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martedì 30 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 maggio.
Il 30 maggio 1879 apre al pubblico, dopo una ristrutturazione, il "nuovo" Madison Square Garden.
Sotto quei riflettori è passata una buona parte della storia della cultura popolare a stelle e strisce. Non c'è memorabile partita di basket, storico concerto rock, leggendario incontro di pugilato, combattuta partita di hockey; non c'è imperdibile spettacolo teatrale o ricordato evento di massa che non possa essere accostato a quel nome. Ha vissuto tre vite quel tempio dello sport e spettacolo (quattro, se si conta la prima, quando era un deposito della stazione ferroviaria);ci sono stati tre diversi edifici per un solo, mitico nome: Madison Square Garden. L'ultimo costruito è l'arena sorta nel 1968 sopra alla Pennsylvania Station. Ancora qualche anno e poi dovrà lasciare il passo all'ampliamento dell'importante scalo ferroviario. Lo ha deciso il Consiglio Comunale. (Con tutta probabilità) lo stadio dovrà essere abbattuto e trasferito, ricostruito in un'altra zona della metropoli. Troppo pressanti le esigenze di sviluppo della città per non chiedere al Garden di vivere altrove un'altra vita: la quinta.
Fu P.T. Barnum a dare forma alla prima vita del Garden. Quando attorno al 1871, il deposito ferroviario venne trasferito, l'inventore del "Più grande spettacolo del mondo", della più ambiziosa ed esotica performance circense dell'epoca, prese in leasing l'edificio e lo fece diventare un originale teatro per il suo circo o per altri show. Da grande imprenditore, Barnum aveva capito che quella location era speciale per i newyorchesi. Negli anni a seguire, uscito di scena lui, il Primo Garden si trasformò: divenne un velodromo, il ciclismo su pista era uno degli sport più seguiti negli Usa, e ospitò alcuni incontri di pugilato. I proprietari di allora - nomi mitici della finanza statunitense come JP Morgan e Andrew Carnagie - capirono che il business poteva essere ampliato. Decisero quindi di abbattere il vecchio edificio e di costruirne uno più grande.
Il Secondo Garden vide la luce il 6 giugno del 1890. Poteva contenere 17.000 persone. La sua storia durò poco meno di 40 anni. Tra le sue mura vennero combattuti importanti incontri di boxe, ma la struttura andò presto in sofferenza finanziaria e la società che ne era diventata proprietaria, la New York Life Insurance Company, decise di demolirla, per farne costruire una nuova, sempre chiamata Madison Square Garden, questa volta tra la 49° e la 50° strada a Manhattan. Era il 1928. Iniziava la terza vita, per lo più dedicata ai guantoni. Leggendari pugili salirono su quel ring. Henry Amstrong, l'unico a essere campione contemporaneamente in tre categorie; Sugar Ray Robinson, Jack La Motta, Rocky Marciano: nomi che hanno fatto la storia dello sport mondiale, con i loro trionfi e le loro sconfitte, con il loro sudore e le loro vicende private.
Ma il Garden non fu solo sangue e pugni: mantenne la sua anima poliedrica, la sua capacità di essere polo d'attrazione dello spettacolo non solo sportivo. Vero palcoscenico della cultura popolare statunitense per le forme espressive che quella cultura creava. Fu proprio quella la sua fortuna. I concerti di Frank Sinatra e di Elvis Presley, quell'indimenticabile sera del 1962 quando Marilyn Monroe cantò "Happy Birthday Mister President" davanti a JFK e a 15.000 persone che si erano radunate nello stadio per festeggiare il compleanno di John Fitzgerald Kennedy.
