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martedì 21 marzo 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 marzo.
Il 21 marzo 2010 viene approvata in USA la riforma sanitaria fortemente voluta da Barack Obama, che è entrata in vigore, dopo la sentenza di costituzionalità del 2012, il primo gennaio 2014.
Fra i molti provvedimenti contenuti nella legge, il più importante obbliga tutti i cittadini americani a possedere una copertura sanitaria attraverso un’assicurazione. Allo stesso tempo, però, la riforma garantisce molti sgravi fiscali e sussidi ai meno abbienti, allarga la copertura del Medicaid, il programma federale per i più poveri e fornisce aiuti alle società private che forniscono copertura sanitaria a chi fin qui non era assicurato. La riforma proibisce inoltre che le condizioni sanitarie pregresse di un paziente gli impediscano di contrarre un’assicurazione. Questo era uno dei punti più controversi del sistema americano: le persone sopravvissute a un cancro (che spesso sono anche le più esposte ad una recrudescenza della malattia) vengono sistematicamente rifiutate dalle compagnie assicurative, indipendentemente dalla propria condizione economica.
Non c’è atto politico degli otto anni di Barack Obama alla Casa Bianca che sia stato più criticato, attaccato, vilipeso dai repubblicani della riforma sanitaria passata nel marzo 2010. Presentata come una legge che avrebbe affossato il bilancio USA, corrotto lo spirito americano, rafforzato la presa del governo centrale sulla vita dei singoli, l’Obamacare era diventato per i conservatori l’emblema di un presidente detestato. “Quando riprenderemo il potere, l’Obamacare verrà cancellato”, era la promessa di molti repubblicani. I repubblicani hanno riconquistato il potere con Trump, ma la riforma è ancora lì, nonostante sia stato tentato per tre volte di sollevare l'incostuzionalità da parte del magnate e per tre volte la Corte Suprema abbia respinto le accuse.
Il fatto è che la riforma sanitaria di Barack Obama, a dispetto di tutti i dubbi e le accuse, ha sostanzialmente funzionato e rispettato buona parte delle promesse del presidente. Anzitutto, l’Obamacare ha significato una brusca riduzione del numero di americani senza un’assicurazione sanitaria. Sono tra gli otto e gli undici milioni (i numeri non sono ancora facili da recuperare e arrivano soprattutto da ricerche private), i cittadini che quest’anno per la prima volta hanno avuto accesso a qualche forma di copertura sanitaria. In aumento anche quelli coperti dal Medicaid, l’assistenza sanitaria per i redditi più bassi, mentre altri milioni di persone sono pronte, secondo molte statistiche, a dotarsi di un’assicurazione sanitaria nei prossimi mesi.
La riforma ha dunque centrato l’obiettivo principale esposto da Barack Obama nel 2010: e cioè rendere la sanità più accessibile. Non è la sola promessa realizzata. L’85% dei 7,3 milioni di americani che hanno acquistato un’assicurazione attraverso i mercati on line, nella prima fase della riforma, ha anche goduto di sussidi federali; ciò che ha significato una diminuzione dei premi assicurativi da pagare. Non c’è stato nemmeno il disastro che alcuni preconizzavano per l’industria sanitaria. Più volte in questi mesi analisti di Wall Street ed esperti hanno dimostrato che l’Obamacare ha significato più clienti per le assicurazioni e nuovi pazienti paganti per gli ospedali.
Nascosta dalle tante “cadute” della politica di Obama, dalle crisi internazionali e dal senso di paura e incertezza che domina la vita di molti americani, la riforma sanitaria è stata dunque un successo – almeno nel quadro e secondo gli standard della società americana. Non è stata la riforma “socialista” contro cui i conservatori hanno polemizzato, ma ha significato un oggettivo miglioramento nelle condizioni di vita per milioni di persone. Per questo, dopo un iniziale fuoco di sbarramento, i repubblicani hanno preferito stendere un velo di silenzio e attaccare Obama per l’insieme delle sue politiche. E va a discredito di molti democratici – peraltro ora in grave difficoltà – non avere rivendicato i numeri positivi dell’Obamacare, accettando al contrario la retorica repubblicana e giocando tutta la campagna sulla difensiva e sulla presa di distanza dal presidente.
Donald Trump nella sua campagna elettorale ha tra le altre cose promesso di affossare la riforma sanitaria di Obama, e ne ha fatto un cavallo di battaglia.
