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lunedì 14 ottobre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 14 ottobre.
Il 14 ottobre 1926 viene pubblicato per la prima volta il libro per ragazzi "Winnie the Pooh".
Winnie the Pooh è stato amato e continuerà ad essere amato da milioni di bambini in tutto il mondo. Ma il successo di questo personaggio nasconde una storia difficile iniziata oltre 100 anni fa.
La storia cominciò nel 1914, quando un treno carico di militari in uniforme fece giungere il tenente Harry Colebourn a White River, Ontario, in Canada. Il 27enne, nato in Inghilterra, si era trasferito in Canada per studiare chirurgia veterinaria e aveva una profonda passione per gli animali. Passeggiando per White River, il tenente Colebourn vide qualcosa che attirò il suo sguardo: un cucciolo di orso nero di non più di sei mesi, tenuto al guinzaglio da un bracconiere, che cercava qualcuno a cui venderlo.
Il soldato, commosso per la sorte del piccolo orso, lo prese tra le proprie braccia e diede 20$ al bracconiere. Quando tornò al proprio treno, Colebourn portò con sé il proprio nuovo animale domestico. Era una femmina, e decisa di chiamarla Winnipeg, il nome della sua città natale. “Winnie” (così venne presto soprannominata) strinse presto amicizia con il tenente e gli altri soldati. Colebourn la addestrò dandole mele e latte condensato come ricompense. La piccola orsa dormiva sotto il suo letto, e lo seguiva in giro come avrebbe fatto un cagnolino. Ben presto, divenne la mascotte del reggimento.
Alla fine dello stesso anno il tenente portò Winnie con sé in Inghilterra. Quando Colebourn venne chiamato al Fronte Occidentale, a dicembre, l’orsa venne affidata alle cure del London Zoo, che aveva appena predisposto un ambiente di montagna adatto a lei. Prima di partire, il tenente si ripromise di riportare l’orsa in Canada, alla fine della guerra.
Ma la guerra si prolungò per diversi anni, e Colebourn testimoniò atrocità disumane, lavorando nel Royal Canadian Army Veterinary Corps, e prendendosi cura dei cavalli feriti.
Quando poté tornare a trovare la piccola orsa, il tenente la trovò cresciuta ma gentile e mite come sempre. Era così docile che i bambini potevano entrare nella sua area per giocare con lei o per darle da mangiare. Colebourn capì che ormai Winnie apparteneva alla città dove era cresciuta, e non se la sentì di riportarla in Canada.
Tra i bimbi di Londra più affezionati a Winnie c’era un giovanissimo ragazzo chiamato Christopher Robin Milne, che pregava spesso suo padre, A.A. Milne, di portarlo allo zoo, per abbracciare Winnie e per portarle il latte condensato. Christopher Robin si affezionò tanto all’orsa che cambiò il nome del suo pupazzo in Winnie the Pooh.
L’orsacchiotto Winnie the Pooh, insieme ad altri pupazzi del piccolo Christopher Robin, ispirarono i personaggi del racconto più famoso di suo padre. A. A. Milne era uno scrittore prolifico, con una produzione diversificata che includeva sceneggiature e romanzi gialli. Nel 1924 pubblicò il libro per bambini “When We Were Very Young”, seguito due anni dopo da un volume completo di storie, chiamato “Winnie-the-Pooh”.
A. A. Milne aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale, come il tenente Colebourn, e il Bosco dei Cento Acri era un rifugio idilliaco dalle atrocità vissute durante la guerra. Congedatosi senza aver mai sparato a un uomo, Milne definì la condizione di guerra come “degrado psichico e morale”, affermando che l’incubo lo aveva fatto ammalare fisicamente. C’è chi ipotizza che Milne soffrisse di DPTS (Disturbo Post Traumatico da Stress), come moltissimi altri soldati che avevano vissuto l’esperienza di trincea nella Grande Guerra.
Il successo di Winnie the Pooh ebbe ripercussioni negative sul vero Christopher Robin, che dovette gestire un’improvvisa visibilità pubblica ed ebbe sempre un rapporto conflittuale con la storia che vedeva protagonista il suo omonimo narrativo. Suo padre non riuscì a stargli vicino e i due ebbero sempre un rapporto difficile. Perché, purtroppo, spesso la realtà è molto più complicata di una fiaba. Ma le fiabe sono un ottimo modo di fuggire dalle difficoltà della vita vera.

domenica 13 ottobre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 13 ottobre.
Il 13 ottobre 1972 si ebbe il cosiddetto "disastro aereo delle Ande".
