Buongiorno, oggi è il 28 febbraio.
Il 28 febbraio 1874 termina il processo sul "caso Tichborne", il più lungo mai avuto in una corte inglese fino agli anni 90 del secolo scorso.
Si tratta del caso relativo a Roger Tichborne, un magnate deluso in amore e in seguito perso per mare, e un uomo che, più di 10 anni più tardi, compare dalla lontana Australia per reclamarne l'eredità. I processi civili e penali che ne seguirono furono i più lunghi della storia forense britannica, fino alla metà degli anni 90 del secolo scorso.
In un periodo storico in cui la scienza forense era ai primordi, i passaporti non sempre richiesti, e pochissime persone possedevano una qualsiasi forma di documentazione personale, il caso riguardò la difficoltà di provare l'identità di un uomo in una corte di giustizia. Il paese si divise: nobiltà e membri del Parlamento si opponevano al richiedente, ma i cittadini stavano dalla parte di un uomo che ritenevano venisse privato dell'eredità di cui aveva diritto; a un certo punto si temette che il caso potesse causare una rivoluzione o una guerra civile.
La storia, in breve, è la seguente.
I Tichborne erano devoti Cattolici, il che fino all'"Atto di Emancipazione Cattolica" del 1829 significava che non potevano né candidarsi al Parlamento né fare carriera militare nelle forze armate. Dunque come tante altre famiglie cattoliche, i Tichborne vivevano una vita da potenti gentleman di campagna, cacciando, sparando, e ammassando terre e denaro.
Nel 1829 nacque Roger Tichborne, il primogenito di Sir James ed Henriette Felicite Tichborne. Il matrimonio non era felice; vi erano 21 anni di differenza tra i due ed Henriette, un membro illegittimo della famiglia reale francese, era viziata, spesso nervosa e odiava l'Inghilterra e la vita rurale con tutta se stessa.
Roger soffriva di una malformazione ai genitali, una condizione che ora sappiamo essere rara ed ereditaria. Sua madre lo portò a Parigi dove, all'età di cinque anni in cui ai bambini venivano messi i pantaloni, gli venne imposto di indossare abiti creati apposta per lui fino ai 12 anni, nell'erronea convinzione che vestiti più larghi consentissero ai genitali di emergere. Riportato in Inghilterra a 16 anni, Roger frequentò la scuola navale di Stonyhurst, e in seguito entrò nell'Esercito. Passava le vacanze con gli zii, Sir Edward e Lady Doughty, e la loro figlia Katherine, chiamata Katty.
Roger e Katty presto si innamorarono, ma il loro amore venne osteggiato da entrambe le famiglie, poiché erano cugini di primo grado. Alla fine si giunse a un compromesso: Roger avrebbe viaggiato all'estero per tre anni, e se al suo ritorno i due avessero ancora voluto sposarsi, le famiglie non si sarebbero più opposte.
Roger andò prima in Sud America, dove viaggiò per più di un anno, e si fece ritrarre in due dagherrotipi. In questo periodo invece la cugina Katty sposò Percival Pickford Radcliffe, membro di una potente famiglia cattolica del Yorkshire.
Roger decise allora di navigare verso le Indie occidentali nella primavera del 1854, agguantando un passaggio a bordo della "Bella". Dopo poco tempo la barcaccia della "Bella" fu trovata dispersa in mare, e di Roger Tichborne venne dichiarata la morte presunta.
Sebbene la "Bella" fosse stata dichiarata perduta, la madre di Roger era convinta che lui fosse ancora vivo, e pubblicò su molti giornali nazionali e internazionali appelli per ricevere informazioni sul suo figlio perduto. Nel frattempo, il fratello minore Alfred era diventato l'undicesimo baronetto, ma l'alcolismo e le abitudini dissolute lo portarono alla morte prematura a 27 anni, lasciando sua moglie Theresa incinta del loro primo figlio.
Finalmente, nel 1866, Lady Henriette Tichborne ricevette la lettera che aspettava ansiosa da più di 10 anni. Un uomo proveniente da Wagga Wagga, in Australia, dichiarava di essere Roger Tichborne, sostenendo di essere stato salvato dal relitto e portato in quel continente per diventare poi un macellaio e un postino. La sua storia, per quanto inverosimile, venne creduta poiché l'uomo soffriva della stessa malformazione genitale di Roger.
Lady Tichborne non perse tempo ed invitò l'uomo che credeva essere suo figlio, insieme alla moglie e al bambino, a tornare in Inghilterra. Tuttavia, poiché Roger era stato dichiarato morto, e poiché la moglie di Alfred aveva dato alla luce un figlio maschio, l'uomo dall'Australia doveva provare la sua identità in un tribunale.
Il primo processo, quello civile, doveva provare se l'uomo di Wagga Wagga fosse in effetti Roger Tichborne. Sfortunatamente Lady Tichborne morì prima dell'apertura del caso, facendogli perdere così il suo teste principale poiché, come lei stessa disse, "come può una madre non riconoscere il proprio figlio?". Al fine di raccogliere fondi per l'assistenza legale, il pretendente cominciò a vendere "Obbligazioni Tichborne"; di fatto una scommessa sul risultato del processo, poiché venivano vendute tra le 40 e le 60 sterline, con la promessa di un rimborso a 100 sterline in caso di vittoria.
I costi del caso erano ragguardevoli, dato che alcuni commissari vennero mandati sia in Sud America che in Australia alla ricerca di testimoni in grado di identificare il pretendente. In queste indagini continuava ad apparire un nome: non quello di Roger Tichborne bensì quello di Arthur Orton di Wapping, figlio di un ricco proprietario navale mandato a fare un lungo viaggio di mare nella speranza di curarlo da una condizione psichica precaria.
Durante il processo, venne chiesto al richiedente cosa contenesse un pacchetto sigillato inviato da Roger prima della partenza per il Sud America a Vincent Gosford, suo domestico e amico intimo. Egli rispose sostenendo di aver avuto una relazione intima con la cugina Katty a Cheriton Mill, e che il pacchetto conteneva istruzioni per impedire che lei conoscesse altri uomini.
Una tale macchia nella reputazione di una Signora inorridì la nobiltà, e ciò, insieme alla ignominiosa vendita delle obbligazioni Tichborne, portò le classi abbienti a diventare il suo peggior nemico.
Dopo il rilascio su cauzione, il sedicente Tichborne cominciò un tour in sale da concerti, venendo a contatto con grandi folle. Molti collezionavano fotografie del pretendente e della sua famiglia, nonché dei Tichborne, come oggi si collezionano figurine dei calciatori; queste fotografie mostrano un uomo di fascino e sostanza. Persino al secondo processo, quello penale, il pretendente divenne un ospite popolare in cene e feste, ricevendo lettere di "fan" femminili che lo trovavano alquanto attraente.
Il secondo processo fu presieduto da Sir Alexander Cockburn, il Lord capo supremo della giustizia di Inghilterra, il quale lo accusò di 32 imputazioni di spergiuro. Il caso divenne di rilevanza nazionale, e i giornali mandavano in stampa edizioni speciali con notizie degli ultimi eventi dell'aula.
Il sedicente Tichborne venne condannato a 14 anni di lavori forzati, scontandone 10 e quattro mesi. I supporter della sua causa, vedendolo in fotografia con l'uniforme da carcerato, aumentarono ancora di più.
Dopo la scarcerazione, il pretendente fece ancora il giro delle sale da concerti per un paio d'anni, poi lentamente il caso perse interesse ed egli andò in America a cercar fortuna. Non avendo successo, tornò a Londra dove sposò Lily Enever, una concertista. Ebbero quattro figli, tutti morti in infanzia, e vissero nei bassifondi in totale povertà, fino al primo aprile 1898 quando il sedicente Tichborne morì nel sonno.
Un impresario di pompe funebri si fece carico dei costi di un modesto funerale; 5000 persone andarono al cimitero, e molti altri si assieparono sulla strada a rendere omaggio alla salma che passava.
Venne sepolto in una fossa per poveri, senza lapide, ma alla bara fu aggiunta, con il permesso della famiglia Tichborne, una placca recante la scritta "Sir Roger Charles Doughty Tichborne".
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martedì 28 febbraio 2023
lunedì 27 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 febbraio.
Il 27 febbraio 1511 i contadini da tutte le parti del Friuli si recano a Udine per festeggiare il Giovedì Grasso.
Ma il clima è incandescente: si esce da anni di scontri e scaramucce tra la popolazione e la classe dirigente, i nobili. I contadini sono stanchi dei soprusi dei nobili, i nobili non sanno come mantenere i propri privilegi visto che la dominazione veneta (dal 1420) ha tolto loro il potere.
I contadini si riuniscono quindi nel partito degli Zamberlani, capeggiato (per assurdo) da un nobile filoveneziano, Antonio Savorgnan, che vuole così imporre la sua supremazia sugli altri nobili. Le altre famiglie nobili si riuniscono nel partito degli Strumieri e vorrebbero che il Friuli tornasse sotto l'influsso dell'impero austriaco (come ai tempi del Patriarca).
Il giorno di Giovedì Grasso del 1511 Antonio Savorgnan, con dei pretesti fa scoppiare la rissa tra i suoi zamberlani e gli strumieri ed è subito il caos. I contadini, presi dalla fame e dall'odio atavico attaccano le case dei nobili e nessuno riesce a fermarli. I nobili udinesi vengono malmenati, derisi, inseguiti. Molti di questi, sopraffatti dalla folla, vengono uccisi, i loro cadaveri, spogliati, sono abbandonati nelle vie del centro. Alcuni cadaveri vengono gettati nel pozzo di via Savorgnana. La folla inferocita indossa gli abiti dei nobili uccisi e inscena una macabra mascherata. Solo durante la notte la pietà di alcuni udinesi fa sì che i cadaveri, che intanto erano stati assaliti e mangiati dai cani, vengano sepolti in una fossa comune.
Nei giorni successivi la rivolta si estende a tutta la regione: i contadini iniziano a prendersela anche con i nobili che abitano i castelli. La foga è incontenibile. Vengono incendiati i castelli di Villalta, Brazzacco, Arcano, Cergneu (Nimis), Zucco (Attimis), Tarcento, Fagagna, Moruzzo Colloredo, Pers, Mels, Caporiacco, San Daniele. I loro abitanti subiscono la stessa sorte dei nobili udinesi. A Tricesimo, Venzone, Gemona e Tolmezzo ci si limita a svaligiare le case della nobiltà. Infine la rivolta si sposta a occidente, verso Pordenone, Portogruaro, Porcia, San Vito, Zoppola, Valvasone. Il 26 marzo il castigo divino: un terribile terremoto devasta l'intera regione.
A stento e solo con l'uso della forza il governo veneziano riesce a riportare l'ordine tra i contadini. Da un lato vengono colpiti i capi della rivolta (con esecuzioni di massa), dall'altro finalmente Venezia decide di concedere dei diritti di rappresentanza ai contadini friulani creando l'istituto della Contadinanza, un consiglio i cui membri interagiscono con il Parlamento (formato dai nobili e dai comuni). Antonio Savorgnan, vista la mala parata, ripara a Villacco tradendo i veneziani e passando dalla parte dell'impero, ma una congiura di strumieri lo raggiunge nel 1512 e lo assassina.
Nel 1586 si esauriscono definitivamente gli strascichi di vendette e ritorsioni legati alla rivolta del 1511 che da allora rimarrà nella storia del Friuli con il nome di "Crudel Zobia Grassa".
Il 27 febbraio 1511 i contadini da tutte le parti del Friuli si recano a Udine per festeggiare il Giovedì Grasso.
Ma il clima è incandescente: si esce da anni di scontri e scaramucce tra la popolazione e la classe dirigente, i nobili. I contadini sono stanchi dei soprusi dei nobili, i nobili non sanno come mantenere i propri privilegi visto che la dominazione veneta (dal 1420) ha tolto loro il potere.
I contadini si riuniscono quindi nel partito degli Zamberlani, capeggiato (per assurdo) da un nobile filoveneziano, Antonio Savorgnan, che vuole così imporre la sua supremazia sugli altri nobili. Le altre famiglie nobili si riuniscono nel partito degli Strumieri e vorrebbero che il Friuli tornasse sotto l'influsso dell'impero austriaco (come ai tempi del Patriarca).
Il giorno di Giovedì Grasso del 1511 Antonio Savorgnan, con dei pretesti fa scoppiare la rissa tra i suoi zamberlani e gli strumieri ed è subito il caos. I contadini, presi dalla fame e dall'odio atavico attaccano le case dei nobili e nessuno riesce a fermarli. I nobili udinesi vengono malmenati, derisi, inseguiti. Molti di questi, sopraffatti dalla folla, vengono uccisi, i loro cadaveri, spogliati, sono abbandonati nelle vie del centro. Alcuni cadaveri vengono gettati nel pozzo di via Savorgnana. La folla inferocita indossa gli abiti dei nobili uccisi e inscena una macabra mascherata. Solo durante la notte la pietà di alcuni udinesi fa sì che i cadaveri, che intanto erano stati assaliti e mangiati dai cani, vengano sepolti in una fossa comune.
Nei giorni successivi la rivolta si estende a tutta la regione: i contadini iniziano a prendersela anche con i nobili che abitano i castelli. La foga è incontenibile. Vengono incendiati i castelli di Villalta, Brazzacco, Arcano, Cergneu (Nimis), Zucco (Attimis), Tarcento, Fagagna, Moruzzo Colloredo, Pers, Mels, Caporiacco, San Daniele. I loro abitanti subiscono la stessa sorte dei nobili udinesi. A Tricesimo, Venzone, Gemona e Tolmezzo ci si limita a svaligiare le case della nobiltà. Infine la rivolta si sposta a occidente, verso Pordenone, Portogruaro, Porcia, San Vito, Zoppola, Valvasone. Il 26 marzo il castigo divino: un terribile terremoto devasta l'intera regione.
A stento e solo con l'uso della forza il governo veneziano riesce a riportare l'ordine tra i contadini. Da un lato vengono colpiti i capi della rivolta (con esecuzioni di massa), dall'altro finalmente Venezia decide di concedere dei diritti di rappresentanza ai contadini friulani creando l'istituto della Contadinanza, un consiglio i cui membri interagiscono con il Parlamento (formato dai nobili e dai comuni). Antonio Savorgnan, vista la mala parata, ripara a Villacco tradendo i veneziani e passando dalla parte dell'impero, ma una congiura di strumieri lo raggiunge nel 1512 e lo assassina.
Nel 1586 si esauriscono definitivamente gli strascichi di vendette e ritorsioni legati alla rivolta del 1511 che da allora rimarrà nella storia del Friuli con il nome di "Crudel Zobia Grassa".
domenica 26 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 febbraio.
Il 26 febbraio 1802 nasce Victor Hugo.
Victor Hugo nacque a Besançon (Francia). Suo padre, Leopold-Sigisberg Hugo, generale dell'esercito napoleonico, seguì in Italia e in Spagna Giuseppe Bonaparte, e i figli e la moglie, Sofia Trebuchet, gli furono accanto nei suoi spostamenti. La Restaurazione pose fine a questo vagabondare. Dal 1815 al 1818, Victor visse a Parigi nel convitto Cordier dove il padre avrebbe voluto preparasse gli esami per essere ammesso all'Ecole Polytechnique.
Hugo uscì invece dall'Istituto ben convinto di dedicarsi alla letteratura e nel 1819 fondò con il fratello Abel il foglio "Il conservatore letterario". Nel 1822 i suoi primi scritti di intonazione monarchica e cattolica "Odi e poesie diverse", gli fruttarono dal re Luigi XVIII una pensione di 1000 franchi che fu accresciuta nel 1823 per la pubblicazione di "Han d'Islande". Lo stesso anno sposò Adele Foucher. Da questo matrimonio nacquero cinque figli. Sono di questi anni i suoi primi contatti con i circoli romantici parigini, primo fra tutti quello di Jacques Nodier alla Biblioteca dell'Arsenal, è del 1827 il "Cromwell", il dramma la cui prefazione è considerata giustamente il manifesto delle nuove teorie romantiche.
In quella prefazione, in sostanza, vi è un tentativo di definizione del gusto dell'uomo moderno per il dramma, genere fondato sui contrasti, sulla presenza del comico come del tragico, e soprattutto del grottesco (immagine della vita cara allo scrittore), e tradotta da un verso nuovo, aperto alle libere risorse della prosa. Lo sperimentalismo è alla radice delle opere di questo periodo. Il gusto dell'oriente, degli archeologi, di pittori come Delacroix, trovò riscontro nella sua produzione degli anni 1825-28 e sfociò nella pubblicazione di "Le Orientali ".
Nel 1830, poiché il "Cromwell" era un dramma di troppo vasta mole per essere rappresentato, sulla base delle teorie esposte, portò sulle scene l'"Hernani". Fu la battaglia decisiva e Victor Hugo fu riconosciuto capo della nuova scuola romantica. Gli scritti si susseguirono allora numerosi: opere drammatiche ("Marion Delorme" 1831; "Il re si diverte" 1832; "Lucrezia Borgia", "Maria Tudor", "Rui Blas", 1838); un romanzo ("Nôtre Dame de Paris"), quattro volumi di versi ("Le foglie d'autunno" 1831; "I canti del crepuscolo" 1835; "Le voci interiori" 1837; "I raggi e le ombre" 1840), e nel 1841 divenne membro dell'Accademia Francese. Due avvenimenti interruppero nel 1843 per un decennio la sua attività letteraria: la morte di sua figlia Léopoldine e l'insuccesso del dramma "I burgravi", che determinò la sua rinuncia al teatro.
Nel 1845 venne nominato da Luigi Filippo Pari di Francia, nel 1848 deputato all'Assemblea Costituente, dove fu uno dei più fieri avversari del presidente Luigi Bonaparte. Ma il colpo di stato del 1851 segnò per lui l'inizio dell'esilio, di quell'esilio che doveva durare fino al 4 settembre 1870. Furono letterariamente anni molti fecondi: nel 1853 pubblicò "Le punizioni", aspra satira contro Napoleone III, nel 1856 "Le contemplazioni", nel 1859 la prima serie della "Leggenda dei secoli" (il seguito uscirà nel 1877 e nel 1883), nel 1862 i "Miserabili". Rientrò a Parigi dopo il crollo del III impero, entrò nel Senato nel 1876 e morì il 22 maggio 1885. Le sue esequie furono un'apoteosi; la sua salma fu lasciata per una notte sotto l'Arco di Trionfo dei Campi Elisi e vegliata da dodici poeti.
Un altro suo capolavoro, "L'ultimo giorno di un condannato", fu pubblicato anonimo nel 1829.
La sua tomba si trova al Pantheon di Parigi, accanto a quella degli altri due grandi scrittori francesi del XIX secolo, Alexandre Dumas ed Émile Zola.
Il suo cervello è stato oggetto di studio, avendo un volume di 2000 cm3 (la media nell'uomo è di circa 1500 cm3).
Il 26 febbraio 1802 nasce Victor Hugo.
Victor Hugo nacque a Besançon (Francia). Suo padre, Leopold-Sigisberg Hugo, generale dell'esercito napoleonico, seguì in Italia e in Spagna Giuseppe Bonaparte, e i figli e la moglie, Sofia Trebuchet, gli furono accanto nei suoi spostamenti. La Restaurazione pose fine a questo vagabondare. Dal 1815 al 1818, Victor visse a Parigi nel convitto Cordier dove il padre avrebbe voluto preparasse gli esami per essere ammesso all'Ecole Polytechnique.
Hugo uscì invece dall'Istituto ben convinto di dedicarsi alla letteratura e nel 1819 fondò con il fratello Abel il foglio "Il conservatore letterario". Nel 1822 i suoi primi scritti di intonazione monarchica e cattolica "Odi e poesie diverse", gli fruttarono dal re Luigi XVIII una pensione di 1000 franchi che fu accresciuta nel 1823 per la pubblicazione di "Han d'Islande". Lo stesso anno sposò Adele Foucher. Da questo matrimonio nacquero cinque figli. Sono di questi anni i suoi primi contatti con i circoli romantici parigini, primo fra tutti quello di Jacques Nodier alla Biblioteca dell'Arsenal, è del 1827 il "Cromwell", il dramma la cui prefazione è considerata giustamente il manifesto delle nuove teorie romantiche.
In quella prefazione, in sostanza, vi è un tentativo di definizione del gusto dell'uomo moderno per il dramma, genere fondato sui contrasti, sulla presenza del comico come del tragico, e soprattutto del grottesco (immagine della vita cara allo scrittore), e tradotta da un verso nuovo, aperto alle libere risorse della prosa. Lo sperimentalismo è alla radice delle opere di questo periodo. Il gusto dell'oriente, degli archeologi, di pittori come Delacroix, trovò riscontro nella sua produzione degli anni 1825-28 e sfociò nella pubblicazione di "Le Orientali ".
Nel 1830, poiché il "Cromwell" era un dramma di troppo vasta mole per essere rappresentato, sulla base delle teorie esposte, portò sulle scene l'"Hernani". Fu la battaglia decisiva e Victor Hugo fu riconosciuto capo della nuova scuola romantica. Gli scritti si susseguirono allora numerosi: opere drammatiche ("Marion Delorme" 1831; "Il re si diverte" 1832; "Lucrezia Borgia", "Maria Tudor", "Rui Blas", 1838); un romanzo ("Nôtre Dame de Paris"), quattro volumi di versi ("Le foglie d'autunno" 1831; "I canti del crepuscolo" 1835; "Le voci interiori" 1837; "I raggi e le ombre" 1840), e nel 1841 divenne membro dell'Accademia Francese. Due avvenimenti interruppero nel 1843 per un decennio la sua attività letteraria: la morte di sua figlia Léopoldine e l'insuccesso del dramma "I burgravi", che determinò la sua rinuncia al teatro.
Nel 1845 venne nominato da Luigi Filippo Pari di Francia, nel 1848 deputato all'Assemblea Costituente, dove fu uno dei più fieri avversari del presidente Luigi Bonaparte. Ma il colpo di stato del 1851 segnò per lui l'inizio dell'esilio, di quell'esilio che doveva durare fino al 4 settembre 1870. Furono letterariamente anni molti fecondi: nel 1853 pubblicò "Le punizioni", aspra satira contro Napoleone III, nel 1856 "Le contemplazioni", nel 1859 la prima serie della "Leggenda dei secoli" (il seguito uscirà nel 1877 e nel 1883), nel 1862 i "Miserabili". Rientrò a Parigi dopo il crollo del III impero, entrò nel Senato nel 1876 e morì il 22 maggio 1885. Le sue esequie furono un'apoteosi; la sua salma fu lasciata per una notte sotto l'Arco di Trionfo dei Campi Elisi e vegliata da dodici poeti.
Un altro suo capolavoro, "L'ultimo giorno di un condannato", fu pubblicato anonimo nel 1829.
La sua tomba si trova al Pantheon di Parigi, accanto a quella degli altri due grandi scrittori francesi del XIX secolo, Alexandre Dumas ed Émile Zola.
Il suo cervello è stato oggetto di studio, avendo un volume di 2000 cm3 (la media nell'uomo è di circa 1500 cm3).
sabato 25 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 febbraio.
Il 25 febbraio 1995 Massimo Moratti acquista l'Inter Football Club.
20 anni ha trascorso Moratti alla guida dell’Inter e 19 sono gli allenatori passati nella sua storia in nerazzurro.
Il primo è Ottavio Bianchi, Campione d’Italia alla guida del Napoli nella stagione 1986-1987, resta all’Inter per poco più di un anno. Suo successore è Luis Suarez, leggenda nerazzurra ai tempi di Herrera e già allenatore dell’Inter nel 1974 e nel 1992. Tornato nel 1995 vivrà una brutta esperienza e da lì in poi deciderà di non allenare mai più. È Roy Hogdson, approdato nel 1996, il primo tecnico importante della storia morattiana: con l’inglese Moratti sfiora il primo trofeo della sua storia, ma soltanto i rigori impediranno ai nerazzurri di gioire in Coppa Uefa in finale contro lo Schalke. Quella finale persa porterà Hogdson a dimettersi e la società colmerà il buco lasciato dal tecnico promuovendo il preparatore dei portieri Luciano Castellini, all’Inter dal 1988.