Nel maggio 2017 il neo-presidente Donald Trump ha fatto approvare alla Camera dei Rappresentanti (con 217 sì e 213 no) la richiesta di abrogazione dell'Obamacare. Tale proposta però, nonostante la maggioranza repubblicana all'interno del senato, fu respinta (con 55 no e 45 si). Successivamente, sempre sotto l'amministrazione Trump, è stata anche proposta un'abrogazione parziale dell'Obamacare ma l'iniziativa venne declinata al senato (con 51 no e 49 si).


lunedì 20 marzo 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 marzo.
Sono le 8 del mattino del 20 marzo 1986. Voghera è avvolta da una sottile nebbia.
Al carcere di massima sicurezza, quinto reparto, è l`ora della colazione: isolato da porte blindate, controllato da telecamere a circuito chiuso, sorvegliato da 15 guardie divise in cinque turni in continua rotazione, c`è dal 22 ottobre 1984, da quando l`hanno estradato dagli Stati Uniti, un detenuto speciale: Michele Sindona.
Da due giorni è stato condannato all`ergastolo come mandante dell`omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della sua Banca privata italiana, dichiarata fallita il 28 settembre `74.
Come tutte le mattine, il caffè e il latte per Sindona vengono messi in thermos sterilizzati e chiusi a chiave in un contenitore di metallo. Ad aprirli sono cinque agenti. E' lo stesso finanziere siciliano a miscelare la colazione sulla soglia della cella sotto lo sguardo dei suoi custodi. Sindona porta il caffè alla bocca, voltandosi verso il bagno.
Gli agenti richiudono la porta e lo osservano dallo spioncino. E' l`attimo fatale: vedono Sindona prima barcollare, poi stramazzare a terra gridando: « Mi hanno avvelenato... » . Nel caffè c`è cianuro. Sindona morirà  dopo un`agonia di 54 ore.
Per i magistrati che analizzeranno il caso, è stato « un suicidio attraverso la simulazione di un omicidio » .
Dai contorni troppo strani, però, per non entrare di diritto tra i tanti misteri d`Italia.
In molti, dai palazzi della politica e dei servizi segreti ai circoli della mafia, dalle logge della Massoneria alle stanze del Vaticano, avevano di che temere da un Sindona che, vistosi condannato e abbandonato, poteva vuotare il sacco per vendicarsi. Trame e veleni riempivano l`Italia. E tanti sospetti: era Sindona a passare le informazioni riservate che venivano puntualmente riportate da « O. P. » di Mino Pecorelli? Il giornalista, piduista con tessera 1750, ucciso a Roma in un agguato il 21 marzo 1979, aveva pubblicato documenti sui finanziamenti di Sindona alla Dc di Giulio Andreotti e la lista di 496 esportatori di valuta, tutti clienti della Finabank, l`istituto di credito ginevrino di Sindona. Ricatti e minacce sullo sfondo di un delitto nel cuore dello Stato, mai ben chiarito: quello di Aldo Moro nel maggio ` 78. E, guarda caso, una morte del tutto bizzarra farà  tacere per sempre anche William Aricò, il killer prezzolato che aveva freddato sotto casa Ambrosoli: il gangster morirà  cadendo dal muro del carcere di Manhattan mentre tentava un`improbabile evasione.
Estate di sangue e di scirocco quella del ` 79. Non erano passate quarantott`ore dall`omicidio di Ambrosoli che a Roma viene assassinato per mano delle Brigate rosse Antonio Varisco, il comandante del Nucleo traduzioni di Piazzale Clodio, che era in confidenza con Pecorelli. E il 21 luglio viene eliminato il capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, che collaborava con Ambrosoli per dipanare la ragnatela mafiosa che copriva gli affari di Sindona. Ambrosoli era solo, con i suoi pochi ma fedelissimi collaboratori. Se n`era reso conto fin dai primi giorni della sua nomina a commissario liquidatore della Bpi. Minacciato da telefonate anonime, osteggiato dai poteri forti del Palazzo; ad appoggiarlo c`era solo la Banca d`Italia di Paolo Baffi, una solidarietà  pagata a caro prezzo dal Governatore, costretto di lì a poco a dimettersi.