Ci sono momenti in cui l’uomo raggiunge il proprio limite, oltre il quale c’è solo la morte, e per non superarlo fa cose a cui mai, nella propria vita, avrebbe pensato di arrivare. Si tratta esattamente di ciò che è successo ai passeggeri del volo della Fuerza Aerea Uruguayana che da Montevideo avrebbe dovuto raggiungere Santiago del Cile.
Il 12 ottobre 1972 quel volo partì dall’aeroporto Carrasco di Montevideo. A bordo c’era l’intera squadra di rugby dell’Old Christians Club, che doveva recarsi a Santiago per una partita contro una squadra locale, cui si era aggiunta Graciela Mariani, una donna diretta verso la capitale cilena per il matrimonio della figlia. Il volo era gestito dall’aeronautica militare uruguaiana, che per arrotondare gli introiti aveva iniziato a operare voli charter.
Tuttavia, quel 12 ottobre c’era maltempo. La nebbia era fitta, non esattamente il clima ideale per oltrepassare la Cordigliera delle Ande, tanto più a bordo di un Fokker F27 da appena 45 posti: per questa ragione, il comandante preferì atterrare all’aeroporto di Mendoza, città argentina immediatamente a est delle Ande, per ripartire la mattina seguente.
Il giorno successivo, il 13 ottobre, le condizioni non erano migliorate. Tuttavia, l’aereo uruguaiano si trovava in un paese, l’Argentina, in cui per il regolamento vigente i velivoli stranieri non potevano stazionare oltre 24 ore, e così fu costretto a ripartire, azzardando l’attraversamento delle Ande con un clima non favorevole.
Intorno alle ore 15:08 l’aereo si trovava sopra le Ande, quando virò verso ovest inserendosi in una nuova rotta. Dopo pochi minuti, avvisò la torre di controllo di Santiago, dicendo di trovarsi presso la città di Curicò, e chiedendo così l’autorizzazione per la discesa.
Si trattò in realtà di un errore, dal momento che non solo l’aereo non si trovava sopra quella città, ma non ci sarebbe arrivato neanche secondo i calcoli stimati in precedenza, dal momento che il vento soffiava in direzione opposta alla velocità di circa 60 chilometri orari.
Fu in questa fase che il velivolo incontrò una forte turbolenza che lo portò a perdere circa 100 metri di quota: quando si sorvolano vette alte oltre 5mila metri con un aereo di piccole dimensioni, questa distanza può rivelarsi fatale. Per evitare il peggio, il pilota spinse al massimo i motori, sperando di risalire, ma senza successo: l’aereo urtò con l’ala destra una montagna e precipitò, incagliandosi semidistrutto a un’altezza di oltre 3.600 metri.
Delle quarantacinque persone a bordo, 12 morirono nell’impatto, ed altre cinque nelle 24 ore successive. Ma quanto appena successo era solo l’inizio di una serie di drammatici avvenimenti che sarebbero durati fino ai mesi successivi.
Come sempre succede in questi casi, le autorità cilene a argentine iniziarono una serie di ricerche, senza però trovare tracce dell’aereo, che era precipitato in una zona caratterizzata da cime montuose che superano i 5mila metri, rendendo particolarmente difficili le ricerche. Il 21 ottobre, per questa ragione, ogni attività di ricognizione venne conclusa, e si pensò che per i passeggeri del volo non ci fosse più alcuna speranza.
In realtà, nel mezzo della Cordigliera, la maggior parte dei passeggeri dell’aereo era rimasta viva. In un terreno inospitale al punto da non essere stato raggiunto dalle ricerche, a 3.600 metri di quota, in mezzo alla neve, con temperature che la notte raggiungevano addirittura i 50 gradi sotto lo zero, ma comunque vivi.
In questa situazione, ai sopravvissuti non rimase che cercare un modo per organizzarsi e sopravvivere.
I problemi erano molti. In primis, non sapevano esattamente dove si trovavano: l’incidente era avvenuto in alta montagna, dove i punti di riferimento non sono facili da individuare, e l’altimetro dell’aereo era rotto e indicava 2.100 metri, anziché i 3.600 reali, fuorviandoli ulteriormente. I tentativi di raggiungere zone abitate non erano perciò facili.
I sopravvissuti si trovavano vicino i resti della fusoliera dell’aereo – la coda e le ali si erano staccate durante l’impatto – che era dunque il loro principale riparo, ma che essendo aperta non risultava sufficiente per riscaldarsi da temperature così gelide. Per questa ragione, i passeggeri costruirono un muro di valige per evitare che potesse filtrare il freddo.