Per la stagione successiva viene scelto Gigi Simoni, un vero signore, ancora oggi rimpianto dai tifosi della Beneamata. Guida l’Inter di Ronaldo e Recoba, stravincendo una Coppa Uefa in finale contro la Lazio a Parigi e sfiorando lo scudetto, trofeo mai accarezzato da Moratti prima di allora. È lui che regala il primo trofeo a Moratti, ma viene licenziato clamorosamente nella stagione seguente dopo aver eliminato il Real Madrid dalla Champions League grazie a Roberto Baggio in una notte che resterà sempre nella storia di questi colori. Da lì in poi verranno cambiati altri tre allenatori e la 98-99 sarà una tra le annate peggiori dell’era Moratti. Prima viene chiamato Mircea Lucescu, che alterna prestazioni favolose a flop pazzeschi come lo 0-4 in casa della Sampdoria, poi retrocessa, dopo tornerà Castellini e per le ultime partite di campionato siederà sulla panchina ancora Roy Hogdson, che chiuderà la stagione all’ottavo posto e perderà anche gli spareggi per entrare in Coppa Uefa contro il Bologna.
Nell’estate 1999 Moratti si accorda con Marcello Lippi, da tutti considerato come il miglior allenatore del momento, ma con un passato contrassegnato dall’esperienza alla Juventus, mai come in quegli anni rivale acerrima dei nerazzurri. Il presidente affida carta bianca al tecnico di Viareggio che sconvolge la rosa, privandosi di Pagliuca, Bergomi e Simeone e portando a Milano Peruzzi, Jugovic e Vieri. Gravi problemi con Baggio e Panucci portano difficoltà nello spogliatoio e la coppia Vieri-Ronaldo, che tanto accendeva le fantasie dei tifosi, non riesce ad esprimersi a causa dei gravissimi infortuni del Fenomeno che nella finale di Coppa Italia si rompe il tendine rotuleo e sta fuori per quasi 2 anni. A salvare la panchina di Lippi sarà proprio Baggio con una doppietta nello spareggio contro il Parma valido per qualificarsi ai preliminari di Champions League, ma all’inizio della stagione successiva l’eliminazione dalla Champions per mano della modesta squadra dell’Helsinborg e la sconfitta alla prima di campionato contro la Reggina, costano la panchina a Lippi. Al suo posto viene ingaggiato Marco Tardelli, proveniente da annate felici alla guida della nazionale under 21, ma la stagione sarà caratterizzata da tanti dolori e poche gioie, memorabile, in senso negativo, lo 0-6 nel derby contro il Milan.
Nell’estate 2001 si prova a dare una svolta ed insieme a tanti giocatori giovani che troveranno spazio come Kallon e Ventola, viene ingaggiato sulla panchina Hector Cuper, proveniente da due finali di Champions League con il Valencia. L’Inter acquisisce una mentalità vincente e guida in testa il campionato dalla prima fino alla penultima giornata, Ronaldo torna in campo e regala spettacolo con Vieri, ma la sconfitta per 4-2 contro la Lazio di Zaccheroni all’ultima giornata di campionato costerà il tricolore, che manca dal 1989, ai nerazzurri. Confermato Cuper, la 2002-2003 è una stagione più che positiva, ma sfortunata: in campionato arriva un secondo posto, in Champions la squadra arriva in semifinale, massimo risultato raggiunto dal 1972. Il Milan staccherà il biglietto per la finale tutta italiana di Manchester contro la Juventus, con due pareggi, in virtù del gol segnato fuori casa. Una brusca partenza nell’annata 2003-2004 costerà la panchina allo sfortunato Cuper, sostituito temporaneamente da Verdelli e definitivamente da Zaccheroni, lo stesso che aveva condannato i nerazzurri il 5 maggio. La partenza con l’allenatore romagnolo è entusiasmante e il campionato viene concluso con un positivo quarto posto.
Quella del 2004 è l’estate della svolta. Moratti affida la panchina a Roberto Mancini, da sempre stimato fin dai tempi in cui giocava. I nerazzurri, trascinati da Adriano, collezionano una serie impressionante di pareggi che da un lato sfiducia ancora i tifosi ormai stanchi di perdere, dall’altro dimostra una grande forza e tenacia nel rimanere imbattuti. Con Mancini arriverà finalmente, dopo 7 anni, un trofeo: l’Inter vince la Coppa Italia e lo farà anche l’anno successivo dopo aver sconfitto la Juventus in Supercoppa. Lo scudetto 2006 verrà assegnato all’Inter per le vicende di Calciopoli e gli acquisti di Ibrahimovic e Crespo permetteranno ai nerazzurri di trionfare in Italia anche nelle due annate successive, con il tricolore dominato del 2007 e quello sofferto del 2008, conquistato all’ultima giornata a Parma, con una doppietta di Zlatan Ibrahimovic. Le premature eliminazioni dell’Inter dalla Champions convinceranno Moratti a licenziare Mancini, ma il tecnico jesino chiude la sua esperienza in nerazzurro con 3 scudetti, 2 Coppa Italia e 2 Supercoppa Italiana. È lui il primo allenatore vincente dell’era Moratti.
Per essere protagonisti anche in Europa, Moratti decide di affidarsi al tecnico più importante dell’intero panorama calcistico internazionale: Josè Mourinho. Con il portoghese il primo anno non dimostra molti cambiamenti: l’Inter è sempre protagonista in Italia, ma in Champions arriva la solita eliminazione agli ottavi di finale, per mano del Manchester United. La vittoria in Supercoppa contro la Roma non basta per convincere i tifosi del grande cambio di rotta, l’Inter è Ibrahimovic-dipendente ed in Coppa Italia la Sampdoria di Mazzarri strapazza i nerazzurri in semifinale. L’anno successivo è quello della svolta: la società vende Ibrahimovic ed acquista elementi di grande caratura come Lucio, Thiago Motta, Sneijder, Eto’o e Milito. Sarà soprattutto grazie alla loro mentalità, oltre che alla mano dell’allenatore, che i nerazzurri riusciranno a vincere tutto. La sconfitta contro la Lazio in Supercoppa viene subito smaltita e Diego Milito sarà l’assoluto protagonista dell’anno con 30 reti stagionali. L’argentino segna contro la Roma in finale di Coppa Italia, segna contro il Siena all’ultima giornata di campionato e soprattutto segna due gol contro il Bayern Monaco nella finale di Champions League. Tre trofei vinti in meno di un mese, la Coppa dei Campioni, momenti di grande estasi e commozione per gente, come il capitano Zanetti, che aveva vissuto gli anni bui. Mourinho deciderà di andare via da vincente, in lacrime e per l’Inter si chiuderà un ciclo. Per lui 2 scudetti, 1 Champions League, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa Italiana.
Per il post-Mourinho, Moratti decide di confermare tutti i reduci del “triplete” ad esclusione del giovane Mario Balotelli, ceduto al Manchester City. Nonostante molti giocatori siano appagati dalle tante vittorie vengono confermati in toto. In panchina arriva un altro mostro sacro del calcio internazionale: Rafael Benitez. Lo spagnolo si presenta con una bella vittoria in Supercoppa Italiana contro la Roma, ma perde la Supercoppa europea contro l’Atletico Madrid. L’Inter non è la squadra schiacciasassi degli ultimi anni e resta indietro in campionato, dove si impone il Milan di Ibrahimovic, passato ai rossoneri. Nonostante la vittoria del Campionato del Mondo, Benitez verrà sollevato dall’incarico a dicembre del 2010 a causa di sue dichiarazioni contro la società, colpevole secondo il mister, di non aver acquistato nessun giocatore da lui richiesto. Andrà via con due trofei in pochi mesi. Sarà Leonardo, un uomo del Milan, a sostituirlo. Con il brasiliano l’Inter si rende protagonista di una rimonta favolosa in campionato che porterà i nerazzurri a -2 dal Milan prima dello scontro diretto. La squadra però crolla e perde malamente il derby, prima di essere eliminata dalla Champions ai quarti di finale in maniera ancora più umiliante, con una sconfitta 2-5 contro lo Schalke 04, dopo aver eliminato in una storica partita il Bayern Monaco agli ottavi. Leonardo vincerà la Coppa Italia e viene confermato da Moratti. Andrà via nell’estate 2011 per via dell’offerta del Psg che lo ingaggia come Ds. La Coppa Italia del 2011 è l’ultimo trofeo vinto dall’Inter di Moratti.
Al suo posto Moratti, dopo i no di Bielsa, Mihajlovic, Capello e Villas Boas, sceglie Gian Piero Gasperini, patito del 3-4-3, modulo utilizzato solo da Zaccheroni in nerazzurro prima di allora. Il presidente, legato alla difesa a 4 che ha dato tanti successi all’Inter, fa subito tanta pressione all’allenatore a riguardo e consiglia di utilizzare Pazzini come prima punta e non Milito, pupillo di Gasperini fin dai tempi del Genoa. La Supercoppa viene persa contro il Milan, il campionato inizia con una sconfitta a Palermo e la Champions comincia in maniera ancora più traumatica, con un’umiliante sconfitta casalinga contro il Trabzonspor. Un’ulteriore flop contro il Novara neopromosso costerà l’incarico a Gasperini, esonerato dopo sole tre partite di campionato. Nessun giocatore adatto al suo schema era stato acquistato da Moratti. Claudio Ranieri guiderà la squadra al suo posto, ma gli evidenti problemi manifestatisi anche con il romano, fanno luce sul vero problema dell’Inter, che non è l’allenatore. Ranieri dura fino a marzo, prima di essere sostituito in modo drastico da un giovane sconosciuto: Andrea Stramaccioni, tecnico promosso dalla primavera, per cui Moratti stravede. L’Inter decide di ricominciare da lui anche l’anno successivo e l’emergente dimostra di avere carattere e grande capacità con la squadra al completo. L’Inter sarà la prima formazione a battere la Juve di Conte e lo farà allo Juventus Stadium. Gli infortuni e tante situazioni avverse, firmeranno la sua condanna dopo una grande crisi ed un indecoroso nono posto.
Mazzarri è il tecnico della rifondazione, è su di lui che Moratti decide di puntare, ma sa già che la società verrà data in mano a Thohir. Uno screzio con lui induce il petroliere a lasciare l’Inter. A parte Mazzarri, solo con Gasperini e Lippi il presidente si è lasciato male. Simoni si chiede ancora per quale motivo sia stato licenziato, ma per il resto, è difficile sentire qualcuno parlare male di Massimo Moratti, come persona, nell’ambiente calcistico.
Oggi l'Inter è in mano ai cinesi, che hanno portato di nuovo a Milano uno scudetto, una coppa Italia e due Supercoppa Italiana, e Moratti è solo un tifoso eccellente.
Il 25 febbraio 1995 Massimo Moratti acquista l'Inter Football Club.
20 anni ha trascorso Moratti alla guida dell’Inter e 19 sono gli allenatori passati nella sua storia in nerazzurro.
Il primo è Ottavio Bianchi, Campione d’Italia alla guida del Napoli nella stagione 1986-1987, resta all’Inter per poco più di un anno. Suo successore è Luis Suarez, leggenda nerazzurra ai tempi di Herrera e già allenatore dell’Inter nel 1974 e nel 1992. Tornato nel 1995 vivrà una brutta esperienza e da lì in poi deciderà di non allenare mai più. È Roy Hogdson, approdato nel 1996, il primo tecnico importante della storia morattiana: con l’inglese Moratti sfiora il primo trofeo della sua storia, ma soltanto i rigori impediranno ai nerazzurri di gioire in Coppa Uefa in finale contro lo Schalke. Quella finale persa porterà Hogdson a dimettersi e la società colmerà il buco lasciato dal tecnico promuovendo il preparatore dei portieri Luciano Castellini, all’Inter dal 1988.
Per la stagione successiva viene scelto Gigi Simoni, un vero signore, ancora oggi rimpianto dai tifosi della Beneamata. Guida l’Inter di Ronaldo e Recoba, stravincendo una Coppa Uefa in finale contro la Lazio a Parigi e sfiorando lo scudetto, trofeo mai accarezzato da Moratti prima di allora. È lui che regala il primo trofeo a Moratti, ma viene licenziato clamorosamente nella stagione seguente dopo aver eliminato il Real Madrid dalla Champions League grazie a Roberto Baggio in una notte che resterà sempre nella storia di questi colori. Da lì in poi verranno cambiati altri tre allenatori e la 98-99 sarà una tra le annate peggiori dell’era Moratti. Prima viene chiamato Mircea Lucescu, che alterna prestazioni favolose a flop pazzeschi come lo 0-4 in casa della Sampdoria, poi retrocessa, dopo tornerà Castellini e per le ultime partite di campionato siederà sulla panchina ancora Roy Hogdson, che chiuderà la stagione all’ottavo posto e perderà anche gli spareggi per entrare in Coppa Uefa contro il Bologna.
Nell’estate 1999 Moratti si accorda con Marcello Lippi, da tutti considerato come il miglior allenatore del momento, ma con un passato contrassegnato dall’esperienza alla Juventus, mai come in quegli anni rivale acerrima dei nerazzurri. Il presidente affida carta bianca al tecnico di Viareggio che sconvolge la rosa, privandosi di Pagliuca, Bergomi e Simeone e portando a Milano Peruzzi, Jugovic e Vieri. Gravi problemi con Baggio e Panucci portano difficoltà nello spogliatoio e la coppia Vieri-Ronaldo, che tanto accendeva le fantasie dei tifosi, non riesce ad esprimersi a causa dei gravissimi infortuni del Fenomeno che nella finale di Coppa Italia si rompe il tendine rotuleo e sta fuori per quasi 2 anni. A salvare la panchina di Lippi sarà proprio Baggio con una doppietta nello spareggio contro il Parma valido per qualificarsi ai preliminari di Champions League, ma all’inizio della stagione successiva l’eliminazione dalla Champions per mano della modesta squadra dell’Helsinborg e la sconfitta alla prima di campionato contro la Reggina, costano la panchina a Lippi. Al suo posto viene ingaggiato Marco Tardelli, proveniente da annate felici alla guida della nazionale under 21, ma la stagione sarà caratterizzata da tanti dolori e poche gioie, memorabile, in senso negativo, lo 0-6 nel derby contro il Milan.
Nell’estate 2001 si prova a dare una svolta ed insieme a tanti giocatori giovani che troveranno spazio come Kallon e Ventola, viene ingaggiato sulla panchina Hector Cuper, proveniente da due finali di Champions League con il Valencia. L’Inter acquisisce una mentalità vincente e guida in testa il campionato dalla prima fino alla penultima giornata, Ronaldo torna in campo e regala spettacolo con Vieri, ma la sconfitta per 4-2 contro la Lazio di Zaccheroni all’ultima giornata di campionato costerà il tricolore, che manca dal 1989, ai nerazzurri. Confermato Cuper, la 2002-2003 è una stagione più che positiva, ma sfortunata: in campionato arriva un secondo posto, in Champions la squadra arriva in semifinale, massimo risultato raggiunto dal 1972. Il Milan staccherà il biglietto per la finale tutta italiana di Manchester contro la Juventus, con due pareggi, in virtù del gol segnato fuori casa. Una brusca partenza nell’annata 2003-2004 costerà la panchina allo sfortunato Cuper, sostituito temporaneamente da Verdelli e definitivamente da Zaccheroni, lo stesso che aveva condannato i nerazzurri il 5 maggio. La partenza con l’allenatore romagnolo è entusiasmante e il campionato viene concluso con un positivo quarto posto.
Quella del 2004 è l’estate della svolta. Moratti affida la panchina a Roberto Mancini, da sempre stimato fin dai tempi in cui giocava. I nerazzurri, trascinati da Adriano, collezionano una serie impressionante di pareggi che da un lato sfiducia ancora i tifosi ormai stanchi di perdere, dall’altro dimostra una grande forza e tenacia nel rimanere imbattuti. Con Mancini arriverà finalmente, dopo 7 anni, un trofeo: l’Inter vince la Coppa Italia e lo farà anche l’anno successivo dopo aver sconfitto la Juventus in Supercoppa. Lo scudetto 2006 verrà assegnato all’Inter per le vicende di Calciopoli e gli acquisti di Ibrahimovic e Crespo permetteranno ai nerazzurri di trionfare in Italia anche nelle due annate successive, con il tricolore dominato del 2007 e quello sofferto del 2008, conquistato all’ultima giornata a Parma, con una doppietta di Zlatan Ibrahimovic. Le premature eliminazioni dell’Inter dalla Champions convinceranno Moratti a licenziare Mancini, ma il tecnico jesino chiude la sua esperienza in nerazzurro con 3 scudetti, 2 Coppa Italia e 2 Supercoppa Italiana. È lui il primo allenatore vincente dell’era Moratti.
Per essere protagonisti anche in Europa, Moratti decide di affidarsi al tecnico più importante dell’intero panorama calcistico internazionale: Josè Mourinho. Con il portoghese il primo anno non dimostra molti cambiamenti: l’Inter è sempre protagonista in Italia, ma in Champions arriva la solita eliminazione agli ottavi di finale, per mano del Manchester United. La vittoria in Supercoppa contro la Roma non basta per convincere i tifosi del grande cambio di rotta, l’Inter è Ibrahimovic-dipendente ed in Coppa Italia la Sampdoria di Mazzarri strapazza i nerazzurri in semifinale. L’anno successivo è quello della svolta: la società vende Ibrahimovic ed acquista elementi di grande caratura come Lucio, Thiago Motta, Sneijder, Eto’o e Milito. Sarà soprattutto grazie alla loro mentalità, oltre che alla mano dell’allenatore, che i nerazzurri riusciranno a vincere tutto. La sconfitta contro la Lazio in Supercoppa viene subito smaltita e Diego Milito sarà l’assoluto protagonista dell’anno con 30 reti stagionali. L’argentino segna contro la Roma in finale di Coppa Italia, segna contro il Siena all’ultima giornata di campionato e soprattutto segna due gol contro il Bayern Monaco nella finale di Champions League. Tre trofei vinti in meno di un mese, la Coppa dei Campioni, momenti di grande estasi e commozione per gente, come il capitano Zanetti, che aveva vissuto gli anni bui. Mourinho deciderà di andare via da vincente, in lacrime e per l’Inter si chiuderà un ciclo. Per lui 2 scudetti, 1 Champions League, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa Italiana.
Per il post-Mourinho, Moratti decide di confermare tutti i reduci del “triplete” ad esclusione del giovane Mario Balotelli, ceduto al Manchester City. Nonostante molti giocatori siano appagati dalle tante vittorie vengono confermati in toto. In panchina arriva un altro mostro sacro del calcio internazionale: Rafael Benitez. Lo spagnolo si presenta con una bella vittoria in Supercoppa Italiana contro la Roma, ma perde la Supercoppa europea contro l’Atletico Madrid. L’Inter non è la squadra schiacciasassi degli ultimi anni e resta indietro in campionato, dove si impone il Milan di Ibrahimovic, passato ai rossoneri. Nonostante la vittoria del Campionato del Mondo, Benitez verrà sollevato dall’incarico a dicembre del 2010 a causa di sue dichiarazioni contro la società, colpevole secondo il mister, di non aver acquistato nessun giocatore da lui richiesto. Andrà via con due trofei in pochi mesi. Sarà Leonardo, un uomo del Milan, a sostituirlo. Con il brasiliano l’Inter si rende protagonista di una rimonta favolosa in campionato che porterà i nerazzurri a -2 dal Milan prima dello scontro diretto. La squadra però crolla e perde malamente il derby, prima di essere eliminata dalla Champions ai quarti di finale in maniera ancora più umiliante, con una sconfitta 2-5 contro lo Schalke 04, dopo aver eliminato in una storica partita il Bayern Monaco agli ottavi. Leonardo vincerà la Coppa Italia e viene confermato da Moratti. Andrà via nell’estate 2011 per via dell’offerta del Psg che lo ingaggia come Ds. La Coppa Italia del 2011 è l’ultimo trofeo vinto dall’Inter di Moratti.
Al suo posto Moratti, dopo i no di Bielsa, Mihajlovic, Capello e Villas Boas, sceglie Gian Piero Gasperini, patito del 3-4-3, modulo utilizzato solo da Zaccheroni in nerazzurro prima di allora. Il presidente, legato alla difesa a 4 che ha dato tanti successi all’Inter, fa subito tanta pressione all’allenatore a riguardo e consiglia di utilizzare Pazzini come prima punta e non Milito, pupillo di Gasperini fin dai tempi del Genoa. La Supercoppa viene persa contro il Milan, il campionato inizia con una sconfitta a Palermo e la Champions comincia in maniera ancora più traumatica, con un’umiliante sconfitta casalinga contro il Trabzonspor. Un’ulteriore flop contro il Novara neopromosso costerà l’incarico a Gasperini, esonerato dopo sole tre partite di campionato. Nessun giocatore adatto al suo schema era stato acquistato da Moratti. Claudio Ranieri guiderà la squadra al suo posto, ma gli evidenti problemi manifestatisi anche con il romano, fanno luce sul vero problema dell’Inter, che non è l’allenatore. Ranieri dura fino a marzo, prima di essere sostituito in modo drastico da un giovane sconosciuto: Andrea Stramaccioni, tecnico promosso dalla primavera, per cui Moratti stravede. L’Inter decide di ricominciare da lui anche l’anno successivo e l’emergente dimostra di avere carattere e grande capacità con la squadra al completo. L’Inter sarà la prima formazione a battere la Juve di Conte e lo farà allo Juventus Stadium. Gli infortuni e tante situazioni avverse, firmeranno la sua condanna dopo una grande crisi ed un indecoroso nono posto.
Mazzarri è il tecnico della rifondazione, è su di lui che Moratti decide di puntare, ma sa già che la società verrà data in mano a Thohir. Uno screzio con lui induce il petroliere a lasciare l’Inter. A parte Mazzarri, solo con Gasperini e Lippi il presidente si è lasciato male. Simoni si chiede ancora per quale motivo sia stato licenziato, ma per il resto, è difficile sentire qualcuno parlare male di Massimo Moratti, come persona, nell’ambiente calcistico.
Oggi l'Inter è in mano ai cinesi, che hanno portato di nuovo a Milano uno scudetto, una coppa Italia e due Supercoppa Italiana, e Moratti è solo un tifoso eccellente.
venerdì 24 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 febbraio.
Il 24 febbraio 2003 muore Alberto Sordi.
L'Albertone nazionale, uno dei più popolari attori del cinema italiano, è nato a Roma il 15 giugno 1920, nel cuore di Trastevere, da Pietro Sordi direttore d'orchestra e concertista presso il teatro dell'opera di Roma, e Maria Righetti, insegnante. Nel corso della sua carriera ultra cinquantennale ha recitato in circa 150 film. La sua avventura artistica è cominciata con alcuni programmi radiofonici popolari e lavorando come doppiatore.
Sin dal 1936 affronta diversi campi dello spettacolo: fantasista, comparsa in alcuni film, imitatore da avanspettacolo, boy di rivista e appunto doppiatore. In quegli anni vince il concorso della MGM come doppiatore dell'allora sconosciuto "Ollio" americano, caratterizzandolo in modo inconfondibile con la sua originalissima voce e cadenza.
Nel 1942 è il protagonista de "I tre aquilotti", di Mario Mattoli e nel frattempo si afferma sempre più nel mondo della rivista di varietà, di gran lunga lo spettacolo teatrale più seguito dagli italiani anche negli anni drammatici e tristi della guerra. Nel 1943 è al "Quirino" di Roma con "Ritorna Za-Bum", scritto da Marcello Marchesi con la regia di Mattoli. L'anno dopo segue il debutto al "Quattro Fontane" con "Sai che ti dico?", sempre di Marchesi con regia di Mattoli. Successivamente prende parte alla rivista "Imputati...alziamoci!" di Michele Galdieri ed il suo nome appare per la prima volta in grande nei manifesti dello spettacolo.
Il suo debutto nel mondo della televisione risale al 1948, quando, presentato alla neonata Rai dalla scrittrice Alba de Cespedes, conduce un programma di cui è anche autore, "Vi parla Alberto Sordi". Con l'occasione incide anche per la Fonit alcune canzonette da lui scritte, tra cui "Nonnetta", "Il carcerato", "Il gatto" e "Il milionario".
Grazie a queste esperienze ha dato vita a personaggi come il signor Coso, Mario Pio ed il conte Claro (o i celebri "compagnucci della parrocchietta"), personaggi che sono la base primaria della sua grande popolarità e che gli permettono d'interpretare (grazie a De Sica e Zavattini) "Mamma mia, che impressione!" (1951) di Roberto Savarese.
Il 1951 è anche l'anno della grande occasione, del salto di qualità. Passa dalla dimensione delle riviste e dei film leggeri a caratterizzazioni più importanti, soprattutto considerando quelle a fianco di un grande maestro quale Fellini (e Fellini a quel tempo era già "Fellini"). Quest'ultimo, infatti, lo sceglie per la parte del divo dei fotoromanzi ne "Lo sceicco bianco", un gran successo di pubblico. Malgrado ciò, l'attenzione per il palcoscenico dal vivo non viene meno e continua i suoi spettacoli a fianco di mostri sacri come Wanda Osiris o Garinei e Giovannini (grandi autori di commedie).
