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giovedì 30 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 30 settembre.
Il 30 settembre 1957 il Partito Socialista Indipendente Sammarinese organizzò un colpo di stato nella Repubblica del Titano ed insediò il governo provvisorio a Rovereta, un piccolo centro al confine con l'Italia.
L’unico governo socialcomunista a ovest della cortina di ferro. Un Paese di «irriducibili» che resisteva a boicottaggi, pressioni e blocchi delle frontiere del democristianissimo governo italiano del secondo dopoguerra. Questo fu la Repubblica di San Marino dal 1945 fino al 1957. Era il 1955 quando i democristiani di San marino (Pdcs) decisero che era il caso di chiedere l’aiuto statunitense.
Agli americani lo sconosciuto villaggio dei «rossi» irriducibili venne descritto come l’avamposto sovietico in occidente e fu sufficiente inserire le vicende sammarinesi nell’ottica della guerra fredda per far sprofondare la piccola Repubblica sull’orlo della guerra civile. Nel 1955, a seguito delle elezioni che videro aumentare la maggioranza social-comunista nel Consiglio grande e generale, il leader dei democristiani sammarinesi, Federico Bigi, decise di far visita al consolato statunitense a Firenze per illustrare le possibili linee d’azione. Nell’ordine: sfruttare ogni spaccatura possibile tra comunisti e socialisti; aumentare le pressioni italiane contro il governo di San Marino; il colpo di Stato.
L’ultima opzione venne considerata da subito impraticabile mentre emerse una netta predilezione per la prima ipotesi: lavorare per spaccare il fronte socialcomunista. Funzionò, grazie ai fatti di Ungheria e allo «spauracchio rosso». Nel luglio del 1956 quando venne aperto un consolato russo a San Marino, il New York Times, titolò «la rossa San Marino nella rete sovietica», mentre i fatti di Ungheria spinsero il socialista Alvaro Casali ad abbandonare la maggioranza e fondare il Partito socialista democratico indipendente. Altri tre consiglieri del Parlamento sammarinese lo seguirono. Fu un ribaltone ante litteram.
Il Consiglio grande risultò spaccato esattamente a metà: 30 consiglieri per la maggioranza socialcomunista, 30 per l’opposizione. Il governo resistette per alcuni mesi, fino all’elezione dei nuovi Capitani reggenti, eletti per statuto ogni sei mesi, poi si trovò costretto ad affrontare l’impasse. L’elezione venne fissata per il 19 settembre del 1957. Proprio il giorno prima, però, un altro consigliere, Attilio Giannini, indipendente eletto nelle liste del Partito comunista, decise di saltare la barricata. Nominare Giannini e accennare ai motivi della sua scelta provoca ancora oggi infinite polemiche e querele. Comunque, spontaneamente o meno, grazie a Giannini si era creata una nuova, risicata, maggioranza formata da 23 consiglieri democristiani, cinque socialisti indipendenti, due socialdemocratici e, appunto da Attilio Giannini. 31 consiglieri su 60.
Ma gli «irriducibili» non potevano farsi cacciare così facilmente, quindi i segretari del Pcs e del Pss presentarono le dimissioni di tutti i consiglieri della precedente maggioranza con firme autentiche. Era, infatti, consuetudine dei partiti della sinistra far firmare ai loro eletti una lettera di dimissioni con la data in bianco, a titolo di garanzia del rispetto delle direttive del Partito. Risultarono dimissionari, quindi, anche i cinque «transfughi». Constatata la dimissione della maggioranza dei consiglieri, la Reggenza sciolse il Consiglio e indisse nuove elezioni. Piovvero accuse di «golpismo» da ambo le parti.
La sera del 30 settembre i consiglieri della nuova maggioranza anticomunista occuparono uno stabilimento industriale in disuso situato a Rovereta, un lembo di San Marino circondato tre lati su quattro, dal territorio italiano, e formarono un governo provvisorio.
L’esecutivo fu immediatamente riconosciuto dal governo italiano che inviò i carabinieri ai confini per proteggerlo. Era l’1 ottobre, seguirono il riconoscimento francese e, ovviamente, quello statunitense. Per la destra era nato il «governo libero di San Marino», per la sinistra «il governo del capannone».
Gli «irriducibili» erano ridotti sulla difensiva. Temendo che il governo provvisorio tentasse di prendere il potere con la forza, formarono una milizia volontaria armata (soprattutto con vecchi archibugi) e la Repubblica si ritrovò sull’orlo di una guerra civile. Nonostante fossero i giorni del lancio del primo satellite artificiale nello spazio, lo Sputnik, e quelli degli scontri di piazza a Varsavia, le vicende sammarinesi conquistano le prime pagine dei giornali italiani. L’Unità schierò Pajetta e papà Cervi a difesa della vecchia maggioranza, mentre Giovanni Spadolini, sul Resto del Carlino, concluse così un emblematico editoriale intitolato Da Varsavia a San Marino: «C’è un insegnamento che dalla Polonia e dalla Jugoslavia arriva fino a quel piccolo lembo di terra romagnola sacro al cuore di ogni spirito devoto alla libertà: fino a San Marino. Ad ammonirci, oggi più che mai, che non ci sono vie di mezzo, che il socialismo è l’antitesi radicale del comunismo. Sulle balze del Titano come sulle piazze di Varsavia». Non fu da meno il New York Times che sfornò resoconti quotidiani sulle vicende della piccola Repubblica.
Il topolino aveva partorito la montagna. In questa situazione gli «irriducibili» decisero di chiedere l’intervento dell’Onu per garantire il libero svolgersi di un’elezione che ponesse fine alla situazione di stallo. Non fu una grande idea, perché San Marino non era membro delle Nazioni unite e soprattutto perché l’unico Paese che poteva appoggiare i social-comunisti, l’Unione Sovietica, per ovvie ragioni era sempre stata contraria all’invio di osservatori internazionali che controllassero il regolare svolgimento delle elezioni.
Nel frattempo il blocco delle frontiere rendeva sempre più complicata la vita ai sammarinesi, per questo, l’11 ottobre i Reggenti misero fine alla crisi, riconoscendo il governo provvisorio di Rovereta e sciogliendo la milizia volontaria. Il 14 ottobre il nuovo governo si insediò a Palazzo Pubblico.
Secondo Giuseppe Majani, per due volte Capitano Reggente di San Marino, la prima nel 1955 l’altra nel 1982, iscritto al Pc sammarinese dal 1944 fino allo scioglimento «la situazione stava diventando davvero pericolosa, c’era il rischio di uno scontro violento che nessuno voleva e negli ospedali incominciavano a scarseggiare le medicine, non potevamo certo opporci con la forza ai governi italiani e statunitensi. Con grande senso di responsabilità, abbiamo quindi deciso di smobilitare e permettere il cambio di governo. I documenti statunitensi desecretati da Clinton mostrano, però, come Bigi e la democrazia cristiana ci avessero svenduto agli americani».
In effetti le carte mostrano nei dettagli i contatti avvenuti tra la dc sammarinese e il dipartimento di Stato Usa, ma, a dire il vero, nessuno nega l’importanza dell’aiuto avuto da Oltreoceano. Lo scrisse Alvaro Casali, autore della scissione socialista, nel suo diario pubblicato nel 1999: «5 marzo 1957: pensiamo di approfondire con il Console americano la disponibilità politica e finanziaria del suo Governo al nostro Paese, nella auspicata evenienza politica di costruire un Governo a San Marino con l’esclusione dei comunisti». Lo confermò il leader democristiano Federico Bigi che, nel ringraziare il governo statunitense scrisse «Se il ritorno di San Marino alla democrazia è stato possibile, è stato dovuto principalmente, se non esclusivamente, alla grande fiducia da parte del popolo di San Marino e dei suoi anticomunisti nella garanzia di aiuto da parte degli Stati Uniti».
Questa era, appunto, la guerra fredda, Casali e Bigi dal canto loro accusavano i comunisti sammarinesi di essere inchinati ai voleri sovietici. Majani, però, lamentò e lamenta, le ritorsioni patite da militanti e partiti di sinistra dopo i fatti di Rovereta. Difficile dargli torto.
I democristiani giunti al potere iniziarono una campagna di licenziamenti nei confronti dei lavoratori comunisti, vennero chiuse sedi dei partiti di sinistra, negate le sale per gli incontri pubblici e, soprattutto, i Capitani Reggenti e i consiglieri della vecchia maggioranza vennero messi sotto processo con l’accusa di «attentato alla Sicurezza dello Stato». I due ex Capitani Reggenti vennero condannati, nel 1959, a 15 anni di Lavori pubblici (leggi reclusione) mentre per gli altri le pene variarono dai 7 ai 10 anni. (Le pene vennero condonate solo a seguito di mesi di lotta politica, nel 1960). Nel 1957, quindi, la battaglia contro gli «irriducibili» era vinta, ma toccava vincere la prima sfida elettorale, quella del 1959.
A questo scopo, il ministero degli Esteri sammarinese sollecitò gli aiuti economici dagli Stati Uniti, per poter avviare i lavori dell’acquedotto e della superstrada Rimini – San Marino e, quindi, presentare qualche risultato concreto in campagna elettorale. La tecnica utilizzata per convincere il governo statunitense è da manuale sulla guerra fredda. Questo scrive, il 18 marzo 1958, l’ambasciata statunitense italiana al Dipartimento di Stato statunitense dopo aver incontrato Federico Bigi, divenuto ministro degli Esteri di San Marino.
«L’ambasciata si rende conto che San Marino è solo un granello sull’orizzonte politico mondiale, ma crede fermamente che la mancanza Usa di aiutare San Marino sarà ritenuta come l’indifferenza Usa verso il comunismo e i bisogni dei nostri amici. Piccola com’è san Marino è il solo paese dove la cortina di ferro si è ritirata negli ultimi vent’anni, dovuto (sic) in parte all’incoraggiamento Usa. Se il collasso delle forze democratiche accadesse prima delle elezioni nazionali italiane, fissate per il 25 maggio, il ritorno di San Marino sotto il dominio comunista potrebbe avere un impatto anche sulle elezioni italiane. L’assenza di un aiuto concreto dopo sei mesi di supporto morale, programmatico e finanziario, sarebbe indubbiamente sfruttato dalle forze italiane di sinistra, forse facendo riferimento al declino economico negli Usa e al destino inesorabile di coloro che pongono la loro fiducia negli Usa».
Insomma, il primo passo per la conquista del mondo da parte dei sovietici. Di fronte a tale prospettiva gli Usa finirono per sborsare 850 mila dollari per acquedotto e superstrada.
I comunisti provarono a ribattere che quell’autostrada sarebbe servita per il trasporto dei missili Usa della base Setaf di Rimini al Monte Titano, ma non ci credette nessuno. Gli elettori si trovarono, quindi, a scegliere tra una San Marino boicottata dai vicini italiani o una foraggiata dal governo di Roma e da quello statunitense. Nelle elezioni del 1959 la Dc sammarinese e i suoi alleati presero il 60 per cento dei voti. I partiti di sinistra tornarono a vincere le elezioni solo nel 1978.

mercoledì 29 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 29 settembre.
Il 29 settembre 1936 Francisco Franco viene dichiarato Generalísimo de los ejércitos de Tierra, Mar y Aire. E' l'inizio della dittutura spagnola conosciuta come "franchismo".
Francisco Franco Bahamonde nasce il 4 dicembre 1892 a El Ferrol, città portuale della Spagna nordoccidentale (nella regione della Galizia) non lontano da La Coruña. La famiglia, di classe media, è tradizionalmente legata alla marina. La sua infanzia non è fortunata: i genitori si separano e Francisco non sembra nutrire grande affetto per il padre, che descriverà come introverso e timido.
