Buongiorno, oggi è il 13 novembre.
Il 13 novembre 1917 ebbe inizio la prima battaglia del Piave.
Dal 13 al 26 novembre del 1917, nell’ambito della Prima guerra mondiale, il Regio esercito italiano e le armate dell’Impero tedesco e austroungarico si diedero battaglia lungo la linea del Piave, al confine fra Trentino e Veneto. L’evento è ricordato come Prima battaglia del Piave e si distingue dalla Seconda battaglia del Piave, avvenuta pochi mesi dopo, dal 15 al 22 giugno 1918.
Il particolare posizionamento era stato deciso come linea di ripiegamento al tempo dell’offensiva austroungarica in Trentino. Divenne quasi necessario dopo la disfatta di Caporetto.
La resistenza italiana, in particolare, combatté nel territorio compreso fra: il fiume Brenta, Col Moschin, Monte Grappa, Monte Tomba, Monfenera; a nord: Monti Fontana Secca, Prassalan, Roncon, Tomatino e nelle prealpi bellunesi.
Ad avanzare e retrocedere furono 15 divisioni italiane e 38 austroungariche. Gli italiani in battaglia, in particolare, si raccolsero nella terza e quarta armata, totalizzando 8.343 ufficiali e 219.694 soldati.
Il 27 ottobre del 1917, a seguito della drammatica vicenda di Caporetto, il generale Cadorna ordinò la ritirata verso il Piave. Un’orda di soldati avanzò fra Veneto e Trentino ritrovando sulla strada centinaia di migliaia di profughi. Mentre i nemici proseguirono nonostante la distruzione di ponti e tentativi di accerchiamento.
Il mese di Novembre fu tutto occupato da azioni di avanzamento e ritirata, attacchi e resistenze. Il 1° novembre la X armata austroungarica attaccò i fanti italiani in ritirata; il giorno 13 novembre la fanteria austroungarica venne arrestata da 8 battaglioni di alpini; il 14, il 15 e il 16 nuovi attacchi fecero contare gravissime perdite da entrambe le parti e numerosi prigionieri.
Il 17 novembre al Regio Esercito si aggiunsero: la “Brigata Gaeta”, i giovanissimi di Classe ’99. A seguire si aggiunsero numerose altre divisioni rimodulate da soldati fuggiti e sopravvissuti da precedenti compartimenti.
Nuovi attacchi avvennero dal 20 novembre sul Monte Pertica e nelle vicinanze di Alano di Piave, sul fronte del Monte Grappa. Ancora fino al giorno 26, quando 15 battaglioni austroungarico-tedeschi vennero respinti definitivamente da 12 battaglioni italiani, i quali segnarono la vittoria della resistenza.
Sono diverse le caratteristiche che spiegano la vittoria degli italiani nella Prima battaglia del Piave. A seguito della grave sconfitta di Caporetto, il morale delle truppe era a terra. Porsi sul Piave però, da quanto si evince dai documenti storici militari, diede alle truppe quel senso di difesa del territorio che era mancato in altre fasi del conflitto.
Essere sulla linea del Piave rese, cioè, molto più vivo il senso di difesa del Paese, alle spalle, dal nemico. Inoltre, gli italiani di Luigi Cadorna e poi Armando Diaz vinsero per un altro motivo: sempre memori degli errori di Caporetto, ridussero al minimo le circolari e la diffusione degli ordini.
Lo snellimento della burocrazia che aveva invece caratterizzato la fase precedente della guerra fece scaturire quella che gli storici definiscono la “difesa elastica”. Gli ufficiali del Regio Esercito disposero di una maggiore autonomia; il risultato fu di essere più veloci, più reattivi al nemico e al contempo più fermi moralmente dal punto di vista delle truppe sul territorio dello scontro.
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mercoledì 13 novembre 2024
martedì 12 novembre 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 12 novembre.
Il 12 novembre 1989 Occhetto pronunciò il discorso che diede inizio a quella che fu chiamata "la svolta della Bolognina".