Vista l'ottima prova offerta ne "Lo sceicco bianco", Fellini lo richiama per un altro film. Questa volta, però, al di là del prestigio del regista e del richiamo dell'ormai popolare comico, nessuno dei due può immaginarsi che la pellicola che stanno preparando li proietterà direttamente nella storia del cinema, quella con la "S" maiuscola. Nel '53 esce infatti "I vitelloni", un caposaldo del cinema di ogni tempo, acclamato da subito da critica e pubblico all'unisono. Qui l'attore inventa una caratterizzazione che diverrà protagonista di molti suoi film: un tipo petulante, malizioso ed ingenuo allo stesso tempo.
Sordi è ormai una star, un vero e proprio mattatore del box-office: solo nel '54 escono tredici film da lui interpretati, fra cui "Un americano a Roma" di Steno, nel quale reinterpreta Nando Moriconi, lo spaccone romano con il mito degli States (l'anno successivo, negli Stati Uniti, a Kansas City, riceverà le chiavi della città e la carica di Governatore onorario come "premio" per la propaganda favorevole all'America promossa dal suo personaggio). Sempre nel '54 vince il "Nastro d'argento" come miglior attore non protagonista per "I vitelloni".
Successivamente, Sordi darà vita ad una galleria di ritratti quasi tutti negativi, con l'intento di tratteggiare di volta in volta i difetti più tipici ed evidenti degli italiani, a volte sottolineati con fare benevolo altre volte invece sviluppati attraverso una satira feroce.
L'escalation di Sordi continua inarrestabile e avrà il suo apogeo negli anni Sessanta, il periodo d'oro della commedia all'italiana. Fra i riconoscimenti vanno segnalati il "Nastro d'argento" come miglior attore protagonista per "La grande guerra" di Monicelli, il "David di Donatello" per "I magliari" e "Tutti a casa" di Comencini (per cui riceve anche una "Grolla d'oro"), "Globo d'oro" negli Stati Uniti ed "Orso d'oro" a Berlino per "Il diavolo" di Polidoro, senza contare le innumerevoli e magistrali interpretazioni in tantissimi altri film che, nel bene o nel male, hanno segnato il cinema italiano. In un'ipotetica scorsa riassuntiva di tutto questo materiale, quello che ne uscirebbe sarebbe una galleria inesauribile di ritratti, indispensabile per avere un quadro realistico dell'Italia dell'epoca.
Nel '66 Sordi si cimenta anche come regista. Ne scaturisce il film "Fumo di Londra", che si aggiudica il "David di Donatello", mentre, due anni dopo, torna a farsi dirigere da altri due maestri della commedia come Zampa e Nanni Loy, rispettivamente nel grottesco "Il medico della mutua" (una satira che metteva all'indice il sistema sanitario nazionale e le sue tare), e nel "Detenuto in attesa di giudizio".
Ma Sordi è stato un grande e ha potuto esprimere il suo poliedrico talento anche nell'ambito del cinema drammatico. Una prova famosa per intensità è quella di "Un borghese piccolo piccolo", sempre di Monicelli, che gli valse l'ennesimo "David di Donatello" per l'interpretazione.
Ormai le situazioni e i personaggi rappresentati dall'attore sono talmente ampi e vari che egli può legittimamente affermare di aver contribuito fattivamente alla conoscenza storica dell'Italia.
"Storia di un italiano", videocassette che mescolano brani dei film di Sordi a filmati d'archivio (riproposizione di una serie che andava in onda nel '79 su Rai due), vengono distribuite nelle scuole italiane, come complemento dei libri di testo. Sordi, a proposito ha affermato che "Senza volermi sostituire ai manuali didattici, vorrei dare un contributo alla conoscenza della storia di questo Paese. Non foss'altro perché, in duecento film, con i miei personaggi ho raccontato tutti i momenti del Novecento".
Nel 1994 dirige, interpreta e sceneggia, insieme al fedele Sonego, "Nestore - L'ultima corsa". Grazie alla rilevanza delle tematiche affrontate il film è scelto dal Ministero della Pubblica Istruzione per promuovere nelle scuole una campagna di sensibilizzazione sulle problematiche degli anziani e del rispetto degli animali. L'anno successivo al Festival del Cinema di Venezia, dove viene presentato "Romanzo di un giovane povero" di Ettore Scola, riceve il "Leone d'oro" alla carriera.
Nel 1997 Los Angeles e San Francisco gli dedicano una rassegna di 24 film che riscuote un grandissimo successo di pubblico. Due anni dopo altro "David di Donatello" per "i sessant'anni di straordinaria" carriera. Il 15 giugno del 2000, in occasione dei suoi 80 anni, il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, gli cede per un giorno lo "scettro" della città.
Altri significativi riconoscimenti gli sono stati assegnati anche da istituzioni accademiche, attraverso l'assegnazione di lauree "honoris causa" in Scienze della Comunicazione (rispettivamente dallo Iulm di Milano e dall'Università di Salerno). La motivazione della laurea milanese recita: "la laurea viene assegnata ad Alberto Sordi per la coerenza di un lavoro che non ha eguali e per l'eccezionale capacità di usare il cinema per comunicare e trasmettere l'ideale storia di valori e costumi dell'Italia moderna dall'inizio del Novecento a oggi".
Scompare all'età di 82 anni il 24 febbraio 2003 nella sua villa di Roma, dopo una grave malattia durata sei mesi.
La salma, sottoposta a imbalsamazione, venne traslata nella sala delle armi del Campidoglio, dove per due giorni ricevette l'omaggio ininterrotto di una folla immensa; il 27 febbraio si svolsero i funerali solenni nella Basilica di San Giovanni in Laterano davanti a circa 500.000 persone. Sordi riposa oggi nella sua tomba di famiglia, presso il cimitero monumentale del Verano. L'epitaffio sulla lapide recita: Sor Marchese, è l'ora, battuta ripresa da uno dei suoi film più famosi e riusciti, Il marchese del Grillo.
Il 24 febbraio 2003 muore Alberto Sordi.
L'Albertone nazionale, uno dei più popolari attori del cinema italiano, è nato a Roma il 15 giugno 1920, nel cuore di Trastevere, da Pietro Sordi direttore d'orchestra e concertista presso il teatro dell'opera di Roma, e Maria Righetti, insegnante. Nel corso della sua carriera ultra cinquantennale ha recitato in circa 150 film. La sua avventura artistica è cominciata con alcuni programmi radiofonici popolari e lavorando come doppiatore.
Sin dal 1936 affronta diversi campi dello spettacolo: fantasista, comparsa in alcuni film, imitatore da avanspettacolo, boy di rivista e appunto doppiatore. In quegli anni vince il concorso della MGM come doppiatore dell'allora sconosciuto "Ollio" americano, caratterizzandolo in modo inconfondibile con la sua originalissima voce e cadenza.
Nel 1942 è il protagonista de "I tre aquilotti", di Mario Mattoli e nel frattempo si afferma sempre più nel mondo della rivista di varietà, di gran lunga lo spettacolo teatrale più seguito dagli italiani anche negli anni drammatici e tristi della guerra. Nel 1943 è al "Quirino" di Roma con "Ritorna Za-Bum", scritto da Marcello Marchesi con la regia di Mattoli. L'anno dopo segue il debutto al "Quattro Fontane" con "Sai che ti dico?", sempre di Marchesi con regia di Mattoli. Successivamente prende parte alla rivista "Imputati...alziamoci!" di Michele Galdieri ed il suo nome appare per la prima volta in grande nei manifesti dello spettacolo.
Il suo debutto nel mondo della televisione risale al 1948, quando, presentato alla neonata Rai dalla scrittrice Alba de Cespedes, conduce un programma di cui è anche autore, "Vi parla Alberto Sordi". Con l'occasione incide anche per la Fonit alcune canzonette da lui scritte, tra cui "Nonnetta", "Il carcerato", "Il gatto" e "Il milionario".
Grazie a queste esperienze ha dato vita a personaggi come il signor Coso, Mario Pio ed il conte Claro (o i celebri "compagnucci della parrocchietta"), personaggi che sono la base primaria della sua grande popolarità e che gli permettono d'interpretare (grazie a De Sica e Zavattini) "Mamma mia, che impressione!" (1951) di Roberto Savarese.
Il 1951 è anche l'anno della grande occasione, del salto di qualità. Passa dalla dimensione delle riviste e dei film leggeri a caratterizzazioni più importanti, soprattutto considerando quelle a fianco di un grande maestro quale Fellini (e Fellini a quel tempo era già "Fellini"). Quest'ultimo, infatti, lo sceglie per la parte del divo dei fotoromanzi ne "Lo sceicco bianco", un gran successo di pubblico. Malgrado ciò, l'attenzione per il palcoscenico dal vivo non viene meno e continua i suoi spettacoli a fianco di mostri sacri come Wanda Osiris o Garinei e Giovannini (grandi autori di commedie).
Vista l'ottima prova offerta ne "Lo sceicco bianco", Fellini lo richiama per un altro film. Questa volta, però, al di là del prestigio del regista e del richiamo dell'ormai popolare comico, nessuno dei due può immaginarsi che la pellicola che stanno preparando li proietterà direttamente nella storia del cinema, quella con la "S" maiuscola. Nel '53 esce infatti "I vitelloni", un caposaldo del cinema di ogni tempo, acclamato da subito da critica e pubblico all'unisono. Qui l'attore inventa una caratterizzazione che diverrà protagonista di molti suoi film: un tipo petulante, malizioso ed ingenuo allo stesso tempo.
Sordi è ormai una star, un vero e proprio mattatore del box-office: solo nel '54 escono tredici film da lui interpretati, fra cui "Un americano a Roma" di Steno, nel quale reinterpreta Nando Moriconi, lo spaccone romano con il mito degli States (l'anno successivo, negli Stati Uniti, a Kansas City, riceverà le chiavi della città e la carica di Governatore onorario come "premio" per la propaganda favorevole all'America promossa dal suo personaggio). Sempre nel '54 vince il "Nastro d'argento" come miglior attore non protagonista per "I vitelloni".
Successivamente, Sordi darà vita ad una galleria di ritratti quasi tutti negativi, con l'intento di tratteggiare di volta in volta i difetti più tipici ed evidenti degli italiani, a volte sottolineati con fare benevolo altre volte invece sviluppati attraverso una satira feroce.
L'escalation di Sordi continua inarrestabile e avrà il suo apogeo negli anni Sessanta, il periodo d'oro della commedia all'italiana. Fra i riconoscimenti vanno segnalati il "Nastro d'argento" come miglior attore protagonista per "La grande guerra" di Monicelli, il "David di Donatello" per "I magliari" e "Tutti a casa" di Comencini (per cui riceve anche una "Grolla d'oro"), "Globo d'oro" negli Stati Uniti ed "Orso d'oro" a Berlino per "Il diavolo" di Polidoro, senza contare le innumerevoli e magistrali interpretazioni in tantissimi altri film che, nel bene o nel male, hanno segnato il cinema italiano. In un'ipotetica scorsa riassuntiva di tutto questo materiale, quello che ne uscirebbe sarebbe una galleria inesauribile di ritratti, indispensabile per avere un quadro realistico dell'Italia dell'epoca.
Nel '66 Sordi si cimenta anche come regista. Ne scaturisce il film "Fumo di Londra", che si aggiudica il "David di Donatello", mentre, due anni dopo, torna a farsi dirigere da altri due maestri della commedia come Zampa e Nanni Loy, rispettivamente nel grottesco "Il medico della mutua" (una satira che metteva all'indice il sistema sanitario nazionale e le sue tare), e nel "Detenuto in attesa di giudizio".
Ma Sordi è stato un grande e ha potuto esprimere il suo poliedrico talento anche nell'ambito del cinema drammatico. Una prova famosa per intensità è quella di "Un borghese piccolo piccolo", sempre di Monicelli, che gli valse l'ennesimo "David di Donatello" per l'interpretazione.
Ormai le situazioni e i personaggi rappresentati dall'attore sono talmente ampi e vari che egli può legittimamente affermare di aver contribuito fattivamente alla conoscenza storica dell'Italia.
"Storia di un italiano", videocassette che mescolano brani dei film di Sordi a filmati d'archivio (riproposizione di una serie che andava in onda nel '79 su Rai due), vengono distribuite nelle scuole italiane, come complemento dei libri di testo. Sordi, a proposito ha affermato che "Senza volermi sostituire ai manuali didattici, vorrei dare un contributo alla conoscenza della storia di questo Paese. Non foss'altro perché, in duecento film, con i miei personaggi ho raccontato tutti i momenti del Novecento".
Nel 1994 dirige, interpreta e sceneggia, insieme al fedele Sonego, "Nestore - L'ultima corsa". Grazie alla rilevanza delle tematiche affrontate il film è scelto dal Ministero della Pubblica Istruzione per promuovere nelle scuole una campagna di sensibilizzazione sulle problematiche degli anziani e del rispetto degli animali. L'anno successivo al Festival del Cinema di Venezia, dove viene presentato "Romanzo di un giovane povero" di Ettore Scola, riceve il "Leone d'oro" alla carriera.
Nel 1997 Los Angeles e San Francisco gli dedicano una rassegna di 24 film che riscuote un grandissimo successo di pubblico. Due anni dopo altro "David di Donatello" per "i sessant'anni di straordinaria" carriera. Il 15 giugno del 2000, in occasione dei suoi 80 anni, il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, gli cede per un giorno lo "scettro" della città.
Altri significativi riconoscimenti gli sono stati assegnati anche da istituzioni accademiche, attraverso l'assegnazione di lauree "honoris causa" in Scienze della Comunicazione (rispettivamente dallo Iulm di Milano e dall'Università di Salerno). La motivazione della laurea milanese recita: "la laurea viene assegnata ad Alberto Sordi per la coerenza di un lavoro che non ha eguali e per l'eccezionale capacità di usare il cinema per comunicare e trasmettere l'ideale storia di valori e costumi dell'Italia moderna dall'inizio del Novecento a oggi".
Scompare all'età di 82 anni il 24 febbraio 2003 nella sua villa di Roma, dopo una grave malattia durata sei mesi.
La salma, sottoposta a imbalsamazione, venne traslata nella sala delle armi del Campidoglio, dove per due giorni ricevette l'omaggio ininterrotto di una folla immensa; il 27 febbraio si svolsero i funerali solenni nella Basilica di San Giovanni in Laterano davanti a circa 500.000 persone. Sordi riposa oggi nella sua tomba di famiglia, presso il cimitero monumentale del Verano. L'epitaffio sulla lapide recita: Sor Marchese, è l'ora, battuta ripresa da uno dei suoi film più famosi e riusciti, Il marchese del Grillo.
giovedì 23 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 febbraio.
Il 23 febbraio 1974 il Gruppo di Liberazione Simbionese, che aveva rapito la ricca ereditiera Patricia Hearst, chiede 4 milioni di dollari di riscatto. Il caso di Patty Hearst diverrà famoso per lo studio della Sindrome di Stoccolma.
Patty Hearst nasce il 20 febbraio 1954 a Los Angeles, nipote di WIlliam Randolph Hearst, fondatore dell'impero dei media Hearst.
Il 4 febbraio 1974 venne rapita all'età di 19 anni da membri dell'Armata di Liberazione Simbionese (SLA), desiderosi di raccogliere un ricco riscatto dal nonno.
Due mesi dopo la cattura, Patricia registrò una audiocassetta che fece presto il giro del mondo, nella quale annunciava di essere entrata nel gruppo SLA. Successivamente furono distribuite altre cassette con la voce di Patty, e la giovane donna cominciò a partecipare attivamente ai crimini della SLA in California, furti, estorsioni, senza tralasciare il riscatto di circa 2 milioni di dollari ottenuto dal padre.
Il 18 settembre 1975, dopo più di 19 mesi di latitanza, la Hearst fu catturata dall'FBI e la primavera successiva al processo (difesa da Lee Bailey, che in seguito assumerà la difesa anche di O.J. Simpson) fu condannata a 35 anni di prigione. Fu comunque rilasciata due anni più tardi, dopo che il Presidente Jimmy Carter le commutò la pena.
L'esperienza di Patricia Hearst con il gruppo SLA, e in particolare i dettagli della sua transizione da vittima a supporter, ha suscitato l'interesse di centinaia di psicologi ispirati dalla sua storia. Il cambio di comportamento di Patty verso i rapitori è stato unanimemente attribuito a un fenomeno psicologico chiamato "la sindrome di Stoccolma", nel quale gli ostaggi cominciano a sviluppare sentimenti positivi verso i loro rapitori, effetto che si pensa abbia luogo quando le esperienze inizialmente terrificanti con i rapitori vengono sostituite da atti di compassione o appartenenza da parte degli stessi.
Il 23 febbraio 1974 il Gruppo di Liberazione Simbionese, che aveva rapito la ricca ereditiera Patricia Hearst, chiede 4 milioni di dollari di riscatto. Il caso di Patty Hearst diverrà famoso per lo studio della Sindrome di Stoccolma.
Patty Hearst nasce il 20 febbraio 1954 a Los Angeles, nipote di WIlliam Randolph Hearst, fondatore dell'impero dei media Hearst.
Il 4 febbraio 1974 venne rapita all'età di 19 anni da membri dell'Armata di Liberazione Simbionese (SLA), desiderosi di raccogliere un ricco riscatto dal nonno.
Due mesi dopo la cattura, Patricia registrò una audiocassetta che fece presto il giro del mondo, nella quale annunciava di essere entrata nel gruppo SLA. Successivamente furono distribuite altre cassette con la voce di Patty, e la giovane donna cominciò a partecipare attivamente ai crimini della SLA in California, furti, estorsioni, senza tralasciare il riscatto di circa 2 milioni di dollari ottenuto dal padre.
Il 18 settembre 1975, dopo più di 19 mesi di latitanza, la Hearst fu catturata dall'FBI e la primavera successiva al processo (difesa da Lee Bailey, che in seguito assumerà la difesa anche di O.J. Simpson) fu condannata a 35 anni di prigione. Fu comunque rilasciata due anni più tardi, dopo che il Presidente Jimmy Carter le commutò la pena.
L'esperienza di Patricia Hearst con il gruppo SLA, e in particolare i dettagli della sua transizione da vittima a supporter, ha suscitato l'interesse di centinaia di psicologi ispirati dalla sua storia. Il cambio di comportamento di Patty verso i rapitori è stato unanimemente attribuito a un fenomeno psicologico chiamato "la sindrome di Stoccolma", nel quale gli ostaggi cominciano a sviluppare sentimenti positivi verso i loro rapitori, effetto che si pensa abbia luogo quando le esperienze inizialmente terrificanti con i rapitori vengono sostituite da atti di compassione o appartenenza da parte degli stessi.
mercoledì 22 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 febbraio.
Il 22 febbraio 1931 viene varata la Amerigo Vespucci.
Nella seconda metà degli anni Venti la Marina Militare Italiana affrontò il problema di rinnovare le Unità destinate all'addestramento degli Allievi dell'Accademia Navale. Lo Stato Maggiore ritenne che, nonostante lo sviluppo della nuova flotta fosse orientato verso una tecnologia sempre più avanzata, il "miglior" impatto con l'ambiente marino e la sua conoscenza fosse quello che si poteva apprezzare stando a bordo di una nave a vela, che del mare e del vento subisce maggiormente i condizionamenti e che degli elementi naturali richiede quindi la più vasta conoscenza. Del resto, già dal 1893 l'attività in mare per gli Allievi dell'Accademia Navale veniva effettuata a bordo di una nave a vela, che portava anch'essa il nome di Amerigo Vespucci, un ex-incrociatore entrato in servizio nel febbraio del 1885 come Nave di 1ª linea, poi adattato a Nave Scuola.
Nel 1925 quindi, approssimandosi la fine della vita operativa del primo Amerigo Vespucci, per iniziativa dell'Ammiraglio Giuseppe Sirianni, Ministro della Marina, fu decisa la costruzione di due Navi Scuola, affidandone il progetto al Tenente Colonnello del Genio Navale Francesco Rotundi, il quale, nel disegnarne le forme, si ispirò a quelle di un vascello della fine del Settecento/inizi Ottocento. La prima delle due Unità, il Cristoforo Colombo, entrò in servizio nel 1928 e fu impiegata come Nave Scuola fino al 1943; dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale fu ceduta all'Unione Sovietica in conto risarcimento danni di guerra. L'Amerigo Vespucci impostata il 12 maggio 1930 nel Regio Cantiere Navale di Castellamare di Stabia, fu varata il 22 febbraio 1931 ed entrò in servizio a luglio dello stesso anno. Il 4 luglio 1931, al comando del Capitano di Vascello Augusto Radicati di Marmorito, nobile piemontese (che, con il grado di Capitano di Fregata, era stato l'ultimo Comandante del precedente Amerigo Vespucci), partì per la sua prima Campagna Addestrativa in Nord Europa.
Al rientro dalla prima Campagna di Istruzione, il 15 ottobre 1931 ricevette a Genova la Bandiera di Combattimento, offerta dal locale Gruppo UNUCI (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d'Italia).
Il motto della Nave è "Non chi comincia ma quel che persevera", assegnato nel 1978; originariamente il motto era "Per la Patria e per il Re", già appartenuto al precedente Amerigo Vespucci, sostituito una prima volta, dopo il secondo conflitto mondiale, con "Saldi nella furia dei venti e degli eventi", infine con quello attuale.
Dal punto di vista tecnico-costruttivo l'Amerigo Vespucci è una Nave a Vela con motore; dal punto di vista dell'attrezzatura velica è "armata a Nave", quindi con tre alberi verticali, trinchetto, maestra e mezzana, tutti dotati di pennoni e vele quadre, più il bompresso sporgente a prora, a tutti gli effetti un quarto albero. L'Unità è inoltre fornita di vele di taglio: i fiocchi, a prora, fra il bompresso e il trinchetto, gli stralli, fra trinchetto e maestra e fra maestra e mezzana, e la randa, dotata di boma e picco, sulla mezzana.
Il porto di assegnazione è La Spezia.
La Dipendenza Organico/Operativa dell’Unità è CINCNAV (Comando in Capo della Squadra Navale) dal 14 ottobre 2013.
Dalla sua entrata in servizio la Nave ha svolto ogni anno attività addestrativa (ad eccezione del 1940, a causa degli eventi bellici, e degli anni 1964, 1973 e 1997, per lavori straordinari), principalmente a favore degli allievi dell'Accademia Navale, ma anche degli allievi del Collegio Navale, ora Scuola Navale Militare "Francesco Morosini", degli allievi nocchieri, nonché di giovani facenti parte di associazioni veliche, quali la Lega Navale Italiana, la Sail Training Association - Italia ed anche l’ANMI.
Oltre a numerose brevi campagne in Mediterraneo, effettuate per lo più nel periodo primaverile e autunnale, da quella del 1931 a quella del 2013 l'Amerigo Vespucci ha effettuato ben 79 Campagne di Istruzione a favore degli Allievi della 1ª Classe dell'Accademia Navale, di cui 42 in Nord Europa, 23 in Mediterraneo, 4 in Atlantico Orientale, 7 in Nord America, 1 in Sud America e 2 nell'ambito dell’unica circumnavigazione del globo, compiuta tra il maggio 2002 ed il settembre 2003, periodo nel quale la Nave è stata coinvolta nelle attività connesse con l’edizione della America’s Cup del 2003 in Nuova Zelanda.
Le Campagne di Istruzione, svolte nel periodo estivo, hanno una durata media di tre mesi e toccano per lo più porti esteri; durante tali Campagne, quindi, l'attività della Nave, eminentemente formativa-addestrativa, si arricchisce dell'aspetto di presenza e rappresentanza (quale la Naval Diplomacy), contribuendo ad affermare l'immagine nazionale e della Marina Militare all'estero.
Per quanto attiene l'aspetto formativo-addestrativo, agli Allievi imbarcati vengono impartite le norme basilari del vivere per mare, come pure le competenze più specifiche nei vari settori: marinaresco, condotta dell'Unità (compreso l'utilizzo del sestante per effettuare il punto nave), condotta dell'apparato motore ed ausiliari, gestione delle problematiche di tipo logistico, amministrativo e sanitario. A tale scopo, oltre all'attività pratica, vengono organizzate conferenze e lezioni tenute dai membri dell'equipaggio più esperti; il livello di apprendimento viene poi accertato alla fine della Campagna a mezzo di verifiche scritte ed orali.
