Buongiorno, oggi è il 30 novembre.
Il 30 novembre 1954 Ann Hodges divenne la prima persona a venire colpita da un oggetto extraterrestre.
"I residenti di Sylacauga ed altri provenienti da più lontano, da Tuscaloosa, videro uno strano oggetto striare il cielo pomeridiano e sentirono rumori descritti come esplosioni o suoni sordi", racconta MJ Ellington sul Decatur Daily, quando nel 2006 raccontò l'episodio.
Nel frattempo, Ann Elizabeth Hodges si trovava sul divano di casa sua, a Sylacauga, Alabama, quando fu svegliata da un forte rumore e qualche dolore. Si alzò e fece una scoperta davvero sorprendente: una roccia nera di ignota provenienza si trovava nel suo salotto. La signora Hodges divenne, in questo modo e involontariamente, la prima persona al mondo nella storia moderna e di cui si aveva notizia ad essere stata colpita da un sasso caduto dallo spazio.
Si trattava di un meteorite, un pezzo di una meteora che aveva penetrato e resistito all'atmosfera per finire nel salotto di casa Hodges. E con una traiettoria del tutto insolita: caduta dal cielo, infatti, aveva forato il tetto dell'abitazione, rimbalzato sulla radio per finire direttamente sulla coscia dell'ignara donna. Una foto di Ann Hodges nel 1954 mostra il livido lasciato sulla sua coscia dopo essere stata colpita dal meteorite. Nel dicembre dello stesso anno, la rivista Life definì “l'incidente” come “il primo caso di aggressione da parte di un autentico missile cosmico nei confronti degli Stati Uniti” e soprannominò il meteorite opaco e nero Big Bruiser From The Sky.
Il meteorite riscosse un'immediata reazione a Sylacauga. Secondo l'Encyclopedia of Alabama, più di 200 persone, tra vicini, amici, sconosciuti e i media, rimasero sconvolti dall'accaduto. Billy Field, un cittadino di Sylacauga, fu intervistato sul meteorite da parte della University of Alabama Honors College, nel 2009. “Mi ricordo che là fuori, c'erano auto in fila come se tutto l'Alabama stesse andando ad una partita di calcio. Le auto erano in fila e, lentamente, tutte passavano davanti l'abitazione della signora Hodges per guardare la casa della stella cadente”, racconta Field, professore di telecomunicazioni e cinema nello stato dell'Alabama. "La gente giungeva nelle vicinanze della casa, l'avrebbe guardata e osservato la porta sul retro".
Dopo una lunga battaglia legale, la signora Hodges e suo marito assicurarono l'oggetto delle dimensioni di un pompelmo e lo donarono in seguito al Museo di Storia Naturale dell'Alabama, dove si trova tuttora.
Una storia ai limiti della realtà quella della signora Hodges. Gli astronomi oggi dichiarano che le possibilità di una collisione con un meteorite sono davvero molto basse, ma non impossibili. E, si sa, sebbene il mondo sia tanto grande, gli scherzi del destino ci mettono lo zampino. Tanto che, in un Universo immenso, su di un pianeta vasto, un continente tanto grande, un meteorite può persino raggiungere il salotto di casa.
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giovedì 30 novembre 2023
mercoledì 29 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 novembre.
Il 29 novembre 1797 nasce Gaetano Donizetti.
Domenico Gaetano Maria Donizetti nasce a Bergamo da una famiglia di umili condizioni, quinto dei sei figli di Andrea Donizetti e Domenica Nava.
Nel 1806 Gaetano viene ammesso alle "Lezioni caritatevoli di musica" dirette e fondate da Simone Mayr con lo scopo di poter preparare i bambini per il coro e impartire loro delle solide basi musicali. Il ragazzo dimostra subito di essere uno studente esuberante e particolarmente sveglio: Mayr intuisce le potenzialità del ragazzo e decide di seguire personalmente la sua istruzione musicale in clavicembalo e composizione.
Nel 1811 Donizetti scrive "Il Piccolo compositore di Musica" per una recita scolastica, aiutato e corretto dall'amato insegnante che lo sosterrà per tutta la vita e per il quale sempre nutrirà un profondo rispetto.
Nel 1815, su raccomandazione di Mayr, Donizetti si trasferisce a Bologna per completare gli studi con padre Stanislao Mattei, che già era stato insegnante di Rossini. Mayr partecipa alle spese necessarie per il mantenimento del ragazzo. Con il frate minore francescano, noto compositore e didatta, Donizetti segue per due anni i corsi di contrappunto e sicuramente riceve una formazione impeccabile, anche se non riesce a legare pienamente con lui, causa il carattere scontroso e taciturno dell'insegnante.
Negli ultimi mesi del 1817 Gaetano ritorna a Bergamo e, grazie all'interessamento di Mayr, riesce a firmare quasi subito un contratto per scrivere quattro opere per l'impresario Zancla, esordendo a Venezia nel 1818 con "Enrico di Borgogna", opera seguita nel 1819 da "Il falegname di Livonia", rappresentate entrambe con discreto successo e nelle quali si percepisce l'inevitabile influsso - per quell'epoca - di Gioacchino Rossini.
La sua attività può continuare tranquillamente anche grazie al fatto che, come racconta lo stesso compositore, riesce ad evitare il servizio militare: Marianna Pezzoli Grattaroli, signora della ricca borghesia di Bergamo, entusiasta per le eccezionali doti del giovane Donizetti, riesce a comprarne l'esenzione.
Nel 1822 presenta alla Scala "Chiara e Serafina", un totale fiasco che gli chiude per ben otto anni le porte del grande teatro milanese.
Il vero debutto nell'opera avviene grazie al fatto che Mayr rifiuta la commissione per una nuova opera e riesce a convincere gli organizzatori a passarla a Donizetti. Nasce così nel 1822, al Teatro Argentina di Roma, "Zoraida di Granata", che viene accolta con entusiasmo dal pubblico.
Il famoso impresario teatrale Domenico Barbaja, che nella sua carriera fa la fortuna anche di Rossini, Bellini, Pacini e molti altri, chiede a Donizetti di scrivere un'opera semiseria per il San Carlo di Napoli: "La Zingara" viene presentata nello stesso anno e ottiene un importante successo.
A differenza di Rossini, Bellini e successivamente Verdi, i quali sapevano amministrarsi nel lavoro, Gaetano Donizetti produce di fretta, senza fare accurate scelte, seguendo ed accettando, soprattutto, i ritmi frenetici e stressanti imposti dalle condizioni della vita teatrale del tempo.
Alla fine della sua non certo lunga vita l'instancabile compositore lascia circa settanta opere fra serie, semiserie, buffe, farse, gran opéras e opéra-comiques. A queste bisogna aggiungere 28 cantate con accompagnamento di orchestra o pianoforte, diverse composizioni di carattere religioso (fra cui due Messe da Requiem in memoria di Bellini e Zingarelli, e gli oratori "Il diluvio universale" e "Le sette chiese"), brani sinfonici, più di 250 liriche per una o più voci e pianoforte e composizioni strumentali da camera, fra cui 19 quartetti per archi che denotano l'influenza dei principali classici viennesi, Mozart, Gluck, Haydn, conosciuti e approfonditi con i suoi due maestri.
Sensibile ad ogni esigenza che sia manifestata dal pubblico e dagli impresari, viene accusato, soprattutto dai critici francesi (primo fra tutti Hector Berlioz che lo attacca con forza sul Journal des débats), di essere "trasandato e ripetitivo".
L'incredibile prolificità di Donizetti è dettata dalla sete di guadagno in un'epoca nella quale il compositore non percepiva i diritti d'autore intesi come lo sono oggi, ma quasi solamente il compenso stabilito al momento della commissione dell'opera.
L'abilità di Donizetti sta nel fatto che quasi mai scende a livelli artistici improponibili, grazie al mestiere ed alla professionalità acquisiti durante gli studi con Mayr: si tratta di quella che viene definita la "poetica della fretta", che farebbe sì che la fantasia creatrice, invece di essere turbata e depressa dalle scadenze che devono essere rispettate, è solleticata, sollecitata e tenuta sempre sotto tensione.
Nel 1830, con la collaborazione del librettista Felice Romani, ottiene il primo vero grande trionfo con "Anna Bolena", presentata al Teatro Carcano di Milano e, nel giro di pochi mesi, anche a Parigi e Londra.
Anche se il successo e la prospettiva tangibile di una carriera internazionale gli permetterebbero di rallentare gli impegni, Donizetti continua a scrivere a ritmi incredibili: cinque opere in poco meno di un anno, prima di arrivare ad un'altra tappa essenziale della sua produzione, il capolavoro comico "L'elisir d'amore", scritto in meno di un mese ancora su libretto di Romani, rappresentato nel 1832 con grandissimo successo al Teatro della Canobbiana di Milano.
Nel 1833 presenta a Roma "Il furioso all'isola di San Domingo" e alla Scala "Lucrezia Borgia", che viene salutata dalla critica e dal pubblico come un capolavoro.
L'anno successivo firma un contratto con il San Carlo di Napoli che prevede un'opera seria all'anno. La prima che deve andare in scena è "Maria Stuarda", ma il libretto, tratto dal noto dramma di Schiller, non passa il vaglio della censura a causa del finale cruento: i censori napoletani erano ben noti per pretendere solo il "lieto fine". In dieci giorni Donizetti adatta la musica ad un nuovo testo, "Buondelmonte", che viene accolto non certamente in modo positivo. Ma la sfortuna di quest'opera non finisce: "Maria Stuarda", ripresentata nella sua veste originale alla Scala nel 1835 finisce in un clamoroso fiasco causato dalle pessime condizioni di salute della Malibran, nonché dai suoi capricci da diva.
In seguito al volontario ritiro dalle scene di Rossini nel 1829 ed alla prematura e inaspettata morte di Bellini nel 1835, Donizetti rimane l'unico grande rappresentante del melodramma italiano. Proprio Rossini gli apre le porte dei teatri della capitale francese (e degli allettanti compensi, ben superiori a quelli che possono ottenersi in Italia) e invita Donizetti a comporre nel 1835 "Marin Faliero" da rappresentare a Parigi.
Nello stesso anno a Napoli arriva lo straordinario successo di "Lucia di Lammermoor", su un testo di Salvatore Cammarano, il librettista, successore di Romani, più importante del periodo romantico, che già ha collaborato con Mercadante, Pacini e che scriverà successivamente per Verdi quattro libretti, tra i quali quelli per "Luisa Miller" e "Il trovatore".
Tra il 1836 e il 1837 vengono a mancare i genitori, una figlia e l'adorata moglie Vírginia Vasselli, sposata nel 1828. Neanche i ripetuti lutti familiari rallentano la sua ormai frenetica produzione.
In ottobre, amareggiato per la mancata nomina a direttore del Conservatorio come successore di Nicola Antonio Zingarelli (gli viene preferito il più "autenticamente napoletano" Mercadante), prende la decisione di abbandonare Napoli e di trasferirsi a Parigi. Torna in Italia, a Milano, nel 1841.
Ha così l'occasione di assistere alle prove del "Nabucco" di Verdi nel 1842 e ne rimane talmente impressionato che, da quel momento, si adopera per cercare di far conoscere il giovane compositore a Vienna, dove è direttore musicale della stagione italiana.
Nello stesso anno dirige a Bologna, su invito dello stesso autore, una memorabile esecuzione (la prima in Italia) dello Stabat Mater di Rossini, il quale vorrebbe che Donizetti accettasse l'importante incarico di maestro di cappella a San Petronio. Il compositore non accetta in quanto anela a coprire quello, ben più prestigioso e più remunerativo, di Kapellmeister presso la corte asburgica.
Durante le prove di "Don Sebastiano" (Parigi 1843) tutti notano il comportamento assurdo e stravagante del compositore, colpito da frequenti amnesie e diventato sempre più intemperante, malgrado fosse conosciuto come persona affabile, spiritosa, di grande e squisita sensibilità.
Da anni Donizetti ha in effetti contratto la sifilide: alla fine del 1845 è colpito da una grave paralisi cerebrale, indotta dall'ultimo stadio della malattia, e dai sintomi di una malattia mentale che già si era manifestata precedentemente.
Il 28 gennaio 1846 il nipote Andrea, inviato dal padre Giuseppe che risiede a Costantinopoli e che è stato avvertito dagli amici del compositore, organizza un consulto medico e pochi giorni dopo Donizetti viene rinchiuso in una casa di cura di Ivry, vicino a Parigi, dove rimane per ben diciassette mesi. Le sue ultime lettere conosciute risalgono ai primi giorni del suo ricovero e rappresentano il disperato bisogno di una mente ormai irrimediabilmente confusa che chiede aiuto.
Solamente grazie alle minacce di suscitare un caso diplomatico internazionale, visto che Donizetti è cittadino austroungarico e maestro di cappella dell'imperatore Ferdinando I d'Asburgo, il nipote ottiene il permesso di portarlo a Bergamo il 6 ottobre 1847, quando ormai il compositore è paralizzato e in grado al massimo di emettere qualche monosillabo, spesso senza senso.
Viene sistemato a casa di amici che si prendono amorevolmente cura di lui fino al suo ultimo giorno di vita. Gaetano Donizetti muore l'8 aprile 1848.
La sua tomba si trova nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo.
Il 29 novembre 1797 nasce Gaetano Donizetti.
Domenico Gaetano Maria Donizetti nasce a Bergamo da una famiglia di umili condizioni, quinto dei sei figli di Andrea Donizetti e Domenica Nava.
Nel 1806 Gaetano viene ammesso alle "Lezioni caritatevoli di musica" dirette e fondate da Simone Mayr con lo scopo di poter preparare i bambini per il coro e impartire loro delle solide basi musicali. Il ragazzo dimostra subito di essere uno studente esuberante e particolarmente sveglio: Mayr intuisce le potenzialità del ragazzo e decide di seguire personalmente la sua istruzione musicale in clavicembalo e composizione.
Nel 1811 Donizetti scrive "Il Piccolo compositore di Musica" per una recita scolastica, aiutato e corretto dall'amato insegnante che lo sosterrà per tutta la vita e per il quale sempre nutrirà un profondo rispetto.
