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martedì 3 dicembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 3 dicembre.
Il 3 dicembre 1914 inizia la battaglia di Al- Qurna.
Già agli albori del XX secolo, le strategie polito-strategico-militari nell'area del Golfo Persico erano legate al destino dei campi petroliferi della Persia sud-occidentale, sfruttati in quel periodo dalla Gran Bretagna. La vicinanza di questi campi con i confini dell'impero Turco, nuovo alleato austro-tedesco, creò un ovvio motivo di forte interesse britannico ad agire nell'area. A questi grandi interessi economici, da parte inglese vennero aggiunti motivi di altra natura per agire militarmente in quelle aree che, seppur non sotto il controllo diretto di Londra, vivevano in una sorta di protettorato militare britannico; Maometto V infatti, da Costantinopoli, aveva lanciato il proclama della "guerra santa" di tutti i musulmani contro l'Impero britannico, cosa che avrebbe avuto un effetto assai negativo sulla popolazione musulmana tra i sudditi dell'India.
La prima azione bellica nel Golfo Persico fu il bombardamento di forte Fao, chiave strategica per la raffineria di Abadan, il 6 novembre, giorno in cui le truppe anglo-indiane sbarcarono e intrapresero una rapida avanzata. La Brigata indiana prese rapidamente Abadan, sede di una importante raffineria e capolinea della conduttura proveniente da Ahwaz. Con la perdita di Abadan, la posizione turca andava complicandosi: all'alba dell'11 novembre le forze ottomane attaccarono l'accampamento britannico ma vennero sconfitte e dovettero ritirarsi. Il 19 novembre i britannici raggiunsero le posizioni ottomane nei pressi di Sahil ma una bufera ne rallentò l'avanzata. Dopo aver abbattuto le difese nemiche, i britannici inflissero pesanti perdite al nemico. L'esercito ottomano fu costretto a ritirarsi lasciando Bassora priva di difese e il 21 novembre il 104 reggimento di fucilieri Weesley ed il 117 reggimento indiano Mahrattas occupò la città, per poi, risalire il corso del fiume Tigri con obiettivo Qurna.
Il 3 dicembre, gli ottomani si fortificarono ad Al Qurna stessa. Una forza britannica, composta da due battaglioni indiani; il 104° fucilieri del Wellesley e il 110° fanteria leggera Mahratta, e una doppia compagnia di soldati britannici deal Norfolk Regiment accompagnato da diversi pezzi d'artiglierie. Le navi della Royal Navy sull'Eufrate tenevano gli Ottomani sotto un fuoco di sbarramento incessante mentre le truppe britanniche attraversavano il Tigri. Le truppe britanniche e indiane avanzavano quindi in campo aperto, ma solo dal 6, rafforzate dal resto del Norfolk Regiment, il 7° Rajput e 120° Fanteria insieme ad alcuni cannoni da montagna, cercarono una nuova decisiva avanzata. Gli Ottomani, da par loro, si erano trasferiti di nuovo sulle posizioni che avevano perso nel precedente attacco inglese, così, britannici e indiani dovettero combattere duramente per riprendere quelle stesse posizioni. Anche in questo attacco, riuscirono a spingere gli ottomani indietro, ma non fu abbastanza per attraversare il fiume nei pressi di Qurna. L'8, il 104° e 110° Fanteria furono inviati per un meticoloso pattugliamento sul Tigri per trovare un luogo adatto all'attraversamento. Riuscirono nell'intento, tanto che furono in grado di tagliare agli Ottomani la ritirata verso nord, mentre le cannoniere persistevano in un'azione di bombardamento efficace delle postazioni nemiche in città. La notte dell'8 un piroscafo ottomano navigò lungo il fiume con luci e sirene accese, ed il Comandante Wilfrid Nunn, a capo della cannoniera britannica Espiegle, diede accesso a bordo a tre ufficiali ottomani per le negoziazioni in cui gli Ottomani specificavano di voler cedere la città per poi ritirarsi. Nunn, che non era in contatto con Fry, insistette per una resa incondizionata, richiesta che sconvolse gli ottomani, che si convinsero a dover accettare. Il 9 dicembre, il comandante ottomano, il colonnello Subhi Bey, il Wali o governatore di Bassora, si arresero con tutte le loro forze, consegnando come prigionieri, insieme a loro ben 42 ufficiali ottomani e 989 soldati. Le perdite britannico-indiane furono di circa 27 soldati uccisi e 242 feriti mentre, dal punto di vista delle forze navali i britannici ebbero due marinai uccisi e 10 feriti.
I britannici si fermarono a Qurna, accontentandosi di monitorare le mosse del nemico che andava comunque rinforzandosi. Così, entro la metà di dicembre del 1914, il fronte della Mesopotamia meridionale si era stabilizzato e anche considerando le difficili condizioni in cui si trovava, l'armata anglo-indiana aveva, nel periodo tra il novembre ed il dicembre 1914, compiuto un piccolo capolavoro per rapidità ed efficienza, riuscendo a mettere sotto il proprio controllo l'oleodotto persiano e consentendo alle navi britanniche di risalire indisturbate lo Shatt-el-Arab sino alla raffineria di Abadan.