Lo scafo è del tipo a tre ponti principali, continui da prora a poppa (di coperta, di batteria e di corridoio), più vari ponti parziali (copertini); possiede due sovrastrutture principali, il castello a prora e il cassero a poppa, che si elevano sul ponte di coperta ma che idealmente ne sono la continuazione. Il caratteristico colore bianco e nero sottolinea il richiamo al passato: le fasce bianche in corrispondenza dei ponti di batteria e corridoio ricordano infatti le due linee di cannoni del vascello ottocentesco alla cui tipologia il progettista si era ispirato.
A prora della nave si trova la polena, che rappresenta Amerigo Vespucci, realizzata in bronzo dorato. Caratteristica della nave sono i fregi di prora e l'arabesco di poppa, in legno ricoperti di foglia d'oro zecchino.
Il fasciame è composto da lamiere di acciaio di vario spessore (da 12 a 16 mm.), collegate mediante chiodatura alle costole, che costituiscono assieme alla chiglia e ai bagli l'ossatura della nave. Tale sistema garantisce la necessaria flessibilità al trave nave; l'impermeabilità del tutto è assicurata dallo stretto contatto fra metallo e metallo, fortemente compressi dalla fitta chiodatura, che deve essere quindi realizzata a regola d'arte.
Tutti gli alberi, compreso il bompresso, sono costituiti da tre tronchi, di cui i primi due in acciaio (anch'essi realizzati mediante lamiere chiodate), il terzo, denominato alberetto per gli alberi verticali, asta di controfiocco per il bompresso, è in legno (douglas). I pennoni seguono la medesima filosofia costruttiva: i tre inferiori sono in acciaio, i due superiori in legno. Per quanto attiene la randa, il boma è in acciaio mentre il picco è in legno. Molte altre parti della nave sono in legno, diversificato a seconda delle caratteristiche richieste: teak per il ponte di coperta, la battagliola e la timoneria, mogano, teak e legno santo per le attrezzature marinaresche (pazienze, caviglie e bozzelli), frassino per i carabottini, rovere per gli arredi del Quadrato Ufficiali e per gli alloggi Ufficiali, mogano e noce per la Sala Consiglio. La lunghezza della Nave al galleggiamento è di 82 metri, ma tra la poppa estrema e l'estremità del bompresso si raggiungono i 101 metri. La larghezza massima dello scafo è di 15,5 metri, che arrivano a 21 metri considerando l'ingombro delle imbarcazioni, che sporgono dalla murata, e a 28 metri considerando le estremità del pennone più lungo, il trevo di maestra. L'immersione massima è pari a 7,3 metri.
L'unità è dotata di ben 11 imbarcazioni: due motoscafi, di cui uno riservato al Comandante, due motobarche, due motolance, quattro palischermi a vela e a remi, utilizzati per l'addestramento degli Allievi, e la baleniera, anch'essa a remi e a vela, tradizionalmente riservata al Comandante con un armo di soli Ufficiali. Il dislocamento a pieno carico è pari a 4100 tonnellate.
Gli alberi, precedentemente descritti, sono mantenuti in posizione grazie a cavi di acciaio (manovre fisse o dormienti) che li sostengono verso prora (stralli) verso i lati (sartie) e verso poppa (paterazzi). Sugli stralli sono inferiti inoltre i fiocchi e le vele di strallo. L'altezza degli alberi sul livello del mare è di 50 metri per il trinchetto, 54 metri per la maestra e 43 metri per la mezzana; il bompresso sporge per 18 metri.
I tre alberi verticali portano ciascuno cinque pennoni, dal caratteristico nome, comune anche alla vela relativa: sul trinchetto si trovano, dal basso, trevo di trinchetto, parrocchetto fisso, parrocchetto volante, velaccino e controvelaccino; sulla maestra trevo di maestra, gabbia fissa, gabbia volante, velaccio e controvelaccio; sulla mezzana trevo di mezzana, contromezzana fissa, contromezzana volante, belvedere e controbelvedere. Il trevo di mezzana è normalmente tenuto sguarnito dalla vela (che toglierebbe il vento al trevo di maestra) e prende quindi il nome di "verga secca". In ciascun albero i due pennoni inferiori sono fissi (possono solo ruotare sul piano orizzontale), mentre i tre superiori possono scorrere sull'albero e vengono alzati al momento di spiegare le vele.
Per quanto attiene le vele di taglio, l'armamento prevede cinque vele a prora (augelletto, controfiocco, fiocco, gran fiocco e trinchettina), quattro vele di strallo (di gabbia, di velaccio, di mezzana, di belvedere) e la randa. A questo "set" di vele, sempre "pronto all'uso" possono essere aggiunti, se del caso, gli scopamare, due vele quadre inferite ai lati del trevo di trinchetto, utilizzando idonee prolunghe del pennone. Con la Nave completamente invelata si possono raggiungere velocità ragguardevoli, almeno in relazione al peso della stessa: il "record" è di 14,6 nodi.
La superficie velica totale (24 vele) è pari a circa 2635 metri quadri. Le vele sono di tela olona (tessuto di canapa) di spessore compreso tra i 2 e i 4 millimetri e sono realizzate unendo mediante cucitura più strisce (ferzi).
La manovra delle vele si attua per mezzo di cavi (manovre correnti o volanti) di diverso diametro, per un totale di circa 36 Km.. Anch'essi hanno nomi caratteristici, quali drizze (per alzare i pennoni mobili e le vele di taglio), bracci (per orientare i pennoni), scotte e mure (per fissare gli angoli bassi delle vele quadre, rispettivamente sottovento e sopravvento), imbrogli (per raccogliere le vele sui pennoni), ecc.. Le manovre correnti sono per la maggior parte in manilla (fibra vegetale); fanno eccezione le scotte dei trevi, che per sostenere l'elevato sforzo sono realizzate in nylon. Oltre a ciò l'attrezzatura velica comprende circa 400 bozzelli in legno e 120 in ferro.
Vero "motore" dell'Amerigo Vespucci è il suo equipaggio, composto da 264 militari, di cui 15 Ufficiali, 30 Sottufficiali, 34 Sergenti e 185 Sottocapi e Comuni, suddiviso nei Servizi Operazioni, Marinaresco, Dettaglio/Armi, Genio Navale/Elettrico, Amministrativo/Logistico e Sanitario. Durante la Campagna di Istruzione l'equipaggio viene a tutti gli effetti integrato dagli Allievi (circa 100 l’anno) e dal personale di supporto dell'Accademia Navale, raggiungendo quindi circa 400 unità.
Ogni Servizio ha il suo compito peculiare a bordo: il Servizio Operazioni si occupa della navigazione, utilizzando la strumentazione di cui la nave è fornita (radar, ecoscandaglio, GPS), della meteorologia e delle telecomunicazioni; il Servizio Marinaresco è preposto all'impiego delle vele, alla gestione delle imbarcazioni e all'esecuzione delle manovre di ormeggio e disormeggio; il Servizio Dettaglio comprende il personale che coordina i servizi giornalieri dell’Unità e gestisce le pratiche personali dell’equipaggio; il Servizio Armi ha in consegna le armi portatili e provvede all'addestramento dell'equipaggio al loro impiego; il Servizio Genio Navale/Elettrico assicura la conduzione dell'apparato motore e degli apparati ausiliari, la produzione di energia elettrica ed il mantenimento dell'integrità dello scafo; il Servizio Amministrativo/Logistico si occupa della acquisizione, contabilizzazione e distribuzione dei materiali, della stesura degli atti amministrativi e della gestione delle cucine; il Servizio Sanitario, infine, si occupa delle attività di prevenzione e cura del personale. Vale la pena sottolineare che la messa in vela completa dell'Unità, agendo contemporaneamente sui tre alberi ("Posto di Manovra Generale alla Vela"), è possibile solo con gli Allievi imbarcati, che tradizionalmente vengono destinati sulla maestra e sulla mezzana, mentre il personale del Servizio Marinaresco, i nocchieri, si occupa del trinchetto oltre che del coordinamento e controllo delle attività sugli altri due alberi. In assenza degli Allievi, la manovra si realizza impiegando tutto il personale nocchiere sugli alberi ("a riva") e destinando alle manovre dei cavi il personale degli altri Servizi libero da altre incombenze.
Il 22 febbraio 1931 viene varata la Amerigo Vespucci.
Nella seconda metà degli anni Venti la Marina Militare Italiana affrontò il problema di rinnovare le Unità destinate all'addestramento degli Allievi dell'Accademia Navale. Lo Stato Maggiore ritenne che, nonostante lo sviluppo della nuova flotta fosse orientato verso una tecnologia sempre più avanzata, il "miglior" impatto con l'ambiente marino e la sua conoscenza fosse quello che si poteva apprezzare stando a bordo di una nave a vela, che del mare e del vento subisce maggiormente i condizionamenti e che degli elementi naturali richiede quindi la più vasta conoscenza. Del resto, già dal 1893 l'attività in mare per gli Allievi dell'Accademia Navale veniva effettuata a bordo di una nave a vela, che portava anch'essa il nome di Amerigo Vespucci, un ex-incrociatore entrato in servizio nel febbraio del 1885 come Nave di 1ª linea, poi adattato a Nave Scuola.
Nel 1925 quindi, approssimandosi la fine della vita operativa del primo Amerigo Vespucci, per iniziativa dell'Ammiraglio Giuseppe Sirianni, Ministro della Marina, fu decisa la costruzione di due Navi Scuola, affidandone il progetto al Tenente Colonnello del Genio Navale Francesco Rotundi, il quale, nel disegnarne le forme, si ispirò a quelle di un vascello della fine del Settecento/inizi Ottocento. La prima delle due Unità, il Cristoforo Colombo, entrò in servizio nel 1928 e fu impiegata come Nave Scuola fino al 1943; dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale fu ceduta all'Unione Sovietica in conto risarcimento danni di guerra. L'Amerigo Vespucci impostata il 12 maggio 1930 nel Regio Cantiere Navale di Castellamare di Stabia, fu varata il 22 febbraio 1931 ed entrò in servizio a luglio dello stesso anno. Il 4 luglio 1931, al comando del Capitano di Vascello Augusto Radicati di Marmorito, nobile piemontese (che, con il grado di Capitano di Fregata, era stato l'ultimo Comandante del precedente Amerigo Vespucci), partì per la sua prima Campagna Addestrativa in Nord Europa.
Al rientro dalla prima Campagna di Istruzione, il 15 ottobre 1931 ricevette a Genova la Bandiera di Combattimento, offerta dal locale Gruppo UNUCI (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d'Italia).
Il motto della Nave è "Non chi comincia ma quel che persevera", assegnato nel 1978; originariamente il motto era "Per la Patria e per il Re", già appartenuto al precedente Amerigo Vespucci, sostituito una prima volta, dopo il secondo conflitto mondiale, con "Saldi nella furia dei venti e degli eventi", infine con quello attuale.
Dal punto di vista tecnico-costruttivo l'Amerigo Vespucci è una Nave a Vela con motore; dal punto di vista dell'attrezzatura velica è "armata a Nave", quindi con tre alberi verticali, trinchetto, maestra e mezzana, tutti dotati di pennoni e vele quadre, più il bompresso sporgente a prora, a tutti gli effetti un quarto albero. L'Unità è inoltre fornita di vele di taglio: i fiocchi, a prora, fra il bompresso e il trinchetto, gli stralli, fra trinchetto e maestra e fra maestra e mezzana, e la randa, dotata di boma e picco, sulla mezzana.
Il porto di assegnazione è La Spezia.
La Dipendenza Organico/Operativa dell’Unità è CINCNAV (Comando in Capo della Squadra Navale) dal 14 ottobre 2013.
Dalla sua entrata in servizio la Nave ha svolto ogni anno attività addestrativa (ad eccezione del 1940, a causa degli eventi bellici, e degli anni 1964, 1973 e 1997, per lavori straordinari), principalmente a favore degli allievi dell'Accademia Navale, ma anche degli allievi del Collegio Navale, ora Scuola Navale Militare "Francesco Morosini", degli allievi nocchieri, nonché di giovani facenti parte di associazioni veliche, quali la Lega Navale Italiana, la Sail Training Association - Italia ed anche l’ANMI.
Oltre a numerose brevi campagne in Mediterraneo, effettuate per lo più nel periodo primaverile e autunnale, da quella del 1931 a quella del 2013 l'Amerigo Vespucci ha effettuato ben 79 Campagne di Istruzione a favore degli Allievi della 1ª Classe dell'Accademia Navale, di cui 42 in Nord Europa, 23 in Mediterraneo, 4 in Atlantico Orientale, 7 in Nord America, 1 in Sud America e 2 nell'ambito dell’unica circumnavigazione del globo, compiuta tra il maggio 2002 ed il settembre 2003, periodo nel quale la Nave è stata coinvolta nelle attività connesse con l’edizione della America’s Cup del 2003 in Nuova Zelanda.
Le Campagne di Istruzione, svolte nel periodo estivo, hanno una durata media di tre mesi e toccano per lo più porti esteri; durante tali Campagne, quindi, l'attività della Nave, eminentemente formativa-addestrativa, si arricchisce dell'aspetto di presenza e rappresentanza (quale la Naval Diplomacy), contribuendo ad affermare l'immagine nazionale e della Marina Militare all'estero.
Per quanto attiene l'aspetto formativo-addestrativo, agli Allievi imbarcati vengono impartite le norme basilari del vivere per mare, come pure le competenze più specifiche nei vari settori: marinaresco, condotta dell'Unità (compreso l'utilizzo del sestante per effettuare il punto nave), condotta dell'apparato motore ed ausiliari, gestione delle problematiche di tipo logistico, amministrativo e sanitario. A tale scopo, oltre all'attività pratica, vengono organizzate conferenze e lezioni tenute dai membri dell'equipaggio più esperti; il livello di apprendimento viene poi accertato alla fine della Campagna a mezzo di verifiche scritte ed orali.
Lo scafo è del tipo a tre ponti principali, continui da prora a poppa (di coperta, di batteria e di corridoio), più vari ponti parziali (copertini); possiede due sovrastrutture principali, il castello a prora e il cassero a poppa, che si elevano sul ponte di coperta ma che idealmente ne sono la continuazione. Il caratteristico colore bianco e nero sottolinea il richiamo al passato: le fasce bianche in corrispondenza dei ponti di batteria e corridoio ricordano infatti le due linee di cannoni del vascello ottocentesco alla cui tipologia il progettista si era ispirato.
A prora della nave si trova la polena, che rappresenta Amerigo Vespucci, realizzata in bronzo dorato. Caratteristica della nave sono i fregi di prora e l'arabesco di poppa, in legno ricoperti di foglia d'oro zecchino.
Il fasciame è composto da lamiere di acciaio di vario spessore (da 12 a 16 mm.), collegate mediante chiodatura alle costole, che costituiscono assieme alla chiglia e ai bagli l'ossatura della nave. Tale sistema garantisce la necessaria flessibilità al trave nave; l'impermeabilità del tutto è assicurata dallo stretto contatto fra metallo e metallo, fortemente compressi dalla fitta chiodatura, che deve essere quindi realizzata a regola d'arte.
Tutti gli alberi, compreso il bompresso, sono costituiti da tre tronchi, di cui i primi due in acciaio (anch'essi realizzati mediante lamiere chiodate), il terzo, denominato alberetto per gli alberi verticali, asta di controfiocco per il bompresso, è in legno (douglas). I pennoni seguono la medesima filosofia costruttiva: i tre inferiori sono in acciaio, i due superiori in legno. Per quanto attiene la randa, il boma è in acciaio mentre il picco è in legno. Molte altre parti della nave sono in legno, diversificato a seconda delle caratteristiche richieste: teak per il ponte di coperta, la battagliola e la timoneria, mogano, teak e legno santo per le attrezzature marinaresche (pazienze, caviglie e bozzelli), frassino per i carabottini, rovere per gli arredi del Quadrato Ufficiali e per gli alloggi Ufficiali, mogano e noce per la Sala Consiglio. La lunghezza della Nave al galleggiamento è di 82 metri, ma tra la poppa estrema e l'estremità del bompresso si raggiungono i 101 metri. La larghezza massima dello scafo è di 15,5 metri, che arrivano a 21 metri considerando l'ingombro delle imbarcazioni, che sporgono dalla murata, e a 28 metri considerando le estremità del pennone più lungo, il trevo di maestra. L'immersione massima è pari a 7,3 metri.
L'unità è dotata di ben 11 imbarcazioni: due motoscafi, di cui uno riservato al Comandante, due motobarche, due motolance, quattro palischermi a vela e a remi, utilizzati per l'addestramento degli Allievi, e la baleniera, anch'essa a remi e a vela, tradizionalmente riservata al Comandante con un armo di soli Ufficiali. Il dislocamento a pieno carico è pari a 4100 tonnellate.
Gli alberi, precedentemente descritti, sono mantenuti in posizione grazie a cavi di acciaio (manovre fisse o dormienti) che li sostengono verso prora (stralli) verso i lati (sartie) e verso poppa (paterazzi). Sugli stralli sono inferiti inoltre i fiocchi e le vele di strallo. L'altezza degli alberi sul livello del mare è di 50 metri per il trinchetto, 54 metri per la maestra e 43 metri per la mezzana; il bompresso sporge per 18 metri.
I tre alberi verticali portano ciascuno cinque pennoni, dal caratteristico nome, comune anche alla vela relativa: sul trinchetto si trovano, dal basso, trevo di trinchetto, parrocchetto fisso, parrocchetto volante, velaccino e controvelaccino; sulla maestra trevo di maestra, gabbia fissa, gabbia volante, velaccio e controvelaccio; sulla mezzana trevo di mezzana, contromezzana fissa, contromezzana volante, belvedere e controbelvedere. Il trevo di mezzana è normalmente tenuto sguarnito dalla vela (che toglierebbe il vento al trevo di maestra) e prende quindi il nome di "verga secca". In ciascun albero i due pennoni inferiori sono fissi (possono solo ruotare sul piano orizzontale), mentre i tre superiori possono scorrere sull'albero e vengono alzati al momento di spiegare le vele.
Per quanto attiene le vele di taglio, l'armamento prevede cinque vele a prora (augelletto, controfiocco, fiocco, gran fiocco e trinchettina), quattro vele di strallo (di gabbia, di velaccio, di mezzana, di belvedere) e la randa. A questo "set" di vele, sempre "pronto all'uso" possono essere aggiunti, se del caso, gli scopamare, due vele quadre inferite ai lati del trevo di trinchetto, utilizzando idonee prolunghe del pennone. Con la Nave completamente invelata si possono raggiungere velocità ragguardevoli, almeno in relazione al peso della stessa: il "record" è di 14,6 nodi.
La superficie velica totale (24 vele) è pari a circa 2635 metri quadri. Le vele sono di tela olona (tessuto di canapa) di spessore compreso tra i 2 e i 4 millimetri e sono realizzate unendo mediante cucitura più strisce (ferzi).
La manovra delle vele si attua per mezzo di cavi (manovre correnti o volanti) di diverso diametro, per un totale di circa 36 Km.. Anch'essi hanno nomi caratteristici, quali drizze (per alzare i pennoni mobili e le vele di taglio), bracci (per orientare i pennoni), scotte e mure (per fissare gli angoli bassi delle vele quadre, rispettivamente sottovento e sopravvento), imbrogli (per raccogliere le vele sui pennoni), ecc.. Le manovre correnti sono per la maggior parte in manilla (fibra vegetale); fanno eccezione le scotte dei trevi, che per sostenere l'elevato sforzo sono realizzate in nylon. Oltre a ciò l'attrezzatura velica comprende circa 400 bozzelli in legno e 120 in ferro.
Vero "motore" dell'Amerigo Vespucci è il suo equipaggio, composto da 264 militari, di cui 15 Ufficiali, 30 Sottufficiali, 34 Sergenti e 185 Sottocapi e Comuni, suddiviso nei Servizi Operazioni, Marinaresco, Dettaglio/Armi, Genio Navale/Elettrico, Amministrativo/Logistico e Sanitario. Durante la Campagna di Istruzione l'equipaggio viene a tutti gli effetti integrato dagli Allievi (circa 100 l’anno) e dal personale di supporto dell'Accademia Navale, raggiungendo quindi circa 400 unità.
Ogni Servizio ha il suo compito peculiare a bordo: il Servizio Operazioni si occupa della navigazione, utilizzando la strumentazione di cui la nave è fornita (radar, ecoscandaglio, GPS), della meteorologia e delle telecomunicazioni; il Servizio Marinaresco è preposto all'impiego delle vele, alla gestione delle imbarcazioni e all'esecuzione delle manovre di ormeggio e disormeggio; il Servizio Dettaglio comprende il personale che coordina i servizi giornalieri dell’Unità e gestisce le pratiche personali dell’equipaggio; il Servizio Armi ha in consegna le armi portatili e provvede all'addestramento dell'equipaggio al loro impiego; il Servizio Genio Navale/Elettrico assicura la conduzione dell'apparato motore e degli apparati ausiliari, la produzione di energia elettrica ed il mantenimento dell'integrità dello scafo; il Servizio Amministrativo/Logistico si occupa della acquisizione, contabilizzazione e distribuzione dei materiali, della stesura degli atti amministrativi e della gestione delle cucine; il Servizio Sanitario, infine, si occupa delle attività di prevenzione e cura del personale. Vale la pena sottolineare che la messa in vela completa dell'Unità, agendo contemporaneamente sui tre alberi ("Posto di Manovra Generale alla Vela"), è possibile solo con gli Allievi imbarcati, che tradizionalmente vengono destinati sulla maestra e sulla mezzana, mentre il personale del Servizio Marinaresco, i nocchieri, si occupa del trinchetto oltre che del coordinamento e controllo delle attività sugli altri due alberi. In assenza degli Allievi, la manovra si realizza impiegando tutto il personale nocchiere sugli alberi ("a riva") e destinando alle manovre dei cavi il personale degli altri Servizi libero da altre incombenze.
martedì 21 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 febbraio.
Il 21 febbraio 1905 si apre il processo per il famoso Delitto Murri.
Il processo più famoso del novecento: il caso Murri, che si svolse a Torino nel 1905, per il misterioso omicidio avvenuto a Bologna nel 1902 del conte Francesco Bonmartini.
Protagonisti del macabro fatto, esponenti del bel mondo bolognese: ad assassinare il conte è stato il cognato, l’avvocato Tullio Murri, figlio del più autorevole medico del momento e rappresentante di spicco dei socialisti.
La mandante del delitto, forse, è stata la moglie di Francesco, Linda Murri, che ha un amante e probabilmente relazioni incestuose con il fratello.
Da fatto di cronaca a delitto celebre: sesso, sangue e mistero.
Questi i motivi per i quali un dramma familiare, e quindi privato, era invece diventato un fatto di cronaca capace di eccitare la curiosità popolare fino ad assumere caratteristiche di vero e proprio “fenomeno morboso”, superando i confini nazionali ed essere paragonato al caso Dreyfus.
Come scrive Renzo Renzi nel suo libro “Il processo Murri”: “Il processo fu un grande fatto spettacolare: un autentico “théatre verité” si potrebbe dire, fondato sopra una storia vera, col suo delitto conclusivo, dove il pubblico cercò di capire la società in cui viveva, scorgendone il volto dietro certe facciate, con una immediatezza che andava decisamente al passo con le ricostruzioni di una tragedia greca o elisabettiana”.
Le indagini e il processo furono minuziosamente seguiti dalla stampa, con giornali che triplicarono le tirature, come il cattolicissimo l’Avvenire d’Italia, protagonista di una vera e propria crociata contro i Murri, colpevoli, prima ancora di essere giudicati, di rappresentare la borghesia progressista, laica, positivista e socialista dell’epoca.
Fango anche sull’austera figura del Prof. Augusto Murri, scienziato di fama internazionale, il più autorevole clinico dell’epoca, titolare della cattedra di Clinica Medica all’Università di Bologna, padre dei due protagonisti del delitto: il giudice istruttore Stanzani tentò di accusarlo di complicità, nonostante la sua completa estraneità all’omicidio fosse evidente, cercando di volgere le indagini alla dimostrazione dell’esistenza di un complotto di famiglia.
Il giudice Stanzani era un cattolico osservante, uno che faceva la comunione tutte le mattine: Augusto Murri si era battuto per togliere l’insegnamento della religione dalle scuole.