Il Corriere della Sera, dove ormai la P2 faceva da padrona, sul delitto Ambrosoli ricamò un ventaglio di ipotesi, quasi scartando quella che pareva la più logica: che il mandante fosse Sindona. Da tempo, per la solidarietà  massonica, via Solferino stava dalla sua parte, tanto da scatenare una delirante serie di articoli a tutta pagina siglati C. S. contro chi come Agnelli non aderiva ai piani della loggia e dei suoi affiliati. Sindona, nei giorni dell`omicidio su commissione, era ancora negli Stati Uniti in libertà  provvisoria, in attesa della sentenza sul fallimento della Franklin Bank, la sua banca americana finita in rovina per le speculazioni sul dollaro, innescando un disastroso effetto a catena in tutto il suo impero finanziario.
« La vendetta è un piatto che si serve freddo » , aveva minacciato Sindona. A cinque anni quasi dal suo fallimento, Sindona si era di fatto vendicato.
Era scomparso Ambrosoli, l`avvocato che non si era lasciato intimidire e che aveva osato scoperchiargli la Fasco (il crocevia lussemburghese dei raggiri e dei conti fiduciari di Sindona): il suo nemico giurato. Ma Sindona vuole restare impunito. Allora s`inventa uno pseudo rapimento: si eclissa improvvisamente dagli Usa il 2 agosto ` 79 per poi ricomparire il 16 ottobre con una ferita alla coscia sinistra. Due mesi e mezzo in cui fece di tutto e di più per tornare in sella giocando le carte più torbide, in un intreccio terribile di mafia e finanza. Con un passaporto falso intestato a Joseph Bonamico, messogli a disposizione da Cosa Nostra, era sbarcato in Europa. Da Atene era poi arrivato a Palermo. Gli investigatori americani avevano, nel frattempo, ricevuto una lettera contenente una foto di Sindona con appeso al collo un cartello che diceva: « Il giusto processo lo faremo noi » . Cominciava a circolare la voce che fosse stato rapito da un fantomatico « Gruppo eversivo per una giustizia migliore » .
Ma qual era la verità ? Il finto sequestro venne gestito dalla mafia siculo americana. Negli Usa il bancarottiere frequentava i Gambino, esponenti di una delle cinque famiglie più potenti di Cosa Nostra. Giunto a Palermo fu aiutato molto dalle cosche nella ricerca di alcuni documenti. In testa il famoso `` tabulato dei 500``, un elenco di nominativi di personaggi italiani che sarebbero ricorsi al suo intervento per esportare illecitamente capitali all`estero. Per rendere credibile il sequestro, chiese a Joseph Miceli Crimi, massone italo americano nonché suo medico personale, una strana prestazione. Dopo essersi sottoposto ad anestesia locale alla gamba sinistra, si fece sparare a bruciapelo. C`era una componente ricattatoria tra le molle che spingevano Sindona alla messinscena, al suo viaggio in Europa e in particolare al suo soggiorno in Sicilia.
Aspirava a diventare l`uomo della saldatura di un fronte reazionario piduista, mafioso, capace di sbarrare il cammino alle forze di rinnovamento. L`odore e la voglia di golpe era connaturata nell`Italia di quei decenni.
Ma per Sindona i tempi stavano cambiando.
Roberto Calvi e l`Ambrosiano l`avevano di fatto soppiantato nei rapporti con lo Ior del Vaticano e con i partiti. La sua stella stava frettolosamente precipitando. Non gli restava che brandire l`arma del ricatto e della minaccia, contro Ambrosoli, contro Enrico Cuccia, contro lo stesso Calvi che non lo volle aiutare. Per mettere a punto il suo piano, il 10 ottobre Sindona va a Vienna. Ma qui deve essere andato storto qualcosa. Una telefonata intercettata avrebbe allertato l`Fbi. Sta di fatto che Sindona si decise a salire sul primo aereo per New York, forse così consigliato da Rosario Gambino che lo accolse all`aeroporto Kennedy. Erano le sue ultime ore di libertà .
Venne condannato a 25 anni dai giudici americani. Fece di tutto per evitare l`estradizione in Italia.
Ma non ce la fece. Intorno a lui c`era terra bruciata.