Nel 1815, su raccomandazione di Mayr, Donizetti si trasferisce a Bologna per completare gli studi con padre Stanislao Mattei, che già era stato insegnante di Rossini. Mayr partecipa alle spese necessarie per il mantenimento del ragazzo. Con il frate minore francescano, noto compositore e didatta, Donizetti segue per due anni i corsi di contrappunto e sicuramente riceve una formazione impeccabile, anche se non riesce a legare pienamente con lui, causa il carattere scontroso e taciturno dell'insegnante.
Negli ultimi mesi del 1817 Gaetano ritorna a Bergamo e, grazie all'interessamento di Mayr, riesce a firmare quasi subito un contratto per scrivere quattro opere per l'impresario Zancla, esordendo a Venezia nel 1818 con "Enrico di Borgogna", opera seguita nel 1819 da "Il falegname di Livonia", rappresentate entrambe con discreto successo e nelle quali si percepisce l'inevitabile influsso - per quell'epoca - di Gioacchino Rossini.
La sua attività può continuare tranquillamente anche grazie al fatto che, come racconta lo stesso compositore, riesce ad evitare il servizio militare: Marianna Pezzoli Grattaroli, signora della ricca borghesia di Bergamo, entusiasta per le eccezionali doti del giovane Donizetti, riesce a comprarne l'esenzione.
Nel 1822 presenta alla Scala "Chiara e Serafina", un totale fiasco che gli chiude per ben otto anni le porte del grande teatro milanese.
Il vero debutto nell'opera avviene grazie al fatto che Mayr rifiuta la commissione per una nuova opera e riesce a convincere gli organizzatori a passarla a Donizetti. Nasce così nel 1822, al Teatro Argentina di Roma, "Zoraida di Granata", che viene accolta con entusiasmo dal pubblico.
Il famoso impresario teatrale Domenico Barbaja, che nella sua carriera fa la fortuna anche di Rossini, Bellini, Pacini e molti altri, chiede a Donizetti di scrivere un'opera semiseria per il San Carlo di Napoli: "La Zingara" viene presentata nello stesso anno e ottiene un importante successo.
A differenza di Rossini, Bellini e successivamente Verdi, i quali sapevano amministrarsi nel lavoro, Gaetano Donizetti produce di fretta, senza fare accurate scelte, seguendo ed accettando, soprattutto, i ritmi frenetici e stressanti imposti dalle condizioni della vita teatrale del tempo.
Alla fine della sua non certo lunga vita l'instancabile compositore lascia circa settanta opere fra serie, semiserie, buffe, farse, gran opéras e opéra-comiques. A queste bisogna aggiungere 28 cantate con accompagnamento di orchestra o pianoforte, diverse composizioni di carattere religioso (fra cui due Messe da Requiem in memoria di Bellini e Zingarelli, e gli oratori "Il diluvio universale" e "Le sette chiese"), brani sinfonici, più di 250 liriche per una o più voci e pianoforte e composizioni strumentali da camera, fra cui 19 quartetti per archi che denotano l'influenza dei principali classici viennesi, Mozart, Gluck, Haydn, conosciuti e approfonditi con i suoi due maestri.
Sensibile ad ogni esigenza che sia manifestata dal pubblico e dagli impresari, viene accusato, soprattutto dai critici francesi (primo fra tutti Hector Berlioz che lo attacca con forza sul Journal des débats), di essere "trasandato e ripetitivo".
L'incredibile prolificità di Donizetti è dettata dalla sete di guadagno in un'epoca nella quale il compositore non percepiva i diritti d'autore intesi come lo sono oggi, ma quasi solamente il compenso stabilito al momento della commissione dell'opera.
L'abilità di Donizetti sta nel fatto che quasi mai scende a livelli artistici improponibili, grazie al mestiere ed alla professionalità acquisiti durante gli studi con Mayr: si tratta di quella che viene definita la "poetica della fretta", che farebbe sì che la fantasia creatrice, invece di essere turbata e depressa dalle scadenze che devono essere rispettate, è solleticata, sollecitata e tenuta sempre sotto tensione.
Nel 1830, con la collaborazione del librettista Felice Romani, ottiene il primo vero grande trionfo con "Anna Bolena", presentata al Teatro Carcano di Milano e, nel giro di pochi mesi, anche a Parigi e Londra.
Anche se il successo e la prospettiva tangibile di una carriera internazionale gli permetterebbero di rallentare gli impegni, Donizetti continua a scrivere a ritmi incredibili: cinque opere in poco meno di un anno, prima di arrivare ad un'altra tappa essenziale della sua produzione, il capolavoro comico "L'elisir d'amore", scritto in meno di un mese ancora su libretto di Romani, rappresentato nel 1832 con grandissimo successo al Teatro della Canobbiana di Milano.
Nel 1833 presenta a Roma "Il furioso all'isola di San Domingo" e alla Scala "Lucrezia Borgia", che viene salutata dalla critica e dal pubblico come un capolavoro.
L'anno successivo firma un contratto con il San Carlo di Napoli che prevede un'opera seria all'anno. La prima che deve andare in scena è "Maria Stuarda", ma il libretto, tratto dal noto dramma di Schiller, non passa il vaglio della censura a causa del finale cruento: i censori napoletani erano ben noti per pretendere solo il "lieto fine". In dieci giorni Donizetti adatta la musica ad un nuovo testo, "Buondelmonte", che viene accolto non certamente in modo positivo. Ma la sfortuna di quest'opera non finisce: "Maria Stuarda", ripresentata nella sua veste originale alla Scala nel 1835 finisce in un clamoroso fiasco causato dalle pessime condizioni di salute della Malibran, nonché dai suoi capricci da diva.
In seguito al volontario ritiro dalle scene di Rossini nel 1829 ed alla prematura e inaspettata morte di Bellini nel 1835, Donizetti rimane l'unico grande rappresentante del melodramma italiano. Proprio Rossini gli apre le porte dei teatri della capitale francese (e degli allettanti compensi, ben superiori a quelli che possono ottenersi in Italia) e invita Donizetti a comporre nel 1835 "Marin Faliero" da rappresentare a Parigi.
Nello stesso anno a Napoli arriva lo straordinario successo di "Lucia di Lammermoor", su un testo di Salvatore Cammarano, il librettista, successore di Romani, più importante del periodo romantico, che già ha collaborato con Mercadante, Pacini e che scriverà successivamente per Verdi quattro libretti, tra i quali quelli per "Luisa Miller" e "Il trovatore".
Tra il 1836 e il 1837 vengono a mancare i genitori, una figlia e l'adorata moglie Vírginia Vasselli, sposata nel 1828. Neanche i ripetuti lutti familiari rallentano la sua ormai frenetica produzione.
In ottobre, amareggiato per la mancata nomina a direttore del Conservatorio come successore di Nicola Antonio Zingarelli (gli viene preferito il più "autenticamente napoletano" Mercadante), prende la decisione di abbandonare Napoli e di trasferirsi a Parigi. Torna in Italia, a Milano, nel 1841.
Ha così l'occasione di assistere alle prove del "Nabucco" di Verdi nel 1842 e ne rimane talmente impressionato che, da quel momento, si adopera per cercare di far conoscere il giovane compositore a Vienna, dove è direttore musicale della stagione italiana.
Nello stesso anno dirige a Bologna, su invito dello stesso autore, una memorabile esecuzione (la prima in Italia) dello Stabat Mater di Rossini, il quale vorrebbe che Donizetti accettasse l'importante incarico di maestro di cappella a San Petronio. Il compositore non accetta in quanto anela a coprire quello, ben più prestigioso e più remunerativo, di Kapellmeister presso la corte asburgica.
Durante le prove di "Don Sebastiano" (Parigi 1843) tutti notano il comportamento assurdo e stravagante del compositore, colpito da frequenti amnesie e diventato sempre più intemperante, malgrado fosse conosciuto come persona affabile, spiritosa, di grande e squisita sensibilità.
Da anni Donizetti ha in effetti contratto la sifilide: alla fine del 1845 è colpito da una grave paralisi cerebrale, indotta dall'ultimo stadio della malattia, e dai sintomi di una malattia mentale che già si era manifestata precedentemente.
Il 28 gennaio 1846 il nipote Andrea, inviato dal padre Giuseppe che risiede a Costantinopoli e che è stato avvertito dagli amici del compositore, organizza un consulto medico e pochi giorni dopo Donizetti viene rinchiuso in una casa di cura di Ivry, vicino a Parigi, dove rimane per ben diciassette mesi. Le sue ultime lettere conosciute risalgono ai primi giorni del suo ricovero e rappresentano il disperato bisogno di una mente ormai irrimediabilmente confusa che chiede aiuto.
Solamente grazie alle minacce di suscitare un caso diplomatico internazionale, visto che Donizetti è cittadino austroungarico e maestro di cappella dell'imperatore Ferdinando I d'Asburgo, il nipote ottiene il permesso di portarlo a Bergamo il 6 ottobre 1847, quando ormai il compositore è paralizzato e in grado al massimo di emettere qualche monosillabo, spesso senza senso.
Viene sistemato a casa di amici che si prendono amorevolmente cura di lui fino al suo ultimo giorno di vita. Gaetano Donizetti muore l'8 aprile 1848.
La sua tomba si trova nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo.
martedì 28 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 novembre.
Il 28 novembre 1660, presso il Gresham College, dodici uomini fondano quella che più tardi verrà chiamata Royal Society, l'accademia nazionale inglese delle scienze.
In quel giorno un gruppo di filosofi si riunì al Gresham College, e, dopo aver assistito ad una conferenza di Sir Christopher Wren (East Knoyle, 20 ottobre 1632 – Londra, 25 febbraio 1723), costituì un “Colledge for the Promoting of Physico-Mathematicall Experimentall Learning” (università per la promozione dell’apprendimento sperimentale delle scienze fisiche e matematiche).
In realtà, già attorno al 1640 alcuni filosofi avevano iniziato ad incontrarsi per discutere della nuova filosofia di promozione della conoscenza del mondo naturale attraverso l’osservazione e la sperimentazione. In pratica, si cominciavano a gettare le basi di quella che oggi chiamiamo ‘scienza’, partendo dagli studi già avviati da Sir Francis Bacon (Londra, 22 gennaio 1561 – Londra, 9 aprile 1626) e dalle influenze dell’Italia rinascimentale.
Il gruppo che fondò l’accademia, oltre a Sir Christopher Wren, comprendeva anche Robert Boyle, John Wilkins, Sir Robert Moray ed il Visconte William Brouncher.
Durante gli incontri settimanali, si discutevano temi ‘scientifici’ e si portavano testimonianze degli esprimenti effettuati. Il primo a ricoprire la carica di ‘Curatore degli Esperimenti’ fu Robert Hooke. Fu Moray invece che parlò al re Carlo II di questa iniziativa e si assicurò l’appoggio e l’incoraggiamento da parte della Corona.
La prima volta che apparve per iscritto il nome “The Royal Society” fu nel 1661, e nella seconda Carta Reale del 1663 ci si riferisce ad essa con il nome di “The Royal Society of London for Improving Natural Knowledge” (la Società Reale di Londra per migliorare la conoscenza della natura).
La sede fu stabilita presso il Gresham College, e presto cominciò ad avere anche una biblioteca (nel 1661 fu presentato il primo volume), ed una specie di museo con tutti gli strumenti di interesse scientifico.
Dopo il Grande Incendio di Londra del 1666 per alcuni anni la sede fu spostata ad Arundel House, la residenza londinese del Duca di Norfolk. Ma fu solo nel 1710, sotto la presidenza di Isaac Newton, che la Royal Society ebbe la sua vera sede in due edifici di Crane Court, nei pressi dello Strand.
Nel 1662, con un decreto della Carte Reale, fu permesso alla Royal Society di pubblicare: i primi due libri furono di John Evelin (“Sylva”) e di Robert Hooke (“Micrographia”). Nel 1665 fu pubblicato da Henry Oldenbourg, Segretario della Royal Society, il primo saggio di “Transazioni Filosofiche”, che è tuttora il più antico manifesto scientifico in continuo aggiornamento.
All’inizio i membri della Royal Society dovevano essere scelti, ma non erano richiesti particolari requisiti, né conoscenze professionali e scientifiche, ed i criteri di ammissione erano molto generici. Nel 1731 una nuova regola stabilì che ogni candidato all’elezione dovesse essere proposto in un documento scritto. Tale documento doveva essere poi firmato da tutti i membri che erano d’accordo alla candidatura. Questi certificati sono ancora oggi delle preziose testimonianze, perché vi sono riportate le motivazioni della scelta di un candidato ed i rapporti tra i membri dell’accademia.
Nel 1780 la Royal Society spostò la sede a Somerset House, messa a disposizione dal Re, grazie all’intervento di Sir Joseph Banks, che fu presidente dal 1778 al 1820. Banks favorì le candidature sia di scienziati che di amanti della scienza, affinché questi ultimi diventassero in qualche modo mecenati dei primi. Questo genere di rapporto tra i membri dell’accademia diventò sempre meno popolare, e nel 1847 la Royal Society prese la decisione di eleggere i propri membri esclusivamente in base al merito del lavoro scientifico svolto. In questo modo non si trattava più di un circolo di letterati, ma di una vera e propria accademia di scienziati.
Nel 1850 il governo inglese riconobbe il merito della Royal Society e stanziò un contributo di £ 1,000 per aiutare gli scienziati. In seguito, fu istituito un vero e proprio Fondo governativo per la ricerca scientifica, che esiste ancora oggi e permette alla Royal Society di continuare a svolgere autonomamente il proprio ruolo.
Nel 1857 la sede fu spostata a Burlington House, a Piccadilly. Ma con il passare del tempo, l’accademia cresceva, i suoi membri aumentavano, e venne a mancare lo spazio. Così nel 1967 la sede si spostò a Carlton House Terrace, dove si trova attualmente.
Nel 2010 la Royal Society ha acquistato Chicheley Hall nel Buckinghamshire, che è stato trasformato in un centro di studi per conferenze internazionali e studi più approfonditi: ‘The Royal Society at Chicheley Hall’, sede del ‘Kavli Royal Society International Centre’.