La storia non si conclude con la costruzione del quarto edificio nel 1968, l'attuale. Anzi. Diventa ancora più ricca. Semplicemente, si trasforma. Il Garden si dimostra ancora più eclettico. Un grande Business. Lo sport che prende piede è il basket. E' nell'arena ("Un'architettura a forma di fritella rovesciata" scriverà una volta Time) che giocano i New York Knicks davanti a un pubblico di 20.000 persone. Poi arriva anche l'hockey su ghiaccio con i Rangers, che ne fanno lo stadio di casa. I concerti non finiscono, anzi, si moltiplicano grazie alla capacità della nuova struttura: dagli anni'70 (Led Zeppelin, il concerto per il Bangladesh, Billy Joel) agli anni'80 (Michael Jackson, Madonna, David Bowie) per poi arrivare ai grandi concerti organizzati a scopo di beneficienza degli anni'90, nel 2001 dopo l'attacco alle Torri Gemelle e nel 2012 in favore delle vittime dell'uragano Sandy. Nel teatro ospitato all'interno del Garden c'è spazio anche per gli imponenti musical e per gli eventi politici: nel 1992, si tiene lì la convention democratica per la nomination di Bill Clinton per le elezioni presidenziali.
Ora, grazie alle decisioni dell'amministrazione newyorchese, il Madison Square Garden rischia di dover affrontare la sfida di una quinta vita. Lontano dall'attuale sede di Midtown, nel centro di Manhattan. I proprietari del Garden aveva chiesto la concessione perpetua del sito, ma la risposta delle istituzioni pubbliche è stata per ora diversa. C'è da scommettere che, comunque sia, il Garden rimarrà sempre quel tempio dello sport e dello spettacolo che è diventato nel corso della sua lunga storia secolare.

lunedì 29 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 maggio.
Il 29 maggio 1940 Fausto Coppi, vincendo la tappa Firenze-Modena con quasi 4 minuti di vantaggio sul secondo, indossa per la prima volta in carriera la maglia rosa del Giro d'Italia.
Fausto Angelo Coppi nasce a Castellania, in provincia di Alessandria, il 15 settembre 1919 in una famiglia di modeste origini. Trascorre la vita a Novi Ligure, prima in viale Rimembranza, poi a Villa Carla sulla strada per Serravalle. Poco più che adolescente è costretto a trovarsi un lavoro come garzone di salumeria. Ragazzo a modo ed educato è subito apprezzato per la sua dedizione, il suo fare introverso e la sue naturale gentilezza.
Per hobby scorrazza qua e là su di una rudimentale bicicletta regalatagli dallo zio. Si distende dal lavoro con lunghe scampagnate, dove si inebria al contatto con l'aria aperta e la natura.
Nel luglio 1937 disputa la sua prima corsa. Il tracciato non è facile, anche se si svolge tutto in prevalenza da un paese di provincia all'altro. Purtroppo a metà gara è costretto a ritirarsi poiché una gomma si sgonfia inaspettatamente.
Gli inizi non sono quindi promettenti, malgrado il ritiro sia da attribuire al caso e alla sfortuna più che alle doti atletiche del giovane Fausto.
Mentre Coppi pensa al ciclismo sopra la sua testa scoppia la seconda guerra mondiale. Militare a Tortona, Caporale della terza squadra di un plotone in quadrato nella compagnia agli ordini di Fausto Bidone, viene fatto prigioniero degli inglesi in Africa, a Capo Bon.
Il 17 maggio 1943 viene internato a Megez el Bab e poi trasferito al campo di concentramento di Blida, nei pressi di Algeri.
Fortunatamente esce incolume da questa esperienza e, una volta tornato a casa, ha modo di riprendere i suoi allenamenti in bicicletta. Il 22 novembre 1945, a Sestri Ponente, si unisce in matrimonio con Bruna Ciampolini, che gli darà Marina, la prima dei suoi figli (Faustino, nascerà in seguito alla scandalosa relazione con la Dama Bianca).
Poco dopo, qualche osservatore, convintosi del suo talento, lo chiama alla Legnano, che diventa di fatto la prima squadra professionistica a cui prende parte. In seguito difenderà i colori delle seguenti squadre: Bianchi, Carpano, Tricofilina (alle ultime due abbinò il proprio nome). Alla fine del 1959 si lega alla S. Pellegrino.
Al primo anno di professionismo, arrivando con 3'45" di vantaggio nella tappa Firenze-Modena del Giro d'Italia, conquista una vittoria che gli consente di smentire le previsioni generali che volevano Gino Bartali vincitore della corsa rosa. A Milano in rosa giunse infatti lui, Fausto Angelo Coppi.