Francisco Franco entra all'Accademia Militare di Toledo all'età di 14 anni: è uno dei cadetti più giovani e di più bassa statura. Cinque anni più tardi diviene ufficiale e chiede di essere inserito nell'esercito d'Africa. La sua esperienza africana inizia nel 1912 e avrà notevole influenza nella formazione del suo carattere e delle sue capacità professionali.
Franco è un ufficiale valoroso. Viene ferito varie volte e anche in modo grave. Grazie al suo valore e al suo impegno il suo nome diviene presto noto e la sua figura rilevante nell'ambiente militare.
Nel 1920 entra nei ranghi della Legione, élite militare di volontari il cui prototipo umano è l'avventuriero. Si distingue per la sua preoccupazione per le necessità dei soldati ma anche per la sua durezza e il principio della disciplina. Diviene col tempo un maestro nella guerra africana per la dimestichezza nelle piccole manovre avvolgenti su terreni accidentati. Il suo carisma è quello di un ferreo difensore dell'autorità morale dell'esercito.
La carriera militare è fulminea e brillante: nel 1923 è tenente colonnello, due anni dopo colonnello e nel 1926, a soli 34 anni, generale di brigata.
Durante la dittatura del generale Primo de Rivera ha con lui contrasti sulla politica africana e viene nominato direttore dell'Accademia Militare di Saragozza, dove molti dei professori erano militari africanisti. Della dittatura di Primo de Rivera Franco critica la provvisorietà, tuttavia alcuni dei suoi collaboratori saranno i pilastri basilari del suo futuro regime.
Accoglie senza alcun entusiasmo la proclamazione della seconda Repubblica e disapprova lo scioglimento della Accademia di Saragoza da parte del Governo Repubblicano, i cui vertici considerano Franco l'unico generale veramente pericoloso per l'esperienza socialista-repubblicana. Nonostante ciò, nel secondo biennio il Ministro Radicale Hidalgo lo nomina Capo di Stato Maggiore: la sua prima preoccupazione è quella di dare vigore allo spirito militare attraverso i Tribunali dell'Onore e il miglioramento delle condizioni materiali dell'esercito.
Francisco Franco collabora inoltre nella direzione militare della repressione della Rivoluzione delle Asturie del 1934.
Prima della guerra civile tiene una posizione politica molto defilata. E' un professionista dell'esercito e la sua figura si identifica con idee conservatrici ma moderate. Come gli altri militari di guarnigione in Marocco, detesta la professione del politico, che considera la causa dei mali della Spagna. Già a quel tempo la sua mentalità è antiliberale benché non sia un estremista. Giudica i politici "disprezzabili fantocci" e già in uno dei suoi primi proclami del luglio 1936 afferma che gli spagnoli sono "stufi di loro".
Le idee basilari della linea di Franco prima della guerra civile sono il nazionalismo ad oltranza e l'anticomunismo. In realtà la sua ideologia si cristallizza negli anni tra il 1933 e il 1939: in questo periodo inizia a manifestare la sua religiosità e la sua semplicistica interpretazione del passato storico della Spagna, concepito come lotta perenne tra alcune forze tradizionali, religiose e patriottiche e altre antinazionali e legate alla massoneria.
La sua decisione di intervenire nella guerra civile (1936-1939) è tardiva ma risulta inequivocabile e sin dal principio aspira a esercitare la suprema responsabilità politica. Francisco Franco non assomiglia a nessun altro personaggio storico dell'epoca contemporanea che ha esercitato il potere in prima persona. Veniva da ambienti umani ed ideologici molto differenti da quelli di Hitler o Mussolini, e la capacità oratoria di questi non si può comparare con la pochezza tanto di gesti quanto di parola che fu del dittatore spagnolo.
Incontra Hitler a Hendaya nel 1940 e Mussolini a Bordighera nel 1941. Nonostante le pressioni di Germania e Italia, Franco schiera la Spagna in una posizione di neutralità.
Nel 1950 sposa Carmen Polo, di distinta famiglia asturiana.
Insediatosi definitivamente a Madrid nel palazzo del Pardo, Franco si atteggia sempre più come re della nuova Spagna. E con lui la moglie Carmen, elevata durante le cerimonie al rango di regina. Franco pretende che alla consorte, così come accadeva per le dame dell'aristocrazia, ci si rivolga con l'appellativo di señora. Durante le celebrazioni ufficiali, all'apparizione della señora viene suonata la marcia reale.
Come un monarca assoluto, durante il suo lungo regno Franco accumulerà diciotto tenute, doni per quattro milioni di pesetas e centinaia di medaglie d'oro commemorative donate da città ed enti. La moglie farà fondere queste ultime in lingotti.
L'esercito è per Franco l'istituzione più sacra ed importante e considera le virtù militari come le migliori. Amante della disciplina, la pratica e la pretende nella politica, che considera come un compimento del proprio dovere. Altri aspetti del suo carattere sono la serenità e la tranquillità che includono la sua nota freddezza, cha si pone in netto contrasto con gli impeti e gli entusiasmi di molti protagonisti della vita pubblica.
Il modo di agire di Franco consiste quasi sempre nel non affrettare le cose. A fronte dell'azione brillante, contraddittoria e spesso confusa che aveva caratterizzato la dittatura di Primo de Rivera, Franco applica ai problemi il metodo di tergiversare e di lasciare che il passare del tempo li risolva.
Ciò contribuisce a spiegare la lunga durata del suo potere che durerà fino alla sua morte, avvenuta il 20 novembre 1975 a Madrid a causa del morbo di Parkinson.
È sepolto nella Valle de los Caídos, non lontano dal Monastero dell'Escorial, di Madrid. Franco è venerato come santo dalla scismatica Chiesa Palmariana.

martedì 28 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 settembre.
Il 28 settembre 2005 inizia la prima tranche di quello che fu chiamato il processo per la truffa del secolo, riguardante il crac della Parmalat di Calisto Tanzi.
 Parmalat è stata protagonista dal 2003 a oggi del più grande crac finanziario della storia. Una vera e propria truffa ai danni dei risparmiatori, dell'incredibile valore di 14 miliardi di euro, perpetrata attraverso la distrazione e occultazione sistematica dei capitali della multinazionale. Soldi che per anni sono scomparsi attraverso una serie di passaggi tra società off shore sudamericane, statunitensi, lussemburghesi e maltesi, per poi riapparire magicamente nelle tasche di Calisto Tanzi. Nessuno si è accorto che a questo modo si sono svuotate le casse della società, i cui debiti sono stati abilmente mascherati tramite trucchi contabili, connivenze dei revisori e massicce acquisizioni di aziende indebitate. E tramite l'emissione di bond, ossia chiedendo liquidità alle banche e agli stessi risparmiatori. Ecco la cronistoria della vicenda giudiziaria.
2003: i conti smettono di tornare tra il 4 e il 19 dicembre, quando si scopre che i 600 milioni di dollari depositati presso il fondo Epicurum, nel paradiso fiscale delle Cayman, così come i 3,95 miliardi di euro depositati nel conto della Bonlat, sempre di proprietà di Tanzi, non esistono. La società di Rating Standard&Poor's declassa i titoli Parmalat a «junk bond», spazzatura.
L'azienda perde il 40% del suo valore in Borsa, Tanzi lascia tutte le cariche. È arrestato il 26 dicembre. Un'azienda fino a quel momento ritenuta solida e affidabile, presente in 30 paesi, con 139 stabilimenti e 36.356 dipendenti, improvvisamente collassa.
2004: Mentre si scopre un buco di 2 miliardi in Parmatour, la controllata attiva nel settore del turismo, vengono arrestati i figli di Calisto Tanzi, Stefano e Francesca, per aver fatto scomparire 900 milioni di euro. Dopo 104 giorni di carcere, il Gip di Parma concede invece al padre gli arresti domiciliari (tornerà in libertà il 26 settembre).
Il 25 maggio tre dirigenti Parmalat sono accusati di favoreggiamento aggravato nei confronti della Camorra. Piovono rinvii a giudizio: la Procura di Milano ne spicca 29. Il 5 ottobre inizia l'udienza preliminare per il crac Parmalat, dopo che a marzo la Corte di Cassazione aveva deciso di assegnare alla procura della repubblica di Milano la competenza delle indagini in materia di aggiotaggio e a Parma quelle riguardanti le accuse di bancarotta e associazione a delinquere.
I due maxiprocessi inizieranno rispettivamente il 28 settembre 2005 e il 6 giugno 2006. Si costituiscono in giudizio 40 mila risparmiatori nel primo e 33 mila nel secondo. Solo a Parma il processo produrrà oltre 6 milioni di pagine.
2005: il 2 gennaio il tribunale di Parma chiede lo stato di insolvenza per tre aziende del gruppo: Emmegi agro industriale, Parmalat Malta Holding e Parmalat trading. Tanzi, a processo da settembre insieme ad altri 18 imputati, accusa ripetutamente gli istituti bancari, in particolare la Banca di Roma. L'1 ottobre i creditori aderiscono al concordato proposto da Enrico Bondi, già commissario straordinario e ora amministratore delegato della rinnovata società.
Da questo momento i creditori diventano azionisti. Il valore complessivo dei bond emessi è pari a circa 8 miliardi. Cinque giorni più tardi fa il suo esordio in Borsa la Nuova Parmalat: il titolo triplica il valore iniziale di un euro.
2006: Bondi è interrogato a Milano il 28 febbraio. Come Tanzi, anche l'ad ritiene «fuori dubbio» che le banche fossero a conoscenza della reale situazione finanziaria della società. Il primo marzo inizia, sempre a Milano, il processo per aggiotaggio e diffusione di notizie false al mercato.
Saranno rinviati a giudizio funzionari di Citigroup, Ubs, Deutsche Bank e Morgan Stanley. A settembre il rinvio a giudizio tocca invece agli avvocati Michele Ributti, ex legale di Tanzi, e Gian Giorgio Spiess. L'accusa è di aver distratto e poi occultato dalle casse di Parmalat oltre 4 milioni di euro nel decennio 1991-2001.
2007: il 20 febbraio le posizioni processuali dei figli di Calisto Tanzi si chiudono con un patteggiamento: 3 anni e 5 mesi per Francesca, 4 anni e 10 mesi per Stefano. La stessa soluzione viene adottata da altri 15 imputati. Anche Calisto formalizza, il 17 aprile, una richiesta di patteggiamento a 5 anni. Il 26 giugno si chiudono le indagini relative a Deutche Bank e Morgan Stanley: l'accusa per gli 11 imputati è concorso in bancarotta fraudolenta.
Due settimane dopo sarà la volte di Bank of America. Il 25 luglio si chiude l'udienza preliminare con 56 rinvii a giudizio, cinque condanne con abbreviato e 16 patteggiamenti. Il 2007 si chiude, per l'azienda, con una crescita del fatturato del 6,3% e un utile atteso tra 545 e i 550 milioni di euro.
2008: il 22 gennaio inizia formalmente a Milano il processo nei confronti di Ubs, Citigroup, Morgan Stanley e Deutsche Bank. Sarà rinviato fino al 7 aprile. Il 14 marzo, invece, si apre a Parma quello che viene definito il processo del secolo. Il 6 ottobre la Procura di Milano chiede 13 anni di reclusione per Calisto Tanzi.
La decisione giunge il 18 dicembre: Tanzi è condannato a dieci anni di reclusione in quanto colpevole di aggiotaggio, ostacolo all'attività degli organi di vigilanza e concorso in falso con i revisori.
2009: a sei anni di distanza dal crac, i 32 mila piccoli risparmiatori costituitisi parte civile e raccolti nel Comitato guidato da Carlo Federico Grosso e presieduto da Giancarlo Ge, recuperano quasi il 70% di quanto investito in Parmalat. La quota più cospicua del recupero, il 36%, deriva dal possesso di azioni e warrant di Parmalat Finance Corporation, mentre le altre sono costituite da dividendi (5%), da transazioni con Deloitte (5%) e con le banche estere coinvolte nello scandalo.
