Buongiorno, oggi è il 31 ottobre.
Il 31 ottobre 1926, domenica, Bologna, era in festa grande: veniva inaugurato il Littoriale, il grande stadio olimpico ancora oggi integro e funzionante. Per quegli anni, in Italia, l’opera era colossale; per realizzarla Leandro Arpinati, all’epoca vicesegretario del partito fascista, presidente del Coni e presidente della Federcalcio, nonché indiscusso ras di Bologna, era andato più volte in visita nelle capitali europee e specie a Praga, dove era stato edificato il modello di stadio più recente; vi si era recato con il costruttore Costanzini. Le spese per l’edificazione del Littoriale erano state ingenti e avevano dato adito a critiche e anche a insinuazioni da parte dei nemici di Arpinati; tanto che Mussolini, più tardi, fece svolgere discrete indagini, dalle quali nulla risultò di men che chiaro e dalle quali uscì rafforzata l’immagine integra di Arpinati, sul piano della personale onestà. Benito Mussolini aveva fatto solenne ingresso nello stadio dalla porta della Torre olimpica, in sella a un cavallo bianco, osannato da una folla di centomila bolognesi. Nella stessa giornata aveva parlato all’Archiginnasio, alla Società per il progresso delle scienze e aveva inaugurato la casa del Fascio. Avrebbe dovuto essere dunque l’apoteosi di Arpinati, sia come ras di Bologna che come gerarca nazionale; ma giusto alla fine la giornata volse in tragedia.
La grande torpedo sulla quale il Duce veniva ricondotto alla stazione di Bologna era guidata da Arpinati in persona; a bordo, l’altro gerarca di Bologna, Dino Grandi e il sindaco Puppini. L’automobile, scoperta, imboccò via Indipendenza, venendo da via Rizzoli; procedeva tra due ali di folla contenute a stento da carabinieri e soldati. All’altezza dell’Arena del sole, subitaneamente, tra le sagome di due carabinieri, si sporse un braccio, un pugno armato di pistola. L’attentatore sparò sicuro, ben fermo, un solo colpo in direzione di Mussolini, che era seduto al fianco di Arpinati. Il proiettile sfiorò entrambi, bruciò un lembo della giacca e bucò la fascia dell’Ordine mauriziano che Mussolini portava sulla divisa. Qualche giorno dopo Mussolini invierà la sciarpa bucata ad Arpinati a personale ricordo e perché la conservasse nel Sacrario della rivoluzione a Bologna.
L’attentatore venne istantaneamente bloccato e fu linciato in pochi attimi dalla folla, che era inferocita per la frequenza degli attentati al Capo del governo. Negli ultimi anni, infatti, si erano intensificati: prima Zaniboni, poi la Gibson, poi l’anarchico Lucetti. Come tutti i dittatori, Mussolini era dotato di sfacciata fortuna: le palle lo sfioravano, al naso (Gibson), alla fascia (Zamboni) e non penetravano mai. In tutti questi casi Mussolini dimostrò un comportamento composto; sussurravano i maligni, anche perché gli attentati erano predisposti dalla polizia. Nel caso nostro, Mussolini affrettò Arpinati che proseguì la corsa dell’auto per alcune centinaia di metri.
L’attentatore linciato fu riconosciuto per il giovane Anteo Zamboni, uno studente di sedici anni, bolognese, ultimo di una vecchia famiglia di anarchici. E tuttavia sulla vicenda permasero sempre degli interrogativi e delle ombre pesanti.
Innanzitutto, perché tanta fretta nell’ammazzarlo? La folla intorno a lui era tutta di innocenti ammiratori del Duce o c’era qualche nerbo di scherani dei servizi segreti? Lo Zamboni era anarchico, è vero, figlio di un anarchico nato a Bologna, Màmmolo Zamboni, tipografo. Ma sugli omicidi degli anarchici, da Oswald a Pinelli, ci furono sempre delle ombre e tutti costoro vennero inopinatamente ammazzati prima di poter parlare.
Inoltre, le stesse testimonianze di Arpinati e di Mussolini furono contraddittorie. Arpinati parlò di un giovanotto vestito di marrone; Mussolini di un uomo in abito chiaro col cappello floscio. Forse videro doppio per l’agitazione del momento ma forse gli attentatori erano due.
E infine Bruno Gatta, in Mussolini, riporta una intervista rilasciata in quei giorni da Dino Grandi in cui il gerarca testimonia: "Intanto dall’automobile che seguiva quella presidenziale l’on. Balbo, l’on. Ricci e il Seniore Bonaccorsi si precipitano sull’aggressore che immediatamente scompare, stretto e afferrato da mille braccia in un tumulto e in un urlo terribile". L’intervista pecca di retorica, ma è importante perché Grandi indica come primi immediatamente intervenuti i tre capisquadristi, tutti in fama di mano pronta, specie l’Arconovaldo Bonaccorsi, seniore (poi generale) della Milizia.
Sia in certi ambienti fascisti, sia soprattutto nei superstiti catacombali ambienti antifascisti si cominciò a sussurrare che l’attentato fosse stato se non materialmente eseguito, ordito da fascisti dissidenti. Si sussurrò di Farinacci, di Balbo, del medesimo Arpinati. Mussolini a ogni buon conto ordinò accurate indagini che furono eseguite dal questore Luciani e dal commissario Di Stefano (ne riferisce Guido Leto in OVRA) che non sortirono alcun risultato. Le voci furono insistenti su Arpinati e se ne troverà traccia anche nella lettera-denuncia di Achille Starace a Mussolini, durante la fatale contesa fra Arpinati e Starace.