Tra i suoi membri, oltre a Sir Christopher Wren, scienziato e famoso architetto (ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione di Londra dopo l’incendio del 1666), Robert Boyle, John Evelyn, Robert Hooke, William Petty, John Wallis, John Aubrey, Thomas Browne, John Wilkins, John Locke, Thomas Willis, Jean Chardin. E poi, il già citato Sir Joseph Banks, Isaac Newton, Gottfried Wilhelm von Leibniz e Charles Babbage.
I più famosi tra i contemporanei sono stati, fino alla loro morte, il fisico Stephen Hawking, e il Premio Nobel italiano Rita Levi Montalcini.
Dal 2009, anno in cui ricorrevano i 350 anni dalla fondazione, la Royal Society ha aperto i propri archivi mettendoli online.
Il motto dell’accademia è “nullius in verba” (‘niente nelle parole’ – frase latina usata da Orazio nelle “Epistulae”): un appello a resistere al dominio di qualsiasi autorità e a verificare ogni dichiarazione attraverso degli esperimenti che mostrino fatti, in maniera scientifica.
Il 28 novembre 1660, presso il Gresham College, dodici uomini fondano quella che più tardi verrà chiamata Royal Society, l'accademia nazionale inglese delle scienze.
In quel giorno un gruppo di filosofi si riunì al Gresham College, e, dopo aver assistito ad una conferenza di Sir Christopher Wren (East Knoyle, 20 ottobre 1632 – Londra, 25 febbraio 1723), costituì un “Colledge for the Promoting of Physico-Mathematicall Experimentall Learning” (università per la promozione dell’apprendimento sperimentale delle scienze fisiche e matematiche).
In realtà, già attorno al 1640 alcuni filosofi avevano iniziato ad incontrarsi per discutere della nuova filosofia di promozione della conoscenza del mondo naturale attraverso l’osservazione e la sperimentazione. In pratica, si cominciavano a gettare le basi di quella che oggi chiamiamo ‘scienza’, partendo dagli studi già avviati da Sir Francis Bacon (Londra, 22 gennaio 1561 – Londra, 9 aprile 1626) e dalle influenze dell’Italia rinascimentale.
Il gruppo che fondò l’accademia, oltre a Sir Christopher Wren, comprendeva anche Robert Boyle, John Wilkins, Sir Robert Moray ed il Visconte William Brouncher.
Durante gli incontri settimanali, si discutevano temi ‘scientifici’ e si portavano testimonianze degli esprimenti effettuati. Il primo a ricoprire la carica di ‘Curatore degli Esperimenti’ fu Robert Hooke. Fu Moray invece che parlò al re Carlo II di questa iniziativa e si assicurò l’appoggio e l’incoraggiamento da parte della Corona.
La prima volta che apparve per iscritto il nome “The Royal Society” fu nel 1661, e nella seconda Carta Reale del 1663 ci si riferisce ad essa con il nome di “The Royal Society of London for Improving Natural Knowledge” (la Società Reale di Londra per migliorare la conoscenza della natura).
La sede fu stabilita presso il Gresham College, e presto cominciò ad avere anche una biblioteca (nel 1661 fu presentato il primo volume), ed una specie di museo con tutti gli strumenti di interesse scientifico.
Dopo il Grande Incendio di Londra del 1666 per alcuni anni la sede fu spostata ad Arundel House, la residenza londinese del Duca di Norfolk. Ma fu solo nel 1710, sotto la presidenza di Isaac Newton, che la Royal Society ebbe la sua vera sede in due edifici di Crane Court, nei pressi dello Strand.
Nel 1662, con un decreto della Carte Reale, fu permesso alla Royal Society di pubblicare: i primi due libri furono di John Evelin (“Sylva”) e di Robert Hooke (“Micrographia”). Nel 1665 fu pubblicato da Henry Oldenbourg, Segretario della Royal Society, il primo saggio di “Transazioni Filosofiche”, che è tuttora il più antico manifesto scientifico in continuo aggiornamento.
All’inizio i membri della Royal Society dovevano essere scelti, ma non erano richiesti particolari requisiti, né conoscenze professionali e scientifiche, ed i criteri di ammissione erano molto generici. Nel 1731 una nuova regola stabilì che ogni candidato all’elezione dovesse essere proposto in un documento scritto. Tale documento doveva essere poi firmato da tutti i membri che erano d’accordo alla candidatura. Questi certificati sono ancora oggi delle preziose testimonianze, perché vi sono riportate le motivazioni della scelta di un candidato ed i rapporti tra i membri dell’accademia.
Nel 1780 la Royal Society spostò la sede a Somerset House, messa a disposizione dal Re, grazie all’intervento di Sir Joseph Banks, che fu presidente dal 1778 al 1820. Banks favorì le candidature sia di scienziati che di amanti della scienza, affinché questi ultimi diventassero in qualche modo mecenati dei primi. Questo genere di rapporto tra i membri dell’accademia diventò sempre meno popolare, e nel 1847 la Royal Society prese la decisione di eleggere i propri membri esclusivamente in base al merito del lavoro scientifico svolto. In questo modo non si trattava più di un circolo di letterati, ma di una vera e propria accademia di scienziati.
Nel 1850 il governo inglese riconobbe il merito della Royal Society e stanziò un contributo di £ 1,000 per aiutare gli scienziati. In seguito, fu istituito un vero e proprio Fondo governativo per la ricerca scientifica, che esiste ancora oggi e permette alla Royal Society di continuare a svolgere autonomamente il proprio ruolo.
Nel 1857 la sede fu spostata a Burlington House, a Piccadilly. Ma con il passare del tempo, l’accademia cresceva, i suoi membri aumentavano, e venne a mancare lo spazio. Così nel 1967 la sede si spostò a Carlton House Terrace, dove si trova attualmente.
Nel 2010 la Royal Society ha acquistato Chicheley Hall nel Buckinghamshire, che è stato trasformato in un centro di studi per conferenze internazionali e studi più approfonditi: ‘The Royal Society at Chicheley Hall’, sede del ‘Kavli Royal Society International Centre’.
Tra i suoi membri, oltre a Sir Christopher Wren, scienziato e famoso architetto (ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione di Londra dopo l’incendio del 1666), Robert Boyle, John Evelyn, Robert Hooke, William Petty, John Wallis, John Aubrey, Thomas Browne, John Wilkins, John Locke, Thomas Willis, Jean Chardin. E poi, il già citato Sir Joseph Banks, Isaac Newton, Gottfried Wilhelm von Leibniz e Charles Babbage.
I più famosi tra i contemporanei sono stati, fino alla loro morte, il fisico Stephen Hawking, e il Premio Nobel italiano Rita Levi Montalcini.
Dal 2009, anno in cui ricorrevano i 350 anni dalla fondazione, la Royal Society ha aperto i propri archivi mettendoli online.
Il motto dell’accademia è “nullius in verba” (‘niente nelle parole’ – frase latina usata da Orazio nelle “Epistulae”): un appello a resistere al dominio di qualsiasi autorità e a verificare ogni dichiarazione attraverso degli esperimenti che mostrino fatti, in maniera scientifica.
lunedì 27 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 novembre.
Il 27 novembre 1978 vengono uccisi a San Francisco il sindaco George Moscone e il nuovo supervisore Harvey Milk, primo gay dichiarato a essere eletto in un’istituzione statunitense.
L’assassino è l’ex consigliere comunale Dan White, che si era dimesso pochi giorni prima in protesta contro l’entrata in vigore di una proposta di legge sui diritti dei gay.
Moscone si era impegnato nella partecipazione delle donne e delle minoranze nella vita politica cittadina, coinvolgendoli direttamente nell’amministrazione anche con incarichi pubblici di rilievo. Milk era il leader della comunità gay di San Francisco ed era particolarmente attivo nel quartiere di Castro, dove aveva aperto un negozio di fotografia che divenne presto un punto di riferimento per la difesa dei diritti degli omosessuali. Il suo impegno continuò anche nel consiglio comunale, dove fu eletto nel 1977.
Negli ultimi tempi la Nuova Destra aveva condotto contro i gay una campagna fanatica e spietata. L'anno precedente in Florida Anita Bryant vinceva un referendum antigay. L’ex cantante era appoggiata dai gruppi più reazionari della Florida. Sull’esempio di questa campagna, il 7 novembre di quell'anno (1978), in California, la Destra portava avanti una nuova crociata antigay. La Destra con un referendum sulla proposta 6 voleva abrogare quelle norme che consentivano agli omosessuali di insegnare liberamente nelle scuole pubbliche. Ma, questa volta, il referendum veniva vinto proprio dai gay. Alla luce di ciò, la tragedia di San Francisco può essere considerata una tragedia “da sondaggio d’opinione”, in quanto quando Dan White divenne assessore, in California si parlava di una grossa ondata di destra, le cui prime vittime sarebbero stati i gay. Addirittura si pensava che il sindaco Moscone avesse scelto White, notoriamente conservatore in campo sessuale, per equilibrare il suo atteggiamento filo-gay. E la verifica filo-gay del popolo californiano arrivò il 7 novembre, quando la proposition 6 venne abbattuta.
Dan White voleva essere riammesso alla carica di consigliere comunale da cui aveva dato le dimissioni proprio per protesta contro Milk. Moscone rifiutò di reinserirlo nel ruolo e così White gli scaricò addosso un intero caricatore, prima di recarsi nell'ufficio di Milk e far fuori anche lui.
White fu riconosciuto colpevole di omicidio volontario con l’attenuante della seminfermità mentale e condannato a sette anni e otto mesi di prigione. Uscito dal carcere nel 1984, si è suicidato l’anno dopo.
Nel 2002 Milk è stato definito il rappresentante apertamente gay più noto e influente che sia mai stato eletto negli Stati Uniti.
Il 27 novembre 1978 vengono uccisi a San Francisco il sindaco George Moscone e il nuovo supervisore Harvey Milk, primo gay dichiarato a essere eletto in un’istituzione statunitense.
L’assassino è l’ex consigliere comunale Dan White, che si era dimesso pochi giorni prima in protesta contro l’entrata in vigore di una proposta di legge sui diritti dei gay.
Moscone si era impegnato nella partecipazione delle donne e delle minoranze nella vita politica cittadina, coinvolgendoli direttamente nell’amministrazione anche con incarichi pubblici di rilievo. Milk era il leader della comunità gay di San Francisco ed era particolarmente attivo nel quartiere di Castro, dove aveva aperto un negozio di fotografia che divenne presto un punto di riferimento per la difesa dei diritti degli omosessuali. Il suo impegno continuò anche nel consiglio comunale, dove fu eletto nel 1977.
Negli ultimi tempi la Nuova Destra aveva condotto contro i gay una campagna fanatica e spietata. L'anno precedente in Florida Anita Bryant vinceva un referendum antigay. L’ex cantante era appoggiata dai gruppi più reazionari della Florida. Sull’esempio di questa campagna, il 7 novembre di quell'anno (1978), in California, la Destra portava avanti una nuova crociata antigay. La Destra con un referendum sulla proposta 6 voleva abrogare quelle norme che consentivano agli omosessuali di insegnare liberamente nelle scuole pubbliche. Ma, questa volta, il referendum veniva vinto proprio dai gay. Alla luce di ciò, la tragedia di San Francisco può essere considerata una tragedia “da sondaggio d’opinione”, in quanto quando Dan White divenne assessore, in California si parlava di una grossa ondata di destra, le cui prime vittime sarebbero stati i gay. Addirittura si pensava che il sindaco Moscone avesse scelto White, notoriamente conservatore in campo sessuale, per equilibrare il suo atteggiamento filo-gay. E la verifica filo-gay del popolo californiano arrivò il 7 novembre, quando la proposition 6 venne abbattuta.
Dan White voleva essere riammesso alla carica di consigliere comunale da cui aveva dato le dimissioni proprio per protesta contro Milk. Moscone rifiutò di reinserirlo nel ruolo e così White gli scaricò addosso un intero caricatore, prima di recarsi nell'ufficio di Milk e far fuori anche lui.
White fu riconosciuto colpevole di omicidio volontario con l’attenuante della seminfermità mentale e condannato a sette anni e otto mesi di prigione. Uscito dal carcere nel 1984, si è suicidato l’anno dopo.
Nel 2002 Milk è stato definito il rappresentante apertamente gay più noto e influente che sia mai stato eletto negli Stati Uniti.
domenica 26 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 novembre.
Il 26 novembre 1942 debutta a New York il film "Casablanca".
"Casablanca" è stato l'archetipo di tutti i film d'amore che hanno fatto la loro comparsa sugli schermi dal 1942 in poi. Come disse qualcuno circa l'opera lirica, anche "Casablanca" non può lasciare indifferenti: o si ama o si odia.
Nel 1941 migliaia di disperati fuggono dall'Europa e dalla minaccia tedesca, rifugiandosi a Casablanca nel Marocco francese. Qui i più fortunati ottengono dei visti che equivalgono alla fuga in America e quindi alla libertà, ma la maggior parte deve prepararsi ad una lunga permanenza a Casablanca, dove si sviluppa l'intera vicenda.
C'è chi da Casablanca non vuole andarsene, perché nasconde segreti e dolori che si trascina da dove arriva; Rick Blaine (Humphrey Bogart), ad esempio, un solitario, schivo e piuttosto scorbutico americano che ha aperto un locale notturno dove tutti si incontrano ("Everybody comes to Rick's"), bevono, litigano, giocano e tramano. Quando Rick viene fortuitamente in possesso di due lettere di transito, che equivalgono ad un lasciapassare per il Nuovo Mondo importante ed ambito, iniziano i problemi. A chi le darà Rick? A chi gli offrirà il prezzo più alto? O le userà per se stesso? Le cose si complicano ulteriormente quando nel suo locale mette piede Ilsa Lund (Ingrid Bergman), con il marito cecoslovacco, il leader della Resistenza Victor Laszlo (Paul Henreid).
Il rude americano e la bellissima svedese si conoscevano già. Inizialmente non si sa quando, dove, perché la loro storia sia iniziata o sia finita. Quello che è certo è che l'amore reciproco non è mai scomparso. Il film si sviluppa poi attorno a tutti questi ed altri avvenimenti, animati da battaglie politiche, ricordi fumosi, minacce naziste, doppi giochi pericolosi. Il tutto a Casablanca, vero e proprio "bosco narrativo", per dirla con Umberto Eco ("Sei Passeggiate nei Boschi Narrativi", Bompiani, 1992, p.157).