Una fetta si deve anche al sequestro operato nel corso dell'anno di 19 dipinti di Manet, Picasso, Van Gogh, Kandinsky e altri, nascosti dal genero di Tanzi, per un valore stimato di 100 milioni.
2010: il 26 maggio la Corte d'Appello di Milano conferma la sentenza di primo grado. Tanzi è inoltre condannato a risarcire gli oltre 32 mila risparmiatori costituitisi parte civile per una somma di 100 milioni di euro, il 30% di quanto avevano chiesto. L'imprenditore si vede anche revocata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la carica di Cavaliere di Gran Croce.
Il 24 settembre, dopo 31 mesi di lavoro e 79 udienze, il procuratore di Parma Gerardo Laguardia formula l'accusa: 20 anni di reclusione per Calisto Tanzi, 12 per l'ex rappresentante legale Giovanni Tanzi, fratello di Calisto, 9 e mezzo per l'ex direttore finanziario della Parmalat Fausto Tonna. Il 27 settembre la Procura di Milano chiede l'arresto di Calisto Tanzi in ragione del pericolo di fuga e di reiterazione del reato.
il 18 aprile 2011 il Tribunale di Milano ha assolto le banche coinvolte per il reato di aggiotaggio informativo: Morgan Stanley, Bank of America, CitiGroup e Deutsche Bank. La decisione del Tribunale di Milano inoltre nega quindi il risarcimento per circa 30.000 piccoli risparmiatori che sottoscrissero i bond emessi dalla Parmalat prima del Crac.
il 23 aprile 2012 il tribunale d'appello di Bologna condanna Tanzi a 17 anni e sei mesi; 9 anni e 11 mesi per Fausto Tonna. Per il fratello di Calisto Tanzi, Giovanni, conferma della condanna a 10 anni e sei mesi. Per l'ex direttore marketing della multinazionale di Collecchio Domenico Barili 7 anni e 8 mesi (8 anni in primo grado). Per Luciano Silingardi - commercialista amico di Tanzi, ex consigliere indipendente di Parmalat Finanziaria, nonché ex presidente della Fondazione Cariparma - conferma a 6 anni. Per Giovanni Bonici, numero uno di Parmalat Venezuela ed ex amministratore di Bonlat, 4 anni e 10 mesi (5 anni anni in primo grado). Ritocchi e conferme anche per gli altri ex dirigenti, sindaci, membri Cda imputati a Bologna. Per Fabio Branchi, commercialista di Calisto Tanzi, 4 anni 10 mesi e 10 giorni (5 anni e quattro mesi a Parma); a Enrico Barachini conferma a 4 anni; per Rosario Lucio Calogero 4 anni e sette mesi (5 anni e quattro mesi in primo grado); per Paolo Sciumé 5 anni e tre mesi (5 anni e quattro mesi); a Sergio Erede 1 anno (1 anno e sei mesi); a Camillo Florini 4 anni e un mese (5 anni); Mario Mutti 3 anni e sei mesi (5 anni e quattro mesi).
All'indomani della sentenza, il legale di Tanzi ha annunciato che l'ex patron della Parmalat ricorrerà in Cassazione.
Nel 2014 la quinta sezione penale della Cassazione ha confermato la pena a Calisto Tanzi. La condanna definitiva di Tanzi è stata di 17 anni, mentre il direttore finanziario Fausto Tonna, è stato condannato a 9 anni di reclusione.
Attualmente l'ex patron della Parmalat, a causa delle sue precarie condizioni di salute, sta scontando la pena agli arresti domiciliari.

lunedì 27 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 27 settembre.
Il 27 settembre 1996 i talebani catturano Kabul e diventano padroni dell'Afganistan.
Il termine talebani (pronuncia: taliban) indica nel mondo islamico semplicemente gli alunni delle madrase ( scuole islamiche) che preparano gli esperti della legge religiosa islamica  (sharia’ah= la via indicata da Dio). Ma il termine ha assunto altro significato per gli avvenimenti in Afganistan.
Dopo il ritiro dei russi nel 1989 le varie fazioni di insorti cominciarono a  combattere fra di loro  in un crescendo di distruzioni, stragi e violenze.  Per  porre rimedio al caos allora le autorità del Pakistan attuarono un  piano:  raccolsero nelle madrase del Pakistan alunni di etnia Pashtun (etnia maggioritaria dell’Afganistan ma presente anche in Pakistan), li armarono, organizzarono, addestrarono e li mandarono  in Afganistan. Poiché provenivano dalle scuole coraniche furono noti con il nome di talebani. Questi, mossi da zelo religioso, si presentarono come i rappresentanti del credo islamico molto sentito dal popolo: fra lotte aspre e sanguinose riuscirono a controllare la maggior parte del territorio. Fu designato come loro capo il mullah Omar, figura di cui non si sa quasi nulla, probabilmente per sottolineare che si trattava del regno dell’ islam (dar el islam)  e non di quello di un uomo.
I talebani portarono però  all’estremo il  fanatismo: distruggevano i televisori (le immagini sono vietate nell’Islam), chiudevano tutte le scuole femminili, arrivarono a proibire gli aquiloni, a vietare il rumore delle scarpe delle donne, a distruggere le secolari statue di Budda. Inoltre si scontrarono sanguinosamente con le altre  etnie soprattutto con gli  Hazara (di origine mongola, di religione sciita) e poi con i Tagiki (di antica origine  persiana) e i turcomeni  (Alleanza del nord).
Tutto ciò avveniva nella assoluta indifferenza del mondo intero a cui nulla più interessava dell’Afghanistan dal  momento in cui, con il ritiro russo, non era più sullo scacchiere della guerra fredda.
A denunciare il fanatismo  dei Talebani furono invece altri integralisti, quelli della confinante repubblica islamica dell’Iran,  nel film franco iraniano  “Viaggio a Kandahar”.
L’attentato dell’11 settembre proiettò all’improvviso il dimenticato  Afghanistan al centro della politica mondiale. Gli americani ritennero che al  Qaeda e il suo capo  fossero i mandanti dell’attentato. I talebani non c’entravano assolutamente niente ma ospitavano al Qaeda: non vollero e non poterono scindere le proprie responsabilità. Rapidamente arrivarono gli Americani che si giovarono dell’aiuto dei loro nemici  dell’Alleanza del nord. I talebani malgrado i magniloquenti proclami di Omar e di Bin Laden che sarebbero  caduti tutti sul posto, si diedero a fuga disordinata e tutto il paese fu conquistato. Il potere provvisorio fu dato a Karzai esponente di una importante famiglia di Kandahar.
Tuttavia questi, anche con tutto l’aiuto occidentale, non è mai riuscito a controllare il paese come non ci sono mai riusciti né i re afghani  né gli invasori inglesi o russi.

domenica 26 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 26 settembre.
Il 26 settembre 1960 si svolge il primo dibattito televisivo tra due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Richard Nixon e John Kennedy, da quel momento la televisione diventerà lo strumento principale delle campagne elettorali moderne.
John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) e Richard Milhous Nixon (1913-1994), negli studi della CBS di Chicago, partecipano al primo dibattito televisivo della storia tra due candidati alla Casa Bianca. Un evento fondamentale della storia politica americana e della storia della comunicazione politica in generale, al quale assistono settanta milioni di spettatori. Il Great Debate segna l’ingresso della televisione nelle elezioni presidenziali e rappresenta la prima  opportunità per gli elettori di vedere i loro candidati confrontarsi in diretta.
Alle elezioni del 1960 i repubblicani sono favoriti dopo i due incarichi presidenziali di Dwight D. Eisenhower. Il loro candidato, nel segno della continuità, è il vicepresidente Richard Nixon. I democratici scelgono il giovane senatore cattolico del Massachusetts John Kennedy, di 43 anni. Nel discorso di accettazione della candidatura, Kennedy enuncia la dottrina della "Nuova Frontiera": come in passato la "frontiera" aveva permesso ai pionieri di estendere verso Ovest i confini degli Stati Uniti, così Kennedy si propone di conquistare nuovi traguardi per la democrazia americana, una nuova frontiera di progresso economico, culturale e civile che possa rilanciare all'interno del Paese il sogno americano e, all'estero, il ruolo guida degli USA.
Nixon appare dunque in vantaggio, ma quando viene proposta una sfida televisiva che potrebbe danneggiarlo, non sembra trovare motivi plausibili per opporre un rifiuto: il fatto sorprende lo stesso staff di Kennedy, come confiderà in seguito Pierre Salinger, capo del suo ufficio stampa.
I commentatori concordano nel considerare il ciclo di quattro incontri decisivo per la vittoria finale del senatore Kennedy, e soprattutto questo primo confronto del 26 settembre 1960, grazie al grande impatto che la sua immagine accomodante ha avuto sul pubblico televisivo: Kennedy riesce a trasmettere sicurezza, maturità, e mettendo in difficoltà l'avversario conquista un vantaggio che riesce poi a mantenere nei tre appuntamenti successivi.
Nixon assume invece un atteggiamento difensivo, insiste sul fatto che entrambi i candidati avrebbero gli stessi obiettivi (da realizzare però con mezzi differenti), e lascia di fatto l'iniziativa al proprio rivale.
Il vicepresidente, in agosto, si era ferito seriamente al ginocchio ed aveva passato due settimane in ospedale. Al momento del primo dibattito si presenta pallido, dimagrito di quasi dieci chili e rifiuta il trucco previsto per gli ospiti. L'aneddotica di quel giorno racconta che Nixon sarebbe arrivato nello studio televisivo in anticipo e, a causa dell’attesa sotto il calore delle lampade, avrebbe finito col presentarsi sudato e nervoso davanti alle telecamere.
Kennedy viene invece da un'intensa attività elettorale, è abbronzato, sicuro di sé e ben riposato. "Non lo avevo mai visto così bene" scriverà Nixon più tardi. In effetti, quel giorno Kennedy risulta il vincitore anche per una serie di dettagli ai quali allora non si dà ancora la necessaria importanza. Ad esempio, il colore scuro della giacca di Kennedy risulta contrastare meglio con lo sfondo dello studio, dando più evidenza al personaggio; del resto, Kennedy si era incontrato il giorno precedente l’apparizione con la produzione del programma proprio al fine di studiare tutti i dettagli. Nixon, al contrario, non coglie le specificità del mezzo televisivo. Kennedy parla guardando dritto nella telecamera, e dunque negli occhi del telespettatore, mentre Nixon, seguendo la prassi dei dibattiti tradizionali, si rivolge al suo interlocutore in studio.
Il dibattito televisivo risulta di un'importanza tale da ribaltare le previsioni dei sondaggi: fino a quel momento, Nixon era considerato il favorito grazie anche agli esiti dei dibattiti radiofonici, in cui la voce profonda di Nixon risultava più adatta al mezzo. Prima del dibattito un sondaggio condotto dalla storica agenzia di ricerca Gallup dava i due sfidanti alla pari con il 47% e una quota del 6% di indecisi.
Sono gli stessi candidati a concordare le modalità del confronto televisivo, suddiviso in quattro diversi appuntamenti. Le trasmissioni avvengono in diretta, senza pubblico in studio né interruzioni pubblicitarie, nonostante il grande valore "commerciale" dell'evento.
Ufficialmente non è stato designato un titolo per il ciclo di emissioni, ma la NBC sceglie autonomamente un cartello con la scritta "The Great Debate" che entrerà nell'uso comune a indicare i quattro dibattiti tra Nixon e Kennedy del 1960. Ai candidati non è consentita la consultazione di appunti, ma l’accordo è controverso: Nixon protesta quando vede dei fogli in mano all'avversario, nel terzo incontro. I giornalisti incaricati di porre le domande sono scelti tra quelli televisivi (con una decisione che suscita numerose polemiche da parte dei colleghi della carta stampata), e sono inquadrati di spalle come a rappresentare la prima fila del pubblico a casa.
