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imm. da 3.bp.blogspot.com/ |
Siamo stati educati a fare nostro tutto ciò che ci piace, tutto ciò che è vicino a noi, fa parte della nostra intimità.
Sia a livello della conoscenza sia a quello dei sentimenti facciamo nostro tutto ciò che accostiamo, che si avvicina a noi.
Il nostro modo di ragionare, il nostro
modo di amare corrisponde ad un’appropriazione. La nostra cultura, la
nostra istruzione scolastica, vogliono che imparare e sapere equivalgano
a far nostro attraverso strumenti di conoscenza capaci, lo crediamo, di
apprendere, di capire, di dominare tutta la realtà, tutto ciò che
esiste, tutto quello che percepiamo con i nostri sensi e ciò che è al di
là di essi.
Vogliamo avere l’intero universo nella
nostra testa, talvolta l’intero mondo nel nostro cuore. Non vediamo che
un tale gesto trasforma la vita del mondo in qualcosa di finito, di
morto in un certo senso, perché il mondo perde così la sua propria vita
sempre estranea a noi, esterna a noi, altra da noi.
Farò un esempio. Se capissimo esattamente
quello che fa la primavera, perderemmo probabilmente la contemplazione
stupita davanti al mistero della crescita primaverile, perderemmo la
vita, la vitalità alle quali tale rinascita universale ci consente di
partecipare senza che possiamo conoscere né controllare donde ci
arrivino la gioia, la forza, il desiderio che ci animano. Ammesso che
fosse possibile analizzare ogni elemento di energia che avviene
nell’esplosione della primavera, ne perderemmo lo stato globale che
proviamo quando siamo immersi(e) in essa con tutti i nostri sensi, il
nostro intero corpo, la nostra anima.
Questo stato, mi permetterò di dire:
questo stato di grazia, che ci procura la primavera, lo conosciamo
talvolta, per lo meno parzialmente, quando ci troviamo in un nuovo
paesaggio, in una manifestazione cosmica straordinaria, in un ambiente
che ci è insieme percettibile e impercettibile, conosciuto e
sconosciuto, visibile e invisibile. Siamo situati, in tal caso, in
un’atmosfera, in un evento che sfuggono al nostro controllo, alla nostra
competenza, alla nostra intenzione, al nostro stesso immaginario. La
nostra risposta a tale «mistero» allora può essere la sorpresa,
l’incanto, la lode, talvolta l’interrogazione, ma non può essere
l’appropriazione, la riproduzione, la ripetizione.
Lo stato – fisico o spirituale – che
produce in noi la primavera, certi paesaggi, certi fenomeni cosmici, può
accadere all’inizio di un incontro con altri. L’altro ci commuove in
tal modo nei primi momenti di un incontro, toccandoci in maniera
globale, non conoscibile, non padroneggiabile. Poi, troppo spesso, lo
facciamo nostro – o la facciamo nostra – attraverso la conoscenza, la
sensibilità, la cultura. Entrando nel nostro orizzonte, nel nostro
mondo, l’altro perde la stranezza della sua attrazione. La sua presenza
ci circondava di un certo mistero, comunicandoci un risveglio sia
corporeo sia spirituale, ma lo riconduciamo a noi, lo conglobiamo a
nostra volta. Al limite, non lo vediamo più, non lo udiamo più, non lo
percepiamo più. Fa parte di noi. A meno che non lo respingiamo.
L’altro è dentro o fuori. Non è dentro e
fuori, facendo parte della nostra interiorità ma rimanendo anche fuori,
esterno, estraneo a noi, altro. Svegliandoci con la sua alterità, con il
suo mistero, con l’infinito (in due parole: non l’assoluto) che
rappresenta per noi. E proprio quando non lo conosciamo, o quando
accettiamo che resti per noi non conoscibile, che l’altro ci illumina in
qualche modo, ma di una luce che ci rischiara senza che sia possibile
afferrarla, capirla, analizzarla, farla nostra.
La totalità dell’altro, come quella della
primavera, ci tocca al di là di ogni conoscenza, di ogni giudizio, di
ogni riduzione a noi, al nostro, a ciò che ci è in qualche modo proprio.
In termini un po’ eruditi, potrei dire che l’altro, l’altro in quanto
tale, in quanto altro, esiste al di là di ogni predicato attribuito da
noi: non è mai un questo o un quello assegnato a lui/lei da noi. E
proprio quando sfugge a ogni giudizio da parte nostra che l’altro emerge
come un tu, sempre altro e inappropriabile dall’ io.
Luce Irigaray, Tra Oriente e Occidente