Altra tesi dietrologica rimase quella che il colpo fosse organizzato non dai fascisti dissidenti ma da quelli più ubbidienti e disponibili, se non dai servizi segreti. E questa tesi trova una giustificazione nel fatto che subito dopo l’attentato di Bologna, ultimo della serie che abbiamo ricordato, Mussolini emise le famigerate leggi speciali per la sicurezza dello Stato, le quali furono davvero la consacrazione formale della dittatura.
Comunque, a ben rifletterci e a lunga distanza dai fatti, il sospetto su Arpinati appare del tutto infondato. Nel 1926 Arpinati era ancora ardentemente mussoliniano, nonostante qualche scarto umorale da ex anarchico e nonostante qualche uscita esasperata dal suo amore per la verità e della sua incapacità a fingere. E d’altronde l’amore di Leandro per Benito era ancora sinceramente ricambiato dal Duce che di tutti diffidava ma di Arpinati no e che a lui permetteva di dire e fare cose che a nessun altro erano permesse.
In secondo luogo, sull’automobile Arpinati sedeva a fianco del Duce e gli sarebbe occorsa una buona dose di ottimismo per essere sicuro che lo sparatore avrebbe colpito Mussolini e non anche lui.
In terzo luogo, era il giorno del trionfo di Arpinati nella sua Bologna ed egli non aveva interesse a rovinarlo. E infatti Mussolini rimase tanto convinto della sua buona fede che non solo gli scrisse numerosi pubblici attestati ma poco dopo lo nominò podestà di Bologna e due anni dopo sottosegretario al ministero dell’Interno di cui egli stesso era titolare. Viene difficile pensare che Mussolini volesse affidare il ministero di Polizia al proprio attentatore. E tuttavia alcuni dei più vicini a Mussolini e specie le donne della famiglia, la moglie Rachele e la sorella Edvige, continuarono anche in seguito, secondo numerose testimonianze, a sospettare di Arpinati.
Nel delizioso Mussolini piccolo borghese, Paolo Monelli scrivendo dell’attentato Zamboni, adombra tre supposizioni. La prima, che gli attentatori fossero due: "Lo sparatore sarebbe stato il giovane in gabardine che per stornare i sospetti da sé si buttò come vendicatore e giustiziere sull’innocente giovinetto". La seconda, che il "grande amico e consigliere di Arpinati, il romantico Torquato Nanni", fosse implicato nella trama insieme ad Arpinati. La terza, che la disgrazia e il confino di Arpinati e Nanni, negli anni ’33 e ’34, fossero collegati con un ritorno di fiamma dei dubbi sul ruolo avuto dai due amici nell’affare Zamboni. Ma tutte e tre le supposizioni non sono minimamente sostenute da prove. Monelli, si rifà, ancora una volta, alla testimonianza del suo amico Michele Campana, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze di Edvige Mussolini, la quale fu sempre nemica di Arpinati. Ma a parte l’insussistenza delle accuse, si deve aggiungere che Nanni era per natura e per cultura incapace di concepire un attentato violento, che ragionò sempre in termini politici e che addirittura rischiò di perdersi con il suo progetto utopistico della conciliazione tra fascismo e socialismo. Oltre a ciò, Nanni come vedremo, era stato intimo amico e ammiratore di Mussolini.
E’ vero invece che Arpinati e Mussolini litigarono, e duro, sulle conseguenze dell’attentato. Il padre di Zamboni, Màmmolo, era un vecchio compagno di Arpinati; egli confessò che il figlio aveva sparato con la sua pistola, che gli aveva sottratto nascostamente il giorno prima. La zia, o meglio la cognata del padre, Virginia Tabarroni, anch’essa nota antifascista, confessò che il ragazzo aveva ripetutamente parlato in casa dei suoi propositi tirannicidi. Alla fine, i due Zamboni pagarono per tutti: furono condannati a trent’anni, come mandanti dell’attentato. Fu assolto invece il fratello maggiore di Anteo, Ludovico Zamboni, anche lui sospettato. Arpinati, che aveva continuato a ritenere i due innocenti, quando diventò sottosegretario all’Interno riuscì a farsi confidare dall’onorevole Guido Cristini, presidente del Tribunale speciale, che Mussolini aveva particolarmente insistito perché i due fossero condannati all’ergastolo, per dare un esempio. Mussolini non gradì certo questa interferenza e del suo malumore fece le spese l’incauto Cristini, che fu deposto da presidente del Tribunale speciale e sostituito dal più duraturo Tringali-Casanova; ma Arpinati aveva ormai vinto e ottenne il decreto di grazia dal re. Anche questa piccola umanitaria vittoria gli sarà pochi anni dopo messa sul conto. Essa rimase rivelatrice dell’attitudine di Arpinati a difendere gli amici in difficoltà, anche se tale attitudine, come sempre in politica, non gli rese nulla e gli costò molto.
Ma al di là di ogni tentazione dietrologica o giallista, l’attentato Zamboni va interpretato per ciò che quasi certamente fu: il gesto spontaneo e romantico di un ragazzo, cresciuto ed educato in una famiglia libertaria, esaltato sia per natura propria sia per l’ambiente vissuto e che pagò uno scotto immediato e terribile.
Anteo Zamboni è ricordato a Bologna da una piccola via (Via Mura Anteo Zamboni) e una lapide in Piazza del Nettuno.
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