Il primo "Great Debate" riguarda le questioni di politica interna. Ad ogni candidato sono concessi otto minuti per fare un discorso di apertura, a cui seguono una serie di domande dei giornalisti, dopodiché nella parte finale vengono concessi tre minuti e venti secondi per l'appello conclusivo. Il dibattito viene presieduto da Howard Smith della CBS News.
Dopo il primo incontro di Chicago, altri network mettono a disposizione i propri spazi quando il Congresso rimuove l’obbligo di dedicare eguali quantità di tempo anche ai candidati minori. Così, la NBC ospita a Washington il secondo incontro del 7 ottobre, mentre la ABC sperimenta nel terzo appuntamento del 13 ottobre, il più seguito da pubblico (share del 61%) il primo dibattito elettronico della storia: i due si sfidano in teleconferenza dalle due coste opposte; Kennedy parla da uno studio televisivo di New York mentre Nixon si trova a Los Angeles. Ancora la ABC accoglie gli sfidanti negli studi di New York per il quarto e ultimo incontro centrato sulla politica estera il 21 ottobre del 1960.
La campagna elettorale del 1960 è dominata dalle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel quadro della guerra fredda. Nel 1957 i sovietici hanno lanciato lo Sputnik, il primo satellite in orbita intorno alla Terra: la supremazia nello spazio non è che uno dei terreni di scontro con Mosca. Poco lontano dalle coste statunitensi il regime di Castro, a Cuba, è diventato economicamente e militarmente dipendente dall’Unione Sovietica ed è diffusa nell’opinione pubblica americana la convinzione che una guerra tra le due superpotenze sia inevitabile.
Nel duello di settembre, Kennedy parla del suo desiderio di vedere l’America realizzare il proprio potenziale economico e soddisfare i bisogni delle persone attraverso un programma di welfare. Nel suo discorso di apertura anche Nixon afferma la necessità dello sviluppo e difende i risultati dei repubblicani sostenendo che essi avevano costruito più scuole, ospedali e strade della precedente amministrazione democratica.
Le questioni poste ai due candidati sono ampie e spaziano dalla loro esperienza politica per affrontare l’incarico presidenziale, alla politica agricola, fino alla minaccia del comunismo all’interno degli Stati Uniti.
I due si trovano in disaccordo sui sussidi agli agricoltori, sulle modalità di trovare i fondi per le spese sull’educazione e il welfare. Kennedy afferma che una crescita economica sostenuta avrebbe portato un extra gettito fiscale capace di sostenere il costo delle politiche sociali, mentre Nixon afferma la necessità di aumentare le tasse per conseguire tali politiche.
Il successivo confronto televisivo si svolgerà solo nel 1976, quando il candidato democratico Jimmy Carter sfida il presidente Gerald Ford.
I "Great Debates" sono stati paragonati ai famosi dibattiti del 1858 tra Abramo Lincoln e Stephen Douglas, che ebbero luogo durante le elezioni per il Senato, in aperta campagna davanti a migliaia di persone.
Nelle elezioni generali dell'8 novembre 1960, Kennedy batte Nixon: all'età di 43 anni è il primo presidente cattolico ed il più giovane presidente eletto (Theodore Roosevelt era più giovane, ma divenne presidente subentrando a William McKinley quando questi fu assassinato). Kennedy vince con il più basso margine di voti della storia delle elezioni americane: 49,7% contro il 49,5 di Nixon.
John F. Kennedy presta giuramento come 35° presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1961. Nel suo discorso inaugurale pronuncia la sua frase più famosa: "Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese". Chiede alle nazioni del mondo di unirsi nella lotta contro: "i comuni nemici dell'umanità... la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra".
Sarà presidente fino al 22 novembre 1963, giorno del suo assassinio a Dallas.

sabato 25 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 settembre.
Il 25 settembre 1896 nasce a San Giovanni di Stella (SV) Alessandro Pertini, detto Sandro.
La famiglia è benestante, poiché il padre è proprietario terriero; Sandro ha 4 fratelli: Luigi, Mario, Giuseppe e Eugenio, quest'ultimo scompare tragicamente il 25 aprile 1954 nel carcere di Flossenburg.
Dopo aver frequentato il collegio dei Salesiani a Varazze, Sandro Pertini frequenta il liceo "Chiabrera" di Savona, e diviene collaboratore di "Critica Sociale" di Filippo Turati, il che contribuisce sicuramente ad avvicinarlo all'ambiente e all'ideologia socialista.
Consegue una prima laurea in giurisprudenza, all'università di Genova e una seconda in scienze politiche nel 1924 a Firenze (dove è ospite del fratello) anno in cui entra in contatto con gli ambienti legati a Gaetano Salvemini e dell'interventismo democratico e socialista. La sua militanza politica inizia però nel 1918 con l'iscrizione al PSI.
Tra i due titoli di studio acquisiti, Sandro Pertini vive la tragica esperienza del primo conflitto mondiale in seguito allo scoppio del quale, nel 1917, viene richiamato e inviato sul fronte dell'Isonzo e sulla Bainsizza; il suo ruolo è di sottotenente di complemento. Egli si distingue inoltre per un'azione particolarmente coraggiosa durante l'assalto al monte Jelenik e viene proposto per la medaglia d'argento al valore militare.
Nel 1922 entra al potere in Italia il fascismo con la marcia su Roma e il giovane avvocato Sandro Pertini diventa presto il bersaglio delle violenze squadriste, ma è l'assassinio di Matteotti che lo fa scendere in campo in modo definitivo, caparbio e determinato: saranno anni durissimi di condanne, pestaggi ed esilio.
Il 22 maggio 1925 Sandro Pertini è arrestato, e il 3 giugno condannato a 8 mesi di detenzione (oltre che al pagamento di un'ammenda) per diversi reati tra i quali quello di stampa clandestina. Egli ha, infatti, distribuito il foglio clandestino "Sotto il barbaro dominio fascista" nel quale rivendica la paternità di alcuni scritti antifascisti e individua la responsabilità della monarchia nel perdurare del regime fascista.
La violenza più pesante da parte delle forze antifasciste è quella del 1926 a seguito della quale Sandro Pertini finisce ricoverato all'ospedale, ferito in modo grave. Nel dicembre dello stesso anno, viene condannato al confino per 5 anni, a seguito della proclamazione delle leggi eccezionali anti-fasciste.
Da questo momento in poi Pertini entra in contatto con altri personaggi che sono stati protagonisti della storia d'Italia di quegli anni: Filippo Turati e Antonio Gramsci, Giuseppe Saragat, nonché Leo Valiani e Luigi Longo (con questi ultimi due organizzerà nell'aprile del 1945, l'insurrezione di Milano).
Datosi alla macchia e alla clandestinità, si dedica ad organizzare la fuga di Filippo Turati, leader del socialismo riformista. Accompagnerà quest'ultimo in Corsica, mentre gli altri protagonisti dell'impresa Ferruccio Parri e Carlo Rosselli, vengono intercettati sulla strada del ritorno in Italia, catturati e processati a Savona il 14 settembre 1927, infine condannati a 10 mesi di reclusione. Anche Turati e Pertini sono condannati, però in contumacia.
Tra le azioni importanti di Sandro Pertini in esilio ricordiamo nel 1928 la costituzione di una trasmittente radio a Eze (vicino a Nizza), con la quale riesce a svolgere la sua azione di propaganda contro il fascismo. Insofferente della vita dell'esule egli organizza ben presto il rientro in Italia che gli riesce con un passaporto falso: viene però catturato il 14 aprile 1929, dopo solo 20 giorni di libertà in patria. Condannato a 10 anni e 9 mesi di reclusione il 30 novembre dello stesso anno, inizia il duro carcere dove si ammala.
Nel 1930 viene trasferito nella casa di malati cronici di Turi dove incontra un altro leader dell'antifascismo: Antonio Gramsci. Due anni dopo viene trasferito nel sanatorio giudiziario di Pianosa e le sue gravi condizioni di salute inducono la madre a chiedere la grazia per lui. Sandro Pertini respinge la domanda e risponde in toni durissimi alla madre con la quale si verifica una frattura.
Pertini riacquista la libertà solo nell'agosto del 1943 (dopo 14 anni), dopo aver vissuto nei confini di Ponza (1935), delle Tremiti (1939) prima e a Ventotene poi. Gli anni del secondo conflitto mondiale vedono Sandro Pertini sempre attivo sulla scena politica, data la sua partecipazione alla costituzione del partito socialista, nel quale opera fino all'ottobre del 1943 (Sandro diventerà responsabile dell'organizzazione militare), momento in cui viene arrestato dai nazi-fascisti insieme a Giuseppe Saragat.
Qui rischia la vita poiché viene condannato a morte ma viene liberato grazie a un'azione dei partigiani il 24 gennaio 1944; è tra i partigiani che incontra la sua futura moglie Carla Voltolina, che allora operava come staffetta partigiana. Gli anni successivi saranno dedicati all'organizzazione del partito in particolare nel nord Italia e dal ritorno a Roma nel luglio 1944, dopo la liberazione della capitale da parte degli alleati.
Esponente di spicco del partito socialista, ne diviene segretario nel 1945, viene eletto alla Costituente e poi deputato, sarà direttore dell'"Avanti!" negli anni 1945-1946. Nel 1968 viene eletto presidente della Camera dei Deputati e diviene presidente della Repubblica nel 1978.
Uomo autorevole e intransigente, nessun capo di Stato o uomo politico italiano ha conosciuto all'estero una popolarità paragonabile a quella da lui acquistata, grazie ad atteggiamenti di apertura ed eccezionale schiettezza nei suoi incontri diplomatici.
Sandro Pertini riesce inoltre, nei lunghi anni in cui è presidente della Repubblica, a riaccendere negli italiani la fiducia nelle istituzioni e a mettere in atto un' aperta denuncia della criminalità organizzata e del terrorismo (definirà l'attività della Mafia come "la nefasta attività contro l'umanità").
Una delle sue immagini più note e ricordate è quella di quando, sorridente ed esultante, dalla tribuna gioisce per la vittoria della nazionale di calcio italiana ai mondiali di Spagna del 1982.
Sandro Pertini si spegne il 24 febbraio del 1990 all'età di 93 anni. Le sue ceneri riposano nel cimitero di San Giovanni, suo paese natale, insieme a quelle della moglie, Carla Voltolina, deceduta a Roma il 6 dicembre 2005.

venerdì 24 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 24 settembre.
Secondo la tradizione islamica, il 24 settembre 622 d.C. il profeta Maometto completa la sua "egira", cioè il trasferimento dalla Mecca a Medina (Madinat Al-Nabi), sancendo di fatto la nascita del primo nucleo di uno stato islamico.
Per questo motivo il 622 viene considerato come l'anno 1 secondo il calendario musulmano.
Maometto (Muhammad, "il lodato") nacque alla Mecca intorno al 570 e morì a  Medina nel 632. Fu profeta e fondatore della religione musulmana. Appartenente a una famiglia dei Banu Hashim, ramo minore della potente tribù dei qoreishiti, nacque orfano del padre Abd Allah e a soli sei anni perse anche la madre Amina. Allevato dal nonno Abd al-Muttalib e poi dallo zio Abu Talib, fu al servizio di questi e come cammelliere poté visitare la Siria e la Palestina. Visse una giovinezza di stenti da cui lo tolse il matrimonio con la ricca vedova quarantenne Khadigia con cui convisse felicemente avendone tre figli maschi, tutti morti in tenera età, e quattro figlie, tra le quali Fatima avrebbe poi svolto un ruolo importante nelle vicende islamiche.