Alcune delle altre cavalcate solitarie che fecero scorrere fiumi d'inchiostro furono: quella di 192 Km nella tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d'Italia del 1949 (vantaggio 11'52"), quella di 170 Km del Giro del Veneto (vantaggio 8') e quella di 147 Km della Milano-Sanremo del '46 (vantaggio 14').
Il Campionissimo del ciclismo, vinse 110 corse di cui 53 per distacco. Il suo arrivo solitario sui grandi traguardi era annunciato con una frase, coniata da Mario Ferretti in una famosa radiocronaca dell'epoca: "Un uomo solo al comando!" (a cui Ferretti aveva aggiunto: "[...], la sua maglia è biancoceleste, il suo nome Fausto Coppi!").
Il grande ciclista si aggiudicò due volte il Tour de France nel 1949 e nel 1952 e cinque volte il Giro d'Italia (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953) ed entrò nella storia per essere uno dei pochi ciclisti al mondo ad aver vinto Giro e Tour nello stesso anno (tra cui ricordiamo anche Marco Pantani, 1998).
Al suo attivo vi furono tre volte la Milano-Sanremo (1946, 1948, 1949), cinque Giri di Lombardia (1946-1949, 1954), due Gran premi delle Nazioni (1946, 1947), una Parigi-Roubaix (1950) e una Freccia vallone (1950).
La sua fama di ciclista, caratterizzata dalla rivalità-alleanza con Gino Bartali, fu parzialmente oscurata dalle sue vicende private, in particolare dalla scandalosa relazione segreta con la "dama bianca", che nell'Italia degli anni 50 destò scalpore più delle sue vittorie in solitaria.
Era in agosto, a Lugano. Anno 1953. Faceva un caldo infernale, nonostante qualche strisciolina di brezza che arrivava dal Lago. Lui, come sempre, aveva corso da grande e quando, con passo deciso, si era inerpicato sulle scalette della tribuna, con quelle gambe lunghe e magre, era sembrato un uccellaccio intento a saltabeccare fuori zona. Gli occhi erano spalancati, i capelli spettinati, il profilo duro e la bocca chiusa da un vago sorriso, come se le labbra fossero serrata da un pacco di spilli. Fausto, il campionissimo, il Coppi di sempre, timido e un po' a disagio, si era fatto al centro della tribuna tra le autorità sportive. Qualcuno si era presentato davanti a lui con la maglia iridata in mano, quella di campione del mondo e l'aveva infilata sulla testa del vincitore che, con grande sforzo, alla fine, era riuscito ad infilarla.
Poi, da un angolo, era sbucata una signora con un vestito bianco, leggero e vaporoso e un gran mazzo di fiori in mano. Quella signora, presa dall'entusiasmo sportivo, aveva abbracciato il campione sporco e sudaticcio e aveva stampato un paio di baci sulla bocca di Fausto, porgendo i fiori. Il campionissimo, per la prima volta, non si era schernito come faceva sempre. Lei, per moltissimi minuti, era rimasta accanto a lui guardandolo con un sorriso dolcissimo. Tanto dolce che tutti avevano capito. I fotografi si erano precipitati e avevano fatto scattare i flash. Anche i giornalisti sportivi, nella confusione, si erano fatti intorno ai due. Tutti sapevano che Fausto era sposato da molti anni con Bruna Ciampolini, una donna silenziosa e schiva come il marito. E quella chi era? Lei aveva risposto, con un sorriso niente affatto timido: «Sono una vecchia amica di Fausto e una grande tifosa. Che volete farci. È un gran campione e come si fa a non ammirarlo?». Da quel momento e da quel giorno era nata la leggenda della «dama Bianca» ed erano stati i giornalisti francesi a battezzare così quella donna che aveva osato baciare in pubblico «le phenomene», «l'airone delle salite», il campione dei campioni, l'inafferrabile, quello che le suonava a Bartali.