Era crollato l`Ambrosiano, ma soprattutto era esploso il bubbone marcio della P2. Alla quale pervennero i magistrati indagando proprio sul falso sequestro di Sindona. Lui aveva ormai più nemici che amici. Di lui cominciò a diffidare anche Licio Gelli, il leader della P2, che solo qualche anno prima aveva inviato ai giudici Usa un affidavit pro Sindona assieme a Paolo Spagnuolo, giudice di Cassazione ( piduista, tessera 545), e John Mc Caffery, uomo della Hambros Bank in Italia, vicino all`Opus Dei. Da burattinaio si sentì burattino, quello di cui si erano serviti per eliminare un personaggio scomodo come Ambrosoli. Sindona, piduista in disgrazia, era bruciato. Suicidio od omicidio? Se fosse rimasto in vita avrebbe prima o poi potuto svelare i tanti misteri che la sua morte lasciava irrisolti nell`Italia delle trame e dei servizi segreti deviati. Dove la scia di sangue è costellata di morti, che si legano una con l`altra, in un tragico effetto domino, cadenzate da un`abile regia di depistaggio, utilizzando la manovalanza più disparata: dalla malavita comune alla mafia fino alle Brigate rosse e ai Nar neri.
Quando muore, Sindona ha 65 anni. Era nato l'8 maggio 1920 a Patti in provincia di Messina (coetaneo di Calvi, con cui entrerà  in affari nel ` 70). Fiscalista di successo, negli anni 50 tesse una ragnatela di amicizie importanti anche all`estero, in particolare in Usa: con Jocelyn Hambro; con il presidente della Continental Illinois Bank, David M. Kennedy; con Richard Nixon, avvocato emergente; ma soprattutto con Joe Adonis e Vito Genovese, i due boss mafiosi che gli affidano le più spericolate operazioni per riciclare il denaro sporco del commercio della droga.
Il che non gli impedì di diventare il finanziere di fiducia di Giovanni Battista Montini, il cardinale di Milano che quando diventò Papa Paolo VI gli affidò le cure degli interessi temporali della Chiesa: dai palazzi dell`Immobiliare Roma alle finanze dello Ior, la banca vaticana di Paul Marcinkus, il prelato americano, più carne che spirito, nato a Cicero, sobborgo di Chicago, feudo di Al Capone. Fu appunto con i capitali della Curia che Sindona acquisì anche la Banca privata finanziaria di via Verdi a Milano. Nel ` 71, forte del blitz nella Centrale finanziaria, Sindona lanciava la sfida al `` salotto buono`` (e laico) di Enrico Cuccia con l`Opa su Bastogi. Venne sconfitto. E da quel giorno la stella di Sindona cominciò a decadere anche se fece in tempo a essere incoronato da Giulio Andreotti come il `` salvatore della lira``. La Centrale passò sotto il controllo della Compendium di Calvi. Sindona tentò un rilancio in Usa acquisendo la Franklin Bank. Ma fu l`ultimo sussulto. La crisi petrolifera mise in crisi il dollaro, la cui caduta affondò la Franklin, fallita nel maggio ` 74.
E' l`inizio della fine. Anche in Italia Sindona comincia a tremare. Il ministro del Tesoro Ugo La Malfa blocca l`aumento di capitale di Finambro a 160 miliardi che avrebbe ridato ossigeno a Sindona. Il quale allora gioca l`ultima carta: fonde le sue due banche, Unione e Privata, dando vita alla Bpi, ma l`istituto nasce morto. Inizia la corsa al ritiro dei depositi. Né basta l`aiuto del Banco di Roma che concede un prestito di 100 milioni di dollari, ottenendo in pegno la maggioranza dell`Immobiliare che a sua volta controllava la Ciga. A fine settembre la Bpi viene messa in liquidazione. Comincia il lavoro in solitudine di Ambrosoli, l`eroe borghese del libro di Corrado Stajano. Che smaschera conti paralleli e fiduciari che giravano il mondo da un paradiso fiscale all`altro, tra un carosello di società  fantasma e tanti personaggi arroganti e minacciosi. Un lavoro che Ambrosoli stesso a un certo punto capì che avrebbe pagato con la vita.
Se ne parlava da tempo, ma i suoi personaggi avevano volti sfumati e imprecisi. Quando la sera del 20 maggio 1981 il Tg Rai annunciò che la presidenza del Consiglio (c`era Arnaldo Forlani a Palazzo Chigi) aveva dato il via libera alla pubblicazione dell`elenco degli appartenenti alla P2, la loggia massonica di Licio Gelli, l`Italia venne attraversata da una scossa violenta.
Si scopriva uno Stato dentro lo Stato, emergeva un Governo parallelo.
Politici, affaristi, ex eredi al trono, manager, giudici, giornalisti, agenti dei servizi segreti, alti ufficiali dell`esercito e dei carabinieri: 962 nomi e cognomi, tutta l`Italia che tramava allora, ma anche mezza Italia che poi è andata al potere, se è vero che con tessera 1816 del 26 gennaio 1978 c`era anche Silvio Berlusconi.