L'inizio dell'attività profetica di Maometto viene collocato nella cosiddetta "notte del destino", alla fine del mese di ramadan del 610, allorché gli apparve l'arcangelo Gabriele comunicandogli il primo messaggio divino. Tale evento coronò presumibilmente un lungo e profondo travaglio interiore precedente, di cui niente sappiamo ma che lo aveva già portato a scostarsi dal rudimentale politeismo dei suoi concittadini per un suo peculiare monoteismo permeato di elementi giudaici e cristiani. Egli credette quindi di ricevere direttamente da Dio (Allah) i canoni della rivelazione, costituenti nel loro complesso il Corano, che dapprima fu da lui considerato il corrispondente arabo di quanto già stabilito dalle Sacre scritture giudaiche e cristiane. La sua prima predicazione, preannunciante la fine dei tempi e esortante alla penitenza, ebbe un certo successo tra gli strati più umili della società meccana, ma fu invece osteggiata dalla ricca classe mercantile che dal grande pellegrinaggio convergente da tutta l'Arabia verso il santuario pagano cittadino della Ka'ba traeva cospicui vantaggi. Fu proprio l'avversione nutrita contro di lui dall'aristocrazia meccana a convincere nel 622 Maometto a passare con una parte dei suoi seguaci a Yathrib, poi ribattezzata Medina, con una migrazione (Egira) da cui prese poi inizio il computo degli anni dell'era musulmana. Tale avvenimento influì profondamente nel determinare i suoi successivi orientamenti. A Medina venne a trovarsi a capo di una comunità politica e per questo motivo dovette abbracciare con il suo insegnamento, che sino ad allora era stato di carattere esclusivamente etico e religioso, tutte le tematiche proprie della vita socio-politica. A Medina, dopo essere riuscito a dirimere equamente le dispute che opponevano da tempo le varie fazioni cittadine, seppe dar vita a un'organizzazione statuale tutta incentrata attorno alla sua persona e ancor di più attorno al suo messaggio religioso, che troncava nettamente con la perenne disgregazione politica in cui si trovavano da sempre le popolazioni dell'Arabia. Queste infatti riconoscevano come unico loro vincolo quello inerente la ristretta solidarietà tribale. Il nuovo stato medinese venne a rappresentare quindi un'eccezione, dal momento che i suoi cittadini accettavano di cooperare tra loro sulla base di un legame ideologico-religioso alternativo a quegli antichi vincoli. Il periodo medinese di Maometto fu anche caratterizzato da un suo maggiore sforzo per emancipare la dottrina nascente dell'islamismo dalle altre due religioni monoteistiche. Ebrei e cristiani, che non avevano voluto riconoscere la validità del nuovo credo, furono così accusati di avere in vario modo adulterato, tradito e frainteso le loro stesse Sacre scritture. Di esse il profeta arabo si proclamò perfezionatore e ultimo esecutore, realizzando così un disegno divino risalente al biblico Abramo, comune capostipite di ebrei e arabi attraverso i suoi due figli Israele e Ismaele.
Nel 624 Maometto fissò anche alcune pratiche rituali distintive della nuova religione rispetto al cristianesimo e al giudaismo, stabilendo alla Mecca (e non più a Gerusalemme) la direzione verso cui rivolgere la preghiera e decretando il venerdì come il giorno da deputarsi al servizio divino comunitario in alternativa al sabato ebraico e alla domenica cristiana. Nel frattempo la comunità medinese aveva iniziato un'attività militare contro i meccani attaccandone le carovane commerciali e cogliendo una prima significativa vittoria nel marzo 624 a Badr, a un centinaio di chilometri da Medina. La controffensiva dei meccani non si fece attendere e nel 625 un loro esercito sconfisse le forze avversarie a Uhdd, ove lo stesso Maometto fu ferito al volto. Nel 627 i dirigenti meccani tentarono poi un supremo sforzo radunando contro Medina una confederazione di tribù alleate di circa 10.000 uomini. Medina fu cinta d'assedio e si salvò solo grazie all'abile costruzione di una trincea difensiva. Sventato così l'attacco meccano, Maometto scatenò una durissima repressione contro la comunità ebraica medinese accusata di aver simpatizzato con il nemico. Alcune famiglie furono semplicemente espulse, mentre per altre venne decretata l'uccisione di tutti gli uomini adulti (circa 600 persone) e la riduzione in schiavitù per le loro donne e i loro figli. Con il 628 finì il periodo difensivo e si aprì quello del consolidamento del nuovo stato medinese sancito dall'adesione al nuovo credo di numerose tribù beduine e dalla stipulazione di un armistizio decennale con i meccani. Nel nuovo clima Maometto poté anche compiere (marzo 629) un pellegrinaggio privato nella sua città natale, ove visitò la tomba di Khadigia e pregò presso il santuario della Ka'ba. Oramai la situazione era matura per la grande svolta dell'aristocrazia meccana, vale a dire una sua, più o meno sincera, conversione alla religione predicata da Maometto. Ciò avvenne nel gennaio 630 allorché Maometto, accompagnato da alcune migliaia di seguaci, poté entrare alla Mecca senza colpo ferire. Penetrato nel recinto sacro della Ka'ba, distrusse tutti i simulacri dell'antico paganesimo, prese possesso della sacra pietra nera che vi era conservata e, proclamato solennemente sciolto ogni vincolo dell'età pagana, instaurò l'era nuova di Allah. Maometto, che pure aveva elevato La Mecca a città santa dell'Islam, non ne fece comunque la capitale del suo stato, ma volle fare ritorno a Medina da dove organizzò nuove campagne militari volte a rafforzare la sua egemonia in tutta l'Arabia. Compiuto nel febbraio-marzo 632 un nuovo pellegrinaggio alla Mecca (che la tradizione islamica ricorda come il pellegrinaggio dell'addio) Maometto morì a Medina l'8 giugno di quello stesso anno fra le braccia della moglie prediletta Aisha, figlia del futuro primo califfo Abu Bakr. La sua tomba, venerata dai musulmani, è una meta rituale per chi compie il sacro pellegrinaggio alla Mecca.


giovedì 23 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 23 settembre.
Il 23 settembre 1943 il vicebrigadiere Salvo D'Acquisto offriva la propria vita ai nazisti in cambio del salvataggio di 22 persone.
Salvo D'Acquisto nasce il 15 ottobre del 1920 a Napoli, nel quartiere del Vomero, in via S. Gennaro Antignano n. 2, da Salvatore D'Acquisto, nativo di Palermo, e Ines Marignetti, napoletana. Primo di cinque fratelli, Franca, Rosario, Erminia e Alessandro.
Frequenta l'asilo Maria Ausiliatrice e le elementari nella scuola "Vanvitelli"; mette poi a profitto due anni di Avviamento professionale presso la scuola "Della Porta" e due all'Istituto dei Salesiani. A Roma si prepara per la licenza liceale.
I professori lo definiscono riservato, prudente e di poche parole, i compagni lo ricordano altruista, sincero e difensore dei più deboli.
Nella primavera del 1939 riceve la cartolina militare per il richiamo di leva, qui prende la decisione di arruolarsi nell'Arma dei Carabinieri, in cui hanno militato, da parte di madre, il nonno (Mar. Biagio Marignetti) e uno zio e in cui, al momento dell'arruolamento, militano ancora due altri zii, uno materno e uno paterno.
L'arruolamento realizza il suo ideale del "dovere come missione" a difesa dei più deboli e dei più umili, il suo desiderio di operare per la giustizia, un sentimento che lo guiderà per tutta la vita.
Salvo viene assegnato alla Legione Allievi Carabinieri di Roma.
Il 15 gennaio 1940 diventa carabiniere.
Promosso carabiniere, è destinato alla Legione Territoriale di Roma, dove, per qualche mese, presta servizio a Roma Sallustiana, al Nucleo "Fabbriguerra".
Siamo nel mese di Giugno 1940, l'Italia entra in guerra e Salvo viene inviato come volontario in Africa, cosa che si realizza il 15 novembre 1940, quando si imbarca a Napoli per Palermo, destinazione finale: la Tripolitania.
Dopo un mezzo naufragio della nave, Salvo sbarca a Tripoli il 23 novembre, con la 608a  Sezione CC, addetta alla Divisione Aerea "Pegaso", che viene subito inviata in zona di operazioni.
Salvo è un ragazzo riflessivo, di poche parole. I colleghi gli vogliono bene per il suo carattere disponibile, cordiale, per la sua capacità di condividere gioie e dolori e per il suo spirito di solidarietà.
Salvo è un punto di riferimento non solo per i commilitoni, ma anche per i familiari.
Dal carteggio con i genitori si nota che egli condivide poco della facile retorica dell'epoca. Non solo non nutre odio verso i nemici, ma anzi auspica che, in futuro, «i rapporti internazionali possano essere dominati e guidati da spirito di collaborazione tra i popoli e dalla giustizia sociale».
Verso la fine del febbraio del 1941, Salvo viene ferito ad una gamba.
Resta in Africa sino al 7 settembre 1942 allorchè torna in Patria perchè ammesso al Corso Allievi Sottufficiali, presso la Scuola centrale di Firenze.
Superati brillantemente gli esami alla Scuola di Firenze, Salvo viene promosso vice brigadiere (15 dicembre 1942) ed assegnato alla Stazione di Torrimpietra, una cittadina distante una trentina di chilometri da Roma.
Qui vive gli ultimi nove mesi della sua vita (in paese è amato e stimato da tutti) e da qui gli giungono le notizie delle tragiche vicende che vive la Nazione, la caduta del regime, l'armistizio dell'8 settembre e poi lo sfacelo generale.
La sera del 22 settembre 1943, un soldato di un reparto di SS insediatosi in una caserma abbandonata della Guardia di Finanza, rimane ucciso per lo scoppio di una bomba, due rimangono feriti.
Le versioni finora riportate si differenziano, i tedeschi "gridano" all'attentato, più probabile invece l'ipotesi di un incidente, magari rovistando imprudentemente in una cassetta con all'interno delle bombe a mano lasciata dagli "ex inquilini" della caserma, i finanzieri.
La mattina seguente, comunque, la reazione dei tedeschi non si fa attendere, il comandante del reparto tedesco, recatosi a Torrimpietra per cercare il comandante della locale stazione dei Carabinieri, vi trova il vice brigadiere D'Acquisto, al quale ordina di individuare i responsabili dell'accaduto.
Salvo tenta inutilmente di convincerlo che si è trattato di un incidente, inutilmente.
Più tardi, Torrimpietra è circondata dai tedeschi e 22 cittadini vengono rastrellati, caricati su un camion e trasportati presso la Torre di Palidoro, per essere fucilati.
Salvo prova ancora una volta a convincere l'ufficiale tedesco della casualità dell'accaduto, ma senza esito. I tedeschi costringono gli ostaggi a scavarsi una fossa comune, alcuni con le pale, altri a mani nude.
Per salvare i cittadini innocenti, Salvo (ovviamente totalmente estraneo ai fatti) si autoaccusa come responsabile dell'attentato e chiede che gli ostaggi vengano liberati (un gesto che ancora oggi rimane uno dei massimi esempi di coraggio e nobiltà d'animo nella storia del nostro Paese).
Subito dopo il loro rilascio, il vice brigadiere Salvo D'Acquisto viene freddato da una scarica del plotone d'esecuzione.
Salvo D'Acquisto fu fucilato all'età di nemmeno 23 anni. Le sue spoglie sono conservate nella prima cappella sulla sinistra, adiacente all'ingresso, della Basilica di Santa Chiara di Napoli.
Il suo gesto è stato insignito della medaglia d'oro al valor militare.
Nel 1983 fu aperta presso l'Ordinariato militare una causa di canonizzazione e conseguentemente al sottufficiale attualmente è assegnato dalla Chiesa il titolo di Servo di Dio.

mercoledì 22 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 22 settembre.
