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lunedì 24 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 24 marzo.

Il 24 marzo 1401 l'imperatore Tamerlano saccheggia Damasco.

Nato a Samarcanda nell'anno 1336, Timur Barlas o Temur-i lang (Temur "lo zoppo"), italianizzato in Tamerlano, visse per quasi settant'anni, affermandosi come il conquistatore più feroce della storia. Se dobbiamo credere a quanto raccontavano i suoi nemici il signore della guerra tartara, che nel XIV secolo creò un impero che si estendeva dalla Cina fino al cuore dell'Asia Minore, fu proprio il più sanguinario di tutti i tempi.

Il suo esercito composto di arcieri mongoli e di Tartari armati di scimitarra, devastò l'Asia dalla Siria e dalla Turchia, fino ai confini della Cina, da Mosca a Delhi. Tamerlano era spietato con i nemici che resistevano, persino con le loro famiglie.

In Siria Tamerlano accolse una domanda di grazia di migliaia di cittadini terrorizzati consigliando loro di rifugiarsi nella grande moschea.

Secondo uno storico contemporaneo, che probabilmente volle diffamare Tamerlano, i suoi luogotenenti fecero entrare circa 30.000 persone tra donne, bambini, preti e altri fuggiaschi nella costruzione di legno, sbarrarono tutte le uscite e poi diedero fuoco al gigantesco santuario.

Stessa misericordia venne concessa dal conquistatore agli anziani di Sivas, in Turchia. Disse che non ci sarebbe stato alcun spargimento di sangue se i difensori della città si fossero arresi. Ed invece quattromila soldati armeni che avevano animato la resistenza turca furono sepolti vivi, i cristiani furono strangolati o legati e poi annegati, e i bambini furono raggruppati in un campo dove vennero uccisi sotto gli zoccoli della cavalleria mongola.

Tra le pratiche più ricorrenti c'era la decapitazione di massa. Quando i Tartari annientarono un presidio di crociati a Smirne, sulla costa turca, navi cariche di rinforzi provenienti dall'Europa si presentarono davanti alla costa; gli uomini di Tamerlano indussero i nuovi venuti ad arretrare lanciando loro contro una raffica di teste umane, erano quelle mozzate dei prigionieri.

Dopo aver conquistato la città di Aleppo, in Siria, costruirono piramidi alte cinque metri con il lato di tre, usando le teste di ventimila cittadini.

Queste macabre torri dovevano servire da monito per chi non temeva l'ira di Tamerlano. La più grande fu eretta nel 1387 dopo che una ribellione generale a Isfahan (nell'odierno Iran) aveva portato al massacro di tremila soldati dell'esercito di occupazione di Tamerlano.

Informato della rivolta, Tamerlano ordinò ai suoi comandanti di raccogliere teste umane, stabilendo quante ciascuno di essi doveva procurare.

Alcuni dei soldati erano musulmani come lo stesso Tamerlano, ed erano riluttanti ad uccidere altri musulmani, comprarono perciò da compagni meno scrupolosi le teste che avrebbero dovuto mozzare. Il risultato fu un disgustoso mercato di morte.

All'inizio, le teste iraniane venivano vendute a venti dinari ciascuna, alla fine la quota era scesa a mezzo dinaro. Quando ormai sazio di sangue l'esercito se ne andò, settantamila teste erano accatastate attorno alle mura della città.

Tamerlano dedicò tutta la sua vita alla guerra. Il gusto della battaglia era in lui così forte che persino quando tornava a Samarcanda, per celebrare le sue vittorie, preferiva accamparsi fuori dalle mura anziché alloggiare in un lussuoso palazzo.

Nel 1404 l'imperatore iniziò a radunare uno sterminato esercito per la conquista della Cina, da dove i mongoli della Dinastia Yuan, fondata da Kublai Khan, nipote di Gengis Khan, erano stati cacciati nel 1368 dalla Dinastia Ming.

L'impresa, secondo la consueta strategia di Tamerlano di iniziare le proprie campagne nei mesi invernali in modo da cogliere di sorpresa il nemico, prese avvio nel dicembre del 1404 quando il grande esercito guidato da Tamerlano si mosse da Samarcanda, ma fallì sul nascere. Il clima dell'Asia Centrale era tremendo, ma quel periodo era stato scelto con consapevolezza nella convinzione che lo avrebbe agevolato, consentendogli di attraversare il Syr Darya sul ghiaccio solido e di raggiungere la Cina in primavera. Tamerlano fu tuttavia colto da fortissime febbri, forse causate da polmonite, e la sua pur fortissima fibra cedette. La morte avvenne il 19 gennaio 1405 a Otrar, appena al di là del Syr Darya, in territorio oggi kazako.

