Cerca nel web

mercoledì 27 settembre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 settembre.
Il 27 settembre 1854 affonda la nave a vapore Arctic, il primo grande disastro nell'Oceano Atlantico.
L'affondamento della nave Arctic colpì l'opinione pubblica in entrambi i lati dell'Atlantico, dato il considerevole numero di morti, 350. Ma la cosa più scioccante fu il fatto che di tutti i passeggeri, nessuna donna o bambino si salvò.
I giornali erano pieni di torbide storie di panico avvenute a bordo della nave. I membri dell'equipaggio avevano usato le scialuppe per salvare se stessi, lasciando i passeggeri indifesi a perire nel gelido Atlantico settentrionale, incluse 80 persone tra donne e bambini.
L'Arctic era stato costruito a New York, e varata all'inizio del 1850. Era una delle quattro navi della nuova "Collins Line", una società di navi a vapore americana intenta a competere con la concorrente britannica di proprietà di Samuel Cunard.
L'imprenditore a comando della società era Edward Knight Collins, coadiuvato dai banchieri James e Stewart Brown della banca di investimenti Brown Brothers, a Wall Street. Collins aveva ottenuto dal governo americano l'appalto per trasportare la posta americana da New York alla Gran Bretagna.
Le navi della Collins Line erano progettate per il massimo del confort e allo stesso tempo la velocità. L'artic era lunga 284 piedi (circa 86 metri), molto larga per l'epoca, ed aveva ruote spinte dal motore a vapore in entrambi i lati dello scafo. Era dotata di spaziose sale da pranzo, saloni, sale ricreative, il meglio del lusso mai visto fino a quel momento su una nave a vapore.
Le navi della Collins Line si guadagnarono subito, fin dalle prime navigazioni nel 1850, la reputazione del modo più alla moda di attraversare l'Atlantico.  Le quattro sorelle, Arctic, Atlantic, Pacific e Baltic, erano additate come le più lussuose e affidabili.
La Arctic poteva viaggiare a 13 nodi e nel febbraio 1852 il suo capitano James Luce fissò un nuovo record viaggiando da New York a Liverpool in nove giorni e 17 ore. Un tempo sorprendente, se si pensa che a quel tempo le navi impiegavano diverse settimane per attraversare il burrascoso Atlantico.
Il 13 settembre 1854 la Arctic giunse a Liverpool alla fine di un viaggio da New York privo di eventi significativi. I passeggeri abbandonarono la nave, come pure un carico di cotone Americano, destinato ai mulini britannici.
Nel suo viaggio di ritorno a New York, l'Arctic avrebbe trasportato alcuni passeggeri importanti, compresi parenti dei suoi proprietari, membri sia della famiglia Brown che della Collins. A bordo vi era anche Willie Luce, il figlio malaticcio del capitano James Luce.
La Arctic salpò da Liverpool il 20 settembre, per una settimana navigò nell'Atlantico senza nulla di rilievo. La mattina del 27 la nave era al largo dei Grand Banks, l'area dell'Atlantico canadese in cui l'aria calda della Corrente del Golfo incontra l'area fredda proveniente da nord, creando spesse coltri di nebbia.
Il capitano Luce ordinò alle vedette di prestare molta attenzione nell'avvistamento di altre navi.
Poco dopo mezzogiorno, le vedette suonarono l'allarme. Una nave era emersa improvvisamente dalla nebbia e i due vascelli erano in rotta di collisione.
L'altra nave era una vaporiera francese, la Vesta, che trasportava pescatori francesi dal Canada alla Francia alla fine della stagione estiva di pesca. La Vesta aveva uno scafo d'acciaio.
La Vesta speronò la prua della Arctic, e nella collisione la prua d'acciaio della Vesta agì come un ariete contro lo scafo di legno della Arctic, per poi spezzarsi.