Il 22 settembre 1907 si ebbe il primo (e unico) giorno di vita del transatlantico Principessa Jolanda.
Il “Lloyd Italiano”, società di navigazione fondata a Genova nel 1904 dal senatore Erasmo Piaggio (già Direttore Generale della Navigazione Generale Italiana), commissionò al Cantiere di Riva Trigoso della Società Esercizio Bacini, diretto dall’ing. Francesco Tappani, la costruzione di una coppia di piroscafi di 9000 tsl ai quali vennero imposti i nomi di “Principessa Iolanda” e “Principessa Mafalda” figlie dell’allora Re Vittorio Emanuele III° e della Regina Elena. Le intenzioni della Compagnia armatrice erano quelle di destinare le due nuove unità, veloci e lussuose, al servizio di linea con il Sud America in concorrenza con società di navigazione straniere di grande prestigio come la Royal Mail, la Amburghese Sud Americana, il Lloyd Reale Olandese ecc. Le loro caratteristiche principali: stazza 9210/5087 tn, lunghezza 141 m., larghezza 17 m.,due alberi, due fumaioli, due eliche, apparato motore di 12.000 cv, velocità 18 nodi. Erano previsti 100 posti in classe lusso, 80 di prima classe, 150 di seconda e capacità per 1200 emigranti.
 La Società, ancor prima del varo dei piroscafi, aveva iniziato una massiccia campagna pubblicitaria con la quale dava risalto alle qualità delle nuove navi.
Il transatlantico Jolanda, il primo delle due navi ad essere ultimato, era stato completamente allestito prima del varo con macchine ed approntamenti interni, predisposto quindi per entrare in servizio poco dopo il lancio.
Alla presenza delle autorità e di numerosi giornalisti stranieri, la Principessa Jolanda venne varata alle 12:25 del 22 settembre 1907 a Riva Trigoso, frazione del comune di Sestri Levante in provincia di Genova. Madrina della cerimonia fu Ester Piaggio, moglie del senatore Erasmo Piaggio, presidente del Lloyd Italiano.
Appena terminata la corsa sullo scivolo del varo e toccata l'acqua, la nave si piegò su un fianco e prese ad imbarcare acqua dagli oblò, non ancora montati. Nonostante fosse stata abbassata l'ancora di dritta per tentare di controbilanciare lo sbandamento ed i rimorchiatori cercassero di trascinare lo scafo verso il fondale sabbioso del basso arenile, la nave si inabissò dopo venti minuti, adagiandosi sul fondo del mare sulla fiancata sinistra, mentre la destra rimase a pelo d'acqua.
Nelle settimane seguenti al naufragio furono molte le visite e le ispezioni al relitto. I tecnici del cantiere navale salirono sulla fiancata destra della nave, che spuntava dall'acqua, per valutarne la situazione e le possibilità di recupero, ma ciò non fu ritenuto possibile. Venne perciò prelevato e salvato tutto quello che si poté salvare, mentre il resto della nave fu demolito sul posto.
Sulle cause del sinistro vennero fatte diverse ipotesi come il cedimento accertato dell'avanscalo, la zavorra non proporzionata, i portelli o finestroni laterali ancora non montati ed altre considerazioni che determinarono l'abbandono della nave ai danni del cantiere di costruzione.
La nave si è ingavonata subito dopo il varo. Dalle foto dell'epoca appare evidente che il pescaggio è veramente esiguo. In quelle condizioni è bastato una piccolissima differenza di peso da un lato per dargli lo sbandamento iniziale, la situazione si è aggravata dopo. E’ accertato che gli oblò non erano stati montati; se quindi a nave sbandata la prima fila è caduta sott’acqua la nave ha cominciato a imbarcare acqua aggravando sempre di più la situazione. Ma potrebbe essere anche che l’avantiscalo, che è accertato ha subito un danno nella fase di rotazione, abbia a sua volta provocato una via d’acqua (falla) sullo scafo dando inizio alla tragica sequenza.
Alla fine venne stabilito che l'intera responsabilità della perdita del piroscafo era da attribuirsi al cantiere navale, colpevole di errori tecnici di calcolo.
 Più che sulle cause del sinistro viene naturale chiedersi perché la nave non fu recuperata.
A quel momento (1907) c’erano già stati casi analoghi brillantemente risolti con esito positivo (Variag 1904 – Canton River 1901). Sull’argomento si possono fare, dato il tempo trascorso, solo delle illazioni:
Le due navi, “Iolanda” e “Mafalda”, fatte per vincere la concorrenza in campo internazionale, erano già state abbondantemente reclamizzate; in particolare la Iolanda, su illustrazioni che la mostravano già navigante prima del varo e vantando inoltre per le due una trasformazione epocale per quanto riguardava il trattamento e i servizi per gli emigranti. Sarebbe stato quindi controproducente per l’immagine sul teatro internazionale, recuperarla e rimetterla in funzione come se niente fosse. Si preferì distruggerla sul posto recuperando tutto quello che si poteva e ricominciare da capo con la “Principessa Mafalda” che scendeva in acqua l’anno dopo ed era la copia perfetta della “Iolanda”.
Sicuramente a quel tempo qualcuno si sarà fatto i conti per l’impegno economico del recupero, contrapposto al ricavo assicurativo, ed anche se fra le due cifre ci fosse stato un certo disavanzo a favore (si fa per dire) del costo del recupero, sicuramente più alto, questo veniva senz’altro azzerato dalle considerazioni fatte al punto precedente.
Nello stesso cantiere di Riva Trigoso, il 22 ottobre 1908 venne varato il transatlantico “Principessa Mafalda” gemello della “Principessa Iolanda”.
Il 9 marzo 1909,completamente allestito, partirà da Genova per il suo viaggio inaugurale sulla linea Mediterraneo – Brasile e il Plata. Nel 1912, come le altre navi dell’armamento Piaggio, viene incorporato nella flotta della “Navigazione Generale Italiana” e continuò i suoi viaggi sulla linea dell’ America meridionale.
Il 25 0ttobre 1927 il “Mafalda”, in rotta verso il Brasile, affondava a causa dello sfilamento dell’asse dell’elica sinistra al largo delle isole Abrolhos. L’elica, sfilandosi con il proprio asse, provocò una via d’acqua (falla) dal foro dell’asse con conseguente allagamento del locale macchina. Il naufragio costò la vita ad oltre trecento persone compreso il comandante della nave Capitano Simone Gulì al quale venne conferita la medaglia d’oro al valor di marina. Tragico il destino di questo transatlantico accomunato a quello della Principessa Mafalda di Savoia-Assia deceduta in campo di concentramento nel 1944.

martedì 21 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 21 settembre.
Il 21 settembre 1765 François Antoine asserì di aver finalmente ucciso la temibile "Bestia del Gévaudan".
Il Gévaudan era all'epoca una provincia francese, adesso facente parte dell'Alta Loira, un'area che fu letteralmente terrorizzata dagli attacchi mortali di questa terribile e misteriosa belva.
Il primo atto della vicenda occorse ai primi di giugno del 1764, quando una donna di Langogne venne assalita da una strana bestia mentre si trovava in una radura a pascolare il bestiame. I suoi due cani fuggirono spaventati, mentre i buoi le si strinsero intorno facendo da scudo agli assalti della creatura ignota. La donna, sconvolta, disse che non si trattava né di un cane selvatico né di un lupo, ma molti in realtà pensarono fosse ancora sotto shock.
La vicenda sarebbe stata presto dimenticata da tutti, non fosse che, nei mesi successivi, si ebbe una crescente serie di attacchi da parte dell’animale sconosciuto, attacchi di cui furono testimoni molte persone che poterono così spazzare via l’alone di incredulità che aveva circondato il primo assalto: il 30 giugno successivo, a circa due settimane dal precedente caso, una ragazza quattordicenne venne divorata a Saint Etienne de Ludgares; l’8 agosto venne nuovamente trovata a Puy-Laurent una ragazza orrendamente mutilata; a fine agosto vennero trovati morti tre quindicenni di Chayla l’Evéque, una signora di Arzenc, un pastore di Chaudeyrac e una ragazza di Thorts. Particolare inquietante, i cadaveri venivano trovati mutilati ma non divorati, nel senso che la bestia non si nutriva dei corpi uccisi ma si limitava a suggerne il sangue.
Tutti coloro che avevano avuto modo di vedere la creatura erano concordi sul fatto che non si trattasse di un comune lupo bensì di un essere bizzarro, grande come un vitello, pelo rossastro, testa sproporzionata, bocca perennemente spalancata, orecchie corte e dritte, torace dal pelame più chiaro, coda lunga e dalla punta bianca e, secondo alcuni, zampe posteriori dotate di zoccoli.
Non solo, data la concomitanza di alcuni avvistamenti sembrava che vi potesse essere più di un singolo esemplare dell’animale, il quale, inoltre, secondo alcuni testimoni sarebbe stato in grado di compiere balzi di circa 5 metri e persino di parlare
Dal momento che le morti riconducibili all’operato di un animale anomalo continuavano, Re Luigi XV autorizzò l’utilizzo dell’esercito. Fu così che ebbero inizio lunghe battute in tutto il Gévaudan nella speranza di catturare la bestia: anche la popolazione locale costituì delle vere e proprie posse e la regione venne percorsa in lungo e in largo da migliaia di persone, tutte fermamente intese a porre fine alle terribili morti che avevano sconquassato la vita locale.
Ciò nonostante, il 12 gennaio 1765 si ebbe un ulteriore attacco: il giovane pastore Jacques Portefaix e altri suoi sei amici vennero assaliti dalla bestia ma riuscirono a non soccombere nel corso di un’epica lotta in cui diedero prova di un coraggio che valse loro il riconoscimento di una rendita perpetua da parte del re.
La popolazione, sempre più esasperata, cominciò ad escogitare trappole che si potrebbero definire come minimo peculiari: dalle “donne artificiali” (manichini formati da sacche di pelle di pecora cosparse di sangue e riempite di budella intrise di veleno) alle cavie umane (uomini camuffati con pelli di orso, cervo, daino, capra, con un copricapo riempito di lame di coltello, ognuno con indosso tre etti di grasso di cristiano misto a sangue di vipera e tre pallottole morse da una vergine) a complessi congegni (notevole un macchinario composto da trenta fucili azionati da funi collegate a un vitello di 6 mesi il quale, nel caso fosse stato attaccato dalla bestia, divincolandosi avrebbe messo in moto il meccanismo).
Tuttavia, questi tentativi per catturare la bestia non andarono a buon fine e gli assalti continuarono senza sosta. I resoconti sulla bestia acquisirono una portata notevole, al punto che in tutta la Francia non si faceva altro che parlare della creatura. Fu in questo clima di terrore generale che un certo Jean Charles Marc Antoine Vaumesle d’Enneval, nobile normanno, noto come implacabile cacciatore di lupi, si offrì di cacciare la bestia.
Egli, insieme al figlio, giunse a Clermont Ferrand il 17 febbraio 1765 insieme a otto cani addestrati alla caccia al lupo e incominciò a indagare sui casi più recenti. La prima cosa di cui si rese conto fu quella che non si trovava dinnanzi a un comune lupo: le tracce lasciate al suolo, i balzi immani nonché la capacità di spostarsi così rapidamente da una zona all’altra gli fecero capire che avrebbe dovuto faticare più del solito per cacciare la sua preda.
I mesi, però, passavano, e la bestia continuava a mietere numerose vittime, al punto che re Luigi XV, non comprendendo come fosse possibile che un animale, per quanto anomalo, non venisse catturato, incaricò, nel giugno del 1765, il suo Gran Portatore di Archibugio, François Antoine, di uccidere la belva.