A scoperchiare le carte segrete della P2 furono due magistrati, Giuliano Turone e Gherardo Colombo.
Un ``ritrovamento`` del tutto fortuito: il loro obiettivo era far luce sullo strano sequestro di Michele Sindona. Strano quel «Gruppo eversivo per una giustizia migliore», che aveva rivendicato il rapimento; strani quegli affidavit a favore di Sindona fatti pervenire al giudice americano che processava il finanziere per bancarotta. Uno di questi era di Licio Gelli: «Nella mia qualità  di uomo d`affari sono conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Michele Sindona. L`odio verso di lui trova origine nel fatto che ha sempre appoggiato la libera impresa in un`Italia democratica». Da tempo correvano voci che da Gelli si riunisse la ``crema`` del potere italiano. Il Gran Maestro a Roma viveva in una suite dell`Excelsior.
I giudici che indagano su Sindona scoprono che il rapimento è una messinscena. Che è sempre lui, Sindona, a trattare con Andreotti il salvataggio delle sue banche, a minacciare Enrico Cuccia, a far uccidere Giorgio Ambrosoli con tre colpi di Magnum 357. A ospitare Sindona in Sicilia fu, tra gli altri, Joseph Miceli Crimi, massone, medico italoamericano, specialista in chirurgie plastiche. Fu lui a sparare alla gamba del finanziere per rendere più credibile la tesi dell`agguato. I giudici restano incuriositi da questo personaggio.
Ordinano un sequestro nel suo studio, e tra le carte trovano un biglietto ferroviario Palermo Arezzo dell`estate ` 79. Gli chiedono come mai. «Per andare dal dentista», risponde Crimi. Una motivazione troppo strampalata perché i giudici abbocchino. Messo alle strette, Crimi rivela di esser stato ad Arezzo da un certo Licio Gelli per conto di Sindona. Lo stesso Gelli dell`affidavit, quello di cui si vocifera sia a capo di una loggia, quello che il Corriere della Sera ha intervistato in pompa magna.
I magistrati ordinano il blitz nelle proprietà  di Gelli, agli indirizzi trovati in un`agenda di Sindona. La sera del 16 marzo `81 gli agenti perquisiscono la suite romana all`Excelsior; villa Wanda, l`abitazione aretina; e le sedi delle due aziende del `` Venerabile`` a Frosinone e alla Giole di Castiglion Fibocchi. Con l`elenco di tutti gli affiliati, trovano una montagna di documenti sui misteri d`Italia: dal caso Eni Petromin ai rapporti Calvi Bankitalia, all`operazione Rizzoli.
A oltre trent`anni di distanza, dopo processi e inchieste parlamentari, quelli che pagarono furono davvero pochi (ad esempio, Franco Di Bella, tessera 655, si dimise da direttore del Corriere); rare le ammissioni (la più nota, quella di Maurizio Costanzo, tessera 1819); i più fecero finta di niente, come se la P2 fosse solo un club di bontemponi.

domenica 19 marzo 2023

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 19 marzo.
Il 19 marzo 1994 a Casal di Principe Don Giuseppe Diana viene freddato dalla camorra mentre si accingeva a recitare messa.
Giuseppe Diana nasce il 4 luglio 1958 a Casal di Principe, provincia di Caserta e diocesi di Aversa, da una famiglia di proprietari terrieri. Nel 1968 entra in Seminario: medie, liceo, teologia, licenzia in Biblica e laurea in Filosofia II.
Nel marzo 1982 è ordinato sacerdote e dal 19 settembre 1989 è parroco di San Nicola di Bari nella natia Casal di Principe, dominio di clan camorristici potenti e sanguinari. Diventa subito l’emblema della vita e della fede, dell’impegno e della gioia. In quegli anni l’episcopato campano, stimolato dal vescovo di Acerra monsignor Antonio Riboldi, si schiera contro la camorra che miete decine di vittime ogni anno e, il 29 giugno 1982, i vescovi diffondono il documento «Per amore del mio popolo non tacerò»: indica la forza liberante del Vangelo come risposta concreta al male, non nasconde le responsabilità della comunità ecclesiale «a causa della carenza o insufficienza, anche nell'azione pastorale, di una vera educazione sociale, quasi che si possa formare un cristiano maturo senza formare l'uomo e il cittadino maturo. Non intendiamo limitarci a denunciare queste situazioni e, nell’ambito delle nostre competenze e possibilità, intendiamo contribuire al loro superamento, anche mediante una revisione e integrazione dei contenuti e metodi della pastorale».