"Casablanca" ha dei momenti ed alcuni dialoghi che rimarranno per sempre incisi nella storia del grande cinema. Ma perché ha avuto un simile successo? Grandi attori ed una buona regia, sì, ma può essere davvero solo questo? Il fattore fondamentale è piuttosto probabilmente da ricercarsi nell'avvicinamento di passione e nazione.
Una delle frasi più famose che Ilsa pronuncia è "Mentre il mondo crolla...scegliamo proprio questo momento per innamorarci!". E quanto ha ragione: la passione tra lei e Rick è totale, unica e devastante. Ma può davvero bastare a tenere unite due anime mentre l'universo si rovescia e le regole umane vengono calpestate? Dove bisogna far finire "l'egoismo" di voler tenere una persona per sé e quindi pensare alla propria felicità, per far iniziare il patriottismo, la Giustizia, il sacrificio per il bene comune? "Casablanca" è questo: la vittoria degli ideali, anche quando lo spettatore non se lo aspetta e, in fondo, non sa se lo vuole davvero.
Il principio sopra evidenziato è espresso in molti personaggi: Yvonne, innamorata di Rick, a metà film provoca una mezza rissa per essersi presentata al caffè con un soldato tedesco, principalmente con l'intento (fallito) di far ingelosire il nostro. Ma quando Laszlo, nella scena forse più bella del film, intona la Marsigliese, è la prima a cantarla con un pugno chiuso e le lacrime agli occhi, conscia dell'errore che ha fatto e dell'amore per la patria.
Il Capitano Luis Renault, personaggio unico interpretato magistralmente da Claude Rains, potrebbe tranquillamente finire nel girone degli ignavi ("Io vado dove tira il vento, e, in questo momento, tira [...] vento di Vichy"), ma quando Rick uccide il Maggiore Strasser davanti a lui, e i suoi uomini giungono, lui comanda imperterrito: "Cercate i soliti sospetti", finalmente prendendo una posizione.
Ma il "sommo sacrificio" spetta a Rick Blaine.
Dopo molti fraintendimenti, tanto cinismo, troppo dolore ed un infinito egoismo ("I stick my neck out for nobody"), il tutto innaffiato da abbondanti dosi di booze, ritrova finalmente un equilibrio ed una pace con Ilsa.
Ma il dovere chiama, la giustizia chiama, milioni di voci che hanno bisogno di un giusto come Laszlo chiamano. E Laszlo ha bisogno di Ilsa. La conclusione del sillogismo è semplice: Rick deve lasciarla andare. E per sempre, pare. Ma con la fede ritrovata. E l'altruismo, la voglia di aiutare, di vincere, di prendere una posizione. La più grande soddisfazione, per Laszlo, che è riuscito a fare un altro accolito ("Ora so che la nostra parte vincerà"). Lo spettatore non capisce appieno quanto lui sappia e capisca. Ma Laszlo sa e capisce fin troppo. Ha perfettamente coscienza di quanto succede, ma per lui la Resistenza è tutto, la cosa più importante; sarebbe disposto a rinunciare ad ogni cosa, per essa. Proprio per questo il sacrificio di Rick è ancora più grande: per lui la cosa più importante è Ilsa, non la Resistenza.
Un ulteriore motivo del perché la storia d'amore di "Casablanca" abbia avuto un tale successo, è perché Ilsa davvero non sa cosa fare: Victor Laszlo è più bello di Rick, alto, forte, intelligente, coraggioso e buono, e la ama moltissimo. Lei ama Rick. Ma il dilemma è grande: "l'altro", stavolta , non è infedele né antipatico né brutto: è quasi l'uomo perfetto. Che fare? E, a parte quello che si deve fare, lo spettatore cosa vuole? Il pubblico si spacca, oggi come allora.
Alcune curiosità: Ingrid Bergman non aveva davvero idea, come nessun altro (Curtiz compreso), di chi Ilsa avrebbe scelto alla fine. Questo rende ancora più credibile lo spaesamento e il conflitto interiore che la animano per tutta la durata della pellicola.
Come spesso capita (Conan Doyle insegna), la frase che ha reso celebre il film ("Suonala ancora, Sam") non viene mai pronunciata.
Alcune battute, come spesso capitava, sono state modificate in fase di doppiaggio. Una, incredibile a dirsi, in italiano è molto più sagace e divertente. "Vorremmo un tavolo vicino a Sam", dice Ilsa a Rick, entrando al caffè. "E lontano dal maggiore Strasser", aggiunge Laszlo. Mentre nella versione originale Rick li rassicura rispondendo che darà loro il tavolo migliore, in quella italiana sbotta in un divertito: "Se lo sapesse, che preferite un negro a un ariano!"
Nella versione italiana, è stato eliminato un personaggio, il capitano fascista Tonelli, che fa il saluto romano al maggiore Strasser al suo arrivo, risultando effettivamente poco credibile, pagliaccesco e patetico...Non proprio l'immagine che l'Italia del 1945 (anno in cui Casablanca è arrivato nei nostri cinema) voleva dare dei suoi militari.
Era in programma un seguito a "Casablanca", mai realizzato, ma di cui esiste la sceneggiatura completa. Avrebbe dovuto intitolarsi "Brazzaville". Girava voce, qualche anno fa, che sarebbe stato realizzato da una mega-produzione hollywoodiana, con Bruce Willis ed Isabella Rossellini nelle parti principali.
Il 26 novembre 1942 debutta a New York il film "Casablanca".
"Casablanca" è stato l'archetipo di tutti i film d'amore che hanno fatto la loro comparsa sugli schermi dal 1942 in poi. Come disse qualcuno circa l'opera lirica, anche "Casablanca" non può lasciare indifferenti: o si ama o si odia.
Nel 1941 migliaia di disperati fuggono dall'Europa e dalla minaccia tedesca, rifugiandosi a Casablanca nel Marocco francese. Qui i più fortunati ottengono dei visti che equivalgono alla fuga in America e quindi alla libertà, ma la maggior parte deve prepararsi ad una lunga permanenza a Casablanca, dove si sviluppa l'intera vicenda.
C'è chi da Casablanca non vuole andarsene, perché nasconde segreti e dolori che si trascina da dove arriva; Rick Blaine (Humphrey Bogart), ad esempio, un solitario, schivo e piuttosto scorbutico americano che ha aperto un locale notturno dove tutti si incontrano ("Everybody comes to Rick's"), bevono, litigano, giocano e tramano. Quando Rick viene fortuitamente in possesso di due lettere di transito, che equivalgono ad un lasciapassare per il Nuovo Mondo importante ed ambito, iniziano i problemi. A chi le darà Rick? A chi gli offrirà il prezzo più alto? O le userà per se stesso? Le cose si complicano ulteriormente quando nel suo locale mette piede Ilsa Lund (Ingrid Bergman), con il marito cecoslovacco, il leader della Resistenza Victor Laszlo (Paul Henreid).
Il rude americano e la bellissima svedese si conoscevano già. Inizialmente non si sa quando, dove, perché la loro storia sia iniziata o sia finita. Quello che è certo è che l'amore reciproco non è mai scomparso. Il film si sviluppa poi attorno a tutti questi ed altri avvenimenti, animati da battaglie politiche, ricordi fumosi, minacce naziste, doppi giochi pericolosi. Il tutto a Casablanca, vero e proprio "bosco narrativo", per dirla con Umberto Eco ("Sei Passeggiate nei Boschi Narrativi", Bompiani, 1992, p.157).
"Casablanca" ha dei momenti ed alcuni dialoghi che rimarranno per sempre incisi nella storia del grande cinema. Ma perché ha avuto un simile successo? Grandi attori ed una buona regia, sì, ma può essere davvero solo questo? Il fattore fondamentale è piuttosto probabilmente da ricercarsi nell'avvicinamento di passione e nazione.
Una delle frasi più famose che Ilsa pronuncia è "Mentre il mondo crolla...scegliamo proprio questo momento per innamorarci!". E quanto ha ragione: la passione tra lei e Rick è totale, unica e devastante. Ma può davvero bastare a tenere unite due anime mentre l'universo si rovescia e le regole umane vengono calpestate? Dove bisogna far finire "l'egoismo" di voler tenere una persona per sé e quindi pensare alla propria felicità, per far iniziare il patriottismo, la Giustizia, il sacrificio per il bene comune? "Casablanca" è questo: la vittoria degli ideali, anche quando lo spettatore non se lo aspetta e, in fondo, non sa se lo vuole davvero.
Il principio sopra evidenziato è espresso in molti personaggi: Yvonne, innamorata di Rick, a metà film provoca una mezza rissa per essersi presentata al caffè con un soldato tedesco, principalmente con l'intento (fallito) di far ingelosire il nostro. Ma quando Laszlo, nella scena forse più bella del film, intona la Marsigliese, è la prima a cantarla con un pugno chiuso e le lacrime agli occhi, conscia dell'errore che ha fatto e dell'amore per la patria.
Il Capitano Luis Renault, personaggio unico interpretato magistralmente da Claude Rains, potrebbe tranquillamente finire nel girone degli ignavi ("Io vado dove tira il vento, e, in questo momento, tira [...] vento di Vichy"), ma quando Rick uccide il Maggiore Strasser davanti a lui, e i suoi uomini giungono, lui comanda imperterrito: "Cercate i soliti sospetti", finalmente prendendo una posizione.
Ma il "sommo sacrificio" spetta a Rick Blaine.
Dopo molti fraintendimenti, tanto cinismo, troppo dolore ed un infinito egoismo ("I stick my neck out for nobody"), il tutto innaffiato da abbondanti dosi di booze, ritrova finalmente un equilibrio ed una pace con Ilsa.
Ma il dovere chiama, la giustizia chiama, milioni di voci che hanno bisogno di un giusto come Laszlo chiamano. E Laszlo ha bisogno di Ilsa. La conclusione del sillogismo è semplice: Rick deve lasciarla andare. E per sempre, pare. Ma con la fede ritrovata. E l'altruismo, la voglia di aiutare, di vincere, di prendere una posizione. La più grande soddisfazione, per Laszlo, che è riuscito a fare un altro accolito ("Ora so che la nostra parte vincerà"). Lo spettatore non capisce appieno quanto lui sappia e capisca. Ma Laszlo sa e capisce fin troppo. Ha perfettamente coscienza di quanto succede, ma per lui la Resistenza è tutto, la cosa più importante; sarebbe disposto a rinunciare ad ogni cosa, per essa. Proprio per questo il sacrificio di Rick è ancora più grande: per lui la cosa più importante è Ilsa, non la Resistenza.
Un ulteriore motivo del perché la storia d'amore di "Casablanca" abbia avuto un tale successo, è perché Ilsa davvero non sa cosa fare: Victor Laszlo è più bello di Rick, alto, forte, intelligente, coraggioso e buono, e la ama moltissimo. Lei ama Rick. Ma il dilemma è grande: "l'altro", stavolta , non è infedele né antipatico né brutto: è quasi l'uomo perfetto. Che fare? E, a parte quello che si deve fare, lo spettatore cosa vuole? Il pubblico si spacca, oggi come allora.
Alcune curiosità: Ingrid Bergman non aveva davvero idea, come nessun altro (Curtiz compreso), di chi Ilsa avrebbe scelto alla fine. Questo rende ancora più credibile lo spaesamento e il conflitto interiore che la animano per tutta la durata della pellicola.
Come spesso capita (Conan Doyle insegna), la frase che ha reso celebre il film ("Suonala ancora, Sam") non viene mai pronunciata.
Alcune battute, come spesso capitava, sono state modificate in fase di doppiaggio. Una, incredibile a dirsi, in italiano è molto più sagace e divertente. "Vorremmo un tavolo vicino a Sam", dice Ilsa a Rick, entrando al caffè. "E lontano dal maggiore Strasser", aggiunge Laszlo. Mentre nella versione originale Rick li rassicura rispondendo che darà loro il tavolo migliore, in quella italiana sbotta in un divertito: "Se lo sapesse, che preferite un negro a un ariano!"
Nella versione italiana, è stato eliminato un personaggio, il capitano fascista Tonelli, che fa il saluto romano al maggiore Strasser al suo arrivo, risultando effettivamente poco credibile, pagliaccesco e patetico...Non proprio l'immagine che l'Italia del 1945 (anno in cui Casablanca è arrivato nei nostri cinema) voleva dare dei suoi militari.
Era in programma un seguito a "Casablanca", mai realizzato, ma di cui esiste la sceneggiatura completa. Avrebbe dovuto intitolarsi "Brazzaville". Girava voce, qualche anno fa, che sarebbe stato realizzato da una mega-produzione hollywoodiana, con Bruce Willis ed Isabella Rossellini nelle parti principali.
sabato 25 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 novembre.
Il 25 novembre 1034 Duncan di Scozia, figlio della secondogenita di Malcolm II, eredita il trono alla morte del re, ai danni di Macbeth, figlio della primogenita. A questa vicenda si è ispirato Shakespeare per la sua omonima tragedia.
Macbeth e Banquo, generali dell'esercito scozzese, ascoltano stupiti le predizioni delle streghe: Macbeth sarà presto nominato signore di Cawdor dal re di Scozia Duncan, e poi ascenderà al trono; Banquo, pur senza mai regnare, avrà una discendenza regale. E, infatti, i messaggeri del re comunicano a Macbeth che Duncan lo ha eletto signore di Cawdor. L'avverarsi della prima profezia colpisce l'animo di Macbeth.
Informata dal marito delle predizioni delle streghe, Lady Macbeth ha concepito di assassinare Duncan, che sarà ospite nel loro castello, per consentire al suo sposo di cingere la corona di Scozia. Ma Macbeth indugia: soltanto la determinatezza della consorte riesce a spingerlo a compiere il delitto. Scoperto l'omicidio di Duncan, il nobile Macduff ne informa atterrito i cortigiani. Anche la seconda profezia si è avverata: Malcolm, figlio di Duncan, è fuggito nella vicina Inghilterra, suscitando il sospetto di avere ucciso il padre. Macbeth è divenuto re di Scozia. Ma le streghe hanno predetto il trono al figlio di Banquo: entrambi devono quindi essere eliminati. In un agguato notturno, Banquo è trucidato dai sicari di Macbeth. Suo figlio Fleance riesce a fuggire.