François si recò sul posto e, come molti altri prima di lui, iniziò a braccare l’animale misterioso, con tanto di messa in opera di ingegnose trappole. Il 21 settembre 1765, nel corso di un appostamento, egli vide appressarsigli un animale enorme, con la bocca spalancata e gli occhi spiritati. François sparò e colpì a morte l’animale: 45 chili, lungo 1 metro e 75 centimetri, con denti aguzzi e zampe molto sviluppate ma, come era apparso chiaro fin dall’inizio a François e come avrebbe in seguito confermato il chirurgo di Saugues, si trattava di un lupo, per quanto dalle forme poderose.
L’animale venne portato a Parigi e grandi onori vennero tributati a François e a suo figlio. Nel Gévaudan, al contrario, gran scetticismo aleggiava su quanto accaduto, dal momento che molti sospettavano che François si fosse limitato a uccidere un semplice lupo solo per ottenere la gloria di essere visto, agli occhi del re, come l’uccisore della Bestia.
Infatti, dopo poche settimane, gli assalti ripresero secondo le stesse modalità viste in precedenza, con forse addirittura maggiore intensità, al punto che, secondo quanto riportato nelle cronache dell’epoca, dal primo gennaio 1766 si sarebbe avuto un attacco al giorno.
Alcuni testimoni affermarono che l’animale era in grado di stare ritto sulle zampe posteriori e che proprio in questa postura aggrediva le persone onde poter graffiare con maggiore agilità.
Subito vennero inoltrate richieste di aiuto a Parigi, ma il Re non ne volle sapere, dal momento che riteneva chiuso il caso. Di conseguenza, vennero nuovamente formati comitati per catturare l’animale. Fu il 19 giugno 1767, durante una di queste battute, che un certo Jean Chastel, cacciatore esperto di 60 anni, riuscì a sparare alla bestia e a ucciderla. Il cadavere dell’animale venne portato al castello di Besques per essere esaminato: si trattava effettivamente della Bestia. Molto diversa da un lupo, con un fitto pelame rossastro attraversato da striature nere, una testa di dimensioni anomale, gli occhi provvisti di una insolita membrana in grado di coprire l’intero bulbo oculare, zanne munite di artigli lunghissimi, una dentizione ipersviluppata e, elemento che fece comprendere come questa volta fosse stato ucciso il vero responsabile delle morti avvenute in quel triennio, con resti umani nello stomaco.
Il corpo della Bestia venne esposto in tutto il Gévaudan per settimane e, ad agosto, venne portato a Parigi con l’intento di mostrare come l’intera vicenda fosse stata sminuita dal re. Sfortunatamente, dato il caldo agostano, il cadavere della Bestia subì un brusco processo di decomposizione che rese vana qualsiasi ulteriore autopsia a Parigi, al punto che dovette essere seppellito senza venire analizzato da qualche chirurgo parigino.
A differenza di quanto accaduto dopo la morte della prima bestia (che in realtà era un comune lupo), gli attacchi non si verificarono più e la popolazione del Gévaudan poté riprendere la propria vita di sempre.
Come in qualsiasi ambito, gli elementi che bisogna maggiormente tenere in considerazione per poter formulare delle ipotesi giungono dalle testimonianze di prima mano dell’epoca. Esse ci dicono in maniera chiara e incontrovertibile che la Bestia non era un comune lupo. Per quanto si potrebbe obiettare che si trattasse di esagerazioni dovute alla grande paura sviluppatasi nella regione, in ogni caso la conferma del fatto che non fosse un lupo ci giunge dalle analisi effettuate al castello di Besques e di cui è rimasta una testimonianza ufficiale redatta dal professor Marin, regio scrivano del Langeac.
Ad ogni modo, l’ipotesi lupo è continuata a circolare negli ambienti scientifici per decenni, finché nel 2009 History Channel non ha prodotto un documentario, realizzato dal celebre zoologo Ken Gerhardt e dal criminologo George Deuchar, in cui, tramite l’utilizzo di tutte le tecniche forensi più moderne, è stato dimostrato come il lupo non abbia sufficiente forza mandibolare per poter tagliare le ossa, decapitare le persone o tranciare arti.
Una volta messa da parte l’ipotesi lupo, però, occorre domandarsi che cosa fosse quindi la Bestia. Sempre il documentario di History Channel ha suggerito si fosse trattato di una iena, dal momento che le descrizioni (in particolare il pelame rossastro striato) potrebbero ben riferirsi a questo animale, senza dimenticare che, al contrario del lupo, la iena ha una forza mandibolare sufficiente per recidere le ossa. Il documentario si spinge oltre, affermando che tale iena potesse essere stata in parte addomesticata proprio dal suo futuro assassino, Jean Chastel, il quale avrebbe creato di proposito la minaccia, causando gli eventi, per poi giungere egli stesso in qualità di salvatore ed essere acclamato e onorato dalla gente del posto (pratica ben nota e adottata in molti altri campi, con particolare riferimento alla gestione della res publica).
Si tratta sicuramente di un’ipotesi suggestiva e interessante, per quanto non sia facilmente comprensibile come Jean Chastel, cacciatore sessantenne del Gévaudan, sia potuto entrare in possesso di una iena e, ancor più, come abbia potuto addomesticarla.
Non solo, il fatto che, fino al 1954, la Francia sia stata per almeno altre quattro volte (1693-1696, 1809-1812, 1875-1878 e 1951-1954) teatro di caccia per una bestia identica a quella del Gévaudan e responsabile di morti atroci prodotte da terribili lacerazioni unite a contestuale dissanguamento, non può non fare venire in mente almeno due ulteriori ipotesi.
La prima, pensando anche alla postura eretta della bestia notata in alcune circostanze, ai suoi balzi e alle morti per dissanguamento, è che si trattasse di una sorta di chupacabras (il quale tra l’altro, stando alle ricerche svolte su un esemplare trovato da una studiosa texana, sarebbe semplicemente una specie anomala di coyote mutato, quindi sempre un canide, proprio come la presunta iena del Gévaudan).
In seconda battuta, facendo riferimento soprattutto alla sfuggevolezza della creatura e al terrore che essa instillò nella popolazione (terrore arcano che ben difficilmente potrebbe essere provocato da un semplice animale, per quanto feroce), si potrebbe anche pensare a un essere non riconducibile al mondo animale, un’entità proveniente da un altro piano del reale che si è immessa nella nostra dimensione a intervalli regolari (da notare la sua comparsa in archi di tempo della durata di un triennio), proprio come l’Uomo Falena, il New Jersey Devil, il Sasquatch.
In conclusione, ancora forti dubbi aleggiano in merito all’effettiva natura dell’animale che terrorizzò il Gévaudan a metà Settecento. L’unico aspetto di cui si è certi è che non si trattasse di un lupo, poiché le stesse analisi dell’epoca fecero accantonare presto questa ipotesi. Se si trattasse di una iena, di un chupacabras o di un’entità paradimensionale, purtroppo nessuno, a oltre due secoli di distanza, può dirlo con certezza, per cui solo eventuale nuova casistica potrà consentirci di tracciare possibili parallelismi tra fenomeni contemporanei e la bestia del Gévaudan.

lunedì 20 settembre 2021

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 20 settembre.
Il 20 settembre 1863 muore a Berlino Jacob Ludwig Karl Grimm, che insieme a suo fratello Wilhelm Karl è famoso in tutto il mondo per le fiabe da loro raccolte.
I fratelli Grimm nacquero nel 1785 (Jacob) e nel 1786 (Wilhelm) ad Hanau, vicino a Francoforte. Frequentarono il Friedrichs Gymnasium di Kassel e poi studiarono legge all'università di Marburg. Furono allievi del noto giurista tedesco Friedrich Carl von Savigny, del quale rielaborarono il pensiero e gli studi di metodologia della scienza giuridica. Dal 1837 al 1841, si unirono a cinque colleghi professori dell'università di Göttingen per protestare contro l'abrogazione della costituzione liberale dello stato di Hannover da parte del re Ernesto Augusto I. Questo gruppo divenne celebre in tutta la Germania col nome Die Göttinger Sieben (I sette di Göttingen). In seguito alla protesta, tutti e sette i professori furono licenziati dai loro incarichi universitari e alcuni di loro furono persino deportati. L'opinione pubblica e l'accademia tedesche, tuttavia, si schierarono decisamente a favore dei Grimm e dei loro colleghi. Wilhelm morì nel 1859; suo fratello maggiore Jakob nel 1863. Sono sepolti nel cimitero di St Matthäus Kirchhof a Schöneberg, un distretto di Berlino. I Grimm contribuirono a formare un'opinione pubblica democratica in Germania e sono considerati progenitori del movimento democratico tedesco, la cui rivolta fu in seguito soppressa nel sangue dal regno di Prussia nel 1848.
I fratelli Grimm sono celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca; l'idea fu di Jacob, professore di lettere e bibliotecario. Nei loro volumi pubblicarono tuttavia anche fiabe francesi, che i Grimm conobbero attraverso un autore ugonotto che costituiva una delle loro principali fonti. Le loro storie non erano concepite per i bambini; oggi, molte delle loro fiabe sono ricordate soprattutto in una forma edulcorata e depurata dei particolari più cruenti, che risale alle traduzioni inglesi della settima edizione delle loro raccolte (1857).
Le storie dei fratelli Grimm hanno spesso un'ambientazione oscura e tenebrosa, fatta di fitte foreste popolate da streghe, goblin, troll e lupi in cui accadono terribili fatti di sangue, così come voleva la tradizione popolare. L'unica opera di depurazione che sembra essere stata messa scientemente in atto dai Grimm riguarda i contenuti sessualmente espliciti, piuttosto comuni nelle fiabe del tempo e ampiamente ridimensionati nella narrazione dei fratelli tedeschi.
All'inizio del XIX secolo il Sacro Romano Impero aveva da poco cessato di esistere, e la Germania era frammentata in centinaia di principati e piccole nazioni, unificate solo dalla lingua tedesca. Una delle motivazioni che spinsero i Grimm a trascrivere le fiabe, altro retaggio culturale comune dei popoli di lingua tedesca, fu il desiderio di aiutare la nascita di una identità germanica.
I fratelli perseguirono questo scopo anche lavorando alla compilazione di un dizionario di tedesco, il Deutsches Wörterbuch. Sebbene meno noto al grande pubblico moderno, il Deutsches Wörterbuch fu un passo essenziale nella definizione della lingua tedesca moderna "standard", probabilmente il più importante dopo la traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero. Il dizionario dei Grimm, in 33 volumi, è ancora oggi considerato la fonte più autorevole per l'etimologia dei vocaboli tedeschi.
Jacob Grimm è anche famoso in linguistica per aver formulato la legge di Grimm sui mutamenti di suono nelle lingue germaniche rispetto all'indoeuropeo (erste Lautverschiebung), più in particolare sull'evoluzione di alcuni dialetti tedeschi rispetto alle altre lingue germaniche (zweite Lautverschiebung), in seguito confermata dal filologo danese Rasmus Christian Rask.
Gli psicologi e antropologi moderni sostengono che molte delle storie per bambini della cultura popolare occidentale, incluse quelle narrate dai Grimm, sono rappresentazioni simboliche di sensazioni negative quali la paura dell'abbandono, l'abuso da parte dei genitori, e spesso alludono al sesso e allo sviluppo sessuale. Lo psicologo infantile Bruno Bettelheim, nel suo libro Il mondo incantato, sostiene che le fiabe dei Grimm siano rappresentazione di miti freudiani.
 Secondo Bettelheim il bambino nella prima infanzia è attraversato da forme comportamentali animistiche per cui l’elemento magico del fiabesco appare essenziale. I bambini, come i filosofi, cercano di dare delle soluzioni ai primi ed eterni interrogativi dell’uomo. Attraverso il loro pensiero animistico i bambini si domandano: chi sono? come devo comportarmi di fronte ai problemi ed agli avvenimenti della vita?