 Il cibo consisteva in quello che era a bordo dell’aereo e che fu possibile recuperare nella fusoliera, e per questo venne razionato con attenzione sperando che potesse durare più a lungo possibile. Il pranzo consisteva di vino versato in un bicchiere di deodorante e marmellata, mentre la cena di un quadratino di cioccolata. Per ottenere l’acqua, veniva usato l’alluminio recuperato dall’aereo per sciogliere la neve riflettendovi il sole.
Uno dopo l’altro, molti sopravvissuti – alcuni dei quali erano rimasti feriti nell’incidente – iniziarono a morire. Gli altri si organizzarono perciò in gruppi per cercare di resistere il più possibile, sperando di uscire da quella drammatica situazione. Furono costituiti un gruppo medico che si prendesse cura dei feriti, un altro addetto a procurare l’acqua e un terzo che tenesse in ordine la fusoliera.
Ma il tempo passava, il cibo scarseggiava, e tramite una radiolina che avevano a bordo appresero che le autorità avevano interrotto le ricerche. Ai sopravvissuti non rimase che aggrapparsi alla vita arrivando a ciò che mai avrebbero potuto pensare.
Preso atto che le razioni ormai erano terminate, presero una decisione drammatica: decisero di nutrirsi dei corpi dei loro compagni morti. Questa scelta estrema, discussa per giorni, gli garantì di sopravvivere, ma per loro il dramma non era ancora terminato.
Il 29 ottobre, infatti, una valanga travolse la fusoliera, uccidendo otto persone. Non morirono tutti solamente perché Roy Harley era uscito dalla fusoliera quando aveva sentito il rumore della neve e non ne era stato completamente sommerso, riuscendo a tirare fuori diversi suoi compagni prima che la neve stessa si trasformasse in una lastra di ghiaccio.
Alcuni di loro, a quel punto, si convinsero di essere stati predestinati per portare in salvo i propri compagni.
Il 15 novembre, un mese dopo l’incidente, i sopravvissuti decisero che non potevano più aspettare. Quattro di loro organizzarono una spedizione in cerca di viveri e, soprattutto, di un contatto con la civiltà. Il tempo – nell’emisfero australe le stagioni sono inverse alle nostre – stava migliorando gradualmente, e sembrava potessero esserci le condizioni per spostarsi.
Se questa spedizione non portò ad alcun contatto con altre persone, permise però di ritrovare la coda dell’aereo, staccatasi durante l’impatto, con all’interno alcuni viveri e vestiti puliti. Tuttavia, il mancato salvataggio iniziò ad aumentare la frustrazione dei sopravvissuti.
A dicembre, due mesi dopo l’incidente, solo 16 dei 45 passeggeri del volo erano ancora vivi. La neve ormai si stava sciogliendo, ma i viveri erano di nuovo vicini alla fine e i sopravvissuti stavano arrivando allo stremo delle forze. A loro non rimase che tentare un’altra spedizione, stavolta con un obiettivo molto chiaro: raggiungere il Cile a piedi.
Roberto Canessa, Fernando Parrado e Antonio Vizintin furono scelti per portare a termine questo drammatico incarico, visto come l’ultima ancora di salvezza per il gruppo.
Dopo giorni di cammino, i tre videro le prime tracce di presenza umana, che presero le forme di alcune mucche al pascolo e di una scatoletta metallica abbandonata a terra. Dopo dieci giorni, incontrarono Sergio Catalan, un mandriano che lavorava in quella zona, cui spiegarono chi erano e, soprattutto, che c’erano 13 persone ad aspettarli.
Catalan provvide alle cure dei tre e, soprattutto, li mise in contatto con la polizia cilena, che avvisò le autorità. Il 23 dicembre da Santiago del Cile partirono due elicotteri per organizzare il soccorso dei sopravvissuti, che furono portati in salvo. Alcuni di loro avevano perso fino a 40 chili negli oltre due mesi in cui erano stati costretti ad arrangiarsi.
Negli anni successivi la loro storia fece il giro del mondo, al punto che vennero organizzate escursioni nel luogo dove cadde l’aereo e fu realizzato un film, Alive, che parla dell’incredibile vicenda. Nel 2005, durante un’escursione, un alpinista statunitense addirittura ritrovò un sacco contenente effetti personali di Eduardo José Strauch Uriaste, uno dei 16 sopravvissuti.

