto rimane legale.

In Italia è passato quasi mezzo secolo da quando lo Stato italiano, nel maggio del 1978, riconobbe alle donne il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Con l’approvazione della legge 194, il Parlamento depenalizzò e regolamentò l’aborto, fino ad allora praticato clandestinamente.

Ma il percorso di approvazione della legge, sostenuta soprattutto dal Partito radicale, non fu semplice. Dopo una lungo dibattito politico e culturale negli anni ‘70, la legge dovette passare il vaglio del referendum abrogativo del 1981. E in quell’occasione gli italiani si schierarono nettamente a favore della legge.

A portare per la prima volta il tema dell’aborto nelle aule del Parlamento italiano fu il Partito socialista che, nel 1971, presentò due proposte di legge sul tema.

Ad aprire la strada era stata, nello stesso anno, una sentenza della Corte costituzionale che aveva dichiarato illegittimo l’art.553 del Codice penale, sul reato di propaganda degli anticoncezionali. Il Parlamento, però, non discusse nessuna delle proposte.

Il dibattito si riaprì nel 1975 quando Loris Fortuna, già padre della legge sul divorzio, presentò una nuova proposta legislativa. Quello stesso anno, poi, la Corte costituzionale dichiarò la legittimità dell’aborto terapeutico.

Intanto, fuori dal Parlamento, anche la società civile si confrontava sul tema. Sebbene considerato un tabù, l’aborto veniva praticato clandestinamente dalle cosiddette “mammane”, donne che praticavano l’aborto con metodi empirici e senza le dovute tutele per la salute. Solo le donne più ricche si rivolgevano a cliniche estere o a medici consenzienti.

In questo clima tre animatori del movimento per la legalizzazione dell’aborto, Emma Bonino, Marco Pannella e Gianfranco Spadaccia, si autodenunciarono. In particolar modo la futura leader dei radicali ammise di aver aiutato molte donne ad abortire in maniera sicura e fu arrestata.

Ad interrompere bruscamente il dibattito fu, nel 1976, la decisione del presidente della Repubblica, Giovanni Leone, di sciogliere in anticipo le Camere e andare a nuove elezioni. Il dibattito fu così rimandato e, tra bocciature, scontri e polemiche, solo nel maggio del 1978 il Parlamento riuscirà a varare la norma.

Anche dopo la sua approvazione, lo scontro tra radicali e cattolici non si arrestò. Nel 1981 la legge 194 fu sottoposta a referendum abrogativo, con due quesiti di segno opposto. Da un lato i radicali chiedevano norme meno stringenti, dall’altro i cattolici premevano per abrogare alcune parti della legge. Ma gli italiani votarono no ad entrambe le proposte e la norma superò indenne quello scoglio.

La legge 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, sancisce il diritto della donna all’interruzione volontaria di gravidanza e i limiti entro i quali è possibile ricorrere all’aborto.

Entro 90 giorni la donna che ritiene di non voler portare a termine la gravidanza per motivi legati “alla sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito“, può rivolgersi ad un consultorio pubblico.

Lì i medici, oltre a svolgere i dovuti accertamenti, hanno anche il compito di esaminare insieme alla donna le circostanze che l’hanno spinta a chiedere l’interruzione.

Da questo momento, nei casi in cui non sia accertata un’urgenza, devono obbligatoriamente trascorrere sette giorni, per escludere qualsiasi ripensamento. Trascorso questo termine, se la donna non ha cambiato idea, può recarsi in una delle strutture autorizzate per procedere all’interruzione.

Esistono tuttavia casi in cui la legge 194 prevede la possibilità di ricorrere all’aborto oltre il limite dei 90 giorni. In questo caso si parla di aborto terapeutico ed è previsto quando il parto comporterebbe un grave pericolo per per la vita della donna o quando sono accertate patologie che costituirebbero un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica.

La norma stabilisce anche alcune tutele per il personale sanitario. Medici e infermieri che si sono dichiarati obiettori di coscienza, infatti, non sono tenuti a praticare interruzioni di gravidanza. Questo a meno che la donna non sia in pericolo di vita.

venerdì 16 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 16 maggio.