La fiaba intrattiene il bambino e gli permette di conoscersi perché offre significato a molti livelli. Il processo di sviluppo del bambino inizia con una fase di resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il giovane ha realmente trovato se stesso, raggiunge l’indipendenza psicologica e la maturità morale, non considera più l’altro sesso come minaccioso ed è capace di entrare positivamente in relazione con esso.
Le fiabe pongono il bambino di fronte ai principali problemi umani (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte ecc), esemplificando tutte le situazioni e incarnando il bene e il male in determinati personaggi, rendendo distinto e chiaro ciò che nella realtà è confuso. Esse esprimono in modo simbolico un conflitto interiore e poi suggeriscono come può essere risolto.
La fiaba offre aiuto per superare il primo conflitto, che riguarda il problema dell'integrazione della personalità. Per evitare di essere sconvolti dalla nostre ambivalenze e di esserne lacerati, è necessario che noi le integriamo per conseguire una personalità unificata in grado di affrontare con successo e con sicurezza le difficoltà della vita. L'integrazione interiore è un compito che ci troviamo di fronte per tutta la vita, in diverse forme e gradi.
La seconda crisi di sviluppo è il conflitto edipico, che comprende una serie di dolorose e disorientanti esperienze attraverso le quali il bambino diviene realmente se stesso se riesce a separarsi dai suoi genitori. Perché questo sia possibile, egli deve liberarsi dal potere che i genitori hanno su di lui e dalla sua dipendenza da loro. La funzione catartica della fiaba  permette di prendere coscienza del conflitto (gelosia per i fratelli, odio edipico per il genitore, aggressività, insicurezza) e, grazie ai sentimenti infantili di onnipotenza, esercita un ruolo fondamentale per la rimozione dei conflitti e delle lotte del bambino all’interno del suo ambiente.
A differenza di tutti noi, nella fiaba i personaggi hanno un carattere non ambivalente: o solo buoni o solo cattivi. Bettelheim utilizza le categorie Super Io, Io e Es per analizzare il contenuto delle fiabe. Lo scontro tra Es ed Io e Io e Super Io corrisponde alla necessità di un percorso di maturazione interiore. Le fiabe parlano, oltre che all'io cosciente, al nostro inconscio: l'ambiguità contenuta nelle fiabe si sviluppa nell'inconscio dando significati diversi alla medesima storia.
Attraverso esempi tratti dalla più famosa tradizione popolare (Cappuccetto Rosso, Hansel e Gretel e Le Mille e una notte, l’autore dimostra come il loro messaggio aiuti a superare l’angoscia di essere bambini in un mondo di grandi: solo affrontando le sfide della vita e superandole essi potranno arrivare alla propria indipendenza e realizzazione, così come l’eroe ottiene il suo regno e la felicità dopo aver vinto le battaglie che si presentano durante il cammino. L’identificazione coi personaggi e la partecipazione emotiva al racconto sono possibili perché le fiabe parlano il linguaggio della fantasia, che è lo stesso del bambino.
 HANSEL E GRETEL
In questa fiaba si evidenzia il tentativo del bambino di aggrapparsi ai suoi genitori anche quando è giunto il momento di affrontare il mondo da solo. Nel racconto si evidenzia la necessità di superare il bisogno di oralità (infatuazione dei bambini per la casetta di marzapane) e l’angoscia di separazione. Questa fiaba permette al bambino di fronteggiare le sue paure, anche quella di essere divorati; ma alla fine i bambini escono vittoriosi e sconfiggono il nemico più minaccioso: la perfida strega. Queste paure, frequenti intorno ai 4-5 anni, si presentano a livello inconscio in tutte le età.
La fiaba può offrire significato e incoraggiamento anche nelle età successive, quando i fanciulli a livello inconscio provano timore di manifestare la paura di essere abbandonati dai genitori o la propria avidità orale. In questo caso la fiaba parla all’inconscio del fanciullo, esprime le sua ansie inconsce e le allevia, evitando che esse affiorino alla coscienza.
Un’adolescente era stata affascinata da questa fiaba, ne faceva l’oggetto delle sue fantasticherie e ne traeva consolazione. Da bambina era stata dominata da un fratello più grande di lei che, come Hansel nella fiaba, l’aveva guidata, mostrandole i sassolini nel sentiero (della vita). Da adolescente, era ancora dipendente dal fratello, ma risentita dal suo predominio. La storia diceva al suo inconscio che, se si fosse ancora affidata alla guida del fratello, sarebbe retrocessa anziché andare avanti; inoltre risultava evidente che, anche se era stato Hansel il capo all’inizio della storia, alla fine fu Gretel a conquistare la libertà e l’indipendenza per entrambi. Da adulta comprese che la fiaba l’aveva aiutata a liberarsi dalla dipendenza da suo fratello.
L’infanzia è il momento giusto per imparare a separare l’immenso solco tra le esperienze interiori e il mondo reale. Le fiabe appaiono assurde, fantastiche o del tutto incredibili all’adulto che è stato privato della fantasia di tipo fiabesco nella propria infanzia o ha represso questi ricordi. Chi non ha raggiunto una sufficiente integrazione tra il mondo della realtà e quello dell’immaginazione non è in grado di recepire queste storie.
CAPPUCCETTO ROSSO
In Cappuccetto Rosso la nonna buona viene improvvisamente sostituita dal rapace lupo che minaccia di distruggere la bambina. A volte la nonna (o una figura familiare), che è sempre stata affettuosa verso il bambino, può diventare improvvisamente minacciosa e comportarsi in modo completamente diverso e diventa una crudele matrigna che nega al bambino ciò che egli vuole. La tendenza a scindere una persona in due per mantenere intatta l’immagine buona è un espediente usato da molti bambini per gestire situazioni difficili, per risolvere le contraddizioni.
Cappuccetto Rosso può essere letta su diversi piani; quello simbolico è della bambina che diventa adulta dopo essere stata mangiata dal Lupo. Ci sono riferimenti sessuali: il passaggio della fase edipica con il rapporto con l'altro sesso. Si potrebbe interpretare il lupo della favola di Cappuccetto come un solenne avvertimento a non fare ciò che è stato proibito, poiché i genitori sanno ciò che è bene per il bambino, che non vede il pericolo in un lupo che parla con voce suadente. Il lupo rappresenta il Super-io come immagine dei genitori e del senso di colpa che assale i bambini quando compiono qualcosa contro il loro volere.
Cappuccetto Rosso non segue il messaggio materno. Il lupo potrebbe incarnare dei desideri rimossi. Impadronirsi del ruolo di carnefice da parte della vittima è una riproduzione della medesima aggressività del lupo, che fa permanere il bambino allo stadio pregenitale.
Nella narrazione è assente l’elemento maschile: dal principio alla fine di Cappuccetto Rosso non si fa accenno a un padre, che è presente in forma nascosta. Il padre è presente come lupo, che incarna i pericoli di violenti sentimenti edipici, e come cacciatore nella sua funzione protettiva e salvatrice.
La maggior parte dei bambini sente il bisogno di scindere l’immagine del genitore nei suoi aspetti benevoli e in quelli minacciosi per sentirsi completamente protetta dai primi, a livello inconscio. Spesso il bambino, a livello cosciente, si abbandona a occhi aperti a fantasie accentrate sull’idea che i genitori non sono veramente i propri, pensa di essere il figlio di qualche personaggio prestigioso e di essere stato ridotto a vivere con persone che dichiarano di essere i suoi genitori, ma non lo sono.
Queste fantasie sono utili, perché permettono al bambino di provare un’autentica collera verso il falso genitore senza sentirsi in colpa. L’espediente delle fiabe di scindere la madre in una buona madre (spesso morta) e in una cattiva matrigna permette di conservare una buona madre interiore dalla bontà infinita e di detestare la cattiva matrigna senza rimorso. La fiaba suggerisce come il bambino può controllare i sentimenti contradditori senza esserne sopraffatto e senza compromettere i suoi rapporti familiari.
Nelle fiabe con streghe e orchi spaventosi, al momento buono arriva l’aiuto delle fate buone, che sono più potenti dei personaggi cattivi. In molte fiabe (Pollicino) il feroce gigante viene giocato dal piccolo uomo intelligente, cioè qualcuno che sembra debole come il bambino stesso si sente.
RAPERONZOLO
In “Raperonzolo” (“Rapunzel” nel titolo originale) si legge che la maga rinchiude la giovane protagonista – Raperonzolo – nella torre quando la bambina aveva compiuto i dodici anni. Non è difficile individuare in essa la storia di un’adolescente e di una madre gelosa che vuole impedirle di acquisire la propria indipendenza. Si tratta di una problematica tipica della pubertà e che in questa fiaba trova una felice soluzione quando Raperonzolo si unisce al suo principe. In base però all’età, al sesso o alla situazione che vive, il lettore può trovare una propria chiave interpretativa. Spiega infatti lo psicopedagogista austriaco:
    «[…] un bambino di cinque anni ricavò una rassicurazione completamente diversa da questa storia. Quando seppe che sua nonna, che accudiva a lui per la maggior parte della giornata, avrebbe dovuto andare all’ospedale perchè gravemente ammalata […] chiese che gli fosse letta la fiaba di “Rapunzel”. In quel momento critico della sua vita, due elementi della storia erano importanti per lui. In primo luogo, c’era la sicurezza da tutti i pericoli garantita alla bambina dal sostituto materno […]. Perciò quello che normalmente avrebbe potuto essere visto come la rappresentazione di un comportamento negativo ed egoistico era in grado di avere un significato assai rassicurante in particolari circostanze. E ancora più importante per il ragazzo era un altro motivo essenziale della storia: il fatto che Rapunzel trovò i mezzi per sfuggire alla propria difficile situazione nel proprio corpo, ovvero con le trecce che il principe usò per arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il proprio corpo possa fornire a una persona il sistema per salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in caso di necessità, avrebbe analogamente trovato nel suo corpo la fonte della sua sicurezza. […]» (B. Bettelheim, “Il mondo incantato”, pp. 21-22)
Ciò può dimostrare come una fiaba, raccontando in modo immaginoso e indiretto problemi umani esistenziali, può suggerire insegnamenti, soluzioni anche a un bambino di sesso maschile seppure l’eroina della storia sia una ragazza adolescente.
È caratteristico delle fiabe esprimere un dilemma esistenziale in modo chiaro e conciso. Questo permette al bambino di cogliere il problema nella sua essenza, senza destare confusione. La fiaba semplifica tutte le situazioni e i suoi personaggi sono nettamente tratteggiati.
Nelle fiabe il male è onnipresente come il bene. Essi si incarnano in certi personaggi e nelle loro azioni, così come sono presenti nella vita e nelle inclinazioni verso l’uno o l’altro. È infatti proprio questo dualismo che pone il problema morale e richiede una lotta affinché possa essere superato.
È importante sottolineare che non è il trionfo finale della virtù a promuovere la moralità, bensì il fatto che è l’eroe a risultare maggiormente esemplare per il bambino, permettendogli di identificarsi con lui nelle sue lotte. Grazie a ciò il piccolo immagina di sopportare con l’eroe prove e tribolazioni e trionfa con lui quando la virtù conquista la vittoria. Tale lotta instilla in lui il senso morale.
Va specificato che i personaggi delle fiabe non sono mai ambivalenti, buoni e cattivi allo stesso tempo, come accade nella realtà. La presentazione delle polarità del carattere permette al bambino di comprendere con meno difficoltà la differenza fra i due aspetti. Di fatto, le ambiguità potranno essere recepite con un certo discernimento solo quando si sarà formata una personalità relativamente solida.
«Il succo di queste fiabe non è la morale, – scrive ancora Bettelheim – ma piuttosto la fiducia di poter riuscire. La vita può essere affrontata con la fiducia di poter sormontare le sue difficoltà o con la prospettiva della sconfitta: anche questo costituisce un importantissimo problema esistenziale».

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