Le vite private dei protagonisti della vicenda (personaggi noti, esponenti di spicco del bel mondo bolognese), furono sezionate dai giornali di stampo clericale e date in pasto all’opinione pubblica, generando una battaglia con la stampa socialista che denunciava la falsità delle affermazioni, pubblicate al solo scopo di colpire i Murri per ragioni politiche.
Rivelazioni sensazionali poi smentite in sordina, lettere anonime, colpi di scena, fascicoli giudiziari pubblicati dai giornali ancora prima di essere esaminati dalle autorità (cosa che provocò la meraviglia della stampa inglese), la battaglia politica, contribuirono a creare un clima infuocato che influenzò non poco lo svolgimento delle indagini e che provocarono la decisione di spostare la sede del processo da Bologna a Torino, per legittima suspicione.
L’opinione pubblica provò una grande eccitazione in questa vicenda, che fu quasi la mise en scene di un romanzo romantico e decadente al tempo stesso, ricco di tutti gli elementi necessari a catturare l’attenzione del pubblico, ad appassionarlo alle vicende della protagonista, vittima di un matrimonio disgraziato, che ritrova il suo primo amore di bambina e consuma il suo peccato di donna nella garçonniere di fianco all’uscio di casa, lasciandosi coinvolgere dall’amante in festini a base di ostriche e champagne mentre, tra veleni e pugnali, complotti, messaggi in codice e false identità, il romanzo si trasforma in tragedia mettendo in scena l’atto conclusivo: il delitto, il sangue.
Attraverso l’inchiesta l’opinione pubblica poté penetrare nella vita privata della Contessa Teodolinda Murri Bonmartini e di spiare le sue abitudini fino a toglierle la maschera di madre e moglie modello svelandone il volto nascosto: sotto l’apparenza della signora gentile, colta e raffinata forse si nascondeva una donna corrotta, avida soltanto di piaceri proibiti, capace di spingersi oltre fino ad avere rapporti incestuosi con il fratello mentre intratteneva torbide relazioni con l’amante di lui e così fredda e capace da riuscire ad indurlo ad insanguinarsi le mani per liberarla da un marito ormai divenuto ingombrante. Mistero
Le indagini, orientate più al coinvolgimento di tutti i Murri che a fare vera luce sul delitto, e il processo, che si svolse in un clima acceso, con le cariche della cavalleria a disperdere i tafferugli che si creavano fuori del tribunale tra innocentisti e colpevolisti, non riuscirono, tuttavia, a dipanare l’intricata matassa e a fare luce sul movente, né sul vero esecutore (o gli esecutori), del delitto, malgrado Tullio Murri se ne assumesse la completa responsabilità a gola spiegata.
Ad alimentare l’aura di mistero che ha sempre avvolto il fatto, arrivarono presto a circolare le voci della completa innocenza di Tullio Murri, sacrificato dalla famiglia in favore della sorella.
La tesi dell’innocenza di Tullio iniziò a diffondersi subito dopo il processo, sostenuta da diversi giornalisti e incoraggiata dalla notizia che il Murri stava completando un memoriale, “Fuor del pelago”, dove imputava la responsabilità dell’omicidio ad un terzo complice: il “biondino”, un facchino della stazione scomparso subito dopo l’omicidio e visto da alcuni testimoni in sua compagnia durante la fuga dopo il delitto.
Il memoriale con le prove della sua estraneità all’assassinio del Bonmartini rimarrà, tuttavia, inedito.
Sarà la figlia Gianna Rosa Murri a renderlo noto, in parte, su un opuscolo stampato a proprie spese nella metà degli anni ’70 (prontamente smentita da Roiss ne’ “L’innocenza di Tullio Murri”), mentre pubblicherà, nel 2003, un libro dal titolo emblematico: “La verità sulla mia famiglia e sul delitto Murri”.
Contrariamente alle aspettative generate dal titolo, neanche questo libro riesce a sciogliere i dubbi: infatti, altro non è che un racconto liberatorio, dove le prove non vengono prodotte e documentate, ma soltanto raccontate.
Ancora non trovano risposta le domande che, da oltre cento anni, aspettano la rivelazione: chi fu ad uccidere, e per quale motivo, il conte Francesco Bonmartini nel suo appartamento di Via Mazzini, a Bologna, la notte del 28 agosto 1902?
Il 21 febbraio 1905 si apre il processo per il famoso Delitto Murri.
Il processo più famoso del novecento: il caso Murri, che si svolse a Torino nel 1905, per il misterioso omicidio avvenuto a Bologna nel 1902 del conte Francesco Bonmartini.
Protagonisti del macabro fatto, esponenti del bel mondo bolognese: ad assassinare il conte è stato il cognato, l’avvocato Tullio Murri, figlio del più autorevole medico del momento e rappresentante di spicco dei socialisti.
La mandante del delitto, forse, è stata la moglie di Francesco, Linda Murri, che ha un amante e probabilmente relazioni incestuose con il fratello.
Da fatto di cronaca a delitto celebre: sesso, sangue e mistero.
Questi i motivi per i quali un dramma familiare, e quindi privato, era invece diventato un fatto di cronaca capace di eccitare la curiosità popolare fino ad assumere caratteristiche di vero e proprio “fenomeno morboso”, superando i confini nazionali ed essere paragonato al caso Dreyfus.
Come scrive Renzo Renzi nel suo libro “Il processo Murri”: “Il processo fu un grande fatto spettacolare: un autentico “théatre verité” si potrebbe dire, fondato sopra una storia vera, col suo delitto conclusivo, dove il pubblico cercò di capire la società in cui viveva, scorgendone il volto dietro certe facciate, con una immediatezza che andava decisamente al passo con le ricostruzioni di una tragedia greca o elisabettiana”.
Le indagini e il processo furono minuziosamente seguiti dalla stampa, con giornali che triplicarono le tirature, come il cattolicissimo l’Avvenire d’Italia, protagonista di una vera e propria crociata contro i Murri, colpevoli, prima ancora di essere giudicati, di rappresentare la borghesia progressista, laica, positivista e socialista dell’epoca.
Fango anche sull’austera figura del Prof. Augusto Murri, scienziato di fama internazionale, il più autorevole clinico dell’epoca, titolare della cattedra di Clinica Medica all’Università di Bologna, padre dei due protagonisti del delitto: il giudice istruttore Stanzani tentò di accusarlo di complicità, nonostante la sua completa estraneità all’omicidio fosse evidente, cercando di volgere le indagini alla dimostrazione dell’esistenza di un complotto di famiglia.
Il giudice Stanzani era un cattolico osservante, uno che faceva la comunione tutte le mattine: Augusto Murri si era battuto per togliere l’insegnamento della religione dalle scuole.
Le vite private dei protagonisti della vicenda (personaggi noti, esponenti di spicco del bel mondo bolognese), furono sezionate dai giornali di stampo clericale e date in pasto all’opinione pubblica, generando una battaglia con la stampa socialista che denunciava la falsità delle affermazioni, pubblicate al solo scopo di colpire i Murri per ragioni politiche.
Rivelazioni sensazionali poi smentite in sordina, lettere anonime, colpi di scena, fascicoli giudiziari pubblicati dai giornali ancora prima di essere esaminati dalle autorità (cosa che provocò la meraviglia della stampa inglese), la battaglia politica, contribuirono a creare un clima infuocato che influenzò non poco lo svolgimento delle indagini e che provocarono la decisione di spostare la sede del processo da Bologna a Torino, per legittima suspicione.
L’opinione pubblica provò una grande eccitazione in questa vicenda, che fu quasi la mise en scene di un romanzo romantico e decadente al tempo stesso, ricco di tutti gli elementi necessari a catturare l’attenzione del pubblico, ad appassionarlo alle vicende della protagonista, vittima di un matrimonio disgraziato, che ritrova il suo primo amore di bambina e consuma il suo peccato di donna nella garçonniere di fianco all’uscio di casa, lasciandosi coinvolgere dall’amante in festini a base di ostriche e champagne mentre, tra veleni e pugnali, complotti, messaggi in codice e false identità, il romanzo si trasforma in tragedia mettendo in scena l’atto conclusivo: il delitto, il sangue.
Attraverso l’inchiesta l’opinione pubblica poté penetrare nella vita privata della Contessa Teodolinda Murri Bonmartini e di spiare le sue abitudini fino a toglierle la maschera di madre e moglie modello svelandone il volto nascosto: sotto l’apparenza della signora gentile, colta e raffinata forse si nascondeva una donna corrotta, avida soltanto di piaceri proibiti, capace di spingersi oltre fino ad avere rapporti incestuosi con il fratello mentre intratteneva torbide relazioni con l’amante di lui e così fredda e capace da riuscire ad indurlo ad insanguinarsi le mani per liberarla da un marito ormai divenuto ingombrante. Mistero
Le indagini, orientate più al coinvolgimento di tutti i Murri che a fare vera luce sul delitto, e il processo, che si svolse in un clima acceso, con le cariche della cavalleria a disperdere i tafferugli che si creavano fuori del tribunale tra innocentisti e colpevolisti, non riuscirono, tuttavia, a dipanare l’intricata matassa e a fare luce sul movente, né sul vero esecutore (o gli esecutori), del delitto, malgrado Tullio Murri se ne assumesse la completa responsabilità a gola spiegata.
Ad alimentare l’aura di mistero che ha sempre avvolto il fatto, arrivarono presto a circolare le voci della completa innocenza di Tullio Murri, sacrificato dalla famiglia in favore della sorella.
La tesi dell’innocenza di Tullio iniziò a diffondersi subito dopo il processo, sostenuta da diversi giornalisti e incoraggiata dalla notizia che il Murri stava completando un memoriale, “Fuor del pelago”, dove imputava la responsabilità dell’omicidio ad un terzo complice: il “biondino”, un facchino della stazione scomparso subito dopo l’omicidio e visto da alcuni testimoni in sua compagnia durante la fuga dopo il delitto.
Il memoriale con le prove della sua estraneità all’assassinio del Bonmartini rimarrà, tuttavia, inedito.
Sarà la figlia Gianna Rosa Murri a renderlo noto, in parte, su un opuscolo stampato a proprie spese nella metà degli anni ’70 (prontamente smentita da Roiss ne’ “L’innocenza di Tullio Murri”), mentre pubblicherà, nel 2003, un libro dal titolo emblematico: “La verità sulla mia famiglia e sul delitto Murri”.
Contrariamente alle aspettative generate dal titolo, neanche questo libro riesce a sciogliere i dubbi: infatti, altro non è che un racconto liberatorio, dove le prove non vengono prodotte e documentate, ma soltanto raccontate.
Ancora non trovano risposta le domande che, da oltre cento anni, aspettano la rivelazione: chi fu ad uccidere, e per quale motivo, il conte Francesco Bonmartini nel suo appartamento di Via Mazzini, a Bologna, la notte del 28 agosto 1902?
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lunedì 20 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 febbraio.
Il 20 febbraio 1810 viene fucilato Andreas Hofer, ancora oggi considerato un eroe tirolese sia in Austria che in Alto Adige.
Andreas Hofer nacque il 22 novembre del 1767 a San Leonardo in Passiria (in tedesco: St. Leonhard in Passeier), che all'epoca apparteneva all'Austria. Fu un agiato oste di una locanda del suo paese e, dato che era anche commerciante di cavalli, viaggiò molto diventando così un personaggio conosciuto in tutta la regione.
Andreas Hofer fu profondamente religioso e un uomo di grande rettitudine, ma era anche credulone e aveva una visione molto limitata dei giochi politici tra le monarchie a Parigi e Vienna, dei quali, alla fine, fu vittima.
In realtà, Andreas Hofer non combatté per la libertà; combatté perché il Tirolo fosse reso all'Austria, per il potere incondizionato della Chiesa cattolica e per le forme tradizionali della religione.
Il governo bavarese che, per ordine della Francia, aveva occupato il Tirolo durante le guerre napoleoniche, rappresentava la causa della libertà personale, politica e sociale molto più che non l'esercito contadino di Andreas Hofer. L'amministrazione bavarese, salutata del resto con entusiasmo dalla borghesia tirolese di Innsbruck, portò in Tirolo delle riforme sul modello francese: una modernizzazione del sistema giudiziario e finanziario, l'abolizione dei privilegi nobiliari, fra cui il diritto dei proprietari terrieri di giudicare i loro contadini personalmente, l'equiparazione dei protestanti e degli ebrei e il divorzio.
Ma le nuove leggi fiscali, il cambio sfavorevole della moneta austriaca rispetto alla valuta bavarese e la nuova concorrenza del vino francese e italiano, più economico, colpirono duramente gli albergatori tirolesi e in parte anche i contadini. La chiusura dei monasteri, ma soprattutto l'atteggiamento irriguardoso dei funzionari bavaresi verso le tradizionali usanze religiose indignarono profondamente la popolazione rurale. La sostituzione del nome Tirolo con quello di "Baviera meridionale" fu un altro grave errore degli occupanti bavaresi sostenuti da Napoleone.
La corte di Vienna seguiva con grande attenzione gli sviluppi nel Tirolo. I consiglieri dell'imperatore decisero di preparare una rivolta, allo scopo di impegnare, durante la progettata guerra contro Napoleone, forti contingenti francesi e bavaresi nelle regioni alpine. Nel gennaio 1809 invitarono a Vienna alcuni albergatori, commercianti di bestiame e contadini del Tirolo, fra cui Andreas Hofer, li incitarono ad attaccare e promisero loro un aiuto militare da parte dell'esercito.
All'inizio di aprile un corpo d'armata austriaco marciò effettivamente sul Tirolo occupato dai francesi e dai bavaresi, ma dovette ritirarsi ben presto dopo una sconfitta presso Wörgl. Allora i circa 14.000 uomini dell'esercito di contadini guidato da Andreas Hofer restarono soli a combattere contro le forze nemiche. Combatterono valorosamente, fra aprile e agosto sconfissero in vari scontri i contingenti meglio armati dell'esercito francese e bavarese, e li costrinsero ad abbandonare il Tirolo.
Il 15 agosto Andreas Hofer entrò a Innsbruck come capo di un governo provinciale provvisorio. Egli salutò la popolazione: "Tutti quelli che vogliono essere miei compagni d'arme, devono combattere da valorosi, onesti e bravi Tirolesi per Dio, l'imperatore e la patria". Non parlò di libertà. Il suo breve governo represse le libertà civili e costrinse i protestanti, gli ebrei, ma anche le donne, a tornare al loro solito ruolo di emarginati. Nel suo "mandato sul buoncostume" si legge: "Molti dei difensori della patria sono adirati perché le donne si coprono il petto e le braccia troppo poco o con veli trasparenti, e in tal modo provocano stimoli peccaminosi, che devono dispiacere altamente a Dio". Del suo programma faceva parte anche l'appello del frate cappuccino Joachim Haspinger, di opporsi alla vaccinazione antivaiolosa introdotta dall'amministrazione bavarese: "Non spetta agli uomini, immischiarsi in questa maniera nei piani divini!"
La pace di Schönbrunn tra l'Austria e la Francia conclusa dieci giorni dopo, che riconfermò la sovranità bavarese sul Tirolo, scosse profondamente il patriota tirolese; non comprendeva più il mondo, ma si inchinava alla volontà dell'imperatore, da lui venerato come un Dio. Il suo governo si sciolse. Dopo un'ultima, sfortunata battaglia al Bergisel, il 1° novembre, Andreas Hofer, obbedendo agli ordini, depose le armi e pubblicò un messaggio di pace. Un'amnistia generale concordata a Innsbruck, assicurò la completa impunità a tutti i partecipanti alla rivolta. Andreas Hofer tornò indisturbato a casa sua, nella sua locanda a San Leonardo in Passiria.
Ma a questo punto comparvero sulla scena dei provocatori, capeggiati dal fanatico frate cappuccino Joachim Haspinger, quello che rifiutava la vaccinazione antivaiolosa. Essi raccontarono a Hofer che l'imperatore Francesco I non aveva affatto concluso la pace con Napoleone, non aveva mai ceduto il Tirolo alla Baviera, che le notizie da Vienna erano false e che la lotta doveva essere ripresa. Un esercito austriaco sarebbe già in marcia per aiutare i Tirolesi. E l'ingenuo Hofer si lasciò ingannare. Ordinò l'ultima chiamata alle armi per i cittadini tirolesi. Adesso però fu solo un piccolo contingente che, dopo alcuni successi locali, ben presto si disgregò. Andreas Hofer si rifugiò sulla Pfandleralm, fu tradito da un contadino tirolese per un compenso di 1.500 fiorini, fu arrestato e deferito a un tribunale di guerra nella fortezza di Mantova dove fu processato, condannato a morte e fucilato il 20 febbraio del 1810.
Tre settimane dopo Napoleone sposò Maria Luisa, la figlia dell'imperatore Francesco I dell'Austria. In cambio del Tirolo l'Austria aveva ottenuto la regione di Salisburgo e di Andreas Hofer non se ne parlò più...
Il 20 febbraio 1810 viene fucilato Andreas Hofer, ancora oggi considerato un eroe tirolese sia in Austria che in Alto Adige.
Andreas Hofer nacque il 22 novembre del 1767 a San Leonardo in Passiria (in tedesco: St. Leonhard in Passeier), che all'epoca apparteneva all'Austria. Fu un agiato oste di una locanda del suo paese e, dato che era anche commerciante di cavalli, viaggiò molto diventando così un personaggio conosciuto in tutta la regione.
Andreas Hofer fu profondamente religioso e un uomo di grande rettitudine, ma era anche credulone e aveva una visione molto limitata dei giochi politici tra le monarchie a Parigi e Vienna, dei quali, alla fine, fu vittima.
In realtà, Andreas Hofer non combatté per la libertà; combatté perché il Tirolo fosse reso all'Austria, per il potere incondizionato della Chiesa cattolica e per le forme tradizionali della religione.
Il governo bavarese che, per ordine della Francia, aveva occupato il Tirolo durante le guerre napoleoniche, rappresentava la causa della libertà personale, politica e sociale molto più che non l'esercito contadino di Andreas Hofer. L'amministrazione bavarese, salutata del resto con entusiasmo dalla borghesia tirolese di Innsbruck, portò in Tirolo delle riforme sul modello francese: una modernizzazione del sistema giudiziario e finanziario, l'abolizione dei privilegi nobiliari, fra cui il diritto dei proprietari terrieri di giudicare i loro contadini personalmente, l'equiparazione dei protestanti e degli ebrei e il divorzio.
Ma le nuove leggi fiscali, il cambio sfavorevole della moneta austriaca rispetto alla valuta bavarese e la nuova concorrenza del vino francese e italiano, più economico, colpirono duramente gli albergatori tirolesi e in parte anche i contadini. La chiusura dei monasteri, ma soprattutto l'atteggiamento irriguardoso dei funzionari bavaresi verso le tradizionali usanze religiose indignarono profondamente la popolazione rurale. La sostituzione del nome Tirolo con quello di "Baviera meridionale" fu un altro grave errore degli occupanti bavaresi sostenuti da Napoleone.
La corte di Vienna seguiva con grande attenzione gli sviluppi nel Tirolo. I consiglieri dell'imperatore decisero di preparare una rivolta, allo scopo di impegnare, durante la progettata guerra contro Napoleone, forti contingenti francesi e bavaresi nelle regioni alpine. Nel gennaio 1809 invitarono a Vienna alcuni albergatori, commercianti di bestiame e contadini del Tirolo, fra cui Andreas Hofer, li incitarono ad attaccare e promisero loro un aiuto militare da parte dell'esercito.
All'inizio di aprile un corpo d'armata austriaco marciò effettivamente sul Tirolo occupato dai francesi e dai bavaresi, ma dovette ritirarsi ben presto dopo una sconfitta presso Wörgl. Allora i circa 14.000 uomini dell'esercito di contadini guidato da Andreas Hofer restarono soli a combattere contro le forze nemiche. Combatterono valorosamente, fra aprile e agosto sconfissero in vari scontri i contingenti meglio armati dell'esercito francese e bavarese, e li costrinsero ad abbandonare il Tirolo.
Il 15 agosto Andreas Hofer entrò a Innsbruck come capo di un governo provinciale provvisorio. Egli salutò la popolazione: "Tutti quelli che vogliono essere miei compagni d'arme, devono combattere da valorosi, onesti e bravi Tirolesi per Dio, l'imperatore e la patria". Non parlò di libertà. Il suo breve governo represse le libertà civili e costrinse i protestanti, gli ebrei, ma anche le donne, a tornare al loro solito ruolo di emarginati. Nel suo "mandato sul buoncostume" si legge: "Molti dei difensori della patria sono adirati perché le donne si coprono il petto e le braccia troppo poco o con veli trasparenti, e in tal modo provocano stimoli peccaminosi, che devono dispiacere altamente a Dio". Del suo programma faceva parte anche l'appello del frate cappuccino Joachim Haspinger, di opporsi alla vaccinazione antivaiolosa introdotta dall'amministrazione bavarese: "Non spetta agli uomini, immischiarsi in questa maniera nei piani divini!"
La pace di Schönbrunn tra l'Austria e la Francia conclusa dieci giorni dopo, che riconfermò la sovranità bavarese sul Tirolo, scosse profondamente il patriota tirolese; non comprendeva più il mondo, ma si inchinava alla volontà dell'imperatore, da lui venerato come un Dio. Il suo governo si sciolse. Dopo un'ultima, sfortunata battaglia al Bergisel, il 1° novembre, Andreas Hofer, obbedendo agli ordini, depose le armi e pubblicò un messaggio di pace. Un'amnistia generale concordata a Innsbruck, assicurò la completa impunità a tutti i partecipanti alla rivolta. Andreas Hofer tornò indisturbato a casa sua, nella sua locanda a San Leonardo in Passiria.
Ma a questo punto comparvero sulla scena dei provocatori, capeggiati dal fanatico frate cappuccino Joachim Haspinger, quello che rifiutava la vaccinazione antivaiolosa. Essi raccontarono a Hofer che l'imperatore Francesco I non aveva affatto concluso la pace con Napoleone, non aveva mai ceduto il Tirolo alla Baviera, che le notizie da Vienna erano false e che la lotta doveva essere ripresa. Un esercito austriaco sarebbe già in marcia per aiutare i Tirolesi. E l'ingenuo Hofer si lasciò ingannare. Ordinò l'ultima chiamata alle armi per i cittadini tirolesi. Adesso però fu solo un piccolo contingente che, dopo alcuni successi locali, ben presto si disgregò. Andreas Hofer si rifugiò sulla Pfandleralm, fu tradito da un contadino tirolese per un compenso di 1.500 fiorini, fu arrestato e deferito a un tribunale di guerra nella fortezza di Mantova dove fu processato, condannato a morte e fucilato il 20 febbraio del 1810.
Tre settimane dopo Napoleone sposò Maria Luisa, la figlia dell'imperatore Francesco I dell'Austria. In cambio del Tirolo l'Austria aveva ottenuto la regione di Salisburgo e di Andreas Hofer non se ne parlò più...
domenica 19 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 febbraio.
Il 19 febbraio 1754 nasce ad Alfonsine Vincenzo Monti.
Vincenzo Monti nasce il 19 gennaio 1754 ad Alfonsine (Ravenna), in località Ortazzo, figlio di Adele e Fedele Maria. In età ancora giovanissima con la famiglia si trasferisce in un piccolo paese vicino a Fusignano, Maiano, dove il padre lavora. Cresciuto dal sacerdote della contrada, Vincenzo studia nel seminario di Faenza, dove per la prima volta si avvicina al mondo della poesia. Tornato a casa, diventa fattore dei poderi del padre. Su ordine genitoriale si iscrive all'Università di Ferrara per studiare medicina; nel frattempo, debutta come poeta pubblicando "La visione di Ezechiello" presso la Stamperia Camerale di Ferrara.
Intenzionato a trasferirsi a Roma, vi giunge nel maggio del 1778, andando a dimorare in piazza Navona presso il palazzo Doria Pamphili. Dopo aver presentato la "Prosopopea di Pericle", Vincenzo Monti recita "La bellezza dell'Universo" durante le nozze del nipote di Pio VI Luigi Braschi Onesti; nel 1782, invece, scrive "Il pellegrino apostolico", per celebrare un viaggio a Vienna del Pontefice. All'anno successivo risalgono i versi sciolti "Al principe Don Sigismondo Chigi" e i "Pensieri d'amore".
Nell'ode "Al signor di Montgolfier", Monti coniuga evidenti figurazioni neoclassiche con l'affermazione di un futuro ridente per l'umanità reso possibile dalla nuova filosofia: l'occasione della composizione è l'ascensione compiuta poco tempo prima con un pallone aerostatico. Nello stesso periodo scrive la "Feroniade", un piccolo poema rimasto incompiuto dedicato alla bonifica voluta dal Papa dell'agro romano (Feronia è il nome di una divinità guaritrice): si tratta di un esempio del classicismo montiano, evidente anche nella composizione dedicata "Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia".