La malavita diventa ogni giorno più invadente con efferati omicidi e, a fine settembre 1987, con un assalto armato alla caserma dei Carabinieri di San Cipriano d’Aversa.
La reazione della comunità civile non si fa attendere. Don Peppe organizza il convegno «Liberiamo il futuro» che si trasforma in marcia contro la violenza. Puntuale arriva l’intimidazione: colpi di pistola contro le finestre della canonica. Si rompe con l’acquiescenza del passato. Si decide che la festa patronale sia celebrata solo in chiesa eliminando le manifestazioni esterne – processioni, spettacoli, banda, fuochi d'artificio - finanziate dai «capobastone». Un segnale forte che sancisce la fine dei rapporti ambigui o acquiescenti. Nelle omelie don Beppe alza la voce e il suo grido di allarme risuona forte e chiaro quando, nel luglio 1991, un giovane è ucciso per sbaglio perché capita in auto in mezzo a un conflitto a fuoco. Sollecita dal ministero dell’Interno un aumento dei controlli, particolarmente sgraditi ai camorristi. Il Consiglio comunale è sciolto per infiltrazioni mafiose.
Nel Natale 1991 i sette parroci firmano il documento «Per amore del mio popolo», scritto da don Diana e distribuito in tutte le chiese. Messaggio di rara intensità e di grande attualità, coraggiosa testimonianza di impegno civile e pastorale nella lotta alla criminalità e nella costruzione della giustizia sociale, grido di dolore e di amore per la sua terra, atto d’accusa contro l’atroce violenza dei prepotenti e l’indolenza dei pavidi: «Siamo preoccupati e assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno nella nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come Chiesa dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà. La camorra è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno». Constata don Beppe: «Il nostro documento ha smosso le coscienze e ha fatto alzare altre grida nel deserto che ora può diventare terra fertile». Dopo due anni di commissariamento, nel novembre 1993 si vota per il nuovo Consiglio comunale. L’appello «Una religione della responsabilità» invita i cittadini a far sentire la loro voce e a partecipare alla costruzione di una città a dimensione umana. I camorristi sono invitati «a tenersi in disparte, a non inquinare e a non affossare ancora una volta questo nostro caro paese, che ha solo bisogno di risurrezione».
Nel ballottaggio la lista civica «Alleanza democratica», appoggiata dai sacerdoti, ottiene la maggioranza, ma riesce a governare solo pochi mesi e poi va di nuovo in crisi. La Procura di Napoli convoca i sacerdoti per avere notizie e riscontri sull’appoggio dei camorristi ai candidati nelle elezioni politiche del 1992.
Don Peppe si presenta il 15 marzo 1994: all’uscita nota alcuni giovani di Casal di Principe, in odore di camorra, che con ostentazione osservano i suoi movimenti. Quattro giorni dopo, il 19 marzo, suo onomastico, alle 7 esce dall’abitazione dei genitori e si reca nella chiesa di San Nicola. Venti minuti più tardi in sacrestia indossa i paramenti e si avvia a celebrare la Messa: un uomo gli spara quattro colpi di pistola 7,65 e fugge in auto con due complici. Dopo il suo assassinio scatta il tentativo della «damnatio memoriae» con cui pervicacemente la camorra cerca di infangare il ricordo del prete ucciso, ma il meschino calcolo fallisce: la limpidezza di questo testimone del Vangelo e paladino del suo popolo è sancita dall'inchiesta giudiziaria e dall’autorità ecclesiastica.
Nunzio De Falco, difeso da Gaetano Pecorella, allora presidente della commissione Giustizia della Camera, è stato condannato in primo grado all'ergastolo il 30 gennaio 2003 come mandante dell'omicidio. Inizialmente De Falco tentò di far cadere le colpe sul rivale Schiavone, ma il tentativo fallì perché Giuseppe Quadrano, autore materiale dell'omicidio, consegnatosi alla polizia, iniziò a collaborare con la giustizia e per questo ricevette una condanna a 14 anni.
Il 4 marzo 2004 la Corte di Cassazione ha condannato all'ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti come coautori dell'omicidio. Il primo dicembre 2010 la condanna di De Falco all'ergastolo come mandante dell'omicidio è diventata definitiva.
Parafrasando il versetto evangelico: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Giovanni 12,24), sulla tomba di Giuseppe Diana c’è scritto: «Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace».

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