Il corpo di Tamerlano fu esumato dalla sua tomba nel Mausoleo Gur-e Amir a Samarcanda nel 1941 dall'antropologo russo Mikhail M. Gerasimov, il quale scoprì che - malgrado la statura molto alta dello scheletro - le caratteristiche facciali si conformavano a fattezze mongolidi; secondo lui questo confermava la pretesa dello stesso Tamerlano di discendere da Gengis Khan. L'esumazione confermò inoltre che il morto era zoppo per una ferita alla gamba destra. Vi erano tracce di altre ferite che avevano invalidato l'uso del braccio destro. Dal teschio, Gerasimov riuscì anche a ricostruire l'aspetto di Tamerlano.

domenica 23 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 23 marzo.

Il 23 marzo 1989 i ricercatori Stanley Pons e Martin Fleishmann annunciano di essere riusciti a generare la cosiddetta "fusione fredda".

Un’energia pulita, economica, sostenibile e pressoché illimitata. Queste le mirabolanti promesse che aleggiano attorno al meccanismo della cosiddetta fusione nucleare fredda. Ovvero, per dirla in parole semplici, una replica di quello che accade nel nucleo delle stelle – dove atomi leggeri si fondono tra loro emettendo energia – ma realizzata a temperature infinitamente più basse. Se state pensando che è troppo bello per essere vero, avete quasi certamente ragione: al momento, tutte le evidenze sperimentali indicano con chiarezza che la fusione nucleare fredda, semplicemente, non esiste. Ultima in ordine di tempo quella osservata da un’équipe di scienziati finanziati da Google, che per due anni hanno indagato il fenomeno arrivando ahinoi alla conclusione che “non c’è alcuna prova dell’esistenza della fusione fredda”. Tuttavia, come spesso accade nella scienza, il tempo passato a studiare un fenomeno che non esiste è tutt’altro che sprecato: gli sforzi dei debunker hanno infatti portato a una serie di scoperte collaterali che potrebbero avere ricadute tecnologiche inaspettate e imprevedibili.

Ripercorriamo la vicenda cominciando dall’inizio. È il 23 marzo del 1989, e siamo nei laboratori della University of Utah di Salt Lake City, in Utah, Stati Uniti. Due ricercatori, Stanley Pons e Martin Fleischmann, mostrano al mondo una macchina da laboratorio, dalle dimensioni relativamente contenute e a loro dire in grado di produrre una grande quantità di energia attraverso la fusione di due nuclei di deuterio (un isotopo pesante dell’idrogeno). Sostanzialmente, la macchina sarebbe riuscita (sempre a detta di Pons e Fleischmann) a riprodurre le reazioni nucleari che avvengono nel nucleo del Sole e delle altre stelle, a temperature di milioni di gradi, sprigionando così enormi quantità di energia. Il dispositivo era sostanzialmente una cella elettrolitica, ossia un contenitore in vetro riempito con acqua pesante (cioè acqua in cui l’idrogeno è sostituito dal deuterio) in cui erano immersi due elettrodi: facendo passare della corrente attraverso la cella, l’acqua si scomponeva nei suoi costituenti, ossigeno e deuterio. I due scienziati dissero di aver tenuto acceso il loro sole per alcuni giorni, continuando a far circolare la corrente elettrica e rimboccando di tanto in tanto la cella di acqua, e di aver osservato degli occasionali e improvvisi aumenti di temperatura del liquido. Che, spiegarono, non erano imputabili a reazioni chimiche note, ma per l’appunto a un meccanismo in cui due nuclei di deuterio si fondevano insieme formando un nucleo di elio (l’isotopo 3He), la liberazione di un neutrone e l’emissione di raggi gamma. Ovvero, in altre parole, a un fenomeno di fusione nucleare. Boom.