L'equipaggio e i passeggeri della Arctic, che era la più grande delle due navi, pensarono che la Vesta, priva della prua, fosse spacciata. Al contrario la nave francese, il cui scafo d'acciaio era fatto di parecchi compartimenti interni, fu in grado di continuare a galleggiare.
La Arctic continuò la navigazione a motori accesi, ma il danno allo scafo permise all'acqua di entrare nella nave. Avere lo scafo di legno le risultò fatale.
La Arctic iniziò ad affondare nel gelido Atlantico, fu chiaro a tutti che la grande nave era perduta.
Essa possedeva solo sei scialuppe di salvataggio. Tuttavia le sei scialuppe, se calate con attenzione e correttamente riempite, avrebbero potuto contenere circa 180 persone, o per lo meno tutti i passeggeri, inclusi donne e bambini.
Esse vennero invece deposte in mare in modo caotico e riempite in modo assolutamente insufficiente, principalmente coi membri dell'equipaggio stesso. I passeggeri furono lasciati al loro destino, mentre cercavano di costruirsi zattere di fortuna con pezzi di relitto. Le gelide acque dell'oceano resero praticamente impossibile salvarsi.
Il capitano della Arctic, James Luce, che aveva eroicamente tentato prima di salvare la nave, poi di tenere in pugno l'equipaggio ribelle e in preda al panico, volle affondare con la nave stessa, tenendo saldamente il timone in plancia mentre la nave si inabissava.
Ironia della sorte, la struttura della nave si spezzò inabissandosi, e la plancia tornò presto a galla salvando la vita del capitano. Venne recuperato da una nave di passaggio due giorni dopo. Il suo giovane figlio Willie perì invece nel naufragio.
Mary Ann Collins, moglie del fondatore della Collins Line, affogò insieme a due dei loro figli. Morì anche la figlia del socio James Brown, insieme ad altri membri della famiglia Brown.
Le stime più accurate parlano di 350 morti nell'affondamento della SS Arctic, inclusi tutte le donne e tutti i bambini. Sopravvissero 24 passeggeri maschi e 60 membri dell'equipaggio.
Voci del naufragio cominciarono a circolare sui fili del telegrafo nei giorni successivi al disastro. La Vesta raggiunse un porto in Canada e il suo capitano raccontò quanto accaduto. Quando furono trovati i superstiti, le loro storie cominciarono a riempire i giornali.
Il capitano Luce fu salutato come un eroe, e festeggiato ad ogni fermata del treno che lo riportava a New York dal Canada. Al contrario, gli altri membri dell'equipaggio caddero in disgrazia, e alcuni di loro non tornarono mai negli Stati Uniti.
La pubblica gogna a riguardo del trattamento di donne e bambini sulla nave ebbe risonanza per decenni, al punto che l'ormai tradizionale imperativo "salvate prima le donne e i bambini" di ogni naufragio successivo si deve proprio alla vicenda dell'Arctic.

martedì 26 settembre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 settembre.
Il 26 settembre 1957 debutta a Broadway West Side Story, di Leonard Bernstein.
West Side Story è prima di tutto una grande storia d’amore, ispirata alla tragedia di William Shakespeare, Romeo e Giulietta. I protagonisti sono Tony e Maria, due giovani, dell’Upper West Side (ecco da dove deriva il titolo) di New York che s’innamorano nonostante facciano parte di due bande diverse e ovviamente rivali. Da una parte troviamo i bianchi americani Jets di Tony e dall’altra i portoricani Sharks di Maria. Le bande si dividono il territorio e non c’è alcuna possibilità che questi gruppi accettino una relazione che in qualche modo possa unire le due fazioni.
Nonostante questa situazione, nulla vieta a Maria e Tony di sognare un futuro migliore, romantico e possibilmente insieme. Sono consapevoli che la dura realtà sia insuperabile, ma sono giovani e pieni di speranza. La loro storia d’amore precipita a causa di una rissa organizzata e che Tony vuole assolutamente placare. Il ragazzo però, non solo non riesce ad arginare i contrasti, ma prende parte alla violenza quando vede Bernardo, il fratello di Maria che comanda gli Sharks, pugnalare a morte Riff il capo dei Jets, il suo migliore amico. Il ragazzo travolto dal dolore si avventa su Bernardo e lo uccide.