Durante un banchetto, Macbeth è informato della morte di Banquo e della fuga di suo figlio. Nel frattempo, la regina intrattiene gli ospiti che affollano le sale del castello, intonando un brindisi. Ma i festeggiamenti sono presto interrotti dall'apparizione dello spettro di Banquo che, invisibile a tutti, si mostra minaccioso a Macbeth. Invano Lady Macbeth cerca di riportare la serenità fra i presenti: sconvolto dall'apparizione di Banquo, il re decide di interrogare le streghe per conoscere il suo futuro.
I responsi ricevuti hanno rassicurato Macbeth: pur ammonendolo a guardarsi da Macduff, le streghe gli hanno infatti garantito che nessun uomo nato da una donna potrà sconfiggerlo e che la sua potenza durerà finché la foresta di Birnam si muoverà contro di lui. Il re ha tuttavia, avuto conferma che la discendenza di Banquo regnerà sulla Scozia. Lady Macbeth istiga lo sposo a uccidere Macduff e a sterminarne la famiglia.
Confidando nell'aiuto dell'Inghilterra, Malcolm ha radunato un esercito pronto a invadere la Scozia. Anche Macduff, dopo lo sterminio della sua famiglia, si è unito ai combattenti. Dichiarata la guerra l'esercito di Malcolm, per celarsi al nemico, avanza nascosto dai rami strappati dagli alberi della vicina foresta di Birnam. Malcolm e Macduff si avviano a liberare la Scozia. In preda agli incubi della pazzia, Lady Macbeth rivive nel sonno l'omicidio del re Duncan, confessando i crimini compiuti. Informato della morte della consorte, Macbeth si appresta a fronteggiare l'esercito nemico. All'annuncio che la foresta di Birnam sta avanzando, il re comprende che le profezie delle streghe si stanno avverando.
Nascosti dai rami della foresta di Birnam, i soldati di Malcolm attaccano i guerrieri di Macbeth, costringendoli alla fuga. Il re è fronteggiato da Macduff che, prima di colpirlo, gli rivela di non essere nato da una donna ma di essere stato estratto a forza dal corpo materno. Le predizioni si sono avverate. Macbeth cade sotto i colpi di Macduff. L'esercito vittorioso acclama Malcolm re di Scozia.
Si tratta di una tragedia fosca, cruenta, in cui domina il male e in cui i personaggi sono complessi ed ambigui. Lady Macbeth, personificazione del male, è animata da grande ambizione e sete di potere: è lei a convincere il marito, spesso indeciso, a commettere il regicidio (atto I).
Macbeth presenta una certa ambiguità: la sua sete di potere lo induce al delitto, ma ne prova anche rimorso pur essendo incapace di pentimento. Il soprannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi, che rappresentano le colpe e le angosce dell'animo umano. Nella follia sanguinaria Macbeth ha un solo conforto attraverso il contatto con il soprannaturale e, all'inizio del IV atto, egli si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza rassicurante, in realtà è molto enigmatico, eppure Macbeth vi si appiglia con convinzione ed affronta i nemici (V atto) fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie. Il tema del potere è sviluppato anche da altri personaggi, come il giovane figlio di Duncan che finge di essere indegno del titolo di re e allora il nobile scozzese gli spiega quale sia la vera essenza del potere e quale differenza intercorra tra il regno, anche quello di una persona ambiziosa e corrotta, e la tirannide. Interessante poi è la riflessione esistenziale (atto V, scena V) con una famosa definizione della vita umana, dominata da precarietà ed incertezza, temi dominanti nel Barocco, età in cui Shakespeare visse: "La vita non è che un'ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla".
Il 25 novembre 1034 Duncan di Scozia, figlio della secondogenita di Malcolm II, eredita il trono alla morte del re, ai danni di Macbeth, figlio della primogenita. A questa vicenda si è ispirato Shakespeare per la sua omonima tragedia.
Macbeth e Banquo, generali dell'esercito scozzese, ascoltano stupiti le predizioni delle streghe: Macbeth sarà presto nominato signore di Cawdor dal re di Scozia Duncan, e poi ascenderà al trono; Banquo, pur senza mai regnare, avrà una discendenza regale. E, infatti, i messaggeri del re comunicano a Macbeth che Duncan lo ha eletto signore di Cawdor. L'avverarsi della prima profezia colpisce l'animo di Macbeth.
Informata dal marito delle predizioni delle streghe, Lady Macbeth ha concepito di assassinare Duncan, che sarà ospite nel loro castello, per consentire al suo sposo di cingere la corona di Scozia. Ma Macbeth indugia: soltanto la determinatezza della consorte riesce a spingerlo a compiere il delitto. Scoperto l'omicidio di Duncan, il nobile Macduff ne informa atterrito i cortigiani. Anche la seconda profezia si è avverata: Malcolm, figlio di Duncan, è fuggito nella vicina Inghilterra, suscitando il sospetto di avere ucciso il padre. Macbeth è divenuto re di Scozia. Ma le streghe hanno predetto il trono al figlio di Banquo: entrambi devono quindi essere eliminati. In un agguato notturno, Banquo è trucidato dai sicari di Macbeth. Suo figlio Fleance riesce a fuggire.
Durante un banchetto, Macbeth è informato della morte di Banquo e della fuga di suo figlio. Nel frattempo, la regina intrattiene gli ospiti che affollano le sale del castello, intonando un brindisi. Ma i festeggiamenti sono presto interrotti dall'apparizione dello spettro di Banquo che, invisibile a tutti, si mostra minaccioso a Macbeth. Invano Lady Macbeth cerca di riportare la serenità fra i presenti: sconvolto dall'apparizione di Banquo, il re decide di interrogare le streghe per conoscere il suo futuro.
I responsi ricevuti hanno rassicurato Macbeth: pur ammonendolo a guardarsi da Macduff, le streghe gli hanno infatti garantito che nessun uomo nato da una donna potrà sconfiggerlo e che la sua potenza durerà finché la foresta di Birnam si muoverà contro di lui. Il re ha tuttavia, avuto conferma che la discendenza di Banquo regnerà sulla Scozia. Lady Macbeth istiga lo sposo a uccidere Macduff e a sterminarne la famiglia.
Confidando nell'aiuto dell'Inghilterra, Malcolm ha radunato un esercito pronto a invadere la Scozia. Anche Macduff, dopo lo sterminio della sua famiglia, si è unito ai combattenti. Dichiarata la guerra l'esercito di Malcolm, per celarsi al nemico, avanza nascosto dai rami strappati dagli alberi della vicina foresta di Birnam. Malcolm e Macduff si avviano a liberare la Scozia. In preda agli incubi della pazzia, Lady Macbeth rivive nel sonno l'omicidio del re Duncan, confessando i crimini compiuti. Informato della morte della consorte, Macbeth si appresta a fronteggiare l'esercito nemico. All'annuncio che la foresta di Birnam sta avanzando, il re comprende che le profezie delle streghe si stanno avverando.
Nascosti dai rami della foresta di Birnam, i soldati di Malcolm attaccano i guerrieri di Macbeth, costringendoli alla fuga. Il re è fronteggiato da Macduff che, prima di colpirlo, gli rivela di non essere nato da una donna ma di essere stato estratto a forza dal corpo materno. Le predizioni si sono avverate. Macbeth cade sotto i colpi di Macduff. L'esercito vittorioso acclama Malcolm re di Scozia.
Si tratta di una tragedia fosca, cruenta, in cui domina il male e in cui i personaggi sono complessi ed ambigui. Lady Macbeth, personificazione del male, è animata da grande ambizione e sete di potere: è lei a convincere il marito, spesso indeciso, a commettere il regicidio (atto I).
Macbeth presenta una certa ambiguità: la sua sete di potere lo induce al delitto, ma ne prova anche rimorso pur essendo incapace di pentimento. Il soprannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi, che rappresentano le colpe e le angosce dell'animo umano. Nella follia sanguinaria Macbeth ha un solo conforto attraverso il contatto con il soprannaturale e, all'inizio del IV atto, egli si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza rassicurante, in realtà è molto enigmatico, eppure Macbeth vi si appiglia con convinzione ed affronta i nemici (V atto) fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie. Il tema del potere è sviluppato anche da altri personaggi, come il giovane figlio di Duncan che finge di essere indegno del titolo di re e allora il nobile scozzese gli spiega quale sia la vera essenza del potere e quale differenza intercorra tra il regno, anche quello di una persona ambiziosa e corrotta, e la tirannide. Interessante poi è la riflessione esistenziale (atto V, scena V) con una famosa definizione della vita umana, dominata da precarietà ed incertezza, temi dominanti nel Barocco, età in cui Shakespeare visse: "La vita non è che un'ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla".
venerdì 24 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 novembre.
Il 24 novembre 1826 nasce a Firenze Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi.
La madre, Angelina Orzali, benché diplomata come maestra elementare, fa la cameriera per l'illustre casato toscano dei Garzoni Venturi - la cui tenuta a Collodi rimarrà uno dei ricordi più cari del piccolo Carlo - e in seguito presso la ricca famiglia Ginori di Firenze. Il padre Domenico Lorenzini, di più umili origini, debole di carattere e fragile di salute, lavora come cuoco per gli stessi marchesi Ginori.
Primogenito di una numerosa e sventurata famiglia (dei dieci figli, sei ne muoiono in tenera età), Carlo frequenta le elementari a Collodi, affidato ad una zia. Malgrado il carattere vivace, inquieto e propenso all'insubordinazione, viene avviato agli studi ecclesiastici presso il Seminario di Val d'Elsa e poi dai Padri Scolopi di Firenze.
Quando il fratello Paolo Lorenzini diventa dirigente nella Manifattura Ginori, la famiglia acquista finalmente un po' di serenità e di agiatezza, e Carlo può iniziare la carriera di impiegato e di giornalista.
Abbracciando le idee mazziniane, partecipa alle rivolte risorgimentali del 1848-49. Negli anni Cinquanta , nel suo ruolo appunto di giornalista, descrive la realtà toscana cogliendone i lati spiritosi e bizzarri, fatta di intrighi e storielle da caffè per mezzo di fulminanti invenzioni linguistiche. Tutto materiale che confluirà nel suo capolavoro, l'intramontabile Pinocchio.
Stimolato dalle esperienze come giornalista, comincia a scrivere intensamente, esercitando la sua capacità di dar vita, per mezzo della sua poetica, alle novità della vita contemporanea. Ne sono testimonianze i suoi primi romanzi "Un romanzo in vapore" e "Da Firenze a Livorno", pubblicati intorno al 1856 e in cui l'autore fu tra i primi a evidenziare la novità tecnologica apportata della ferrovia.
Di ingegno versatile, creativo, spiritoso, Lorenzini fondò in seguito il periodico "Il Lampione" che si prefiggeva di "far lume a chi brancolava nelle tenebre"; dopo la (temporanea) restaurazione granducale "Il Lampione" dovette chiudere (riaprirà undici anni dopo) e Lorenzini si dedicò al giornale "Scaramuccia" (soprattutto di critica teatrale) collaborando ad altri periodici fra cui il "Fanfulla".
Ma la sua vera strada la trova quando, già avanti con gli anni, si dedica alla letteratura per l'infanzia. Come funzionario al servizio dello stato unitario appena formato, inizia con la traduzione dei racconti delle fate di Perrault, per poi lavorare a vari libri pedagogici per la scuola. Per questa attività adotta il nome di Collodi che non è altro che il nome del paese originario della madre (all'epoca in provincia di Lucca, mentre dal 1927 si trova in provincia di Pistoia).
Dopo "Giannettino" (1875) e "Minuzzolo" (1877) scrive il suo capolavoro "Le avventure di Pinocchio", apparse per la prima volta sul "Giornale dei bambini" nel 1881 con il titolo "La storia di un burattino" facendole terminare con il quindicesimo capitolo. Dopo pochi mesi Collodi riprese la narrazione del libro con il nuovo titolo per portarlo a termine nel 1883 anno in cui viene raccolto in volume dall'editore Felice Paggi di Firenze.
Originariamente le avventure di Pinocchio si concludevano nell'episodio dell'impiccagione, con la morte del burattino. Le proteste dei piccoli lettori del "Giornale dei bambini" indussero però l'autore a proseguire il racconto, che si concluse definitivamente, con la trasformazione del burattino in bambino. Qualche anno dopo la sua apparizione in volume, "Le avventure di Pinocchio" divennero un testo vendutissimo, un classico che indubbiamente oltrepassa i confini della mera letteratura per l'infanzia. L'opera è stata pubblicata in 187 edizioni e tradotta in 260 lingue o dialetti.
Prima di aver goduto del meritato successo, Carlo Collodi muore, improvvisamente, il 26 ottobre 1890 a Firenze. Le sue carte, donate dalla famiglia, sono conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Il 24 novembre 1826 nasce a Firenze Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi.
La madre, Angelina Orzali, benché diplomata come maestra elementare, fa la cameriera per l'illustre casato toscano dei Garzoni Venturi - la cui tenuta a Collodi rimarrà uno dei ricordi più cari del piccolo Carlo - e in seguito presso la ricca famiglia Ginori di Firenze. Il padre Domenico Lorenzini, di più umili origini, debole di carattere e fragile di salute, lavora come cuoco per gli stessi marchesi Ginori.
Primogenito di una numerosa e sventurata famiglia (dei dieci figli, sei ne muoiono in tenera età), Carlo frequenta le elementari a Collodi, affidato ad una zia. Malgrado il carattere vivace, inquieto e propenso all'insubordinazione, viene avviato agli studi ecclesiastici presso il Seminario di Val d'Elsa e poi dai Padri Scolopi di Firenze.
Quando il fratello Paolo Lorenzini diventa dirigente nella Manifattura Ginori, la famiglia acquista finalmente un po' di serenità e di agiatezza, e Carlo può iniziare la carriera di impiegato e di giornalista.
Abbracciando le idee mazziniane, partecipa alle rivolte risorgimentali del 1848-49. Negli anni Cinquanta , nel suo ruolo appunto di giornalista, descrive la realtà toscana cogliendone i lati spiritosi e bizzarri, fatta di intrighi e storielle da caffè per mezzo di fulminanti invenzioni linguistiche. Tutto materiale che confluirà nel suo capolavoro, l'intramontabile Pinocchio.