Mentre si dedica alla realizzazione di sonetti, Vincenzo Monti lavora anche alla "Bassvilliana": nell'opera si racconta di come Ugo Bassville, segretario dell'ambasciata francese a Napoli, chieda perdono a Luigi XVI per avere manifestato sentimenti cristiani prima di morire (il suo sangue ricadrà sulla sua patria). La "Bassvilliana" si rivela un poema romantico che, pur non essendo completato, mette in luce l'orrore suscitato dal Terrore del periodo rivoluzionario: per questo motivo il poemetto viene considerato un capolavoro della letteratura antifrancese reazionaria.
Contemporaneo a quest'opera è "Musogonia", poema mitologico dedicato alla nascita delle Muse; seguono, sul finire del secolo, "Caio Gracco", "Galeotto Manfredi" e "I Messeni", tre tragedie. Colpito da una crisi esistenziale tra il 1793 e il 1797, Vincenzo Monti vede spegnersi progressivamente anche la vena poetica: è, questo, un periodo di componimenti meno significativi, tra cui si nota la lettera scritta al generale Giovanni Acton in difesa di Francesco Piranesi, accusato di avere congiurato contro l'ex ministro svedese barone d'Armfelt.
Dopo aver lasciato Roma (dovendosi difendere dall'accusa di giacobinismo), l'autore ferrarese si reca a Firenze, per poi fare tappa a Bologna e Venezia prima di stabilirsi a Milano. È il 1797, ma già due anni dopo, con la caduta della Repubblica Cisalpina e l'arrivo delle truppe austriache a Milano, decide di rifugiarsi a Parigi, dove rimane per due anni. Qui scrive tra l'altro la "Mascheroniana", ispirata al matematico Mascheroni, ed entra in contatto con una borghesia ormai disposta ad accettare l'operato di Napoleone.
Tornato a Milano nel 1801, il poeta collabora alla realizzazione di un'"Antologia della letteratura italiana" curata da Pietro Giordani, scrive alcune opere in onore di Napoleone e insegna poesie ed eloquenza all'università di Pavia. Nel 1804 arriva la nomina a poeta del governo italiano, giunta direttamente da Napoleone (diventato nel frattempo imperatore) che lo elegge anche assessore consulente dell'Interno. E' così che Vincenzo Monti diventa il rappresentante più importante della cultura napoleonica ufficiale: negli anni seguenti la sua produzione sarà dedicata quasi completamente alla celebrazione dell'imperatore, pur non nascondendo una certa polemica con la cultura francese.
Il cosiddetto ciclo napoleonico comprende, tra l'altro, il "Prometeo", dove la figura del protagonista richiama quella dell'imperatore, latore di civiltà e pace. Al 1806 risale "Il bardo della Selva Nera", gradito all'imperatore (amante dei "Canti di Ossian") nel quale i meriti di Napoleone Bonaparte vengono decantati da un ufficiale dell'esercito.
Seguono "La spada di Federico II" e "La palingenesi politica", oltre a uno dei capolavori montiani: la traduzione dell'"Iliade". La traduzione del poema omerico (per altro effettuata a partire dalla versione latina di Clarke, visto che egli conosce il greco solo in maniera scolastica) viene ritenuta, ancora oggi, il suo vero capolavoro, l'opera più rappresentativa del neoclassicismo italiano. L'"Iliade" riceve una nuova veste poetica, pur non avvantaggiandosi del rigore filologico utilizzato da Foscolo, e un linguaggio che riprende la poetica di Winckelmann senza rinunciare ai principi di decoro classico.
Alla caduta di Napoleone, gli austriaci tornano a Milano, intenzionati a mantenere le figure più rappresentative dal punto di vista culturale per non disperdere l'importante eredità napoleonica. Monti, pur non riuscendo a identificarsi in un classicismo restaurato, rimane al centro della vita intellettuale milanese, come dimostrano le "Cantate per sua Maestà Imperiale Reale", "Il mistico omaggio", "Il ritorno di Astrea" e l'"Invito a Pallade". Opere che evidenziano da un lato la volontà di difendere i principi illuministici della lingua, e dall'altro lato la scarsità di contenuti del neoclassicismo dell'età postnapoleonica.
Negli anni Venti dell'Ottocento, quindi, il poeta si lascia andare a opere essenzialmente private: si dedica alla filologia, riprende la "Feroniade" e scrive versi d'occasione, dedicandosi anche a una "Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca".
Agli ultimi anni della sua vita risalgono il "Sermone sulla mitologia", i versi "Nel giorno onomastico della sua donna", il sonetto "Sopra se stesso" e "Le nozze di Cadmo", garbato idillio. Nel frattempo le sue condizioni di salute vanno peggiorando: Monti perde progressivamente l'uso dell'udito e della vista, e nell'aprile del 1826 rimane vittima di un attacco di emiplegia che paralizza completamente la parte sinistra del suo corpo. Un attacco simile si ripete l'anno successivo. Vincenzo Monti muore il 13 ottobre 1828, dopo aver chiesto i sacramenti. Il suo corpo viene sepolto a San Gregorio fuori Porta Orientale, anche se la sua tomba andrà dispersa.
La sua casa natale di Alfonsine, in Romagna, è attualmente adibita a museo.
Il 19 febbraio 1754 nasce ad Alfonsine Vincenzo Monti.
Vincenzo Monti nasce il 19 gennaio 1754 ad Alfonsine (Ravenna), in località Ortazzo, figlio di Adele e Fedele Maria. In età ancora giovanissima con la famiglia si trasferisce in un piccolo paese vicino a Fusignano, Maiano, dove il padre lavora. Cresciuto dal sacerdote della contrada, Vincenzo studia nel seminario di Faenza, dove per la prima volta si avvicina al mondo della poesia. Tornato a casa, diventa fattore dei poderi del padre. Su ordine genitoriale si iscrive all'Università di Ferrara per studiare medicina; nel frattempo, debutta come poeta pubblicando "La visione di Ezechiello" presso la Stamperia Camerale di Ferrara.
Intenzionato a trasferirsi a Roma, vi giunge nel maggio del 1778, andando a dimorare in piazza Navona presso il palazzo Doria Pamphili. Dopo aver presentato la "Prosopopea di Pericle", Vincenzo Monti recita "La bellezza dell'Universo" durante le nozze del nipote di Pio VI Luigi Braschi Onesti; nel 1782, invece, scrive "Il pellegrino apostolico", per celebrare un viaggio a Vienna del Pontefice. All'anno successivo risalgono i versi sciolti "Al principe Don Sigismondo Chigi" e i "Pensieri d'amore".
Nell'ode "Al signor di Montgolfier", Monti coniuga evidenti figurazioni neoclassiche con l'affermazione di un futuro ridente per l'umanità reso possibile dalla nuova filosofia: l'occasione della composizione è l'ascensione compiuta poco tempo prima con un pallone aerostatico. Nello stesso periodo scrive la "Feroniade", un piccolo poema rimasto incompiuto dedicato alla bonifica voluta dal Papa dell'agro romano (Feronia è il nome di una divinità guaritrice): si tratta di un esempio del classicismo montiano, evidente anche nella composizione dedicata "Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia".
Mentre si dedica alla realizzazione di sonetti, Vincenzo Monti lavora anche alla "Bassvilliana": nell'opera si racconta di come Ugo Bassville, segretario dell'ambasciata francese a Napoli, chieda perdono a Luigi XVI per avere manifestato sentimenti cristiani prima di morire (il suo sangue ricadrà sulla sua patria). La "Bassvilliana" si rivela un poema romantico che, pur non essendo completato, mette in luce l'orrore suscitato dal Terrore del periodo rivoluzionario: per questo motivo il poemetto viene considerato un capolavoro della letteratura antifrancese reazionaria.
Contemporaneo a quest'opera è "Musogonia", poema mitologico dedicato alla nascita delle Muse; seguono, sul finire del secolo, "Caio Gracco", "Galeotto Manfredi" e "I Messeni", tre tragedie. Colpito da una crisi esistenziale tra il 1793 e il 1797, Vincenzo Monti vede spegnersi progressivamente anche la vena poetica: è, questo, un periodo di componimenti meno significativi, tra cui si nota la lettera scritta al generale Giovanni Acton in difesa di Francesco Piranesi, accusato di avere congiurato contro l'ex ministro svedese barone d'Armfelt.
Dopo aver lasciato Roma (dovendosi difendere dall'accusa di giacobinismo), l'autore ferrarese si reca a Firenze, per poi fare tappa a Bologna e Venezia prima di stabilirsi a Milano. È il 1797, ma già due anni dopo, con la caduta della Repubblica Cisalpina e l'arrivo delle truppe austriache a Milano, decide di rifugiarsi a Parigi, dove rimane per due anni. Qui scrive tra l'altro la "Mascheroniana", ispirata al matematico Mascheroni, ed entra in contatto con una borghesia ormai disposta ad accettare l'operato di Napoleone.
Tornato a Milano nel 1801, il poeta collabora alla realizzazione di un'"Antologia della letteratura italiana" curata da Pietro Giordani, scrive alcune opere in onore di Napoleone e insegna poesie ed eloquenza all'università di Pavia. Nel 1804 arriva la nomina a poeta del governo italiano, giunta direttamente da Napoleone (diventato nel frattempo imperatore) che lo elegge anche assessore consulente dell'Interno. E' così che Vincenzo Monti diventa il rappresentante più importante della cultura napoleonica ufficiale: negli anni seguenti la sua produzione sarà dedicata quasi completamente alla celebrazione dell'imperatore, pur non nascondendo una certa polemica con la cultura francese.
Il cosiddetto ciclo napoleonico comprende, tra l'altro, il "Prometeo", dove la figura del protagonista richiama quella dell'imperatore, latore di civiltà e pace. Al 1806 risale "Il bardo della Selva Nera", gradito all'imperatore (amante dei "Canti di Ossian") nel quale i meriti di Napoleone Bonaparte vengono decantati da un ufficiale dell'esercito.
Seguono "La spada di Federico II" e "La palingenesi politica", oltre a uno dei capolavori montiani: la traduzione dell'"Iliade". La traduzione del poema omerico (per altro effettuata a partire dalla versione latina di Clarke, visto che egli conosce il greco solo in maniera scolastica) viene ritenuta, ancora oggi, il suo vero capolavoro, l'opera più rappresentativa del neoclassicismo italiano. L'"Iliade" riceve una nuova veste poetica, pur non avvantaggiandosi del rigore filologico utilizzato da Foscolo, e un linguaggio che riprende la poetica di Winckelmann senza rinunciare ai principi di decoro classico.
Alla caduta di Napoleone, gli austriaci tornano a Milano, intenzionati a mantenere le figure più rappresentative dal punto di vista culturale per non disperdere l'importante eredità napoleonica. Monti, pur non riuscendo a identificarsi in un classicismo restaurato, rimane al centro della vita intellettuale milanese, come dimostrano le "Cantate per sua Maestà Imperiale Reale", "Il mistico omaggio", "Il ritorno di Astrea" e l'"Invito a Pallade". Opere che evidenziano da un lato la volontà di difendere i principi illuministici della lingua, e dall'altro lato la scarsità di contenuti del neoclassicismo dell'età postnapoleonica.
Negli anni Venti dell'Ottocento, quindi, il poeta si lascia andare a opere essenzialmente private: si dedica alla filologia, riprende la "Feroniade" e scrive versi d'occasione, dedicandosi anche a una "Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca".
Agli ultimi anni della sua vita risalgono il "Sermone sulla mitologia", i versi "Nel giorno onomastico della sua donna", il sonetto "Sopra se stesso" e "Le nozze di Cadmo", garbato idillio. Nel frattempo le sue condizioni di salute vanno peggiorando: Monti perde progressivamente l'uso dell'udito e della vista, e nell'aprile del 1826 rimane vittima di un attacco di emiplegia che paralizza completamente la parte sinistra del suo corpo. Un attacco simile si ripete l'anno successivo. Vincenzo Monti muore il 13 ottobre 1828, dopo aver chiesto i sacramenti. Il suo corpo viene sepolto a San Gregorio fuori Porta Orientale, anche se la sua tomba andrà dispersa.
La sua casa natale di Alfonsine, in Romagna, è attualmente adibita a museo.
sabato 18 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 febbraio.
Il 18 febbraio 1248 Federico II di Svevia viene sconfitto nella battaglia di Parma.
Se le cose fossero andate diversamente, oggi Parma non esisterebbe più.
I suoi resti si troverebbero sotto la prima periferia est di Vittoria, la città fondata durante il lungo assedio a cavallo tra il 1247 ed il 1248 dall’Imperatore Federico II di Svevia e che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto sostituire la città Ducale di cui era stata decretata la totale distruzione.
Il motivo della rabbia di Federico era il tradimento di Parma che, nel mese di giugno del 1247, era passata dai ghibellini, fedeli all’Imperatore, ai guelfi, sostenitori del Papa.
Un tradimento che non poteva essere tollerato, neppure da un sovrano colto ed illuminato come Federico Hoenstaufen.
Parma poteva essere un esempio pericoloso e l’impero non poteva permettersi ulteriori defezioni proprio quando la lotta contro l’influenza del Papa aveva raggiunto un punto decisivo.
La città meritava una punizione dura ed esemplare, che servisse da monito a tutti i riottosi Comuni italiani.
E fu così che l’Imperatore cinse Parma d’assedio ponendo il proprio campo ad ovest della città, fuori le mura di barriera Santa Croce.
Agli occhi dell’Imperatore l’ipotesi di una sconfitta non era contemplata.
Cosa poteva fare una piccola città contro l’esercito più forte d’Italia ed i suoi numerosi alleati?
Federico non aveva fretta.
Non c’era bisogno di logorare eccessivamente le truppe perché il tempo era dalla sua parte.
Si trattava semplicemente di aspettare che la fame, la sete e le epidemie portassero i parmigiani allo stremo e la città sarebbe caduta da sola.
Tanto valeva, nel frattempo, mettersi comodi…
Federico ordinò che, sulle fondamenta del proprio accampamento, venisse eretta Vittoria.
Fu così che, nei lunghi mesi dell’assedio, sorse una vera e propria città in miniatura, dotata di una chiesa, opportunamente dedicata a San Vittore, e di una zecca ove veniva coniato il "vittorino", embrione di quella che, nelle intenzioni del sovrano, avrebbe dovuto essere la futura capitale del Sacro Romano Impero.
Federico II vi installò la propria corte compresi il suo Harem e la temibile guardia del corpo, composta esclusivamente da guerrieri musulmani a lui fanaticamente devoti.
Non solo. L’Imperatore trasferì a Vittoria anche la sua personale collezione di animali esotici ed il tesoro reale.
Sulla personalità di Federico si è detto e scritto tantissimo. Vero è che la sua è una delle figure più affascinanti ed anticonformiste del medioevo.
“Stupor Mundi”, così veniva chiamato già dai contemporanei e non senza motivo: animato da una sete di conoscenza senza pari, religiosamente agnostico e tollerante riuscì, durante la sesta crociata, a farsi consegnare Gerusalemme direttamente dalle mani del Sultano, dopo mesi di negoziati ed un viaggio nella città Santa durante il quale ricevette un accoglienza calorosa.
Il talento eccezionale di Federico trovò espressione anche in campo legislativo con le Costituzioni di Melfi, un corpo di leggi d’impronta moderna, con le quali l’Imperatore tentò di ristabilire la pace sociale nel regno di Sicilia mitigando l’influenza dei feudatari.
Ma la passione più grande del sovrano era l’antica e nobile arte della Falconeria, la caccia con i rapaci. Federico II era un falconiere colto ed appassionato, autore di un volume dal titolo ars venandi cum avibus e, non appena poteva, indulgeva in lunghe battute.
Fu proprio la sua passione più grande a perderlo o a salvargli la vita -a seconda dei punti di vista- la mattina del 18 febbraio del 1248.
Per i parmigiani la fine era questione di pochi giorni; l’assedio durava oramai da lunghi mesi, i viveri stavano terminando e non vi era alcuna speranza di ricevere aiuto dall’esterno.
Ogni mattina l’Imperatore faceva condurre un gruppo di prigionieri sotto le mura cittadine, più o meno all’altezza dell’attuale ponte Caprazucca, facendoli decapitare sotto lo sguardo impotente dei propri concittadini.
I parmigiani sapevano bene di non avere scelta: o l’inedia o la spada….
E’ probabile che quel giorno gli assediati si fossero accorti dell’assenza dell’Imperatore, che si era recato sul Taro, insieme con il suo seguito, per una battuta di caccia con il falcone.
In ogni caso decisero di fare un’ultima, disperata, sortita.
Il popolo intero, donne, vecchi e bambini compresi, si unì agli armati e l’esercito imperiale, preso alla sprovvista e senza il suo comandante, venne travolto e messo in fuga.
Vittoria fu data alle fiamme non prima che i parmigiani la sottoponessero ad un sacco minuzioso.
La corona imperiale fu ritrovata da un ciabattino, dal soprannome eloquente di cortopasso, che la rivendette al comune per duecento lire imperiali.
Federico si rese conto dell’accaduto vedendo colonne di fumo ergersi dal luogo ove sorgeva la sua città e dovette fuggire, dapprima nella fedele Borgo san Donnino e quindi a Cremona.
In molti, ancora oggi, sono convinti che Viale Vittoria debba il suo nome alla Grande Guerra.
La verità è però un’altra e giace sepolta sotto la periferia ovest di Parma.
Il 18 febbraio 1248 Federico II di Svevia viene sconfitto nella battaglia di Parma.
Se le cose fossero andate diversamente, oggi Parma non esisterebbe più.
I suoi resti si troverebbero sotto la prima periferia est di Vittoria, la città fondata durante il lungo assedio a cavallo tra il 1247 ed il 1248 dall’Imperatore Federico II di Svevia e che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto sostituire la città Ducale di cui era stata decretata la totale distruzione.
Il motivo della rabbia di Federico era il tradimento di Parma che, nel mese di giugno del 1247, era passata dai ghibellini, fedeli all’Imperatore, ai guelfi, sostenitori del Papa.
Un tradimento che non poteva essere tollerato, neppure da un sovrano colto ed illuminato come Federico Hoenstaufen.
Parma poteva essere un esempio pericoloso e l’impero non poteva permettersi ulteriori defezioni proprio quando la lotta contro l’influenza del Papa aveva raggiunto un punto decisivo.
La città meritava una punizione dura ed esemplare, che servisse da monito a tutti i riottosi Comuni italiani.
E fu così che l’Imperatore cinse Parma d’assedio ponendo il proprio campo ad ovest della città, fuori le mura di barriera Santa Croce.
Agli occhi dell’Imperatore l’ipotesi di una sconfitta non era contemplata.
Cosa poteva fare una piccola città contro l’esercito più forte d’Italia ed i suoi numerosi alleati?
Federico non aveva fretta.
Non c’era bisogno di logorare eccessivamente le truppe perché il tempo era dalla sua parte.
Si trattava semplicemente di aspettare che la fame, la sete e le epidemie portassero i parmigiani allo stremo e la città sarebbe caduta da sola.
Tanto valeva, nel frattempo, mettersi comodi…
Federico ordinò che, sulle fondamenta del proprio accampamento, venisse eretta Vittoria.
Fu così che, nei lunghi mesi dell’assedio, sorse una vera e propria città in miniatura, dotata di una chiesa, opportunamente dedicata a San Vittore, e di una zecca ove veniva coniato il "vittorino", embrione di quella che, nelle intenzioni del sovrano, avrebbe dovuto essere la futura capitale del Sacro Romano Impero.
Federico II vi installò la propria corte compresi il suo Harem e la temibile guardia del corpo, composta esclusivamente da guerrieri musulmani a lui fanaticamente devoti.
Non solo. L’Imperatore trasferì a Vittoria anche la sua personale collezione di animali esotici ed il tesoro reale.
Sulla personalità di Federico si è detto e scritto tantissimo. Vero è che la sua è una delle figure più affascinanti ed anticonformiste del medioevo.
“Stupor Mundi”, così veniva chiamato già dai contemporanei e non senza motivo: animato da una sete di conoscenza senza pari, religiosamente agnostico e tollerante riuscì, durante la sesta crociata, a farsi consegnare Gerusalemme direttamente dalle mani del Sultano, dopo mesi di negoziati ed un viaggio nella città Santa durante il quale ricevette un accoglienza calorosa.
Il talento eccezionale di Federico trovò espressione anche in campo legislativo con le Costituzioni di Melfi, un corpo di leggi d’impronta moderna, con le quali l’Imperatore tentò di ristabilire la pace sociale nel regno di Sicilia mitigando l’influenza dei feudatari.
Ma la passione più grande del sovrano era l’antica e nobile arte della Falconeria, la caccia con i rapaci. Federico II era un falconiere colto ed appassionato, autore di un volume dal titolo ars venandi cum avibus e, non appena poteva, indulgeva in lunghe battute.
Fu proprio la sua passione più grande a perderlo o a salvargli la vita -a seconda dei punti di vista- la mattina del 18 febbraio del 1248.
Per i parmigiani la fine era questione di pochi giorni; l’assedio durava oramai da lunghi mesi, i viveri stavano terminando e non vi era alcuna speranza di ricevere aiuto dall’esterno.
Ogni mattina l’Imperatore faceva condurre un gruppo di prigionieri sotto le mura cittadine, più o meno all’altezza dell’attuale ponte Caprazucca, facendoli decapitare sotto lo sguardo impotente dei propri concittadini.
I parmigiani sapevano bene di non avere scelta: o l’inedia o la spada….
E’ probabile che quel giorno gli assediati si fossero accorti dell’assenza dell’Imperatore, che si era recato sul Taro, insieme con il suo seguito, per una battuta di caccia con il falcone.
In ogni caso decisero di fare un’ultima, disperata, sortita.
Il popolo intero, donne, vecchi e bambini compresi, si unì agli armati e l’esercito imperiale, preso alla sprovvista e senza il suo comandante, venne travolto e messo in fuga.
Vittoria fu data alle fiamme non prima che i parmigiani la sottoponessero ad un sacco minuzioso.
La corona imperiale fu ritrovata da un ciabattino, dal soprannome eloquente di cortopasso, che la rivendette al comune per duecento lire imperiali.
Federico si rese conto dell’accaduto vedendo colonne di fumo ergersi dal luogo ove sorgeva la sua città e dovette fuggire, dapprima nella fedele Borgo san Donnino e quindi a Cremona.
In molti, ancora oggi, sono convinti che Viale Vittoria debba il suo nome alla Grande Guerra.
La verità è però un’altra e giace sepolta sotto la periferia ovest di Parma.
venerdì 17 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 17 febbraio.
Il 17 febbraio 1653 nasce a Fusignano Arcangelo Corelli.
Fu compositore e violinista tra i più grandi del Barocco. Il suo nome è associato al "Concerto Grosso", forma musicale che egli portò alla perfezione.
La sua produzione si può racchiudere in sei raccolte, di cui curò egli stesso la pubblicazione. Le prime quattro appartengono alla categoria delle "Sonate a tre", ovvero due violini e un basso, e quest'ultimo era affidato ad altri due strumenti, ovvero un violone, o una viola da gamba, o un arciliuto, e un cembalo, nel caso di Sonate da Camera, un organo nel caso di Sonate da Chiesa.
La prima e la terza opera, rispettivamente del 1681 e del 1689, contengono ognuna dodici Sonate da Chiesa, cioè formate da movimenti "non di danza", bensì da tempi che recano solo l'indicazione generica di "Allegro", "Adagio", "Presto", "Lento", ecc. Per la realizzazione del basso viene prescritto l'organo, in luogo del cembalo.
La seconda e la quarta opera, rispettivamente del 1685 e del 1694, contengono ognuna dodici Sonate da Camera, i tempi recano le indicazioni dei nomi di danze in uso nelle vecchie "Suites" o "Partite", come "Preludio", "Allemanda", "Sarabanda", "Gavotta", "Giga", ecc. La sonata di Corelli ha generalmente cinque o sei tempi, di movimento alternato, monotematici, senza modulazioni.
La quinta opera, composta nel 1700, porta una grande novità, ovvero l'abbandono della disposizione "a tre", che risentiva del vecchio stile concertante, e la concentrazione della materia musicale nel duo di violino e cembalo, aprendo la strada alla concezione di quella che sarà un giorno la Sonata moderna per violino e pianoforte. Delle 12 Sonate, della quinta opera, le prime 6 sono Sonate da Chiesa, le successive 6 Sonate da Camera. L'ultima è la celebre Follia, ovvero variazioni sulla danza di Spagna, che portava questo nome, e che spicca meritatamente nella produzione di Corelli per un insolito calore appassionato e quasi romantico dell'espressione.