È facile immaginare la reazione della comunità scientifica – e, più in generale, di tutta l’opinione pubblica – davanti a un annuncio di questa portata. Se la scoperta di Fleischmann e Pons fosse stata confermata, si sarebbe immediatamente aperta una nuova felicissima era. In cui sarebbero stati risolti in un sol colpo tutti i problemi legati all’utilizzo dei combustibili fossili, vista la possibilità di produrre energia a basso costo senza rilasciare anidride carbonica, e della fissione nucleare, meccanismo che, al contrario della fusione, coinvolge atomi pesanti e quindi molto radioattivi. Però, come si diceva all’inizio, il sogno è troppo bello per essere vero. E presto è arrivato il momento di aprire gli occhi. Le dichiarazioni e soprattutto il protocollo di Fleischmann e Pons sono state passate sotto l’attento vaglio della comunità scientifica, che non ha impiegato troppo tempo a rendersi conto che non tutti i conti tornavano: i dati relativi all’emissione di neutroni, raggi gamma e l’eventuale presenza di elio non supportavano affatto l’idea di una reazione nucleare. Tutti i ricercatori che hanno cercato di riprodurre gli esperimenti di Fleischmann e Pons non sono riusciti a ottenere gli stessi risultati né tantomeno a rivelare la presenza di neutroni come prova dell’avvenuta reazione nucleare. Tanto che la rivista Nature, a novembre del 1989, ha smentito ufficialmente la scoperta. E lo Us Department of Energy ha dichiarato espressamente che non sussisteva alcuna base teorica né sperimentale per parlare di fusione fredda. Argomento chiuso e archiviato per sempre, quindi? Tutt’altro.

Nel trentennio successivo, diverse équipe di scienziati hanno continuato a credere nel sogno della fusione fredda, cercando di riprodurre i risultati dichiarati da Fleischmann e Pons – e imbarcandosi addirittura in avventure che di scientifico avevano ben poco, come nel caso dell’E-Cat di Rossi e Focardi, ma questa è un’altra storia – senza ottenere alcun risultato degno di nota. Lo sforzo più significativo, di cui finalmente siamo arrivati a conoscere gli esiti, è quello avviato da Google nel 2015. Big G, in particolare, ha assoldato trenta ricercatori, afferenti a diversi laboratori in tutto il mondo, affidando loro il compito di ricontrollare pedissequamente il lavoro e i risultati di Fleischmann e Pons e di “sviluppare una serie di esperimenti, rigorosi e riproducibili, per determinare se esistono delle condizioni sperimentali (e quali siano queste condizioni) in cui potrebbe avere luogo la fusione fredda”. Dopotutto, ragionavano pragmaticamente a Google, “the absence of evidence is not the evidence of absence”: l’assenza di prove (in questo caso a supporto della fusione fredda) è diversa, in linea di principio, dalle prove di assenza.

I risultati degli studi e degli esperimenti sono stati pubblicati su Nature. Tagliamo corto: “I successivi fallimenti di riprodurre l’effetto [dichiarato da Fleischmann e Pons, ndr] hanno accentuato lo scetticismo di questa affermazione nella comunità accademica, e hanno effettivamente portato all’esclusione di questo campo di ricerca da studi più approfonditi”, scrivono nel paper. “Motivati dalla possibilità che tali giudizi siano stati prematuri, abbiamo intrapreso un programma multi-istituzionale per riesaminare la fusione fredda con i più alti standard di rigore scientifico. In questo articolo descriviamo i nostri sforzi, che ancora non hanno fornito alcuna prova dell’esistenza di questo effetto”. In sostanza, dicono gli scienziati, la fusione fredda continua a essere un fenomeno al momento inosservabile. C’è ancora, però, una tenue speranza. E una stoccata ai debunker dell’epoca: “Il nostro progetto”, continuano, “ha mostrato quanto è difficile riprodurre le condizioni sperimentali in cui, in linea teorica, la fusione fredda potrebbe aver luogo: il fenomeno potrebbe avvenire, ma con una probabilità davvero molto remota. In ogni caso, il nostro risultato, date le difficoltà osservate, suggerisce che il debunking del 1989 potrebbe essere stato prematuro”.

Tra l’altro, va evidenziato che gli sforzi degli scienziati hanno prodotto risultati che vanno al di là del campo della fusione fredda: per realizzare i loro esperimenti, i ricercatori hanno dovuto per esempio mettere a punto dei calorimetri in grado di funzionare in condizioni estreme, e sviluppare tecniche per produrre e caratterizzare materiali altamente idrati. Serviranno a qualcosa? Ne è valsa la pena? Bisogna proseguire in questa linea di ricerca? Come spesso accade nella scienza, che procede a zig-zag e per collegamenti sommersi, è difficile stabilirlo a priori. E dunque, al momento, non possiamo far altro che attendere.

sabato 22 marzo 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


Buongiorno, oggi è il 22 marzo.