Stimolato dalle esperienze come giornalista, comincia a scrivere intensamente, esercitando la sua capacità di dar vita, per mezzo della sua poetica, alle novità della vita contemporanea. Ne sono testimonianze i suoi primi romanzi "Un romanzo in vapore" e "Da Firenze a Livorno", pubblicati intorno al 1856 e in cui l'autore fu tra i primi a evidenziare la novità tecnologica apportata della ferrovia.
Di ingegno versatile, creativo, spiritoso, Lorenzini fondò in seguito il periodico "Il Lampione" che si prefiggeva di "far lume a chi brancolava nelle tenebre"; dopo la (temporanea) restaurazione granducale "Il Lampione" dovette chiudere (riaprirà undici anni dopo) e Lorenzini si dedicò al giornale "Scaramuccia" (soprattutto di critica teatrale) collaborando ad altri periodici fra cui il "Fanfulla".
Ma la sua vera strada la trova quando, già avanti con gli anni, si dedica alla letteratura per l'infanzia. Come funzionario al servizio dello stato unitario appena formato, inizia con la traduzione dei racconti delle fate di Perrault, per poi lavorare a vari libri pedagogici per la scuola. Per questa attività adotta il nome di Collodi che non è altro che il nome del paese originario della madre (all'epoca in provincia di Lucca, mentre dal 1927 si trova in provincia di Pistoia).
Dopo "Giannettino" (1875) e "Minuzzolo" (1877) scrive il suo capolavoro "Le avventure di Pinocchio", apparse per la prima volta sul "Giornale dei bambini" nel 1881 con il titolo "La storia di un burattino" facendole terminare con il quindicesimo capitolo. Dopo pochi mesi Collodi riprese la narrazione del libro con il nuovo titolo per portarlo a termine nel 1883 anno in cui viene raccolto in volume dall'editore Felice Paggi di Firenze.
Originariamente le avventure di Pinocchio si concludevano nell'episodio dell'impiccagione, con la morte del burattino. Le proteste dei piccoli lettori del "Giornale dei bambini" indussero però l'autore a proseguire il racconto, che si concluse definitivamente, con la trasformazione del burattino in bambino. Qualche anno dopo la sua apparizione in volume, "Le avventure di Pinocchio" divennero un testo vendutissimo, un classico che indubbiamente oltrepassa i confini della mera letteratura per l'infanzia. L'opera è stata pubblicata in 187 edizioni e tradotta in 260 lingue o dialetti.
Prima di aver goduto del meritato successo, Carlo Collodi muore, improvvisamente, il 26 ottobre 1890 a Firenze. Le sue carte, donate dalla famiglia, sono conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
giovedì 23 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 novembre.
Il 23 novembre 1499 Perkin Warbeck, pretendente al trono inglese, viene impiccato per aver tentato di evadere dalla Torre di Londra.
La storia della Torre di Londra è lunga e a tratti oscura. È una storia attraversata da spietate esecuzioni ad opera di re sanguinari e avidi di potere tanto da farle guadagnare (forse immeritatamente) la reputazione di luogo di sofferenza e tortura.
La Torre di Londra è una fortificazione formata da un complesso di edifici che ha subito modifiche ed ampliamenti rispetto alla pianta originaria, almeno per due secoli. La struttura che vediamo oggi è quella del tardo tredicesimo secolo.
La Torre di Londra è molto antica. La sua storia comincia con la conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni che la fecero erigere a simbolo del loro potere, dopo aver strappato il trono d’Inghilterra ai Sassoni nel 1066 con la vittoria nella famosa battaglia di Hastings.
Il protagonista dell’impresa fu il duca di Normandia, Guglielmo il Conquistatore, che fece capitolare Londra dopo una serie di vittorie portate a segno contro le truppe Sassoni in varie parti del Sud. L’invasione normanna portò all’incoronazione di Guglielmo il Conquistatore con il nome di Guglielmo I. Fu lui, infatti, intorno al 1078 ad ordinare la costruzione della White Tower, l’edificio centrale della Torre di Londra che avrebbe poi dato il nome a tutto il castello. Questa costruzione in realtà fece parte di un’operazione molto più ampia di consolidamento del potere che portò alla progettazione e realizzazione di oltre 35 castelli tra il 1066 e il 1087. Castelli che servirono da fortificazioni, residenze o centri del potere amministrativo.
La Torre di Londra, in particolare, rivestiva un ruolo centrale perché rappresentava l’avamposto per il controllo di Londra, la più grande città dell’Inghilterra e sede del potere politico. Il luogo dell’insediamento fu scelto accuratamente tra le originarie mura romane e il fiume Tamigi che avrebbe costituito una valida difesa naturale dai nemici. La White Tower (Torre Bianca) fu iniziata presumibilmente nel 1078 anche se la data è incerta e non fu probabilmente finita prima della morte di Guglielmo I stesso, avvenuta nel 1087. La White Tower è inoltre la prima fortezza in pietra d’Inghilterra – del resto il primo muro di protezione in pietra, che avrebbe sostituito la palizzata in legno intorno alla Torre, fu costruito solo intorno al 1100 per ordine di Guglielmo II.
Il castello mantenne la sua forma originaria probabilmente fino al regno di Riccardo Cuor di Leone (fine del 12° secolo) quando William Longchamp, reggente mentre il re Riccardo era alle crociate, ampliò la fortezza facendo costruire anche un fossato. Fu in assenza di Riccardo che suo fratello, il principe John, tentò con successo un assalto al potere e fu proprio in quell’occasione che la Torre di Londra subì il suo primo assedio. Longchamp alla fine capitolò e John successe a Riccardo nel 1199. Il suo regno incontrò tuttavia molte resistenze interne e questo portò ad una forte instabilità negli anni successivi.
La fortificazione venne ulteriormente modificata ed ampliata nel 13° secolo, sotto i regni di Enrico III ed Edoardo I. Fu alla fine di questo secolo che finalmente raggiunse la forma che presenta ai giorni nostri.
Enrico III era piuttosto slegato dai suoi Baroni e il timore di attacchi fu la ragione per cui volle che la Torre venisse fortificata al massimo. Essendo anche un esteta ordinò che il castello fosse un posto estremamente confortevole in cui vivere. Dal 1238 il castello si espanse ad Est, Nord e Nord-Ovest. Furono costruiti nuovi torrioni difensivi, un secondo fossato e presto il castello si estese ad est oltre l’originario insediamento romano fino ad incorporare il muro difensivo della city.
Edoardo I, dal canto suo, spese sulla Torre in pochi anni più di quanto Enrico III avesse speso durante tutto il suo regno. La sua esperienza negli assedi accumulata durante le crociate gli permise di apportare importanti migliorie alla sicurezza del castello. Fu ricostruito uno dei fossati iniziati da Enrico III, fu eretto un nuovo muro di cinta e un nuovo fossato fu scavato lungo il perimetro esterno del muro. Fu anche creato un nuovo ingresso dotato di avanzate strutture difensive.
Durante il tardo Medioevo la Torre fu usata molto come prigione e come rifugio per i reali. Il 14° secolo fu il secolo dei re Edoardo II, Edoardo III e Riccardo II. Quest’epoca fu caratterizzata da guerre e rivolte interne e spesso la Torre di Londra servì ai regnanti da rifugio, come nel 1387, quando Riccardo II passò il Natale barricato tra le mura del castello Londinese piuttosto che nel castello di Windsor, come si usava di più allora.
Nel 15° secolo non furono apportate molte migliorie alla fortezza e questa continuò a svolgere un duplice ruolo di rifugio per i reali e prigione, dove spesso i detenuti avevano nomi illustri. La seconda parte di questo secolo fu caratterizzata dalla Guerra delle Due Rose (1455-1485) scoppiata tra i casati dei Lancaster e degli York che si contendevano il trono. Fu alla fine di questo periodo che si consumò l’evento forse più infamante legato al nome della Torre di Londra: l’assassinio dei Principi nella Torre. I due giovani, Edoardo V e Riccardo erano figli di Edoardo IV e alla morte del re il loro zio, Riccardo di Gloucester, allontanò tutti i loro parenti, inclusa la madre, convincendo i ragazzi ad alloggiare nella Torre in attesa dell’incoronazione di Edoardo, il maggiore dei due. Quest’incoronazione non ebbe mai luogo e i due giovani non furono mai più rivisti vivi. Lo zio Riccardo fece inoltre dichiarare il matrimonio di Edoardo IV illegittimo e quindi illegittimi anche i suoi figli morti. Con quell’atto prese il trono come Riccardo III nel 1483. Costui fu l’ultimo re del casato York e regnò fino alla sua morte nel 1485, avvenuta nella battaglia di Bosworth persa contro Enrico Tudor, incoronato Enrico VII nello stesso anno. Questo evento diede inizio all’era dei Tudor.
Con l’avvento dei Tudor la Torre di Londra cominciò a perdere il suo ruolo di residenza reale, ma fu maggiormente usata come arsenale e prigione. Molti furono i lavori fatti per migliorarne la sicurezza nel’500, soprattutto durante il regno di Enrico VIII. Lo stesso secolo vide nascere anche il corpo degli Yeoman Warders, guardie del corpo del re almeno dal 1509. Fino alla metà del ’600 la Torre fu molto usata come prigione e luogo di tortura e questo ne cambiò anche la reputazione che cominciò a diventare quella che in parte la storia ci ha restituito. Tra gli ospiti illustri imprigionati nella fortezza durante questi anni ricordiamo Anna Bolena, Lady Jane Grey ed Elisabetta I. Il 1600 fu l’era degli Stuart e durante questo periodo la Torre subì diversi lavori di ristrutturazione perché versava in pessime condizioni. Pare che Carlo II non vi abbia speso nemmeno la notte prima dell’incoronazione nel 1660.
Il ’700 fu il secolo in cui salì al potere il casato di Hannover. Data l’incertezza circa una rivolta scozzese, la Torre di Londra fu rimessa a posto per reggere ad un nuovo eventuale assedio da parte dei potenziali nemici. I lavori si svolsero spasmodici durante la maggior parte del 18° secolo.
Nel secolo successivo altri lavori furono eseguiti. Dal 1843 al 1845 fu drenato e riempito di terra il fossato esterno dato che pochi anni prima aveva causato un’epidemia dovuta all’accumulo di materiale argilloso. Nello stesso periodo furono costruiti ulteriori edifici per l’alloggiamento di soldati prevalentemente in vista di temuti sommovimenti popolari. Questo fu l’ultimo grande intervento di fortificazione della Torre e la maggior parte delle strutture adibite all’artiglieria sopravvissute fino ad oggi risalgono a quell’epoca.
Durante le due guerre mondiali del ’900 la Torre conobbe di nuovo, e per l’ultima volta, il suo ruolo di prigione e luogo di esecuzioni. Durante quel periodo furono eseguite 11 condanne a morte e l’ultima fu quella inflitta per spionaggio a Josef Jakobs, il 14 agosto del 1941. Dopo le guerre, i danni subiti dai sostenuti bombardamenti dei Nazisti furono riparati e la Torre fu riaperta al pubblico.
Come si è visto la Torre di Londra nei secoli ha svolto un ruolo molto importante nella storia inglese. È stata più volte assediata e difenderla è sempre stato cruciale per il controllo del paese. La Torre è servita a molti scopi: è stata un deposito di armi, una tesoreria, sede della Zecca, nonché prigione e residenza reale, oltre che casa dei Gioielli della Corona. La storia di diversi personaggi famosi, caduti in disgrazia e mandati alla Torre, ha alimentato la fama del castello come luogo di tortura e morte. La verità è però che, fino alle guerre mondiali, solo sette persone sono state giustiziate tra le mura della Torre di Londra. Le esecuzioni avevano invece luogo a Nord della Torre, su Tower Hill. Se ne sono infatti contate 112 in un periodo di 400 anni.
Oggi la torre di Londra è una delle attrazioni turistiche più popolari del paese, nonché patrimonio dell’umanità protetto dall’Unesco dal 1988.
Il 23 novembre 1499 Perkin Warbeck, pretendente al trono inglese, viene impiccato per aver tentato di evadere dalla Torre di Londra.
La storia della Torre di Londra è lunga e a tratti oscura. È una storia attraversata da spietate esecuzioni ad opera di re sanguinari e avidi di potere tanto da farle guadagnare (forse immeritatamente) la reputazione di luogo di sofferenza e tortura.
La Torre di Londra è una fortificazione formata da un complesso di edifici che ha subito modifiche ed ampliamenti rispetto alla pianta originaria, almeno per due secoli. La struttura che vediamo oggi è quella del tardo tredicesimo secolo.
La Torre di Londra è molto antica. La sua storia comincia con la conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni che la fecero erigere a simbolo del loro potere, dopo aver strappato il trono d’Inghilterra ai Sassoni nel 1066 con la vittoria nella famosa battaglia di Hastings.
Il protagonista dell’impresa fu il duca di Normandia, Guglielmo il Conquistatore, che fece capitolare Londra dopo una serie di vittorie portate a segno contro le truppe Sassoni in varie parti del Sud. L’invasione normanna portò all’incoronazione di Guglielmo il Conquistatore con il nome di Guglielmo I. Fu lui, infatti, intorno al 1078 ad ordinare la costruzione della White Tower, l’edificio centrale della Torre di Londra che avrebbe poi dato il nome a tutto il castello. Questa costruzione in realtà fece parte di un’operazione molto più ampia di consolidamento del potere che portò alla progettazione e realizzazione di oltre 35 castelli tra il 1066 e il 1087. Castelli che servirono da fortificazioni, residenze o centri del potere amministrativo.
La Torre di Londra, in particolare, rivestiva un ruolo centrale perché rappresentava l’avamposto per il controllo di Londra, la più grande città dell’Inghilterra e sede del potere politico. Il luogo dell’insediamento fu scelto accuratamente tra le originarie mura romane e il fiume Tamigi che avrebbe costituito una valida difesa naturale dai nemici. La White Tower (Torre Bianca) fu iniziata presumibilmente nel 1078 anche se la data è incerta e non fu probabilmente finita prima della morte di Guglielmo I stesso, avvenuta nel 1087. La White Tower è inoltre la prima fortezza in pietra d’Inghilterra – del resto il primo muro di protezione in pietra, che avrebbe sostituito la palizzata in legno intorno alla Torre, fu costruito solo intorno al 1100 per ordine di Guglielmo II.