Poco, troppo poco, invece, è stato raccontato sull'amore di Fausto e Giulia Occhini, sulla loro vita privata al di fuori dei miti e delle leggende. E anche sulle sofferenze che una Italia bacchettona, retriva, bigotta e poco disposta ad uscire, in qualche modo, dai canoni della vita e dell'amore fissati da una religiosità crudele, inflisse all'uomo Coppi e alla sua compagna. Fu quel giorno d'agosto, a Lugano che tutta l'Italia, per la prima volta, seppe. Seppe di un amore «proibito» per la morale comune del tempo e seppe di quei «due pubblici concubini» e peccatori «pericolosi».
Cerchiamo di capire un po' meglio l'amore di Fausto per la «dama Bianca», o meglio per Giulia Occhini e vedere come andarono le cose: l'arresto di lei, il processo, la condanna di tutti e due, la nascita del loro bambino in Argentina. Gli emigranti dell'amore, che ormai si sentivano perseguitati in Italia, erano, infatti, finiti laggiù.
Fausto, come abbiamo visto, si sposa con Bruna Ciampolini che, più tardi, darà alla luce la figlia Marina. Che donna è Bruna? Una cara e dolce moglie, silenziosa e modesta. Di quelle che si sposano perché c'è un rapporto fin da ragazzini. Di quelle donne, insomma, che piacciono tanto ad una famiglia di contadini che vuole mogli, semplici, concrete, senza grilli per la testa. Una donna che garantisca sempre, al futuro marito, un posto sicuro dove «appoggiarsi» nei momenti più duri e difficili della vita. Bruna è così e piace tanto alla famiglia di Fausto. Lui continua a correre con quel suo sguardo triste da «eterno povero».
Eppure vince, eccome. Incassa anche molti soldi. Un giorno fa amicizia con un suo tifoso, il dottor Enrico Locatelli che è sposato con Giulia Occhini, una bella ragazza che viene da una famiglia agiata. Hanno due figli, Maurizio e Loli, ma nonostante questo, ogni tanto seguono Coppi. Non si è mai saputo quando e come sia nato l'amore tra il campionissimo e Giulia. Insomma la storia sarà nata in segreto e in segreto continuata. Cose eterne come il mondo.
Ma c'è quel benedetto giorno a Lugano, quando tutti capiscono. La moglie di Coppi, la signora Bruna, dicono che aveva subito capito come stavano andando le cose perché, per un paio di volte, Giulia era andata, con il marito, in casa Coppi, così per «approfondire l'amicizia». Giulia era sempre elegante, sapeva muoversi senza timidezze ed era abituata a vedere gente, a leggere libri e giornali, a spostarsi da una città all'altra e a vivere in albergo. Tutto il contrario della signora Bruna. I giornalisti, dopo i baci di Lugano, ricordano di aver visto Coppi, durante una tappa del Tour, rallentare quando aveva visto lei a lato della strada e ricordano anche di una volta che Bruna Ciampolini, moglie di Fausto e il dottor Locatelli, marito di Giulia, si erano precipitati insieme sul Garda, durante una tappa del Giro.
Il caso Coppi-«Dama Bianca», esplode come una bomba nell'Italia delle scomuniche Vaticane ai comunisti o contro chi non si sposava in chiesa, della mancanza di divorzio, delle mamme fattrici ad ogni costo, della famiglia come unica possibilità, per un uomo e una donna di vivere il loro rapporto. I giornali parlano subito di «amore scandaloso» e «lei», la «cattiva» viene indicata come una «rovina famiglie» e l'esempio di «tutto quello che le donne non dovrebbero essere». Pare che persino il Papa in persona (Pio XII) sia intervenuto per invitare Coppi a pensare bene a quel che andava facendo. Non si trattava di minacce, ovviamente.