Gli Sharks si trovano senza un leader e vogliono vendetta. L’unico modo per averla è ammazzare Tony. I due giovani, allora, capiscono che, per salvare il loro amore e le loro vite, devono fuggire insieme. Ma c’è un intoppo. La polizia va a casa di Maria, per capire le dinamiche dell’incidente e la ferma per un interrogatorio. Così la fidanzata di Bernardo, Anita, nonostante sia contraria alla storia d’amore tra Maria e Tony, decide di aiutarli e si reca da Tony per avvisarlo del ritardo dell’amica.
Presa purtroppo dalla voglia di vendetta, una volta raggiunti i Jets racconta che Maria è stata uccisa da Chino, il suo promesso sposo. Tony, disperato, esce dal negozio in cui si era rifugiato per scampare all’ira degli Sharks, e va a cercare Chino, ma incontra Maria. Si stanno per riabbracciare, quando all’improvviso compare il rivale in amore e gli spara, uccidendolo proprio davanti alla ragazza. Maria, furiosa, si sfoga e sgrida le due bande, che decidono di deporre le armi e, per la prima volta, si trovano unite nella processione in memoria di Tony.
West Side Story è un musical, scritto da Arthur Laurents e musicato da Leonard Bernstein, di grandissimo successo, forse il più grande per l’epoca. Debuttò al Winter Garden Theater di Broadway (New York) il 26 settembre 1957 e fu replicato 732 volte prima di partire per una lunga tournée. Dato il grande amore che il pubblico mostrò per questo Romeo e Giulietta contemporaneo, nel 1961 la United Artists realizzò una versione cinematografica, che comparve nelle sale il 18 ottobre di quell’anno. La storia si rifà a quella del musical ed è diretto da Jerome Robbins e Robert Wise.
West Side Story è stato il film dei record, perché ha vinto dieci Oscar (Rita Moreno, miglior attrice non protagonista, George Chakiris, miglior attore non protagonista, e poi fu premiato come miglior film, regia, coreografia, scenografia, montaggio, costumi, colonna sonora e fotografia e infine anche la nomination come Migliore sceneggiatura non originale a Ernest Lehman) e dopo 50 anni non c’è ancora una pellicola che sia stata in grado di superare questo eccellente risultato. Quello di West Side Story è sicuramente un successo che ha attraversato le generazioni, anche grazie una seconda registrazione del 1984, cui hanno preso parte il soprano neozelandese Kiri Te Kanawa nel ruolo di Maria, il famoso tenore spagnolo José Carreras in quello di Tony, aggiudicandosi, nel 1985, un Grammy Award.

lunedì 25 settembre 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 settembre.
Il 25 settembre 1996 viene chiusa l'ultima delle "Case Magdalene" d'Irlanda.
Donne perdute, donne immorali, donne che erano vittime del peccato e la cui unica strada per la redenzione poteva essere la detenzione in istituti gestiti da suore in cui avrebbero potuto mondare e purificare le proprie colpe tramite l’attività -quale triste metafora- di lavandaie: queste erano le “ospiti”, certamente non per propria volontà, delle Case Magdalene in Irlanda. Sorte nelle isole britanniche con lo scopo di riabilitare ad un lavoro delle ex prostitute durante il XIX secolo, tali case avevano il fine, in un primo momento, di fungere principalmente come ricoveri temporanei nei quali alle donne che non avevano più intenzione di vivere per strada, venisse offerta l’opportunità di imparare un mestiere e di essere aiutate a trovare un impiego che, senza una tutela del genere, certamente sarebbe stato loro negato.