Il 16 maggio 1884 Angelo Moriondo deposita il brevetto per la macchina del caffè espresso.

Il caffè espresso italiano, quello che la maggior parte di noi beve almeno uno volta al giorno e conosciuto in tutto il mondo, è nato nella città di Torino. Non parliamo di varietà di caffè o di particolari miscele, ma della macchina che ha dato vita al tanto amato caffè espresso all’italiana.

All’ombra della Mole, nel 1884, il torinese Angelo Moriondo diede vita al primo caffè espresso della storia. Moriondo discendeva da una famiglia di imprenditori che si occupava principalmente di liquori e cioccolato (il padre, Giacomo, fondò insieme al fratello e al cugino la fabbrica di cioccolato “Moriondo & Gariglio” che fu fornitore ufficiale della Real Casa Savoia tanto da trasferirsi nel 1870 a Roma al seguito dei sovrani ).

Angelo Moriondo si occupava anche di ristorazione essendo proprietario del Grand-Hotel Ligure in piazza Carlo Felice e dell’American Bar nella Galleria Nazionale di via Roma. Proprio le esigenze legate alla ristorazione lo spinsero ad ideare una macchina per produrre caffè in modo più rapido per poter rispondere in maniera più efficiente alla fretta della clientela in alcuni momenti della giornata.

Nella macchina per il caffè espresso ideata dall’imprenditore torinese l’acqua veniva fatta bollire e poi, attraverso un sistema di serpentine, raggiungeva il contenitore con il caffè. L’acqua veniva dunque portata in pressione consentendo di preparare la calda bevanda italiana in modo molto più rapido. Come riportano le cronache del tempo, con questa geniale macchina si potevano fare ben 10 tazze di caffè ogni 2 minuti e fino a 300 tazze in un’ora (Gazzetta Piemontese del 24 luglio 1884). Da qui l’appellativo di “espresso”. Il caffè risultava più concentrato e, dunque, conservando meglio gli aromi ed i profumi, ancora più gustoso. Un vero successo al salone che valse a Moriondo la medaglia di bronzo.

Moriondo costruì la prima macchina per il caffè espresso in collaborazione con il meccanico Martina e depositò il primo brevetto il 16 maggio del 1884. Successivamente furono fatte altre migliorie e depositati altri brevetti fino ad ottenere il brevetto internazionale. Moriondo, tuttavia, non sfruttò mai la sua idea per commercializzarla preferendo creare artigianalmente solo alcuni esemplari utilizzati nei suoi esercizi commerciali. Forse per questa ragione il suo nome non è così famoso, ma fu proprio lui ad inventare la macchina che ha rivoluzionato una delle abitudini più diffuse degli italiani.

Successivamente, nei primi anni del XX secolo, il milanese Desiderio Pavoni acquistò tutti i brevetti ed iniziò la produzione in serie di queste macchine fondando la Ditta Pavoni. La diffusione fu rapida ed il successo enorme.

Nel corso degli anni sono state create tantissime macchine per il caffè espresso, sempre più belle e sofisticate, in grado di soddisfare la sempre maggiore richiesta di questa bevanda ormai irrinunciabile per gli italiani (e non solo). Il meccanismo di tutte queste macchine è sempre quello nato a Torino nella seconda metà dell’Ottocento dall’idea di Angelo Moriondo. Insomma, c’è un po’ di Torino in ogni tazzina di caffè espresso che ogni giorno si beve in Italia e nel mondo.

 

giovedì 15 maggio 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 maggio.

Il 15 maggio del 1990 un dipinto di Vincent Van Gogh, Il ritratto del Dottor Gachet, viene venduto all'asta per 82,5 milioni di dollari.

È sparito da anni, non sappiamo dove si trovi: nel caveau di una banca, o forse in una casa privata, molto privata, visto che dalla fine del secolo scorso nessuno lo ha più visto. È il Ritratto del dottor Gachet, dipinto da Vincent van Gogh tra la fine di maggio e i primi di giugno del 1890, com’è documentato da una sua lettera al fratello Théo, del 3 giugno 1890:

«Ho fatto il ritratto del dottor Gachet con un’espressione di malinconia che a coloro che guarderanno la tela potrà sembrare una smorfia».