lunedì 2 dicembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 2 dicembre.
Il 2 dicembre 1804 Napoleone Bonaparte si autoincorona imperatore dei francesi.
Altro che Royal Wedding, come gli inglesi chiamano i matrimoni dei loro rampolli che si lasciano poi rubare la scena dal golosissimo lato b della sorella della sposa. Quello che si compì il 2 dicembre del 1804 nella Chiesa di Nôtre Dame, a Parigi, fu il più fastoso, dispendioso quant’altri mai, presuntuoso oltre ogni immaginazione funerale celebrato alla storia passata degli uomini sotto le apparenze di voler glorificare la presente e inaugurare la futura.
Dieci anni di trionfi non sarebbero bastati, al protagonista di quella messinscena, ad evitare Waterloo, passato – da nome di una radura acquitrinosa alla periferia di Bruxelles – a termine eponimo di disastro, disfatta totale. Napoleone Bonaparte, questo il nome del personaggio, volle essere incoronato “imperatore” per una ragione molto precisa: disse che la parola “re” avrebbe implicato un riferimento alla monarchia e alla connessa idea di genealogia. Lui, invece, non si considerava discendente di nessuno. Non aveva padri. Era lui e basta.
Scelse la cattedrale di Parigi invece di quella di Reims, dove erano stati incoronati tutti i re francesi, anche per questo motivo. Permise al papa di presenziare, ma solo per impartire una benedizioncella finale. Per il resto della cerimonia – lunghissima, oltre cinque ore, alla fine della quale metà dei presenti si mise a letto per sopravvenute complicanze di natura cardiorespiratoria perché faceva un freddo cane e tutti erano vestiti piuttosto leggeri – gli offrì rigorosamente le spalle.
In mancanza delle canoniche “televisioni di tutto il mondo” l’incarico di rendere memorabile la giornata – o meglio il suo momento culminante – fu affidato al più grande dei pittori francesi allora viventi, Jeacques-Louis David, il quale realizzò l’immenso quadro che sempre si accompagna al ricordo dell’evento.
 Vi sono raffigurati – analiticamente, uno per uno – tutti i dignitari, gli amici e i parenti che assistettero alla cerimonia. Fare un ritratto è già difficile, metterne insieme tanti è un’impresa folle, di cui si può avere qui una introduzione di massima.
Il quadro di David presenta altri aspetti interessanti. Quello più evidente è dato dal fatto che la scena, con quegli archi a tutto sesto e i pilastri da chiesa barocca, non ricorda affatto la Nôtre Dame che conoscono i turisti e gli appassionati del gotico. Ma David non si è sbagliato né ha lavorato di fantasia. Ha ripreso la scena così come si trovava dopo che, anni prima, il presbiterio della cattedrale era stato rimaneggiato in forme, appunto, barocche. Degli archi a sesto acuto resta solo una vaga citazione nella forma cuspidata delle mitrie di qualche arcivescovo sparso. Il papa stesso, in un cantuccio al di là di un personaggio in piedi, ha soltanto lo zuccotto.
L’altro aspetto interessante è legato alla storia del dipinto. Che inizialmente prevedeva di fissare non il momento in cui l’Imperatore incorona la moglie inginocchiata ai suoi piedi (corse voce che in realtà fosse inciampata sui vestiti troppo lunghi come Jennifer Lawrence alla consegna degli Oscar), ma quello in cui lui, Napoleone Bonaparte, si incorona da sé, mentre il papa, depresso, se ne sta lì dietro buono buono. Neanche in quell’atteggiamento stancamente benedicente che si vede nel quadro. (E così doveva davvero essere, il povero Pio VII, se perfino nella cattedrale di Chiavari, la città ligure in cui sostò tre giorni nel corso del viaggio che lo avrebbe portato in Francia, il pittore che rappresentò i cittadini accorsi a rendergli omaggio lo dipinse accasciato su una sedia, più psicologicamente abbattuto che stanco della carrozza).
Dunque in un primo tempo la scena doveva essere quella del disegno preparatorio. Ma forse David ebbe paura di fissarla, perché avrebbe significato quel che in effetti Napoleone intendeva significare, ma era meglio che non venisse gridato, e cioè che non c’era altro dio al di fuori di lui. Che quell’altro, che aveva regnato per tanti secoli, poteva starsene lì in disparte, tanto nessuno lo avrebbe disturbato. Purché, ovviamente, non fosse lui a voler disturbare qualcuno. E men che meno quella parodia di Cesare e di Augusto che gli dava le terga.