Il 12 novembre del 1989 era domenica. Dalle 11 del mattino un gruppo di partigiani si era riunito in una sala comunale in via Tibaldi 17 a Bologna per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario della battaglia di Porta Lame, un episodio della Resistenza italiana combattuto in alcuni quartieri di Bologna, tra cui Lame, Bolognina e Corticella, poi inglobati nel quartiere Navile.
Achille Occhetto partecipò a sorpresa all’incontro. In sala erano presenti solo due cronisti, il primo dell’Unità, l’altro dell’Ansa. Occhetto chiese la parola e parlò per circa sette minuti per quello che doveva essere un discorso commemorativo, di circostanza. Occhetto disse che era tempo di «andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza (…) Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i reduci e gli disse: voi avete vinto la Seconda guerra mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni». Disse anche le parole poi diventate più celebri: era necessario «non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso». Al cronista che gli chiese se le sue parole lasciassero presagire che il PCI avrebbe potuto anche cambiare nome, lui rispose: «Lasciano presagire tutto».
La “svolta”, secondo il racconto più diffuso, fu annunciata da Occhetto senza consultare il partito e questo fatto gli verrà rimproverato. Il giorno dopo l’annuncio la prima pagina dell’Unità (il direttore a quel tempo era Massimo D’Alema) titolava «Il giorno di Modrow. La Repubblica democratica tedesca elegge un nuovo premier». Al centro si trovava l’articolo sulla “svolta della Bolognina” intitolato: “Occhetto ai veterani della Resistenza: «Dobbiamo inventare strade nuove»”.
Della “svolta” si discusse ufficialmente il 13 novembre in segreteria del PCI e per altri due giorni in Direzione. Il tutto venne però rinviato al Comitato Centrale, che si aprì il 20 dello stesso mese. In quei giorni iniziarono comunque a delinearsi le diverse posizioni all’interno del PCI: da una parte quella che potremmo definire “la destra” del partito, fedele a Occhetto, e dall’altra parte “la sinistra” che assunse un iniziale atteggiamento di prudenza. Almeno fino al rientro da Madrid di Pietro Ingrao, storico leader della sinistra del PCI, che dichiarò: «Non sono d’accordo con la proposta avanzata da Occhetto. Spiegherò il mio dissenso nel Comitato centrale». Tra i militanti, nel frattempo, la svolta era stata accolta con rabbia, proteste e in modo piuttosto drammatico. Palombella Rossa, film del 1989 di Nanni Moretti, raccontò a modo suo quella fase.
Il 20 novembre si aprì il Comitato Centrale a Roma in via delle Botteghe Oscure. I suoi 300 membri discussero della svolta per cinque giorni (venendo accolti da 200 militanti in protesta). Nella sua relazione introduttiva Occhetto affermò di «condividere il tormento» dei compagni, ma chiese: «Fino a quando una forza di sinistra può durare senza risolvere il problema del potere, cioè di un potere diverso?». Da qui l’idea di fare un nuovo partito con altri partiti di sinistra (la «sinistra diffusa») per poi andare al governo col PSI e altri e con la DC all’opposizione. Occhetto chiuse avvertendo però che «prima viene la cosa e poi il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica». Da quel momento in poi il dibattito sulla svolta della Bolognina sarà anche chiamato come il “dibattito sulla Cosa”. Nanni Moretti ci girò un documentario, intitolato appunto La Cosa, raccontando le discussioni – senza alcun commento – all’interno di alcune sezioni del Partito Comunista Italiano proprio nei giorni successivi alla proposta di Occhetto.
Il Comitato Centrale si concluse il 24 novembre con il voto di 326 membri su 374: i sì furono 219, i no 73 e gli astenuti 34. Il Comitato Centrale assunse la proposta del segretario «di dar vita ad una fase costituente di una nuova formazione politica», ma allo stesso tempo accettò la proposta delle opposizioni di indire un congresso straordinario entro quattro mesi. Il XIX e penultimo congresso del PCI si tenne dal 7 all’11 marzo del 1990. Le mozioni discusse furono tre: quella del segretario Achille Occhetto; quella firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che invece si opponeva ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; quella proposta da Armando Cossutta, simile alla seconda. Vinse la mozione di Occhetto con il 67 per cento delle preferenze: Achille Occhetto venne riconfermato segretario e pianse.