Nella sesta opera, pubblicata ad Amsterdam nel 1714, Corelli raccolse 12 Concerti Grossi, dando un esempio magistrale di questa forma non più cameristica, ma orchestrale, fondata sull'opposizione di un "concertino" di tre archi solisti e la massa degli altri archi, forma di cui lo si vuole anche inventore se, com'è da ritenere, molti dei Concerti Grossi, da lui raccolti e pubblicati all'estremo della vita, erano stati in realtà composti ed eseguiti già molti anni addietro. Particolarmente noto e poetico il Concerto n. 8 "Fatto per la Notte di Natale".
L'influenza stilistica di Corelli, riconosciuto ai suoi tempi come il più grande violinista ed autore di musica per il violino, fu vastissima, non solo per opera dei diretti discepoli e continuatori, come Geminiani, Locatelli e Gasparini, ma anche attraverso la studiosa ammirazione di artisti come Veracini, Tartini, Bach ed Haendel.
Corelli si spense a Roma, l'otto gennaio 1713.
Fu sepolto nel Pantheon, privilegio mai concesso ai musicisti prima di allora, ad opera del Cardinale Ottoboni.
Il 17 febbraio 1653 nasce a Fusignano Arcangelo Corelli.
Fu compositore e violinista tra i più grandi del Barocco. Il suo nome è associato al "Concerto Grosso", forma musicale che egli portò alla perfezione.
La sua produzione si può racchiudere in sei raccolte, di cui curò egli stesso la pubblicazione. Le prime quattro appartengono alla categoria delle "Sonate a tre", ovvero due violini e un basso, e quest'ultimo era affidato ad altri due strumenti, ovvero un violone, o una viola da gamba, o un arciliuto, e un cembalo, nel caso di Sonate da Camera, un organo nel caso di Sonate da Chiesa.
La prima e la terza opera, rispettivamente del 1681 e del 1689, contengono ognuna dodici Sonate da Chiesa, cioè formate da movimenti "non di danza", bensì da tempi che recano solo l'indicazione generica di "Allegro", "Adagio", "Presto", "Lento", ecc. Per la realizzazione del basso viene prescritto l'organo, in luogo del cembalo.
La seconda e la quarta opera, rispettivamente del 1685 e del 1694, contengono ognuna dodici Sonate da Camera, i tempi recano le indicazioni dei nomi di danze in uso nelle vecchie "Suites" o "Partite", come "Preludio", "Allemanda", "Sarabanda", "Gavotta", "Giga", ecc. La sonata di Corelli ha generalmente cinque o sei tempi, di movimento alternato, monotematici, senza modulazioni.
La quinta opera, composta nel 1700, porta una grande novità, ovvero l'abbandono della disposizione "a tre", che risentiva del vecchio stile concertante, e la concentrazione della materia musicale nel duo di violino e cembalo, aprendo la strada alla concezione di quella che sarà un giorno la Sonata moderna per violino e pianoforte. Delle 12 Sonate, della quinta opera, le prime 6 sono Sonate da Chiesa, le successive 6 Sonate da Camera. L'ultima è la celebre Follia, ovvero variazioni sulla danza di Spagna, che portava questo nome, e che spicca meritatamente nella produzione di Corelli per un insolito calore appassionato e quasi romantico dell'espressione.
Nella sesta opera, pubblicata ad Amsterdam nel 1714, Corelli raccolse 12 Concerti Grossi, dando un esempio magistrale di questa forma non più cameristica, ma orchestrale, fondata sull'opposizione di un "concertino" di tre archi solisti e la massa degli altri archi, forma di cui lo si vuole anche inventore se, com'è da ritenere, molti dei Concerti Grossi, da lui raccolti e pubblicati all'estremo della vita, erano stati in realtà composti ed eseguiti già molti anni addietro. Particolarmente noto e poetico il Concerto n. 8 "Fatto per la Notte di Natale".
L'influenza stilistica di Corelli, riconosciuto ai suoi tempi come il più grande violinista ed autore di musica per il violino, fu vastissima, non solo per opera dei diretti discepoli e continuatori, come Geminiani, Locatelli e Gasparini, ma anche attraverso la studiosa ammirazione di artisti come Veracini, Tartini, Bach ed Haendel.
Corelli si spense a Roma, l'otto gennaio 1713.
Fu sepolto nel Pantheon, privilegio mai concesso ai musicisti prima di allora, ad opera del Cardinale Ottoboni.
giovedì 16 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 16 febbraio.
Il 16 febbraio 1959 Fidel Castro diventa primo ministro di Cuba.
Nato a Mayarí il 13 agosto 1926 e figlio di un immigrato spagnolo divenuto proprietario terriero, Castro è diventato uno dei simboli della rivoluzione comunista ma anche, agli occhi dei suoi detrattori, un dittatore che non concede libertà di espressione.
Iscrittosi all'università dell'Avana nel 1945, partecipò dapprima alla vita politica dell'ateneo, nelle file dell'ala più ortodossa del Partito del Popolo Cubano.
La militanza studentesca si esprimeva spesso attraverso la lotta per bande, in scontri fra "gruppi di azione" di segno opposto che non di rado degeneravano in sparatorie : fra il 1944 e il 1952, per esempio, si registrarono un centinaio di attentati. Ad ogni modo, Castro nel 1950 si laurea in legge e, dopo il colpo di stato di Fulgencio Batista del 1952, si arruola in un movimento intenzionato a dare l'assalto alla caserma Moncada a Santiago de Cuba. In breve ne diventa il capo e poi, il 26 luglio 1953, organizza il piano. Fallita l'azione, a causa dello scarso coordinamento fra i vari gruppi che componevano il commando, viene imprigionato dal regime. Dei suoi compagni, alcuni caddero combattendo ma la maggior parte fu giustiziata dopo essere stata fatta prigioniera e solo l'intervento di personaggi di spicco, fra cui l'arcivescovo di Santiago, impedì che nei giorni successivi il massacro continuasse.
Al processo, si difese autonomamente, in particolare attraverso un allegato in cui denunciava i mali che affliggevano la società cubana. La sua arringa fu un vero e proprio attacco al potere, che lo trasformò da imputato ad accusatore. Questo documento è poi diventato famoso con il titolo "La storia mi assolverà", anche per il fatto che all'interno vi è in pratica delineato il suo programma politico, lo stesso che avrebbe poi sviluppato (se non superato), nei quarant'anni che lo videro protagonista prima della Rivoluzione poi dell'esercizio del potere.
Ma cosa prevedeva, in concreto, questo programma? Vi si parlava, tra le altre cose, della distribuzione delle terre dei latifondisti dietro indennizzo, la confisca dei beni ottenuti illegalmente dai membri dei passati governi, la nazionalizzazione dell'energia elettrica e dei telefoni, misure per l'industrializzazione, cooperative agricole e dimezzamento dei canoni d'affitto urbani e così via. Insomma, un perfetto programma comunista.
In quel momento, comunque, Castro soffrì la prigione e poi l'esilio (da cui però preparò l'insurrezione armata). Infatti, nel maggio 1955 Batista decise, anche per problemi di immagine presso il governo di Washington, di concedere l'amnistia ai rivoltosi, molti dei quali accompagnarono, meno di sei mesi dopo, Castro nel suo esilio in Messico.
Il 9 luglio di quello stesso anno Fidel Castro incontra di sera Ernesto Guevara, e per tutta la notte discutono sul continente sud americano sfruttato dagli yankee. Il 2 dicembre 1956, torna a Cuba con una forza di 82 uomini, deciso a rovesciare la dittatura, cosa che avvenne dopo una sequenza interminabile di lotte intestine.
L'Esercito Ribelle prese infine il potere nel 1959. Le decisioni iniziali, prese dal nuovo governo di Fidel, furono inizialmente di componente etica: chiusura delle case da gioco e di tolleranza, lotta senza quartiere al traffico di droga, liberalizzazione degli accessi agli alberghi, spiagge, locali sino ad allora riservati a circoli esclusivi. Tutto questo affascinò la maggioranza della popolazione e il nuovo governo ebbe grande consenso.
Nel marzo del 1959 fu imposta una diminuzione dei canoni d'affitto del 30-50% accompagnata da una riduzione del prezzo di medicinali, libri scolastici, tariffe elettriche, telefoniche e dei trasporti urbani. Dopo aver ridotto gli affitti, si varò una riforma che mirava a trasformare gli inquilini in veri e propri proprietari attraverso il pagamento degli alloggi con rate mensili proporzionali al reddito.
Ma le proteste interne iniziarono dopo l'emanazione, nel maggio 1959, della prima riforma agraria, che fissava per le tenute agricole un limite massimo di 402 ettari. La superficie coltivabile veniva assegnata a cooperative oppure distribuita a proprietà individuali di un minimo di 27 ettari. Il governo, per impedire il minifondo, proibiva la vendita delle terre ricevute e il loro frazionamento.
Con la nuova riforma agraria fu istituito l'INRA (Istituto nazionale di riforma agraria).
La riforma agraria suscitò forti reazioni nelle campagne ma anche presso le classi alte e i ceti medi urbani. Le manifestazioni più clamorose di dissenso furono rappresentate dalla fuga, negli Stati Uniti, del comandante delle Forze armate Pedro Diaz Lanz, e dall' arresto di Huber Matos, governatore della provincia di Camarguey, accusato di cospirazione per essersi opposto alla riforma agraria.
Oggi Cuba è impegnata a fronteggiare gli Stati Uniti, in una lotta che la oppone al blocco economico che perdura da più di quattro decenni.
A partire dal mese di dicembre del 2006 si fanno sempre più presenti i problemi di salute. Il 19 febbraio 2008, al potere da quasi 50 anni, Fidel annuncia il suo ritiro dalle cariche presidenziali lasciando tutti i poteri al fratello Raul Castro Ruz. "Non vi dico addio. Spero di combattere come un soldato delle idee", ha dichiarato il lider maximo cubano.
Il 29 marzo 2012, durante la visita a Cuba di Papa Benedetto XVI, Fidel Castro ha avuto un colloquio di circa 30 minuti con il Pontefice, definito da entrambi molto cordiale, nel quale Castro, pur mostrando alcune difficoltà motorie dovute alla malattia ed alla età avanzata, si è dimostrato ancora perfettamente lucido e cosciente.
Fidel Castro è morto nella capitale cubana alle ore 22.29 del 25 novembre 2016; a darne l'annuncio alla televisione di Stato è il fratello Raúl. La causa della morte non venne rivelata. Nel rispetto della volontà del defunto, il corpo è stato cremato nelle ore successive. Durante i nove giorni di lutto nazionale, il corteo funebre ha percorso al contrario il medesimo viaggio di 900 km fatto da Castro e dai rivoluzionari nel gennaio 1959, trasportandone l'urna cineraria dall'Avana a Santiago di Cuba. Le varie tappe del tragitto hanno visto la folla accoglierlo con commozione, ammassata lungo le strade per assistere al corteo.
Il 16 febbraio 1959 Fidel Castro diventa primo ministro di Cuba.
Nato a Mayarí il 13 agosto 1926 e figlio di un immigrato spagnolo divenuto proprietario terriero, Castro è diventato uno dei simboli della rivoluzione comunista ma anche, agli occhi dei suoi detrattori, un dittatore che non concede libertà di espressione.
Iscrittosi all'università dell'Avana nel 1945, partecipò dapprima alla vita politica dell'ateneo, nelle file dell'ala più ortodossa del Partito del Popolo Cubano.
La militanza studentesca si esprimeva spesso attraverso la lotta per bande, in scontri fra "gruppi di azione" di segno opposto che non di rado degeneravano in sparatorie : fra il 1944 e il 1952, per esempio, si registrarono un centinaio di attentati. Ad ogni modo, Castro nel 1950 si laurea in legge e, dopo il colpo di stato di Fulgencio Batista del 1952, si arruola in un movimento intenzionato a dare l'assalto alla caserma Moncada a Santiago de Cuba. In breve ne diventa il capo e poi, il 26 luglio 1953, organizza il piano. Fallita l'azione, a causa dello scarso coordinamento fra i vari gruppi che componevano il commando, viene imprigionato dal regime. Dei suoi compagni, alcuni caddero combattendo ma la maggior parte fu giustiziata dopo essere stata fatta prigioniera e solo l'intervento di personaggi di spicco, fra cui l'arcivescovo di Santiago, impedì che nei giorni successivi il massacro continuasse.
Al processo, si difese autonomamente, in particolare attraverso un allegato in cui denunciava i mali che affliggevano la società cubana. La sua arringa fu un vero e proprio attacco al potere, che lo trasformò da imputato ad accusatore. Questo documento è poi diventato famoso con il titolo "La storia mi assolverà", anche per il fatto che all'interno vi è in pratica delineato il suo programma politico, lo stesso che avrebbe poi sviluppato (se non superato), nei quarant'anni che lo videro protagonista prima della Rivoluzione poi dell'esercizio del potere.
Ma cosa prevedeva, in concreto, questo programma? Vi si parlava, tra le altre cose, della distribuzione delle terre dei latifondisti dietro indennizzo, la confisca dei beni ottenuti illegalmente dai membri dei passati governi, la nazionalizzazione dell'energia elettrica e dei telefoni, misure per l'industrializzazione, cooperative agricole e dimezzamento dei canoni d'affitto urbani e così via. Insomma, un perfetto programma comunista.
In quel momento, comunque, Castro soffrì la prigione e poi l'esilio (da cui però preparò l'insurrezione armata). Infatti, nel maggio 1955 Batista decise, anche per problemi di immagine presso il governo di Washington, di concedere l'amnistia ai rivoltosi, molti dei quali accompagnarono, meno di sei mesi dopo, Castro nel suo esilio in Messico.
Il 9 luglio di quello stesso anno Fidel Castro incontra di sera Ernesto Guevara, e per tutta la notte discutono sul continente sud americano sfruttato dagli yankee. Il 2 dicembre 1956, torna a Cuba con una forza di 82 uomini, deciso a rovesciare la dittatura, cosa che avvenne dopo una sequenza interminabile di lotte intestine.
L'Esercito Ribelle prese infine il potere nel 1959. Le decisioni iniziali, prese dal nuovo governo di Fidel, furono inizialmente di componente etica: chiusura delle case da gioco e di tolleranza, lotta senza quartiere al traffico di droga, liberalizzazione degli accessi agli alberghi, spiagge, locali sino ad allora riservati a circoli esclusivi. Tutto questo affascinò la maggioranza della popolazione e il nuovo governo ebbe grande consenso.
Nel marzo del 1959 fu imposta una diminuzione dei canoni d'affitto del 30-50% accompagnata da una riduzione del prezzo di medicinali, libri scolastici, tariffe elettriche, telefoniche e dei trasporti urbani. Dopo aver ridotto gli affitti, si varò una riforma che mirava a trasformare gli inquilini in veri e propri proprietari attraverso il pagamento degli alloggi con rate mensili proporzionali al reddito.
Ma le proteste interne iniziarono dopo l'emanazione, nel maggio 1959, della prima riforma agraria, che fissava per le tenute agricole un limite massimo di 402 ettari. La superficie coltivabile veniva assegnata a cooperative oppure distribuita a proprietà individuali di un minimo di 27 ettari. Il governo, per impedire il minifondo, proibiva la vendita delle terre ricevute e il loro frazionamento.
Con la nuova riforma agraria fu istituito l'INRA (Istituto nazionale di riforma agraria).
La riforma agraria suscitò forti reazioni nelle campagne ma anche presso le classi alte e i ceti medi urbani. Le manifestazioni più clamorose di dissenso furono rappresentate dalla fuga, negli Stati Uniti, del comandante delle Forze armate Pedro Diaz Lanz, e dall' arresto di Huber Matos, governatore della provincia di Camarguey, accusato di cospirazione per essersi opposto alla riforma agraria.
Oggi Cuba è impegnata a fronteggiare gli Stati Uniti, in una lotta che la oppone al blocco economico che perdura da più di quattro decenni.
A partire dal mese di dicembre del 2006 si fanno sempre più presenti i problemi di salute. Il 19 febbraio 2008, al potere da quasi 50 anni, Fidel annuncia il suo ritiro dalle cariche presidenziali lasciando tutti i poteri al fratello Raul Castro Ruz. "Non vi dico addio. Spero di combattere come un soldato delle idee", ha dichiarato il lider maximo cubano.
Il 29 marzo 2012, durante la visita a Cuba di Papa Benedetto XVI, Fidel Castro ha avuto un colloquio di circa 30 minuti con il Pontefice, definito da entrambi molto cordiale, nel quale Castro, pur mostrando alcune difficoltà motorie dovute alla malattia ed alla età avanzata, si è dimostrato ancora perfettamente lucido e cosciente.
Fidel Castro è morto nella capitale cubana alle ore 22.29 del 25 novembre 2016; a darne l'annuncio alla televisione di Stato è il fratello Raúl. La causa della morte non venne rivelata. Nel rispetto della volontà del defunto, il corpo è stato cremato nelle ore successive. Durante i nove giorni di lutto nazionale, il corteo funebre ha percorso al contrario il medesimo viaggio di 900 km fatto da Castro e dai rivoluzionari nel gennaio 1959, trasportandone l'urna cineraria dall'Avana a Santiago di Cuba. Le varie tappe del tragitto hanno visto la folla accoglierlo con commozione, ammassata lungo le strade per assistere al corteo.
mercoledì 15 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 15 febbraio.
Il 15 febbraio 1955, in un incidente aereo, muore Marcella Mariani, miss Italia 1953.
«E come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno, come le rose». Marinella di Fabrizio De Andrè sembra scritta su misura per Marcella Mariani. Prima reginetta di bellezza, poi attrice. Infine creatura sfortunata. Tutto in meno di mille giorni.
Romana, classe 1936, Marcella nel 1953 partecipa a Miss Italia. Per lei è solo un gioco: non ha pretese, una volta terminato il concorso conta di tornare al lavoro di cassiera . Sul palco si veste con la freschezza dei suoi 17 anni. E vince: sarà Alberto Sordi ad incoronarla.
Per i produttori cinematografici è amore a prima vista. Mariani è bella e umile, può fare strada. Sensibilità d’attrice e formazione accademica si intrecciano: un corso al Centro Sperimentale di Roma, poi via, sul set. Dove gli esordi sono vincenti. In Senso di Luchino Visconti (1954) è la prostituta Clara, rivale della contessa Livia Serpieri (Alida Valli). Il ruolo è marginale, ma Marcella riesce ad emergere. Sarà invece protagonista del pratoliniano Le ragazze di San Frediano (sempre nel 1954), diretta da Valerio Zurlini.
Il dramma però è alle porte. Marcella Mariani non assisterà all’uscita del suo ultimo film, Mai ti scorderò (1956), di Giuseppe Guarino. Se la porterà via un incidente aereo. È il 15 febbraio 1955, l’attrice ha da poco compiuto 19 anni. Sta ritornando a casa da Bruxelles, dove ha rappresentato il cinema italiano ad una kermesse internazionale. Viaggia a bordo di un DC6 che non arriverà a Roma. La tragedia si consuma vicino a Rieti. Uno schianto mortale, ventinove vittime. Tra loro c’è anche Miss Italia. Si spengono le luci, la favola della cassiera diventata star finisce alle pendici del monte Terminillo. Il relitto dell'aereo fu trovato dopo 9 giorni di ricerche. I passeggeri furono trovati avvolti in lastre di ghiaccio.
Al Terminillo, nella ex scuola di Pian de' Valli, oggi palazzina Marcella Mariani, il 25 febbraio 2017 è stata inaugurata la "Saletta dei ricordi" Marcella Mariani. Si tratta di un'esposizione di memorie, reperti, manifesti e pezzi originali a celebrazione e ricordo della giovane attrice romana e Miss Italia 1953 Marcella Mariani ed in memoria delle vittime della cosiddetta "Superga reatina". L'allestimento è realizzato dal Comitato promotore in collaborazione con gli Enti partner, che ha provveduto anche alla ristrutturazione dei locali. Il progetto vede la collaborazione anche di diverse associazioni. La mostra è arricchita di contenuti e curiosità multimediali, con filmati d’epoca e audio-ricostruzioni.
Il 15 febbraio 1955, in un incidente aereo, muore Marcella Mariani, miss Italia 1953.
«E come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno, come le rose». Marinella di Fabrizio De Andrè sembra scritta su misura per Marcella Mariani. Prima reginetta di bellezza, poi attrice. Infine creatura sfortunata. Tutto in meno di mille giorni.
Romana, classe 1936, Marcella nel 1953 partecipa a Miss Italia. Per lei è solo un gioco: non ha pretese, una volta terminato il concorso conta di tornare al lavoro di cassiera . Sul palco si veste con la freschezza dei suoi 17 anni. E vince: sarà Alberto Sordi ad incoronarla.
Per i produttori cinematografici è amore a prima vista. Mariani è bella e umile, può fare strada. Sensibilità d’attrice e formazione accademica si intrecciano: un corso al Centro Sperimentale di Roma, poi via, sul set. Dove gli esordi sono vincenti. In Senso di Luchino Visconti (1954) è la prostituta Clara, rivale della contessa Livia Serpieri (Alida Valli). Il ruolo è marginale, ma Marcella riesce ad emergere. Sarà invece protagonista del pratoliniano Le ragazze di San Frediano (sempre nel 1954), diretta da Valerio Zurlini.
Il dramma però è alle porte. Marcella Mariani non assisterà all’uscita del suo ultimo film, Mai ti scorderò (1956), di Giuseppe Guarino. Se la porterà via un incidente aereo. È il 15 febbraio 1955, l’attrice ha da poco compiuto 19 anni. Sta ritornando a casa da Bruxelles, dove ha rappresentato il cinema italiano ad una kermesse internazionale. Viaggia a bordo di un DC6 che non arriverà a Roma. La tragedia si consuma vicino a Rieti. Uno schianto mortale, ventinove vittime. Tra loro c’è anche Miss Italia. Si spengono le luci, la favola della cassiera diventata star finisce alle pendici del monte Terminillo. Il relitto dell'aereo fu trovato dopo 9 giorni di ricerche. I passeggeri furono trovati avvolti in lastre di ghiaccio.
Al Terminillo, nella ex scuola di Pian de' Valli, oggi palazzina Marcella Mariani, il 25 febbraio 2017 è stata inaugurata la "Saletta dei ricordi" Marcella Mariani. Si tratta di un'esposizione di memorie, reperti, manifesti e pezzi originali a celebrazione e ricordo della giovane attrice romana e Miss Italia 1953 Marcella Mariani ed in memoria delle vittime della cosiddetta "Superga reatina". L'allestimento è realizzato dal Comitato promotore in collaborazione con gli Enti partner, che ha provveduto anche alla ristrutturazione dei locali. Il progetto vede la collaborazione anche di diverse associazioni. La mostra è arricchita di contenuti e curiosità multimediali, con filmati d’epoca e audio-ricostruzioni.
martedì 14 febbraio 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 14 febbraio.
Il 14 febbraio del 1989, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il leader politico e religioso dell’Iran, annunciò alla radio la condanna a morte dello scrittore di origine indiana Salman Rushdie. La colpa di Rushdie, che in quel momento si trovava a Londra, era aver scritto I versi satanici (The Satanic Verses), un romanzo in cui – secondo Khomeini – Rushdie insultava la religione islamica e il suo profeta. Quella di Khomeini era una fatwa, cioè la sentenza emessa da un’autorità religiosa e teoricamente vincolante per tutti i musulmani. Ventinove anni dopo quella sentenza è ancora in vigore: fino ad oggi ha causato la morte del traduttore giapponese del libro, il ferimento del traduttore italiano e dell’editore norvegese, la distruzione di diverse librerie in tutto il mondo e continua a costringere Rushdie a vivere nascosto, sotto la protezione del governo britannico.
Nel mondo dell’editoria ci si aspettava che l’ultimo libro di uno dei più celebri scrittori in lingua inglese avrebbe portato a qualche controversia. Christopher Hitchens, lo scrittore e giornalista morto nel 2011 e amico di Rushdie, scrisse nella sua biografia, Hitch 22, che Rushdie aveva inviato una copia del manoscritto ad un amico con un biglietto che diceva più o meno: «Vorrei che ci dessi un’occhiata perché potrebbe turbare qualche credente».