Il 22 marzo 1959 si ebbe l'incidente della diga sul lago di Pontesei, avvisaglia di quello che sarebbe successo qualche anno più tardi al Vajont.

Nel marzo del 1959 la diga di Pontesei, nel comune di Zoldo Alto (Belluno), era in fase di completamento a poca distanza da quella del Vajont e faceva parte dello stesso sistema idroelettrico che collegava gli impianti degli affluenti del Piave (sistema Piave-Boite-Maè-Vajont). Concepita nel progetto iniziale della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) del 1939, sarà realizzata soltanto dopo la metà degli anni '50, quando la crescente domanda di energia elettrica nell'Italia del boom economico determinò l'accelerazione dei lavori al sistema che collegava gli affluenti del Piave al confine tra Veneto e Friuli.

Lo sbarramento del lago di Pontesei, alimentato dal torrente Maè, fu completato nel 1960 ed alimentava le turbine della centrale omonima con un salto idraulico di circa 90 metri alla quota di 735 m/slm lungo la strada che collega Longarone con Forno di Zoldo, lungo la vallata prospiciente a quella dove era cominciata la costruzione della diga del Vajont. La distanza tra il lago di Pontesei e il centro di Longarone è di appena 13 chilometri.

L'anno prima dell'entrata in funzione della centrale idroelettrica, il 22 marzo 1959, domenica delle Palme, l'incidente.

Durante le prove d'invaso precedenti il collaudo, con il livello del bacino mantenuto a 13 metri sotto la portata massima, i tecnici della S.A.D.E. iniziarono a notare chiazze di acqua giallastra nelle acque del lago di Pontesei, seguite poco dopo da inquietanti brontolii provenienti dal ventre della montagna. Per precauzione iniziarono le operazioni di svuotamento dell'invaso mentre veniva monitorato il movimento dello smottamento del fronte della montagna ormai fradicio d'acqua infiltrata dalle acque del lago. Mentre si svolgevano ancora le operazioni di messa in sicurezza, la frana accelerò e in meno di un minuto circa 3 milioni di metri cubi di detriti piombarono nelle acque gelide del bacino, generando un'onda di piena alta oltre 20 metri. Per la medesima causa che determinerà la tragedia alla vicina diga del Vajont appena 4 anni più tardi, soltanto per un caso vi fu una sola vittima. La massa d'acqua e fango generata dal fianco del Fagarè (sponda sinistra del lago) investì il custode dell'impianto Arcangelo Tiziani, il cui corpo non verrà mai ritrovato. A causa della frana e della massa di fango rimasero isolati i tre comuni di Zoldo Alto, Forno di Zoldo e Zoppé (6.500 abitanti complessivamente).

Nonostante le similitudini geomorfologiche tra le due dighe dello stesso sistema, dopo l'incidente di Pontesei i responsabili della Società Adriatica (che poco dopo sarebbe stata nazionalizzata nell'Enel) non fecero tesoro dell'esperienza dell'incidente del 1959. Le omissioni su quella frana che anticipò il disastro del 1963 emersero durante l'iter giudiziario sulla strage del Vajont, quando nel 1969 fu ascoltata la deposizione dell'Ing. Camillo Linari, responsabile dell'impianto di Pontesei. Scampato egli stesso alla morte in occasione della frana del 1959 dopo essersi arrampicato sul fianco della montagna inseguito dalla furia delle acque, Linari dichiarò di non aver mai accennato ad uno studio comparativo tra Pontesei e il vicino Vajont, e neppure di averne ricevuto richiesta dai vertici S.A.D.E.

Dalle parole di Linari emerse anche il disinteresse di alcuni dei personaggi chiave della tragedia del 1963, come il geologo Edoardo Semenza (figlio del progettista del Vajont e responsabile dei rilievi al monte Toc). Altrettanto silenzio opposero altri responsabili della società elettrica e del Genio Civile, tra cui il più assordante fu quello dell'Ing. Alberico Biadene, uno dei condannati nella sentenza del 1971 per il disastro che cancellò la vita a Longarone. Anche lui all'incidente di Pontesei non farà mai cenno. 

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