L’ultimo congresso del PCI si aprì il 31 gennaio del 1991 a Rimini (nel frattempo, alle elezioni regionali del 6 maggio del 1990 il PCI ottenne solo il 23,4 per cento a fronte del 33,4 per cento della Dc. Anche le iscrizioni furono in calo). «Cari compagni e care compagne, in molti sentono che è giunta in qualche modo l’ora di cambiare»: così iniziò l’ultimo discorso di Achille Occhetto come segretario del PCI. «Non si tratterà solo di cambiare targhe sulle porte delle sezioni, occorrerà andare a una grande opera di conquista e di proselitismo (…) Oggi è un momento importante della nostra vicenda collettiva e sarà un momento memorabile della storia politica d’Italia (…) Per costruire, con il compito, con l’orgoglio che vi guida, il futuro dell’Italia». La relazione di Occhetto durò due ore, fu appoggiata, tra gli altri, da Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Piero Fassino. E vinse di nuovo: il 3 febbraio di quell’anno nacque il Partito Democratico della Sinistra. Il simbolo era una quercia; falce e martello comparivano in piccolo alla base del tronco della quercia. Occhetto divenne il primo segretario del PDS e Stefano Rodotà venne eletto come primo presidente.
Contrari si riconfermarono Armando Cossutta, Alessandro Natta, Pietro Ingrao, Sergio Garavini e Fausto Bertinotti (fu il cosiddetto “Fronte dei no”). Un gruppo di delegati di questa opposizione decise di non aderire al nuovo partito e di dare vita a una nuova formazione politica che mantenesse nel nome la parola “comunista”: il 15 dicembre del 1991 nacque Rifondazione Comunista.
Il 12 novembre 1989 Occhetto pronunciò il discorso che diede inizio a quella che fu chiamata "la svolta della Bolognina".
Il 12 novembre del 1989 era domenica. Dalle 11 del mattino un gruppo di partigiani si era riunito in una sala comunale in via Tibaldi 17 a Bologna per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario della battaglia di Porta Lame, un episodio della Resistenza italiana combattuto in alcuni quartieri di Bologna, tra cui Lame, Bolognina e Corticella, poi inglobati nel quartiere Navile.
Achille Occhetto partecipò a sorpresa all’incontro. In sala erano presenti solo due cronisti, il primo dell’Unità, l’altro dell’Ansa. Occhetto chiese la parola e parlò per circa sette minuti per quello che doveva essere un discorso commemorativo, di circostanza. Occhetto disse che era tempo di «andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza (…) Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i reduci e gli disse: voi avete vinto la Seconda guerra mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni». Disse anche le parole poi diventate più celebri: era necessario «non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso». Al cronista che gli chiese se le sue parole lasciassero presagire che il PCI avrebbe potuto anche cambiare nome, lui rispose: «Lasciano presagire tutto».
La “svolta”, secondo il racconto più diffuso, fu annunciata da Occhetto senza consultare il partito e questo fatto gli verrà rimproverato. Il giorno dopo l’annuncio la prima pagina dell’Unità (il direttore a quel tempo era Massimo D’Alema) titolava «Il giorno di Modrow. La Repubblica democratica tedesca elegge un nuovo premier». Al centro si trovava l’articolo sulla “svolta della Bolognina” intitolato: “Occhetto ai veterani della Resistenza: «Dobbiamo inventare strade nuove»”.
Della “svolta” si discusse ufficialmente il 13 novembre in segreteria del PCI e per altri due giorni in Direzione. Il tutto venne però rinviato al Comitato Centrale, che si aprì il 20 dello stesso mese. In quei giorni iniziarono comunque a delinearsi le diverse posizioni all’interno del PCI: da una parte quella che potremmo definire “la destra” del partito, fedele a Occhetto, e dall’altra parte “la sinistra” che assunse un iniziale atteggiamento di prudenza. Almeno fino al rientro da Madrid di Pietro Ingrao, storico leader della sinistra del PCI, che dichiarò: «Non sono d’accordo con la proposta avanzata da Occhetto. Spiegherò il mio dissenso nel Comitato centrale». Tra i militanti, nel frattempo, la svolta era stata accolta con rabbia, proteste e in modo piuttosto drammatico. Palombella Rossa, film del 1989 di Nanni Moretti, raccontò a modo suo quella fase.