sabato 12 ottobre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 12 ottobre.
Il 12 ottobre 1938 iniziano le riprese del film "Il mago di Oz".
A distanza di oltre ottant’anni Il mago di Oz ci sembra privo di confini, capace di andare ben oltre le mura dei teatri di posa e di dare vita a una terra di mezzo spensierata, idealizzata, irraggiungibile per qualsiasi intruso malvagio.
Dorothy vive in una fattoria del Kansas con gli zii Emma e Henry. Trascinata da un violento tornado in un regno incantato con l’inseparabile cagnolino Toto, Dorothy dovrà trovare il potente mago di Oz per poter tornare dagli amati zii. Accompagnata dai suoi nuovi amici – uno spaventapasseri, un uomo di latta e un leone – Dorothy percorre il sentiero dorato verso la città di smeraldo, trovando sulla sua strada alberi parlanti, nani canterini, streghe belle e buone e streghe brutte e cattive…
Sarebbero bastati gli accesi cromatismi del Technicolor o le scarpette rosse di Dorothy per consegnare Il mago di Oz alla storia (del cinema), all’immaginario cinefilo e collettivo, ai sogni di generazioni e generazioni. Dietro la linearità del racconto e del celeberrimo sentiero dorato ci sono così tanti aneddoti, talenti, intuizioni, teorie e interpretazioni, intrecci artistici e produttivi da rendere davvero immortale il film di Fleming e della Metro Goldwyn Mayer. In un certo senso una pietra miliare che è ancora in divenire, in crescendo, una pellicola che continua a parlarci della magia del cinema, della potenza creativa di Hollywood.
Il mago di Oz è la festa dopo la Grande Depressione, è la crescita di Hollywood e della società a stelle e strisce. Ma è anche l’arcobaleno prima della tempesta, la parentesi dorata prima della Seconda guerra mondiale. Tra la realtà in bianco e nero della fattoria nel Kansas e i colori sgargianti di Oz possiamo scorgere altri piani narrativi, altre suggestioni. Il mago di Oz è una fertile cartina tornasole storica, sociale e produttiva.
Prima ancora di seguire il sentiero dorato, è interessante cercare di sbrigliare almeno un po’ la matassa produttiva che ha portato a questo fantasy/musical: insomma, non solo Fleming, ma anche George Cukor, Mervyn LeRoy, Norman Taurog, King Vidor e Richard Thorpe. In primis Thorpe, sostituito dopo un paio di settimane di riprese. L’investimento della MGM era imponente, il produttore Mervyn LeRoy si muoveva su un terreno alquanto franabile e l’immaginario di L. Frank Baum richiedeva una trasposizione all’altezza. Lo richiedevano schiere e schiere di lettori. E lo richiedeva, in fin dei conti, lo standard qualitativo imposto dallo straripante successo di Biancaneve e i sette nani, straordinario trampolino per Walt Disney e per l’animazione. Per ambizione e grandeur, Il mago di Oz è figlio di Biancaneve, ma anche genitore o genitrice dei musical successivi, dei successi minnelliani – si veda, in questo senso, l’analisi di Paolo Bertetto sulle influenze Oz/Minnelli in Metodologie di analisi del film (Laterza, 2006).
Scartata l’impostazione poco fanciullesca di Thorpe, Il mago di Oz viene indirizzato sul binario giusto da Cukor, che restituisce a Judy Garland la naturalezza e l’innocenza acqua e sapone. Per un motivo o per l’altro, alla guida del set passano più registi: una staffetta creativa che caratterizzava quel periodo hollywoodiano e che restituisce almeno in parte le difficoltà artistiche e produttive di LeRoy, della MGM e dei numerosi professionisti coinvolti. Basterebbero le prime scelte Shirley Temple (Dorothy) e Gale Sondergaard (la strega dell’Ovest), poi brillantemente sostituite dall’adolescente Garland e dalla poco avvenente Margaret Hamilton, per darci la misura di un risultato finale che è stata la summa di ripensamenti e avvicendamenti, e di una lavorazione sul set di un anno. Oppure la falange rumorosissima di nani chiamati a raccolta per impersonare i mastichini, con un centinaio di costumi e di trucchi preparati in cinque settimane di duro lavoro, o le dolorose scelte di montaggio, con Over the Rainbow inizialmente tagliata e poi saggiamente recuperata.