Il castello mantenne la sua forma originaria probabilmente fino al regno di Riccardo Cuor di Leone (fine del 12° secolo) quando William Longchamp, reggente mentre il re Riccardo era alle crociate, ampliò la fortezza facendo costruire anche un fossato. Fu in assenza di Riccardo che suo fratello, il principe John, tentò con successo un assalto al potere e fu proprio in quell’occasione che la Torre di Londra subì il suo primo assedio. Longchamp alla fine capitolò e John successe a Riccardo nel 1199. Il suo regno incontrò tuttavia molte resistenze interne e questo portò ad una forte instabilità negli anni successivi.
La fortificazione venne ulteriormente modificata ed ampliata nel 13° secolo, sotto i regni di Enrico III ed Edoardo I. Fu alla fine di questo secolo che finalmente raggiunse la forma che presenta ai giorni nostri.
Enrico III era piuttosto slegato dai suoi Baroni e il timore di attacchi fu la ragione per cui volle che la Torre venisse fortificata al massimo. Essendo anche un esteta ordinò che il castello fosse un posto estremamente confortevole in cui vivere. Dal 1238 il castello si espanse ad Est, Nord e Nord-Ovest. Furono costruiti nuovi torrioni difensivi, un secondo fossato e presto il castello si estese ad est oltre l’originario insediamento romano fino ad incorporare il muro difensivo della city.
Edoardo I, dal canto suo, spese sulla Torre in pochi anni più di quanto Enrico III avesse speso durante tutto il suo regno. La sua esperienza negli assedi accumulata durante le crociate gli permise di apportare importanti migliorie alla sicurezza del castello. Fu ricostruito uno dei fossati iniziati da Enrico III, fu eretto un nuovo muro di cinta e un nuovo fossato fu scavato lungo il perimetro esterno del muro. Fu anche creato un nuovo ingresso dotato di avanzate strutture difensive.
Durante il tardo Medioevo la Torre fu usata molto come prigione e come rifugio per i reali. Il 14° secolo fu il secolo dei re Edoardo II, Edoardo III e Riccardo II. Quest’epoca fu caratterizzata da guerre e rivolte interne e spesso la Torre di Londra servì ai regnanti da rifugio, come nel 1387, quando Riccardo II passò il Natale barricato tra le mura del castello Londinese piuttosto che nel castello di Windsor, come si usava di più allora.
Nel 15° secolo non furono apportate molte migliorie alla fortezza e questa continuò a svolgere un duplice ruolo di rifugio per i reali e prigione, dove spesso i detenuti avevano nomi illustri. La seconda parte di questo secolo fu caratterizzata dalla Guerra delle Due Rose (1455-1485) scoppiata tra i casati dei Lancaster e degli York che si contendevano il trono. Fu alla fine di questo periodo che si consumò l’evento forse più infamante legato al nome della Torre di Londra: l’assassinio dei Principi nella Torre. I due giovani, Edoardo V e Riccardo erano figli di Edoardo IV e alla morte del re il loro zio, Riccardo di Gloucester, allontanò tutti i loro parenti, inclusa la madre, convincendo i ragazzi ad alloggiare nella Torre in attesa dell’incoronazione di Edoardo, il maggiore dei due. Quest’incoronazione non ebbe mai luogo e i due giovani non furono mai più rivisti vivi. Lo zio Riccardo fece inoltre dichiarare il matrimonio di Edoardo IV illegittimo e quindi illegittimi anche i suoi figli morti. Con quell’atto prese il trono come Riccardo III nel 1483. Costui fu l’ultimo re del casato York e regnò fino alla sua morte nel 1485, avvenuta nella battaglia di Bosworth persa contro Enrico Tudor, incoronato Enrico VII nello stesso anno. Questo evento diede inizio all’era dei Tudor.
Con l’avvento dei Tudor la Torre di Londra cominciò a perdere il suo ruolo di residenza reale, ma fu maggiormente usata come arsenale e prigione. Molti furono i lavori fatti per migliorarne la sicurezza nel’500, soprattutto durante il regno di Enrico VIII. Lo stesso secolo vide nascere anche il corpo degli Yeoman Warders, guardie del corpo del re almeno dal 1509. Fino alla metà del ’600 la Torre fu molto usata come prigione e luogo di tortura e questo ne cambiò anche la reputazione che cominciò a diventare quella che in parte la storia ci ha restituito. Tra gli ospiti illustri imprigionati nella fortezza durante questi anni ricordiamo Anna Bolena, Lady Jane Grey ed Elisabetta I. Il 1600 fu l’era degli Stuart e durante questo periodo la Torre subì diversi lavori di ristrutturazione perché versava in pessime condizioni. Pare che Carlo II non vi abbia speso nemmeno la notte prima dell’incoronazione nel 1660.
Il ’700 fu il secolo in cui salì al potere il casato di Hannover. Data l’incertezza circa una rivolta scozzese, la Torre di Londra fu rimessa a posto per reggere ad un nuovo eventuale assedio da parte dei potenziali nemici. I lavori si svolsero spasmodici durante la maggior parte del 18° secolo.
Nel secolo successivo altri lavori furono eseguiti. Dal 1843 al 1845 fu drenato e riempito di terra il fossato esterno dato che pochi anni prima aveva causato un’epidemia dovuta all’accumulo di materiale argilloso. Nello stesso periodo furono costruiti ulteriori edifici per l’alloggiamento di soldati prevalentemente in vista di temuti sommovimenti popolari. Questo fu l’ultimo grande intervento di fortificazione della Torre e la maggior parte delle strutture adibite all’artiglieria sopravvissute fino ad oggi risalgono a quell’epoca.
Durante le due guerre mondiali del ’900 la Torre conobbe di nuovo, e per l’ultima volta, il suo ruolo di prigione e luogo di esecuzioni. Durante quel periodo furono eseguite 11 condanne a morte e l’ultima fu quella inflitta per spionaggio a Josef Jakobs, il 14 agosto del 1941. Dopo le guerre, i danni subiti dai sostenuti bombardamenti dei Nazisti furono riparati e la Torre fu riaperta al pubblico.
Come si è visto la Torre di Londra nei secoli ha svolto un ruolo molto importante nella storia inglese. È stata più volte assediata e difenderla è sempre stato cruciale per il controllo del paese. La Torre è servita a molti scopi: è stata un deposito di armi, una tesoreria, sede della Zecca, nonché prigione e residenza reale, oltre che casa dei Gioielli della Corona. La storia di diversi personaggi famosi, caduti in disgrazia e mandati alla Torre, ha alimentato la fama del castello come luogo di tortura e morte. La verità è però che, fino alle guerre mondiali, solo sette persone sono state giustiziate tra le mura della Torre di Londra. Le esecuzioni avevano invece luogo a Nord della Torre, su Tower Hill. Se ne sono infatti contate 112 in un periodo di 400 anni.
Oggi la torre di Londra è una delle attrazioni turistiche più popolari del paese, nonché patrimonio dell’umanità protetto dall’Unesco dal 1988.
mercoledì 22 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 novembre.
Il 22 novembre 1718 muore durante un arrembaggio Edward Teach, meglio noto come il pirata Barbanera.
Una vita incredibile, rocambolesca, tante leggende sul suo nome.
A cominciare dalla nascita, avvenuta forse a Bristol, forse a Port Royale, e sempre con il condizionale, nell’anno di grazia 1680.
La cronaca della vita di Edward Teach, il pirata Barbanera, è stata una delle storie con i contorni così leggendari da rendere difficile una qualsiasi biografia sulla sua vita e sulle sue imprese.
Si sa pochissimo sulle sue prime imprese piratesche; si racconta che all’età di 26 anni si sia arruolato su una nave corsara giamaicana, e che abbia poi stretto alleanza con Benjamin Hornigold, un altro famoso corsaro, in combutta con il quale riuscì ad assaltare e depredare una ventina di navi francesi in pochi mesi.
Ben presto la sua fama iniziò a terrorizzare i comandanti dei vascelli che solcavano il mar dei Caraibi; e la fama di Barbanera aumentò quando attaccò anche dei porti importanti, come quelli di Charleston, o di città delle Bahamas e della costa della Carolina.
Una fama di pirata crudele e spietato; le voci che si raccontavano sul suo conto lo dipingevano come un uomo duro e inflessibile, che chiedeva ai suoi uomini una dedizione totale, imposta con una disciplina ferrea.
Pare che Teach usasse spesso la pistola a bordo, sparando alle gambe dei marinai che non obbedivano con prontezza ai suoi ordini; beveva rum mescolato a polvere da sparo, e durante gli abbordaggi si dice che bruciasse della polvere da sparo attorno ai capelli, per sembrare avvolto dal fumo.
Nel 1718 Woodes Rogers, Governatore di Nassau e delle Bahamas, per porre un freno alla dilagante attività dei pirati, propose un’amnistia incondizionata; Barbanera rifiutò, preferendo continuare nelle sue scorrerie sul mare.
Ma il pirata aveva i giorni contati: il governatore della Virginia Alexander Spotwood inviò il tenente di vascello Maynard, al comando della fregata Pearl, in cerca di Teach, con l’ordine di prenderlo vivo o morto.
Nel novembre dello stesso anno, Maynard riuscì ad intercettare Barbanera mentre era alla fonda nella baia di Ocracoke; ne seguì una durissima battaglia, e i pirati vennero sconfitti.
L’ultimo ad arrendersi fu proprio Teach, che nonostante fosse stato ferito da un numero impressionante di pallottole, lottò sino allo stremo delle forze, cadendo solo perché crivellato di colpi.
Un marinaio della Pearl gli troncò di netto il capo, che venne issato, come ammonimento, sul pennone più alto della nave da guerra.
Moriva così, a soli 38 anni, uno dei pirati più spietati della storia, che nell’arco della sua breve vita era riuscito a catturare ben 140 tra navi e vascelli.
Nel marzo 2007 i responsabili del Queen Anne's Revenge Shipwreck Project hanno annunciato l'intenzione di recuperare la Queen Anne's Revenge entro tre anni. La nave si trova invece tuttora al largo delle coste del North Carolina ed attualmente è coperta di coralli.
Il 22 novembre 1718 muore durante un arrembaggio Edward Teach, meglio noto come il pirata Barbanera.
Una vita incredibile, rocambolesca, tante leggende sul suo nome.
A cominciare dalla nascita, avvenuta forse a Bristol, forse a Port Royale, e sempre con il condizionale, nell’anno di grazia 1680.
La cronaca della vita di Edward Teach, il pirata Barbanera, è stata una delle storie con i contorni così leggendari da rendere difficile una qualsiasi biografia sulla sua vita e sulle sue imprese.
Si sa pochissimo sulle sue prime imprese piratesche; si racconta che all’età di 26 anni si sia arruolato su una nave corsara giamaicana, e che abbia poi stretto alleanza con Benjamin Hornigold, un altro famoso corsaro, in combutta con il quale riuscì ad assaltare e depredare una ventina di navi francesi in pochi mesi.
Ben presto la sua fama iniziò a terrorizzare i comandanti dei vascelli che solcavano il mar dei Caraibi; e la fama di Barbanera aumentò quando attaccò anche dei porti importanti, come quelli di Charleston, o di città delle Bahamas e della costa della Carolina.
Una fama di pirata crudele e spietato; le voci che si raccontavano sul suo conto lo dipingevano come un uomo duro e inflessibile, che chiedeva ai suoi uomini una dedizione totale, imposta con una disciplina ferrea.
Pare che Teach usasse spesso la pistola a bordo, sparando alle gambe dei marinai che non obbedivano con prontezza ai suoi ordini; beveva rum mescolato a polvere da sparo, e durante gli abbordaggi si dice che bruciasse della polvere da sparo attorno ai capelli, per sembrare avvolto dal fumo.
Nel 1718 Woodes Rogers, Governatore di Nassau e delle Bahamas, per porre un freno alla dilagante attività dei pirati, propose un’amnistia incondizionata; Barbanera rifiutò, preferendo continuare nelle sue scorrerie sul mare.
Ma il pirata aveva i giorni contati: il governatore della Virginia Alexander Spotwood inviò il tenente di vascello Maynard, al comando della fregata Pearl, in cerca di Teach, con l’ordine di prenderlo vivo o morto.
Nel novembre dello stesso anno, Maynard riuscì ad intercettare Barbanera mentre era alla fonda nella baia di Ocracoke; ne seguì una durissima battaglia, e i pirati vennero sconfitti.
L’ultimo ad arrendersi fu proprio Teach, che nonostante fosse stato ferito da un numero impressionante di pallottole, lottò sino allo stremo delle forze, cadendo solo perché crivellato di colpi.
Un marinaio della Pearl gli troncò di netto il capo, che venne issato, come ammonimento, sul pennone più alto della nave da guerra.
Moriva così, a soli 38 anni, uno dei pirati più spietati della storia, che nell’arco della sua breve vita era riuscito a catturare ben 140 tra navi e vascelli.
Nel marzo 2007 i responsabili del Queen Anne's Revenge Shipwreck Project hanno annunciato l'intenzione di recuperare la Queen Anne's Revenge entro tre anni. La nave si trova invece tuttora al largo delle coste del North Carolina ed attualmente è coperta di coralli.
martedì 21 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 novembre.
Il 21 novembre 1980 il telefilm Dallas raggiunge la punta più alta di ascolti in assoluto: riguardava il tentato omicidio di J.R.
In un bellissimo ranch di Southfork, si combinano losche trame d'affari con rovesci di fortuna, intrighi, sfrenate passioni, più o meno improbabili colpi di scena, vissuti dalla famiglia Ewing i cui membri sono sicuramente glamour e spregiudicati.
La storia inizia con il fondatore della Ewing Oil, e patriarca di casa Ewing, Jock (Jim Davis), vecchio cowboy molto in gamba, che ha macchinato trame contro il suo socio di un tempo, Digger Barnes (David Wayne, poi sostituito da Keenan Wynn) per allontanarlo dalla compagnia e per scippargli l’amore di Miss Ellie (Barbara Bel Geddes) che si rivelerà una madre dolce, ma non tenera.