Il 20 novembre si aprì il Comitato Centrale a Roma in via delle Botteghe Oscure. I suoi 300 membri discussero della svolta per cinque giorni (venendo accolti da 200 militanti in protesta). Nella sua relazione introduttiva Occhetto affermò di «condividere il tormento» dei compagni, ma chiese: «Fino a quando una forza di sinistra può durare senza risolvere il problema del potere, cioè di un potere diverso?». Da qui l’idea di fare un nuovo partito con altri partiti di sinistra (la «sinistra diffusa») per poi andare al governo col PSI e altri e con la DC all’opposizione. Occhetto chiuse avvertendo però che «prima viene la cosa e poi il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica». Da quel momento in poi il dibattito sulla svolta della Bolognina sarà anche chiamato come il “dibattito sulla Cosa”. Nanni Moretti ci girò un documentario, intitolato appunto La Cosa, raccontando le discussioni – senza alcun commento – all’interno di alcune sezioni del Partito Comunista Italiano proprio nei giorni successivi alla proposta di Occhetto.
Il Comitato Centrale si concluse il 24 novembre con il voto di 326 membri su 374: i sì furono 219, i no 73 e gli astenuti 34. Il Comitato Centrale assunse la proposta del segretario «di dar vita ad una fase costituente di una nuova formazione politica», ma allo stesso tempo accettò la proposta delle opposizioni di indire un congresso straordinario entro quattro mesi. Il XIX e penultimo congresso del PCI si tenne dal 7 all’11 marzo del 1990. Le mozioni discusse furono tre: quella del segretario Achille Occhetto; quella firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che invece si opponeva ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; quella proposta da Armando Cossutta, simile alla seconda. Vinse la mozione di Occhetto con il 67 per cento delle preferenze: Achille Occhetto venne riconfermato segretario e pianse.
L’ultimo congresso del PCI si aprì il 31 gennaio del 1991 a Rimini (nel frattempo, alle elezioni regionali del 6 maggio del 1990 il PCI ottenne solo il 23,4 per cento a fronte del 33,4 per cento della Dc. Anche le iscrizioni furono in calo). «Cari compagni e care compagne, in molti sentono che è giunta in qualche modo l’ora di cambiare»: così iniziò l’ultimo discorso di Achille Occhetto come segretario del PCI. «Non si tratterà solo di cambiare targhe sulle porte delle sezioni, occorrerà andare a una grande opera di conquista e di proselitismo (…) Oggi è un momento importante della nostra vicenda collettiva e sarà un momento memorabile della storia politica d’Italia (…) Per costruire, con il compito, con l’orgoglio che vi guida, il futuro dell’Italia». La relazione di Occhetto durò due ore, fu appoggiata, tra gli altri, da Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Piero Fassino. E vinse di nuovo: il 3 febbraio di quell’anno nacque il Partito Democratico della Sinistra. Il simbolo era una quercia; falce e martello comparivano in piccolo alla base del tronco della quercia. Occhetto divenne il primo segretario del PDS e Stefano Rodotà venne eletto come primo presidente.
Contrari si riconfermarono Armando Cossutta, Alessandro Natta, Pietro Ingrao, Sergio Garavini e Fausto Bertinotti (fu il cosiddetto “Fronte dei no”). Un gruppo di delegati di questa opposizione decise di non aderire al nuovo partito e di dare vita a una nuova formazione politica che mantenesse nel nome la parola “comunista”: il 15 dicembre del 1991 nacque Rifondazione Comunista.
lunedì 11 novembre 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è l'11 novembre.
L'11 novembre del 2000 si ebbe il terribile disastro del Kitzseinhorn, in Austria.
Si sono salvati solo in otto, gli altri 155 sono morti. Intrappolati su una funicolare che avrebbe dovuto portarli sulle piste di sci e che si è invece trasformata in un inferno di fiamme sulle Alpi austriache.