Alcuni giorni dopo Vincent dipinge una seconda versione del ritratto forse meno intensa e priva di alcuni dettagli, ora al Musée d’Orsay (Parigi).

Esiste, poi, un’incisione, che ritrae il dottor Gachet con la pipa in bocca, anche questa attribuita a Van Gogh. Tutte queste immagini hanno una caratteristica in comune, segnalata peraltro da Van Gogh stesso: la malinconia.

Van Gogh ritrae il dottore nei suoi ultimi giorni di vita, a Auvers-sur-Oise, dov’è giunto dalla vicina Parigi il 20 maggio. Ha trentatré anni, è in uno stato di forte disagio. Spera di trar giovamento dall’atmosfera tranquilla del villaggio, e dalla presenza di un medico di fama, studioso di patologie mentali, come Gachet. In 68 giorni Van Gogh dipinge, freneticamente, ottanta capolavori ora nei musei di tutto il mondo. Il 29 luglio si tira un colpo di pistola. Al suo capezzale, il fratello Théo e il dottor Gachet. Molti quadri passano a Théo, che muore qualche mese dopo.

Nel 1911 la versione originale del Ritratto del dottor Gachet (quella oggi scomparsa) giunge, dopo vari passaggi, ai Musei Statali di Francoforte. Nel 1939 il famigerato Göring la confisca subdolamente come “arte degenerata” e la vende al mercante Frank Koenigs, che riesce a portarla a Parigi. Qui l’acquista un banchiere ebreo, Siegfried Kramarsky, che fugge negli Stati Uniti. Con sé ha il dipinto di Van Gogh, che per suo volere nel 1984 viene esposto in prestito al Metropolitan Museum.

A cent’anni dalla nascita del celebre ritratto e dalla morte di Van Gogh, il 15 maggio 1990, Il ritratto del dottor Gachet viene venduto dagli eredi Kramarsky per 85,2 milioni di dollari a un’asta di Christie’s. L’acquirente, il giapponese Ryoei Saito, dichiara che se lo porterà nella tomba. Non lo mostra a nessuno, poi fallisce e lo rivende. Passato ancora di proprietà, molto misteriosamente, da allora non è più ricomparso.

Anche se nessuno lo ha più visto, in questi anni si sono rincorse le interpretazioni del dipinto, considerato un’opera cruciale per la comprensione della psicologia dell’artista. In una lettera (mai spedita) a Gauguin, Vincent aveva scritto:

«Ho un ritratto del dottor Gachet con l’espressione straziata del nostro tempo».

Gachet aveva pubblicato uno Studio sulla malinconia, nel quale osservava:

«Il malinconico sembra che si rannicchi, si rattrappisca, debba occupare il minor spazio possibile[…] Ha le dita contratte, la testa china sul petto, inclinata a destra o a sinistra, i muscoli del corpo in semicontrazione. Quelli facciali raggrinziti, tormentati, danno alla fisionomia una particolare durezza. Le sopracciglia, sempre tese, sembrano nascondere l’occhio e rendere l’orbita più profonda… ».

La malinconia di Gachet, come quella del suo alter ego, Vincent, è una malinconia “essenziale”, come ha spiegato Jean Starobinski (L’inchiostro della  malinconia). Gachet poteva, doveva, ritrovare nel suo ritratto i “caratteri segnaletici” da lui stesso individuati nel tipo malinconico. Fra questi, anche i due romanzi dei fratelli Goncourt posati sul tavolo: Manette Salomon, dedicato alle aspirazioni e delusioni degli artisti, e Germinie Lacerteux, ambientato in una Parigi ambigua, opulenta eppure anche povera. Poi c’è il rametto fiorito di digitale, un fiore simbolico, raramente raffigurato, che Gachet consigliava come medicinale cardiotonico. Insomma, il ritratto doveva produrre, come scrisse Van Gogh, «l’effetto di un’apparizione», affondando il pennello nella rappresentazione della solitudine e dell’angoscia. Che sono quelle del medico e del pittore stesso.


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