Rimane il fatto che il codice Rocco, il vecchio codice fascista, prevedeva i reati di abbandono del tetto coniugale e di adulterio ed è in questo senso che si muovono subito i magistrati. Coppi e Giulia Occhini, nel frattempo, erano andati a vivere insieme nella villa di Novi Ligure, acquistata da Fausto al momento della separazione dalla moglie Bruna, separazione che datava già da qualche tempo. Giulia Occhini, in quei mesi aveva 26 anni ed era una splendida signora sempre elegante, ben truccata, sicura. Quella di sempre, insomma. Chi è cambiato, invece, è Fausto. Ha lasciato i panni dell'eterno poveraccio. Non è più un rozzo ex contadino. Veste con proprietà, giacca doppio petto e cravatta, cappotti ben tagliati e fatti su misura. È diventato un «signore» e nei nuovi panni si sente bene. Sembra non aver paura di nulla. Si potrebbe dire, con l'aiuto di un po' di psicologia, che Fausto ha raggiunto il mondo e il modo di vita al quale, da eterno morto di fame, aspirava da tutta una vita. Giulia Occhini, dunque, lo aveva trasformato in profondità. Ma gli attacchi del perbenismo ufficiale e non ufficiale, non cessano un attimo e tutto diventa crudele, umiliante, cattivo. L'Italia si divide in due: chi è solidale con Fausto e chi lo condanna senza appello. A Coppi, il campionissimo, viene ritirato il passaporto. È soltanto la prima mossa. Una notte, nella villa di Novi Ligure, arrivano i carabinieri che procedono ad una serie di «costatazioni di legge». Cercano la prova dell'adulterio e la trovano. Come? Lo raccontano, senza vergogna o imbarazzo gli uomini dei verbali conservati negli atti del processo. Un brigadiere mette le mani nel letto della coppia e lo trova ancora caldo. Dunque, i due, non potevano certo più dire che stavano semplicemente bevendo insieme un caffè: erano a letto insieme e basta.
Che Italia incredibile, barbara e medievale. Lei finisce subito ammanettata. Nella notte, viene trasferita nel carcere di Alessandria. È donna e quindi, evidentemente, doveva pagare ancora più dell'uomo. Fausto è disperato e tenta di tutto per liberarla. Ma non è così semplice. Passano più di 96 ore prima che lei torni a casa. Nel marzo del 1955, il processo. Lei è accusata di aver abbandonato il marito e i figli. Lui, oltre che di adulterio deve rispondere anche di violazione degli obblighi di assistenza familiare. A Fausto, i giudici infliggono due mesi di carcere e tre a lei. Giulia Occhini viene, però, anche «confinata» ad Ancona in casa di una zia. I giudici le vietano, inoltre, di vedere i figli e tornare a Novi Ligure. Giulia, incinta di Fausto, decide allora insieme al suo uomo, di andare a partorire a Buenos Aires. In Italia, chissà cosa avrebbe potuto accadere al piccolo, figlio di «pubblici peccatori» e concubini. Fausto, durante il Giro, riceve a Venezia la prima foto del bambino al quale è stato messo il nome di Faustino. Il campionissimo piange. Poi, in cima allo Stelvio, lancia un urlo di saluto al bambino e si butta nella discesa come un pazzo. Forse è l'unico urlo che sia mai uscito dalla sua bocca in tutta la sua vita. Una coppia, comunque, che ha avuto certamente periodi felici. Lo raccontano tutti: Giulia e Fausto erano davvero fatti l'uno per l'altro. Ma anche l'angoscia e i dolori non hanno mai avuto fine per loro. Lui, in gara, è caduto mille volte e mille volte ha riportato fratture gravi. A lei è morta, giovane, la figlia Lolli. Poi la fine terribile e beffarda di Fausto. Il campionissimo parte per una esibizione nell'Alto Volta: in realtà una scusa per una grande partita di caccia, insieme a colleghi e amici. Ha appena 40 anni.