Il mago di Oz è una delle chiavi di volta di un periodo visivamente straordinario, ma è anche una più che istruttiva macchina del tempo: Biancaneve è del 1937, Oz e Via col vento sono del 1939, Il ladro di Bagdad del 1940, e nella perfida Albione l’impareggiabile coppia Powell & Pressburger stava per regalare al mondo Scala al paradiso (1946) e Scarpette rosse (1948). Progetti grandiosi, manifesti di un’estetica programmaticamente smisurata, veri e propri blockbuster creati per colmare di stupore gli occhi del pubblico. Di un vastissimo pubblico. Quello stesso stupore che prova Dorothy dopo aver aperto la porta di casa nel regno di Oz: il passaggio dal seppiato al Technicolor riesce a restituire la magnificenza della macchina cinema, rende palpabile un mondo immaginario, i colori impossibili, gli abitanti bizzarri. Fleming anticipa Ford e l’altrettanto emblematica apertura su un immaginario di Sentieri selvaggi. Cinema avanti di decenni. Anche adesso. Forse per sempre.
Il mago di Oz è un film che continua a restare sospeso tra vari piani. La realtà seppiata e la favola coloratissima, la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale, la storia per bambini e le tante allegorie rintracciate – dalla politica monetaria statunitense alla rilettura di Salman Rushdie, passando per l’afflato femminista e le riflessioni di Žižek. Ma anche la sovrapposizione tra l’immaturità di Dorothy, ancora in bilico tra infanzia e adolescenza, e la maturità della Garland, ragazzina dagli occhioni grandi e dal talento già adulto: un ruolo che le resterà dentro, che la accompagnerà su ogni palcoscenico, come le note di Over the Rainbow, malinconiche e forse profetiche.
In fin dei conti, la cartapesta e il Technicolor del regno di Oz non sono altro che il sogno di una via di fuga, come il View-Master Model J rosso di Nói Albínói (2003). Ma se lo stereoscopio rosso nutriva i sogni di Nói, tanto da trasformare nel finale una veduta tropicale in un paesaggio reale, le rosse scarpette di Dorothy la riportano a casa, verso la vera fiaba, l’unico luogo sognante, a farsi cullare dalla sua adolescenza di ragazzina del Kansas.
La tridimensionalità de Il mago di Oz è figlia della profondità di campo, delle angolazioni e prospettive, delle scenografie stratificate, della ricchezza architettonica e cromatica di un mondo ricostruito in interni, ma virtualmente senza confini. Ne Il mago di Oz svanisce il concetto di quarta parete, si dissolve, sovrastato da linee e colori, dalla certosina messa in scena di un immaginario a briglie sciolte.
I fondali dipinti ci invitano a guadare oltre, a scrutare un orizzonte che la nostra immaginazione può continuare a colorare. Come per le migliori pellicole d’animazione, ne Il mago di Oz rintracciamo quella straordinaria sospensione della verosimiglianza, quella totale adesione a un mondo altro che nel giro di una manciata di fotogrammi diventa tangibile, reale, assolutamente nostro.
All’ennesima visione, la struttura narrativa de Il mago di Oz ci sembra ancora una volta implacabilmente perfetta col suo ritmo cadenzato, misurato al millimetro, speculare. La cornice narrativa seppiata, attorno ai venti minuti, con una presentazione fugace ma efficace dei personaggi e poi il professor Meraviglia, imbroglione dal cuore d’oro che ha un senso solo in questa provincia rurale bonaria e lontanissima dalla Grande Depressione – almeno una menzione per gli effetti speciali di Gillespie, con l’impetuoso tornado di stoffa e il modellino volante della casa.
Dalla fattoria di Dorothy al palazzo di Oz lo schema si ripete, come le canzoni e le dinamiche tra i personaggi.
La morte accidentale della malvagia strega dell’est, l’accoglienza dei mastichini e la bella strega del nord, con il Munchkinland Medley e soprattutto Follow the Yellow Brick Road, coi mastichini che in coro accompagnano i primi titubanti passi di Dorothy lungo il sentiero dorato.
L’incontro con lo spaventapasseri senza cervello – If I Only Had a Brain e We’re Off to See the Wizard.
L’incontro col boscaiolo di latta senza cuore – If I Only Had a Heart e We’re Off to See the Wizard.
L’incontro con il leone senza coraggio – If I Only Had the Nerve e We’re Off to See the Wizard.
L’arrivo alla città di smeraldo, l’accoglienza festante degli abitanti, il confronto con la strega malvagia, il mago imbroglione e il ritorno della strega buona.
Il ritorno a casa e al bianco e nero.
There’s no place like home.
The End. Fine.
Perfetto.

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