Rushdie all’epoca aveva 42 anni ed era già uno scrittore molto affermato, arrivato al suo quarto romanzo. Quello che avrebbe “turbato” una parte del mondo islamico, nella previsione di Rushdie, era l’aneddoto che dava il nome al libro, la storia dei “versi satanici”. Si tratta di un racconto apocrifo e molto antico che riguarda la vita di Maometto e che Rushdie romanzò in un capitolo del suo libro. Nel racconto Maometto viene ingannato dal diavolo che gli suggerisce un passo del Corano.
In Occidente, almeno all’inizio, furono pochi i lettori che capirono a cosa Rushdie si stesse riferendo in quell’aneddoto. I nomi dei luoghi e dei personaggi infatti erano stati cambiati: Maometto era diventato Manhoud e la città della Mecca era stata cambiata in Jaihilia. Fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti, invece, i riferimenti vennero colti molto in fretta. I versi satanici venne pubblicato il 5 ottobre del 1988. Nove giorni dopo il parlamento indiano – il paese dove Rushdie era nato – ne vietò l’importazione in tutto il paese.
Inizialmente la cosa non fece molto rumore, ma alla fine di novembre quasi tutti i paesi a maggioranza musulmana del mondo, insieme a Sudafrica e Thailandia, avevano vietato la vendita del libro. Alla fine di ottobre l’editore del libro, la Viking Penguin, aveva già ricevuto decine di migliaia di lettere di proteste, mentre Rushdie cominciò ad annullare i viaggi e a farsi accompagnare da alcune guardie del corpo. Ma le cose stavano peggiorando rapidamente.
Nel dicembre del 1989, nel Regno Unito, 7 mila musulmani si riunirono nella città di Bolton, nella zona di Manchester, per bruciare in piazza alcune copie del libro. A gennaio una folla ancora più grande organizzò un secondo rogo, mentre numerose associazioni musulmane chiesero al governo britannico di utilizzare una vecchia legge mai applicata, il Blasphemy Act, per bloccare la stampa e la vendita dei Versi satanici. In poco più di tre mesi la controversia era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Gli episodi più gravi, però, dovevano ancora avvenire. Il 12 febbraio, a Islamabad, in Pakistan, 10 mila persone si riunirono per protestare contro il libro di Rushdie. Durante la manifestazione un gruppo di loro cercò di assaltare il Centro culturale americano. La polizia sparò sulla folla; sei persone vennero uccise e almeno altre cento rimasero ferite. Il giorno dopo, il 13 febbraio, ci fu un altro morto e altre decine di feriti durante una manifestazione a Srinagar, in India. Il giorno successivo, il 14 febbraio, l’ayatollah Khomeini, malato e oramai vicino alla morte, si rivolse a tutti i musulmani del mondo con un messaggio alla radio di stato iraniana:
Informo tutti i buoni musulmani del mondo che l’autore dei Versi satanici, un testo scritto e pubblicato contro la religione islamica, contro il profeta dell’Islam e contro il Corano, insieme a tutti gli editori e coloro che hanno partecipato con consapevolezza alla sua pubblicazione, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i coraggiosi musulmani, ovunque si trovino, di ucciderli immediatamente, cosicché nessuno osi mai più insultare la sacra fede dei musulmani. Chiunque sarà ucciso per questa causa sarà un martire per il volere di Allah.
Nel suo ultimo romanzo biografico, Joseph Anton, Rushdie racconta che venne a sapere della sua condanna a morte da un giornalista della BBC. Poco dopo venne contattato dal governo britannico ed entrò in un programma di protezione che cambiò per sempre la sua vita e che non è ancora terminato. Come ha scritto Hitchens, da quel giorno «Rushdie scomparve in una bolla nera di sicurezza totale». Per i primi mesi cambiò residenza ogni tre giorni, non poteva chiamare né incontrare i suoi amici, tranne in occasioni particolari. Dopo poco tempo questa situazione portò alla fine del suo matrimonio.
Da un certo punto di vista, Rushdie fu fortunato: il suo programma di protezione funzionò e non venne mai coinvolto in un attentato. Proteggere un solo uomo, però, era facile. Quello che era impossibile era garantire protezione a tutti “gli editori e a chiunque altro avesse partecipato alla pubblicazione del libro”. Furono loro che vennero colpiti più gravemente. Due anni dopo la fatwa, l’11 luglio 1991, Itoshi Sagurashi, che aveva lavorato alla traduzione del libro in giapponese, venne ucciso nel suo ufficio all’università di Tokyo. Una settimana prima, a Milano, il traduttore italiano Ettore Capriolo era stato accoltellato e picchiato da uno sconosciuto assalitore. Due anni dopo, l’11 ottobre 1993 l’editore norvegese del libro, William Nygaard, venne ferito con tre colpi di pistola fuori dalla sua casa ad Oslo. Anche se in nessuno dei tre casi sono stati individuati i responsabili, gli episodi sono universalmente considerati collegati con la fatwa che riguarda il libro.
Alla fine degli anni Ottanta Salman Rushdie, nato nel 1947 a Bombay ed emigrato da giovane nel Regno Unito, era già uno dei più celebri scrittori del mondo anglosassone. Il suo secondo romanzo, I figli della mezzanotte, aveva vinto nel 1981 uno dei più importanti premi della letteratura in lingua inglese, il Booker Prize, oltre ad aver venduto centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo.
I versi satanici non è un romanzo semplice e in molti, tra cui lo stesso Rushdie, dubitano che la gran parte dei suoi critici lo abbiano mai letto – anche perché non è mai stato tradotto in arabo, urdu o farsi, le lingue dei principali paesi musulmani. Il libro è lungo più di 600 pagine, è pieno di riferimenti culturali e linguistici difficili da capire per chi non conosca bene la letteratura inglese, ma anche per coloro che non sono cresciuti o non conoscono molto bene l’India e l’Asia orientale.
Il romanzo, in sostanza, è una storia tipica della produzione di Rushdie, il racconto della vita di due emigrati indiani nell’Inghilterra contemporanea. I due protagonisti sono due attori indiani di origine musulmana; uno ha un grande successo a Bollywood, mentre l’altro ha rinunciato alle sue radici e lavora come doppiatore nel Regno Unito. All’inizio del romanzo i due protagonisti sopravvivono in modo soprannaturale a un attentato che distrugge l’aereo su cui stanno viaggiando.
Nel resto della storia, che prosegue in maniera sempre più onirica e magica, i due cominciano a trasformarsi. Il primo diviene simile a un angelo, mentre il secondo comincia a assomigliare ad un demone. Mentre all’inizio i ruoli di bene e male sembrano chiari, con l’avanzare del racconto la trasformazione angelica si rivela una sorta di schizofrenia, mentre l’altro personaggio, il demone, sembra riuscire a redimersi. Alla fine il doppiatore si riconcilia con le sue radici indiane, mentre la star di Bollywood, sempre più alienata dal suo passato, si suicida.
La parte più controversa del libro non occupa più di 70 pagine ed è la descrizione di un lungo sogno di uno dei protagonisti, la star di Bollywood. In questa scena onirica, Rushdie rielabora un episodio della tradizione islamica – l’episodio dei versi satanici, appunto. Si tratta di un racconto molto antico della tradizione islamica che però non è mai stato inserito nel “canone” ufficiale.
In modo simile ad alcuni passi dei vangeli apocrifi, dove è descritta l’infanzia di Gesù e i dispetti e le piccole cattiverie che commetteva, l’episodio dei versi satanici racconta un momento di debolezza di Maometto. Nella storia il profeta dell’Islam viene ingannato dal diavolo che lo spinge ad annunciare ai suoi concittadini che le tre figlie di Allah (cioè tre antiche divinità pagane del pantheon arabico) erano degne di essere venerate.
Nel libro, Rushdie aggiunge altri dettagli al racconto tradizionale. Quando Maometto rinsavisce, diversi personaggi del sogno (un suo ex seguace, un poeta ubriacone, alcune prostitute) si riuniscono in un bordello e, tra di loro, criticano il profeta, accusandolo di essere uno di loro, un uomo dissoluto, un ubriacone ed un imbroglione. Come forma di disprezzo, alcune prostitute assumono i nomi delle moglie del profeta.
I versi Satanici è stato il più grande successo della Viking Penguins. Nel maggio del 1989 aveva già venduto 750 mila copie, che negli anni successivi diventarono diversi milioni. Mentre le vendite aumentavano e il caso attirava un’attenzione crescente in tutto il mondo, aumentavano anche le minacce da parte dell’Iran. Diverse istituzioni religiose misero una taglia sulla testa di Rushdie, aumentandola poi diverse volte, e alcuni uomini d’affari iraniani arrivarono ad offrire personalmente ulteriori ricompense.
Movimenti terroristici legati all’Iran, come il gruppo libanese Hezbollah, risposero all’appello di Khomeini promettendo di farsi carico dell’assassinio. Nel maggio del 1989, ad esempio, alcuni cittadini britannici vennero presti in ostaggio in Libano: vennero liberati dopo alcuni mesi di trattative, ma i rapitori promisero che ci sarebbero state altre rappresaglie contro Rushdie e chi lo proteggeva. Nonostante la retorica fiammeggiante, nel corso degli anni, le autorità iraniane hanno più volte lasciato intendere la possibilità di perdonare Rushdie, anche se hanno sempre finito col rimangiarsela.
L’attuale guida suprema dell’Iran Alì Khamenei, all’epoca braccio destro di Khomeini, già il 17 febbraio del 1989 (pochi giorni dopo la fatwa) disse che in caso di scuse la condanna a morte avrebbe potuto essere ritirata. Rushdie si scusò due giorni dopo, ma non servì a nulla: il 19 febbraio Khomeini disse che non avrebbe mai potuto essere perdonato. Nonostante questo Rushdie provò diverse altre volte a scusarsi e nel 1990 arrivò a professare pubblicamente in un articolo la sua fede musulmana e a chiedere alla sua casa editrice di smettere di vendere il libro.
Non servì a molto nemmeno questo. Nel 1998 il governo iraniano dichiarò che non avrebbe mai appoggiato un tentativo di assassinio nei confronti di Rushdie, ma la fatwa non venne comunque ritirata. Nel 2005 Khamenei ripeté che la fatwa era ancora in vigore, poiché soltanto l’autore ha l’autorità per ritirare una fatwa che lui stesso ha emesso. Khomeini morì nel giugno del 1989, senza ritirare la sua sentenza.
A quasi trent'anni dalla sua condanna a morte, Rushdie e gli addetti alla sua sorveglianza ritengono che le minacce nei suoi confronti siano diventate molto meno pressanti. La sua vita è divenuta più facile, anche se è sottoposto ancora a molti controlli (nel marzo 2013 ha partecipato in Italia ad una puntata della trasmissione Che tempo che fa, dove è stato intervistato da Roberto Saviano). Nonostante le minacce di morte siano diventate meno pericolose, Rushdie racconta che tuttora, ogni anno, il 14 febbraio, riceve una “specie di cartolina di San Valentino” in cui il regime iraniano gli ricorda che ha ancora intenzione di ucciderlo, ma, dice Rushdie: «Siamo arrivati al punto in cui più che una minaccia reale, è uno sfoggio di retorica».
Davanti all’intransigenza iraniana, Rushdie ha ritirato le sue scuse e la sua professione di fede musulmana. Un giorno, racconta Hitchens, prese una raccolta di saggi in cui era contenuto il suo articolo del 1990, quello in cui dichiarava la sua fede religiosa e chiedeva ancora una volta scusa per il suo libro. Meticolosamente tirò una riga su ogni pagina, aggiungendo la sua firma per certificare il “ripudio” del suo pezzo. Sopra il titolo, “Perché ho abbracciato l’Islam”, aggiunse a penna: “No! Argh!”.
Il 14 febbraio del 1989, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il leader politico e religioso dell’Iran, annunciò alla radio la condanna a morte dello scrittore di origine indiana Salman Rushdie. La colpa di Rushdie, che in quel momento si trovava a Londra, era aver scritto I versi satanici (The Satanic Verses), un romanzo in cui – secondo Khomeini – Rushdie insultava la religione islamica e il suo profeta. Quella di Khomeini era una fatwa, cioè la sentenza emessa da un’autorità religiosa e teoricamente vincolante per tutti i musulmani. Ventinove anni dopo quella sentenza è ancora in vigore: fino ad oggi ha causato la morte del traduttore giapponese del libro, il ferimento del traduttore italiano e dell’editore norvegese, la distruzione di diverse librerie in tutto il mondo e continua a costringere Rushdie a vivere nascosto, sotto la protezione del governo britannico.
Nel mondo dell’editoria ci si aspettava che l’ultimo libro di uno dei più celebri scrittori in lingua inglese avrebbe portato a qualche controversia. Christopher Hitchens, lo scrittore e giornalista morto nel 2011 e amico di Rushdie, scrisse nella sua biografia, Hitch 22, che Rushdie aveva inviato una copia del manoscritto ad un amico con un biglietto che diceva più o meno: «Vorrei che ci dessi un’occhiata perché potrebbe turbare qualche credente».
Rushdie all’epoca aveva 42 anni ed era già uno scrittore molto affermato, arrivato al suo quarto romanzo. Quello che avrebbe “turbato” una parte del mondo islamico, nella previsione di Rushdie, era l’aneddoto che dava il nome al libro, la storia dei “versi satanici”. Si tratta di un racconto apocrifo e molto antico che riguarda la vita di Maometto e che Rushdie romanzò in un capitolo del suo libro. Nel racconto Maometto viene ingannato dal diavolo che gli suggerisce un passo del Corano.
In Occidente, almeno all’inizio, furono pochi i lettori che capirono a cosa Rushdie si stesse riferendo in quell’aneddoto. I nomi dei luoghi e dei personaggi infatti erano stati cambiati: Maometto era diventato Manhoud e la città della Mecca era stata cambiata in Jaihilia. Fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti, invece, i riferimenti vennero colti molto in fretta. I versi satanici venne pubblicato il 5 ottobre del 1988. Nove giorni dopo il parlamento indiano – il paese dove Rushdie era nato – ne vietò l’importazione in tutto il paese.
Inizialmente la cosa non fece molto rumore, ma alla fine di novembre quasi tutti i paesi a maggioranza musulmana del mondo, insieme a Sudafrica e Thailandia, avevano vietato la vendita del libro. Alla fine di ottobre l’editore del libro, la Viking Penguin, aveva già ricevuto decine di migliaia di lettere di proteste, mentre Rushdie cominciò ad annullare i viaggi e a farsi accompagnare da alcune guardie del corpo. Ma le cose stavano peggiorando rapidamente.
Nel dicembre del 1989, nel Regno Unito, 7 mila musulmani si riunirono nella città di Bolton, nella zona di Manchester, per bruciare in piazza alcune copie del libro. A gennaio una folla ancora più grande organizzò un secondo rogo, mentre numerose associazioni musulmane chiesero al governo britannico di utilizzare una vecchia legge mai applicata, il Blasphemy Act, per bloccare la stampa e la vendita dei Versi satanici. In poco più di tre mesi la controversia era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Gli episodi più gravi, però, dovevano ancora avvenire. Il 12 febbraio, a Islamabad, in Pakistan, 10 mila persone si riunirono per protestare contro il libro di Rushdie. Durante la manifestazione un gruppo di loro cercò di assaltare il Centro culturale americano. La polizia sparò sulla folla; sei persone vennero uccise e almeno altre cento rimasero ferite. Il giorno dopo, il 13 febbraio, ci fu un altro morto e altre decine di feriti durante una manifestazione a Srinagar, in India. Il giorno successivo, il 14 febbraio, l’ayatollah Khomeini, malato e oramai vicino alla morte, si rivolse a tutti i musulmani del mondo con un messaggio alla radio di stato iraniana:
Informo tutti i buoni musulmani del mondo che l’autore dei Versi satanici, un testo scritto e pubblicato contro la religione islamica, contro il profeta dell’Islam e contro il Corano, insieme a tutti gli editori e coloro che hanno partecipato con consapevolezza alla sua pubblicazione, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i coraggiosi musulmani, ovunque si trovino, di ucciderli immediatamente, cosicché nessuno osi mai più insultare la sacra fede dei musulmani. Chiunque sarà ucciso per questa causa sarà un martire per il volere di Allah.
Nel suo ultimo romanzo biografico, Joseph Anton, Rushdie racconta che venne a sapere della sua condanna a morte da un giornalista della BBC. Poco dopo venne contattato dal governo britannico ed entrò in un programma di protezione che cambiò per sempre la sua vita e che non è ancora terminato. Come ha scritto Hitchens, da quel giorno «Rushdie scomparve in una bolla nera di sicurezza totale». Per i primi mesi cambiò residenza ogni tre giorni, non poteva chiamare né incontrare i suoi amici, tranne in occasioni particolari. Dopo poco tempo questa situazione portò alla fine del suo matrimonio.
Da un certo punto di vista, Rushdie fu fortunato: il suo programma di protezione funzionò e non venne mai coinvolto in un attentato. Proteggere un solo uomo, però, era facile. Quello che era impossibile era garantire protezione a tutti “gli editori e a chiunque altro avesse partecipato alla pubblicazione del libro”. Furono loro che vennero colpiti più gravemente. Due anni dopo la fatwa, l’11 luglio 1991, Itoshi Sagurashi, che aveva lavorato alla traduzione del libro in giapponese, venne ucciso nel suo ufficio all’università di Tokyo. Una settimana prima, a Milano, il traduttore italiano Ettore Capriolo era stato accoltellato e picchiato da uno sconosciuto assalitore. Due anni dopo, l’11 ottobre 1993 l’editore norvegese del libro, William Nygaard, venne ferito con tre colpi di pistola fuori dalla sua casa ad Oslo. Anche se in nessuno dei tre casi sono stati individuati i responsabili, gli episodi sono universalmente considerati collegati con la fatwa che riguarda il libro.
Alla fine degli anni Ottanta Salman Rushdie, nato nel 1947 a Bombay ed emigrato da giovane nel Regno Unito, era già uno dei più celebri scrittori del mondo anglosassone. Il suo secondo romanzo, I figli della mezzanotte, aveva vinto nel 1981 uno dei più importanti premi della letteratura in lingua inglese, il Booker Prize, oltre ad aver venduto centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo.
I versi satanici non è un romanzo semplice e in molti, tra cui lo stesso Rushdie, dubitano che la gran parte dei suoi critici lo abbiano mai letto – anche perché non è mai stato tradotto in arabo, urdu o farsi, le lingue dei principali paesi musulmani. Il libro è lungo più di 600 pagine, è pieno di riferimenti culturali e linguistici difficili da capire per chi non conosca bene la letteratura inglese, ma anche per coloro che non sono cresciuti o non conoscono molto bene l’India e l’Asia orientale.
Il romanzo, in sostanza, è una storia tipica della produzione di Rushdie, il racconto della vita di due emigrati indiani nell’Inghilterra contemporanea. I due protagonisti sono due attori indiani di origine musulmana; uno ha un grande successo a Bollywood, mentre l’altro ha rinunciato alle sue radici e lavora come doppiatore nel Regno Unito. All’inizio del romanzo i due protagonisti sopravvivono in modo soprannaturale a un attentato che distrugge l’aereo su cui stanno viaggiando.
Nel resto della storia, che prosegue in maniera sempre più onirica e magica, i due cominciano a trasformarsi. Il primo diviene simile a un angelo, mentre il secondo comincia a assomigliare ad un demone. Mentre all’inizio i ruoli di bene e male sembrano chiari, con l’avanzare del racconto la trasformazione angelica si rivela una sorta di schizofrenia, mentre l’altro personaggio, il demone, sembra riuscire a redimersi. Alla fine il doppiatore si riconcilia con le sue radici indiane, mentre la star di Bollywood, sempre più alienata dal suo passato, si suicida.
La parte più controversa del libro non occupa più di 70 pagine ed è la descrizione di un lungo sogno di uno dei protagonisti, la star di Bollywood. In questa scena onirica, Rushdie rielabora un episodio della tradizione islamica – l’episodio dei versi satanici, appunto. Si tratta di un racconto molto antico della tradizione islamica che però non è mai stato inserito nel “canone” ufficiale.
In modo simile ad alcuni passi dei vangeli apocrifi, dove è descritta l’infanzia di Gesù e i dispetti e le piccole cattiverie che commetteva, l’episodio dei versi satanici racconta un momento di debolezza di Maometto. Nella storia il profeta dell’Islam viene ingannato dal diavolo che lo spinge ad annunciare ai suoi concittadini che le tre figlie di Allah (cioè tre antiche divinità pagane del pantheon arabico) erano degne di essere venerate.
Nel libro, Rushdie aggiunge altri dettagli al racconto tradizionale. Quando Maometto rinsavisce, diversi personaggi del sogno (un suo ex seguace, un poeta ubriacone, alcune prostitute) si riuniscono in un bordello e, tra di loro, criticano il profeta, accusandolo di essere uno di loro, un uomo dissoluto, un ubriacone ed un imbroglione. Come forma di disprezzo, alcune prostitute assumono i nomi delle moglie del profeta.
I versi Satanici è stato il più grande successo della Viking Penguins. Nel maggio del 1989 aveva già venduto 750 mila copie, che negli anni successivi diventarono diversi milioni. Mentre le vendite aumentavano e il caso attirava un’attenzione crescente in tutto il mondo, aumentavano anche le minacce da parte dell’Iran. Diverse istituzioni religiose misero una taglia sulla testa di Rushdie, aumentandola poi diverse volte, e alcuni uomini d’affari iraniani arrivarono ad offrire personalmente ulteriori ricompense.
Movimenti terroristici legati all’Iran, come il gruppo libanese Hezbollah, risposero all’appello di Khomeini promettendo di farsi carico dell’assassinio. Nel maggio del 1989, ad esempio, alcuni cittadini britannici vennero presti in ostaggio in Libano: vennero liberati dopo alcuni mesi di trattative, ma i rapitori promisero che ci sarebbero state altre rappresaglie contro Rushdie e chi lo proteggeva. Nonostante la retorica fiammeggiante, nel corso degli anni, le autorità iraniane hanno più volte lasciato intendere la possibilità di perdonare Rushdie, anche se hanno sempre finito col rimangiarsela.
L’attuale guida suprema dell’Iran Alì Khamenei, all’epoca braccio destro di Khomeini, già il 17 febbraio del 1989 (pochi giorni dopo la fatwa) disse che in caso di scuse la condanna a morte avrebbe potuto essere ritirata. Rushdie si scusò due giorni dopo, ma non servì a nulla: il 19 febbraio Khomeini disse che non avrebbe mai potuto essere perdonato. Nonostante questo Rushdie provò diverse altre volte a scusarsi e nel 1990 arrivò a professare pubblicamente in un articolo la sua fede musulmana e a chiedere alla sua casa editrice di smettere di vendere il libro.
Non servì a molto nemmeno questo. Nel 1998 il governo iraniano dichiarò che non avrebbe mai appoggiato un tentativo di assassinio nei confronti di Rushdie, ma la fatwa non venne comunque ritirata. Nel 2005 Khamenei ripeté che la fatwa era ancora in vigore, poiché soltanto l’autore ha l’autorità per ritirare una fatwa che lui stesso ha emesso. Khomeini morì nel giugno del 1989, senza ritirare la sua sentenza.
A quasi trent'anni dalla sua condanna a morte, Rushdie e gli addetti alla sua sorveglianza ritengono che le minacce nei suoi confronti siano diventate molto meno pressanti. La sua vita è divenuta più facile, anche se è sottoposto ancora a molti controlli (nel marzo 2013 ha partecipato in Italia ad una puntata della trasmissione Che tempo che fa, dove è stato intervistato da Roberto Saviano). Nonostante le minacce di morte siano diventate meno pericolose, Rushdie racconta che tuttora, ogni anno, il 14 febbraio, riceve una “specie di cartolina di San Valentino” in cui il regime iraniano gli ricorda che ha ancora intenzione di ucciderlo, ma, dice Rushdie: «Siamo arrivati al punto in cui più che una minaccia reale, è uno sfoggio di retorica».
Davanti all’intransigenza iraniana, Rushdie ha ritirato le sue scuse e la sua professione di fede musulmana. Un giorno, racconta Hitchens, prese una raccolta di saggi in cui era contenuto il suo articolo del 1990, quello in cui dichiarava la sua fede religiosa e chiedeva ancora una volta scusa per il suo libro. Meticolosamente tirò una riga su ogni pagina, aggiungendo la sua firma per certificare il “ripudio” del suo pezzo. Sopra il titolo, “Perché ho abbracciato l’Islam”, aggiunse a penna: “No! Argh!”.
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