Ma non ci volle molto perché gli istituti smarrissero la strada dei loro nobili intenti, finendo per diventare per lo più dei luoghi in cui finirono la propria vita donne che, semplicemente, non risultavano accettabili dalla rigida società irlandese: si poteva finire da giovani nelle lavanderie, perché troppo brutte o perché troppo belle e con troppi corteggiatori; ragazze madri erano candidate naturali alla case, così come chiunque avesse consumato un amore “peccaminoso”, magari un fanciullesco legame prematrimoniale; naturalmente, anche le vittime di stupro non potevano essere escluse da questa categoria. Tutte peccatrici, tutte meritevoli di essere isolate da una società onesta e lavoratrice: tutto questo, in Irlanda, non accadeva secoli fa, giacché l’ultima Casa Magdalene è stata chiusa nel 1996.
Maggies, diminutivo di Maddalena, appunto, il nome con cui venivano chiamate le donne segregate alle quali, molto spesso, era vietato di avere contatti con il mondo o a cui veniva impedito di vedere i propri figli e che avevano un solo compito: lavare, per 15 ore al giorno, con soda e sale. Un affare, per lo più, assai remunerativo per le Suore che ricevevano compensi non solo da privati, ma anche dallo stesso Stato Irlandese che lì faceva lavare lenzuola ed abiti di esercito ed ospedali, e che ricompensavano le loro “donne perdute” con un vitto scarso. Le maggies scontavano non solo la propria diversità ma anche, più semplicemente, la realtà di vivere in una società preda del fanatismo religioso in cui tutti sapevano e tacevano ed in cui erano gli stessi genitori a provocare la distruzione delle proprie figlie: la scontavano non solo con la reclusione ma, molto spesso, subendo torture fisiche e psicologiche e degli abusi sessuali. Perché, ultime di fronte a Dio, degradate dal peccato, dovevano meritare la loro giusta punizione, secondo quanto una sorda società voleva far passare per normalità.
E purtroppo così è stato fino alla metà degli anni ’90, fatto che dovrebbe far rabbrividire, pensando che ci troviamo in Europa e che sono passati meno di 30 anni dalla chiusura dell’ultima lavanderia: dopo alcuni casi che furono scoperti nel 1993, si sono susseguite le denunce ad opera di scrittori e musicisti, fino ad arrivare al film del 2002 di Peter Mullan, premiato a Venezia col Leone d’Oro e condannato senza riserve dal Vaticano. E ciononostante, le ingiustizie ed i soprusi subiti dalle maggies sono ancora impuniti, oltre che, talvolta, neanche mai denunciati per paura, per debolezza, perché abbandonate dalle proprie famiglie, le donne sapevano ormai vivere solo lì, in una realtà distorta dalla violenza e dalla sopraffazione ma, pur sempre, l’unica che era stata data loro come possibilità.
Il Comitato contro le torture dell’ONU ha chiesto esplicitamente all’Irlanda di aprire un’inchiesta su quello che è accaduto per decenni nelle lavanderie, sulle 30 000 donne che, silenziosamente, sono entrate negli istituti per essere “corrette” tra il 1922 ed il 1996 e che, talvolta, sono morte senza un nome: finalmente lo Stato ha deciso di istituire un comitato guidato da una persona esterna che chiarisca i rapporti intercorsi tra questo e le lavanderie.
Il pronunciamento ONU è stato una vera e propria svolta che obbligherà, si spera, l’Irlanda, le istituzioni e gli ordini religiosi a ripensare se stessi, in merito a questi campi che sono stati tenuti nel loro territorio nella più totale indifferenza e silenzio: già gli ordini religiosi hanno annunciato che collaboreranno, mutando drasticamente l’atteggiamento che, fino a pochi giorni fa, vedeva le Suore negare ogni responsabilità in merito, nonostante le denunce di tante ex maggies. Forse questa volta, quelle denunce non saranno cadute nel vuoto: forse un giorno, anche per queste donne perdute, arriveranno delle scuse.

Cerca nel blog

Archivio blog