Torna e racconta a Giulia che quel viaggio è stato come una straordinaria e indimenticabile avventura. Due giorni dopo è a letto con una febbre terribile. «È un virus, un brutto virus», dicono i medici. Non si accorgono che si tratta di un terribile attacco di malaria. Il 2 gennaio 1960, alle 8.45 è la fine. Una agenzia di stampa diffonde una notizia agghiacciante, terribile. Eccola: «Essendo il campione un pubblico peccatore a causa delle sue vicende coniugali, ha potuto ricevere l'estrema unzione solo a patto di una solenne rinuncia della sua donna ai legami con lui in caso di guarigione». C'è una foto straordinaria scattata ai funerali e lungo la stradina in salita che da Castellania porta alla casa dei Coppi. Si vede una bellissima campagna maculata di neve e un corteo di migliaia di persone che salgono lassù, per rendere l'ultimo saluto al campionissimo. In un'altra foto scattata in casa ci sono tre grandi campioni di quelli che arrivavano al traguardo con la faccia coperta di fango. I loro nomi? Girardengo, Binda e Bartali. Già, Bartali. Alcuni anno fa disse: «Io, terziario francescano, bacchettone e bigotto, come avete sempre scritto su l'Unità, ho voluto molto bene a Coppi. Ora potete anche scriverlo. Sono stato proprio io ad accompagnarlo più di una volta in Vaticano per risolvere la sua situazione con la Occhini. L'ho fatto parlare anche con il Papa... Non è stato possibile far niente..». Giulia Occhini, invece, muore a 69 anni, nel 1993, dopo 510 giorni di coma. Era rimasta gravemente ferita in un incidente stradale davanti a «Villa Coppi», dove viveva con il figlio di quel suo grande e famosissimo amore.

domenica 28 maggio 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 maggio.
Il 28 maggio 1980 viene ammazzato Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera.
La carriera giornalistica di Walter Tobagi cominciò al ginnasio come redattore della Zanzara, il celebre giornale del liceo milanese Parini. Dopo il liceo, entrò all’Avanti! di Milano, ma pochi mesi dopo passò al quotidiano cattolico Avvenire. Furono anni di pratica alla scuola di “cronista sul campo” che lo portarono prima al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera. Il suo interesse prioritario era per i temi sociali, l’informazione, la politica e il movimento sindacale. Ma il suo impegno professionale maggiore Tobagi lo dedicò alle vicende del terrorismo. Al Corriere della Sera seguì tutte le vicende relative agli “anni di piombo”. Uno dei suoi ultimi articoli sui terroristi rossi è considerato tra i più significativi sin dal titolo: “Non sono samurai invincibili”.
Walter Tobagi – 33 anni, moglie e due figli, scrittore e docente universitario, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti – venne ucciso alle 11 di mattina sotto casa con cinque colpi di pistola da un gruppo di assassini della Brigata 28 Marzo poco dopo essere uscito di casa. A sparare furono Marco Barbone e Mario Marano.
Gli assassini furono catturati in fretta e ancora più in fretta uscirono di galera perché al tempo era così: se parlavi, a prescindere da cosa dicessi, ti davano una pacca sulle spalle e ti lasciavano andare. Erano ragazzi borghesi, figli di dirigenti e di giornalisti, stupidi, conformisti e quindi fatalmente brigatisti o qualcosa del genere, comunque comunisti e smaniosi di segnalarsi ai compagni armati. L’esatto contrario di Tobagi che, pur essendo poco più che trentenne, non aveva mai seguito le mode, neppure quelle ideologiche, e si dedicava al lavoro con slancio e passione. Era già un buon motivo, dato il clima, per farlo fuori.
Walter poi non era un giornalista qualunque, ma uno che ci sapeva fare. Colto, analitico e profondo, seppe approfittare dell’arrivo di Franco Di Bella alla direzione del Corriere, che lo aveva promosso alla «scrittura» riconoscendone l’abilità (anche politica e diplomatica), per emergere dall’anonimato cui gran parte dei corrieristi erano condannati causa l’appiattimento imposto all’epoca dal sindacalismo rosso. In pochi mesi, Tobagi imparò a volare e divenne una firma. Ma nell'ambiente era già qualcuno perché nelle assemblee redazionali, da semplice redattore, si era distinto sconfiggendo il branco della falce e martello. Era «padrone» della Associazione Lombarda e la sua opinione pesava.