E' stata una morte orribile, senza possibilità di fuga. Il treno incendiato era fermo sotto un tunnel lungo tre chilometri a 2.400 metri di altezza. Le vittime erano tutti sciatori che la funicolare stava trasportando al ghiacciaio del Kitzsteinhorn, vicino a Salisburgo. Giovani per lo più: molti - ha detto il governatore della regione, Franz Schausberger - andavano a partecipare oppure ad assistere a una gara di snowboard, organizzata sul ghiacciaio. Altri avevano deciso all'ultimo momento di andarsi a godere una giornata di sport, approfittando del tempo sereno e del sole smagliante. Il convoglio è andato completamente distrutto.
La maggior parte di loro è morta quasi sicuramente per asfissia. Le otto persone sopravvissute si sono messe in salvo attraverso un finestrino del convoglio.
L'incendio è avvenuto 600 metri dopo l'ingresso della funicolare nella galleria. A quel punto il convoglio si è fermato automaticamente all'interno della galleria che è lunga 3,2 km. Mentre bruciava la funicolare, l'altro convoglio che con sistema pendolare stava scendendo a valle è rimasto ugualmente bloccato.
Il Kitzsteinhorn è a 3.203 metri di altitudine. La funicolare porta gli sciatori in quota da Thoerl, nella valle di Kaprun fino alle piste. Il tragitto è lungo 3.800 metri, di cui 3.200 all'interno del tunnel. L'incendio sul treno si è sviluppato intorno alle 9,30 e, dopo avere considerato le valutazioni degli esperti, si è giunti alla conclusione che le fiamme del tunnel sotto al ghiacciaio si sono sprigionate da un radiatore difettoso: questo avrebbe perso dell'olio, che a sua volta si sarebbe infiammato.
In seguito si decise di mantenere in funzione il tunnel soltanto per il trasporto delle merci.
I turisti giungono ora alle pista di sci mediante una funivia inaugurata il 19 ottobre 2002.
L'11 novembre del 2000 si ebbe il terribile disastro del Kitzseinhorn, in Austria.
Si sono salvati solo in otto, gli altri 155 sono morti. Intrappolati su una funicolare che avrebbe dovuto portarli sulle piste di sci e che si è invece trasformata in un inferno di fiamme sulle Alpi austriache.
E' stata una morte orribile, senza possibilità di fuga. Il treno incendiato era fermo sotto un tunnel lungo tre chilometri a 2.400 metri di altezza. Le vittime erano tutti sciatori che la funicolare stava trasportando al ghiacciaio del Kitzsteinhorn, vicino a Salisburgo. Giovani per lo più: molti - ha detto il governatore della regione, Franz Schausberger - andavano a partecipare oppure ad assistere a una gara di snowboard, organizzata sul ghiacciaio. Altri avevano deciso all'ultimo momento di andarsi a godere una giornata di sport, approfittando del tempo sereno e del sole smagliante. Il convoglio è andato completamente distrutto.
La maggior parte di loro è morta quasi sicuramente per asfissia. Le otto persone sopravvissute si sono messe in salvo attraverso un finestrino del convoglio.
L'incendio è avvenuto 600 metri dopo l'ingresso della funicolare nella galleria. A quel punto il convoglio si è fermato automaticamente all'interno della galleria che è lunga 3,2 km. Mentre bruciava la funicolare, l'altro convoglio che con sistema pendolare stava scendendo a valle è rimasto ugualmente bloccato.
Il Kitzsteinhorn è a 3.203 metri di altitudine. La funicolare porta gli sciatori in quota da Thoerl, nella valle di Kaprun fino alle piste. Il tragitto è lungo 3.800 metri, di cui 3.200 all'interno del tunnel. L'incendio sul treno si è sviluppato intorno alle 9,30 e, dopo avere considerato le valutazioni degli esperti, si è giunti alla conclusione che le fiamme del tunnel sotto al ghiacciaio si sono sprigionate da un radiatore difettoso: questo avrebbe perso dell'olio, che a sua volta si sarebbe infiammato.
In seguito si decise di mantenere in funzione il tunnel soltanto per il trasporto delle merci.
I turisti giungono ora alle pista di sci mediante una funivia inaugurata il 19 ottobre 2002.
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