David scelse l’altra soluzione, di cui il suo committente si rallegrò fortemente perché – disse – rendeva omaggio anche a colei che da quel momento avrebbe regnato con lui. Bugia grande come una casa perché era comunque lui che la stava incoronando e il gesto non era reciproco. E i simboli contano.
Molti, da allora in poi, hanno scelto di commentare il momento e il relativo quadro richiamandosi alla tradizione di potere (da Augusto a Carlo Magno e poi, su su, fino all’ultimo discendente del Sacro Romano impero) che il nuovo imperatore intendeva inaugurare nello stesso tempo confermandola nei suoi simboli e negandola delle sue pretese.
C’è però un’altra possibilità di leggere la scelta davidiana. E riguarda l’uomo così come l’Empereur volle pensarlo. La filosofia, fin dai suoi esordi, volle richiamarsi alla iscrizione del tempio di Delfi che suggeriva, all’uomo che volesse diventare finalmente umano, di conoscere se stesso.
“Conosci te stesso” fu il motto di Socrate. Che però si presentava problematico, perché ammettendo pure che uno possa cercare di conoscere se stesso, che ne è di quell’altro lui – più grande – che è impegnato nell’operazione che ha se stesso per oggetto? Come la sfericità della Terra si può osservare soltanto dalla Luna o da qualche altro pianeta o stella, così l’uomo, per conoscersi, ha sempre avuto bisogno di uscire da sé, di essere altro da sé. Maggiore di sé.
Il potere, ossia la rappresentazione astratta che l’uomo dà della propria condizione rispetto alle altre creature, ha sempre preso atto di questo paradosso: chi incoronava intendeva sempre significare all’incoronato: sei re, ma se hai il potere sugli altri, è perché te lo ha dato un altro. Non ci si può incoronare con le proprie mani come – dice Jovanotti – non ci si può togliere la sete ingoiando la saliva.
Napoleone osò dichiarare decaduta questa tradizione: l’altro, l’uomo più grande di sé che può conoscere se stesso e, attraverso se stesso, consentire al mondo di riconoscersi, sono io, disse a se stesso e al mondo. Sono la luce del mondo (Apollo, come lo raffigurò Canova). Jacques-Louis David si ritirò di fronte a questa sontuosa forma di tracotanza, di ybris come l’avrebbero detta i greci. Fedor Dostoevskij ne fece il contenuto del suo magnifico “Delitto e Castigo”, il cui protagonista Raskol’nikov si richiama continuamente, nella sua malvagità, al Grande Corso.
Il giorno di Waterloo era comunque lì in attesa, sornione.

domenica 1 dicembre 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il primo dicembre.
Il primo dicembre 1913 Henry Ford introduce la catena di montaggio nei suoi stabilimenti per la produzione di automobili.
La catena di montaggio nasce tra Ottocento e Novecento, quando l’ingegnere Frederick Taylor mette a punto il suo sistema di organizzazione scientifica del lavoro. Il processo produttivo viene scomposto in parti semplici e ogni operaio ne compie una. Il lavoro si squalifica, ma la produttività cresce in modo impressionante.
Essa è generalmente costituita da un nastro trasportatore, che scorre portando con sé le diverse parti da assemblare per ottenere il prodotto finito. Ogni operaio può così montare un unico pezzo alla volta, tramite movimenti ripetitivi e meccanici, con un notevole risparmio dei tempi di produzione, ma anche con una rigida divisione dei compiti che affida a ciascun addetto un’unica mansione specifica da ripetere ininterrottamente.
La catena di montaggio venne perfezionata e utilizzata per la prima volta nel 1913 nella fabbrica automobilistica dell’americano Henry Ford, riducendo i tempi necessari a produrre una singola autovettura da 12 ore ad un’ora sola.
Sull’esempio delle industrie Ford questo sistema di produzione seriale si diffuse velocemente in tutti i maggiori impianti industriali dell’epoca. La nuova tecnica, conosciuta anche con il termine di fordismo, divenne uno dei pilastri fondamentali dell’economia del XX secolo e rivoluzionò l’organizzazione della produzione a livello globale con l’avvio dei consumi di massa, grazie alla standardizzazione dei prodotti e la riduzione dei costi e prezzi.
La catena di montaggio fu però subito anche criticata da coloro che ritenevano che questo sistema di lavoro, altamente ripetitivo e meccanico, provocasse alienazione della psiche, e disturbi motori negli operai costretti a gesti ripetitivi, in rapida successione e privi di contenuto professionale. Le problematiche connesse all’utilizzo delle catene di montaggio furono rese celebri dal famosissimo film di Charlie Chaplin, Tempi moderni, che descrive in maniera molto efficace gli effetti stressanti ed alienanti che tale metodo produceva negli operai addetti.
Nei moderni impianti industriali tali problemi sono stati ormai superati con l’automazione delle catene di montaggio, cioè affidando le mansioni più pericolose e ripetitive a robot industriali e riducendo così notevolmente gli effetti negativi sugli uomini legati alla produzione in serie.

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