Pacioso, cordiale, grassoccio e sorridente, aveva l’aspetto e i modi di un giovane parroco; e in effetti era cattolico benché vicino ai socialisti. Mai aggressivo, al termine di ogni discussione aveva sempre ragione. Nell’arte di convincere era un maestro senza essere un trascinatore. Insomma, aveva qualità di leader, personalità, conoscenza, pazienza. Tutto ciò che occorreva per rendersi detestabile agli avversari comunisti a lui non mancava.
Non è  chiaro se l’idea di uccidere Walter sia nata negli scantinati del Corriere, come qualcuno ha sostenuto; certo è che gli esecutori materiali dell’omicidio sono stati ispirati, se non istigati, da chi identificava in Tobagi un nemico politico, un concorrente professionale e sindacale. Colleghi? E chi altri avrebbe avuto interesse a sopprimerlo coi metodi in voga negli anni di piombo: tre o quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo? Indubbiamente, l’inviato grazie al suo lavoro e alle attività collaterali non era un anonimo cronista; ma la sua fama era circoscritta alla cittadella giornalistica e ai recinti del partito armato che egli aveva raccontato con perizia e spirito critico. Il fatto poi che gli assassini gravitassero attorno al mondo dell’informazione, e fossero addirittura famigliari di addetti all’editoria, rafforza il sospetto che il la all’agguato sia partito dalla zona di via Solferino.
Un delitto, questo, come quasi tutti quelli dei comunisti combattenti, di una idiozia sconfinata. Si è tentato di saperne di più rispetto all’ufficialità, ma gli assassini una volta riconquistata la libertà, senza troppa fatica, si sono chiusi in sé guardandosi dal dire la verità. Forse se ne vergognano, giustamente, perché se è vero che non esiste ragione per ammazzare un uomo, uccidere un ragazzo quale Walter, generoso e pacifico, innocuo e onesto, richiede una tale meschinità e una tale incoscienza che solo dei figli di papà comunisti improvvisati potevano avere. E sono loro ad aver dato un’impronta conformistica a quegli anni di imbecillità collettiva che portarono scompiglio nella miserrima società italiana infatuata dall’utopia. Fa rabbia costatare che la morte di Walter non sia servita neppure a capire che il passato non è migliore del presente.
Marco Barbone (Milano, 1958), il leader del gruppo terrorista, che esplose probabilmente il colpo mortale, fu condannato nel 1983 a soli 8 anni e nove mesi, poiché divenuto immediatamente collaboratore di giustizia, ed ebbe subito la libertà provvisoria, dopo tre anni di carcere scontati (uscì dopo la sentenza). Negli anni successivi Barbone si è convertito al cattolicesimo e ha aderito a Comunione e Liberazione, è responsabile comunicazione della Compagnia delle Opere. Per un periodo ha collaborato con il settimanale Tempi del quotidiano Il Giornale.
Paolo Morandini, anche lui immediatamente "pentito", ebbe la medesima condanna di Barbone.
Mario Marano (Milano, 1953), che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti per la sua collaborazione, a 12 anni in appello (poi 10 con un condono). Fu condannato anche a undici anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti e a tre anni e mezzo nel processo a Prima Linea, per un totale di circa 24 anni. Scontò la pena ai domiciliari a partire dal 1986. Scarcerato ufficialmente negli anni novanta.
Manfredi De Stefano (Salerno, 23 maggio 1957), condannato a 28 anni e otto mesi; morì in carcere nel 1984, colpito da aneurisma.
Daniele Laus, l'autista del delitto, confessò ma poi ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado ebbe sedici anni. Dal dicembre 1985 fu rimesso in libertà provvisoria.
Francesco Giordano, che fece la copertura del gruppo di fuoco, non volle ammettere la partecipazione né collaborare, anche se condannò l'esperienza del terrorismo e la sua affiliazione al gruppo. Fu condannato a 30 anni e otto mesi, in appello divenuti 21. Fu l'unico che scontò l'intera pena: uscì di prigione nel 2004. Fu condannato anche a 13 anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti. Giordano sostenne di essere stato torturato da polizia e carabinieri nel 1980, dopo il suo arresto.

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