I coniugi Ewing hanno tre figli maschi: J.R, Gary (David Ackroyd) e Bobby (Patrick Duffy). J.R.Ewing (Larry Hagman) è un petroliere perfido e senza scrupoli, avido di potere e disposto ad ogni azione pur di mantenerlo, in particolare contro la famiglia rivale, i Barnes, ma anche ai danni dei suoi familiari. Indossa sempre il tipico copricapo texano (che ora è conservato al Smithsonian’s National Museum of American History) sotto il quale lanciano sguardi freddi due occhi di ghiaccio.
E' stato il miglior cattivo della storia dei telefilm e da una indagine risulta essere uno dei primi 5 volti che vengono in mente quando si parla di anni 80.
Molto famosa fu anche sua moglie, la curatissima Sue Ellen ( Linda Gray), che i tradimenti del marito fanno diventare alcolizzata. Trascurata dal marito, si innamora del suo eterno rivale Cliff Barnes (Ken Kercheval), ma ha un figlio di J.R, chiamato John Ross Ewing III. Sue Ellen lascia più volte J.R e si innamora di diversi uomini, ma con nessuno ha storie durature. Icona di stile, fu molto ammirata dal pubblico femminile.
Molto importante nello svolgimento della vicenda familiare è anche il personaggio di Bobby (Patrick Duffy), il fratello minore e buono di J.R. Egli alla fine dell’ottava stagione venne ucciso, ma i fans si infuriarono per questa decisione e calarono vertiginosamente gli ascolti, tanto che gli autori furono costretti ad un clamoroso stratagemma.
Fecero intendere che quella vicenda era stata solo un sogno di Pamela, mentre Bobby era in realtà vivo e vegeto e così la trama fu riportata indietro, annullando tutto quanto accaduto nella nona stagione.
Pamela (Victoria Principal) ne è appunto la moglie, rivale in bellezza e glamour di Sue Ellen, ma che cerca di mediare la rivalità tra le due famiglie.
Steve Kanaly interpretava Ray Krebbs-Ewing, mezzadro a Southfork Ranch che nel corso della serie scoprì di essere il figlio illegittimo di Jock Ewing, e quindi fratello di J.R. e Bobby.Dallas ha rappresentato il punto più alto della carriera di attore di Kanaly.
Il suo ruolo nella serie gli fruttò tre Soap Opera Digest Awards.
A concludere la presentazione della famiglia Ewing manca solo Lucy (Charlene Tilton) giovane ragazza, talvolta impertinente, figlia di Gary e quindi nipote di Jok ed Ellie.
Ken Kercheval ha interpretato in tutte le stagioni di Dallas il ruolo di Cliff Barnes, membro della principale famiglia rivale degli Ewing, nonché acerrimo nemico di J.R.
In Italia la serie è andata in onda dal 4 febbraio al 28 aprile 1981 su Rai Uno, che ha trasmesso la miniserie e i primi episodi della prima stagione ma il telefilm passò pressoché inosservato anche per l'errata messa in onda degli episodi da parte della Rai che ne compromise la narrativa. Pochi mesi dopo gli episodi successivi vennero acquistati e mandati in onda da Canale 5, che ha fatto della serie uno dei suoi cavalli di battaglia nella guerra dell'audience degli anni ottanta.
Dallas è stata una delle prime serie ad essere distribuite in quasi tutto il mondo. È stata tradotta e doppiata in 67 lingue diverse in più di 90 nazioni, un record per la televisione americana ancora imbattuto. Fra i tanti episodi trasmessi, il più famoso rimane sicuramente quello dell'attentato a J.R. e l'episodio in cui si svelava il colpevole fu seguito in America da più di 83 milioni di persone, con uno share del 76%. Sebbene battuto poi in patria dall'episodio finale di M*A*S*H, rimane l'episodio di una serie più visto nel mondo con 360 milioni di spettatori al suo attivo. Le vicende della serie televisiva Dallas sono proseguite in due film per la televisione: Dallas: il ritorno di J.R. (Dallas: J.R. Returns) (1996) e Dallas: La guerra degli Ewing (Dallas: War of the Ewings) (1998). Esiste anche il film tv L'alba di Dallas (Dallas: The Early Years) (1986), in cui vengono narrate le vicende dei protagonisti da giovani.
Per il 2012 la TNT ha prodotto un sequel dall'omonimo titolo: Dallas. Nel cast sono presenti come protagonisti gli storici Larry Hagman, Patrick Duffy e Linda Gray, mentre con un ruolo minore sono presenti altri personaggi storici del cast come Charlene Tilton, Ken Kercheval e Steve Kanaly. La serie trasmessa a giugno negli Stati Uniti è stata seguita da quasi 7 milioni di telespettatori, cifra record per la TNT. In Italia è andata in onda a partire dal 16 ottobre (dello stesso anno) sempre nelle reti Mediaset.
La miniserie fu girata interamente a Dallas e nei sobborghi della città durante uno degli inverni più freddi della storia. Sebbene nella zona raramente ci fossero nevicate, nel febbraio di quell'anno una forte tempesta di neve costrinse gli sceneggiatori ad apportare dei cambiamenti alla storia. A causa del grande freddo, Charlene Tilton fu colpita da una fortissima influenza, e i produttori furono quasi costretti a rimaneggiare profondamente il personaggio di Lucy Ewing.
Il Cloyce Box Ranch, il vero Southfork Ranch, presso il quale fu girata la miniserie, è andato distrutto durante un incendio. La produzione della serie fu costretta ad abbandonare la location su richiesta del vero proprietario del ranch, stanco soprattutto della grande attenzione dei media locali. La produzione quindi si trasferì al Duncan Acres, dove fu girata tutta la serie. Comunque, dalla miniserie in poi, tutta l'area circostante il Cloyce Box Ranch è diventata una delle zone a maggiore sviluppo urbano.
Il Duncan Acres, che fu poi ribattezzato Southfork Ranch, oggi è un polo di attrazione per molti turisti. Si trova a Parker, una periferia a nord di Dallas. Sebbene in un episodio di Dallas fu affermato che il Southfork Ranch fosse di 100.000 acri, il Duncan Acres arrivava a malapena a 100 acri. Inoltre, durante le ultime stagioni della serie, una serie di costruzioni cominciarono a circondare il ranch. Per questo motivo, la produzione fu costretta a girare solo nel retro dell'edificio. Durante le ultime due stagioni, comunque, gli esterni non furono più girati al Duncan Acres, ma in studio dove fu ricostruita parte del ranch. Inoltre, per gli interni non fu mai usato il Duncan Acres, perché gli interni erano troppo modesti per una famiglia agiata come gli Ewing. Al suo posto, fu usata una "mansion" a Turtle Creek.
Fino alla metà della seconda stagione, la serie fu girata interamente a Dallas, al Duncan Acres e al Turtle Creek. Man mano che gli ascolti salivano, la produzione principale fu spostata a Los Angeles, dove furono ricostruiti in studio gli esterni del Duncan Acres e gli interni del Turtle Creek. Per dare comunque maggiore autenticità al telefilm, la produzione si recava a Dallas tutte le estati (intorno a luglio) dove girava, per circa otto settimane, scene che solitamente venivano inserite nella serie nelle puntate di novembre. Lo stesso proprietario del Duncan Acres dava la possibilità di girare nel suo ranch solo nei mesi estivi, per evitare distrazioni ai suoi figli durante i mesi di scuola. Solo le ultime due stagioni vennero girate totalmente in studio (ad eccezione delle scene della morte di April, che vennero girate a Parigi).
Uno sciopero del Writers Guild of America nel 1980 creò non pochi problemi alla produzione, soprattutto per quanto riguarda la rivelazione del nome di chi aveva sparato a J.R. A causa di questo sciopero, alcune parti della scena in questione furono girate durante la location annuale al Duncan Acres (per es. l'arrivo di Sue Ellen a Southfork per affrontare Kristen). Mentre la scena in cui Kristen rivela di essere lei la colpevole fu girata al "falso" Southfork molti mesi dopo la location a Dallas, appena qualche settimana prima la sua messa in onda, a novembre. I produttori, inoltre, pensarono di girare anche dei falsi finali del giallo per ingannare la stampa e i curiosi, in cui si davano per colpevoli svariati personaggi, inclusa Miss Ellie.
Sebbene il Duncan Acres fosse di modesta grandezza, nel corso della serie, il Southfork Ranch si ingrandiva sempre di più. Così, nel "cliffhanger" della quinta stagione, gli sceneggiatori pensarono bene di far scoppiare un incendio nel ranch per poi poterne ricostruire in studio una versione "allargata", soprattutto per quanto riguardavano gli interni. Così il salotto, la scalinata e il pianerottolo del primo piano furono ampliati, mentre furono creati ex novo una cucina più grande, una sorta di palestra e diverse stanze da letto.
Il 21 novembre 1980 il telefilm Dallas raggiunge la punta più alta di ascolti in assoluto: riguardava il tentato omicidio di J.R.
In un bellissimo ranch di Southfork, si combinano losche trame d'affari con rovesci di fortuna, intrighi, sfrenate passioni, più o meno improbabili colpi di scena, vissuti dalla famiglia Ewing i cui membri sono sicuramente glamour e spregiudicati.
La storia inizia con il fondatore della Ewing Oil, e patriarca di casa Ewing, Jock (Jim Davis), vecchio cowboy molto in gamba, che ha macchinato trame contro il suo socio di un tempo, Digger Barnes (David Wayne, poi sostituito da Keenan Wynn) per allontanarlo dalla compagnia e per scippargli l’amore di Miss Ellie (Barbara Bel Geddes) che si rivelerà una madre dolce, ma non tenera.
I coniugi Ewing hanno tre figli maschi: J.R, Gary (David Ackroyd) e Bobby (Patrick Duffy). J.R.Ewing (Larry Hagman) è un petroliere perfido e senza scrupoli, avido di potere e disposto ad ogni azione pur di mantenerlo, in particolare contro la famiglia rivale, i Barnes, ma anche ai danni dei suoi familiari. Indossa sempre il tipico copricapo texano (che ora è conservato al Smithsonian’s National Museum of American History) sotto il quale lanciano sguardi freddi due occhi di ghiaccio.
E' stato il miglior cattivo della storia dei telefilm e da una indagine risulta essere uno dei primi 5 volti che vengono in mente quando si parla di anni 80.
Molto famosa fu anche sua moglie, la curatissima Sue Ellen ( Linda Gray), che i tradimenti del marito fanno diventare alcolizzata. Trascurata dal marito, si innamora del suo eterno rivale Cliff Barnes (Ken Kercheval), ma ha un figlio di J.R, chiamato John Ross Ewing III. Sue Ellen lascia più volte J.R e si innamora di diversi uomini, ma con nessuno ha storie durature. Icona di stile, fu molto ammirata dal pubblico femminile.
Molto importante nello svolgimento della vicenda familiare è anche il personaggio di Bobby (Patrick Duffy), il fratello minore e buono di J.R. Egli alla fine dell’ottava stagione venne ucciso, ma i fans si infuriarono per questa decisione e calarono vertiginosamente gli ascolti, tanto che gli autori furono costretti ad un clamoroso stratagemma.
Fecero intendere che quella vicenda era stata solo un sogno di Pamela, mentre Bobby era in realtà vivo e vegeto e così la trama fu riportata indietro, annullando tutto quanto accaduto nella nona stagione.
Pamela (Victoria Principal) ne è appunto la moglie, rivale in bellezza e glamour di Sue Ellen, ma che cerca di mediare la rivalità tra le due famiglie.
Steve Kanaly interpretava Ray Krebbs-Ewing, mezzadro a Southfork Ranch che nel corso della serie scoprì di essere il figlio illegittimo di Jock Ewing, e quindi fratello di J.R. e Bobby.Dallas ha rappresentato il punto più alto della carriera di attore di Kanaly.
Il suo ruolo nella serie gli fruttò tre Soap Opera Digest Awards.
A concludere la presentazione della famiglia Ewing manca solo Lucy (Charlene Tilton) giovane ragazza, talvolta impertinente, figlia di Gary e quindi nipote di Jok ed Ellie.
Ken Kercheval ha interpretato in tutte le stagioni di Dallas il ruolo di Cliff Barnes, membro della principale famiglia rivale degli Ewing, nonché acerrimo nemico di J.R.
In Italia la serie è andata in onda dal 4 febbraio al 28 aprile 1981 su Rai Uno, che ha trasmesso la miniserie e i primi episodi della prima stagione ma il telefilm passò pressoché inosservato anche per l'errata messa in onda degli episodi da parte della Rai che ne compromise la narrativa. Pochi mesi dopo gli episodi successivi vennero acquistati e mandati in onda da Canale 5, che ha fatto della serie uno dei suoi cavalli di battaglia nella guerra dell'audience degli anni ottanta.
Dallas è stata una delle prime serie ad essere distribuite in quasi tutto il mondo. È stata tradotta e doppiata in 67 lingue diverse in più di 90 nazioni, un record per la televisione americana ancora imbattuto. Fra i tanti episodi trasmessi, il più famoso rimane sicuramente quello dell'attentato a J.R. e l'episodio in cui si svelava il colpevole fu seguito in America da più di 83 milioni di persone, con uno share del 76%. Sebbene battuto poi in patria dall'episodio finale di M*A*S*H, rimane l'episodio di una serie più visto nel mondo con 360 milioni di spettatori al suo attivo. Le vicende della serie televisiva Dallas sono proseguite in due film per la televisione: Dallas: il ritorno di J.R. (Dallas: J.R. Returns) (1996) e Dallas: La guerra degli Ewing (Dallas: War of the Ewings) (1998). Esiste anche il film tv L'alba di Dallas (Dallas: The Early Years) (1986), in cui vengono narrate le vicende dei protagonisti da giovani.
Per il 2012 la TNT ha prodotto un sequel dall'omonimo titolo: Dallas. Nel cast sono presenti come protagonisti gli storici Larry Hagman, Patrick Duffy e Linda Gray, mentre con un ruolo minore sono presenti altri personaggi storici del cast come Charlene Tilton, Ken Kercheval e Steve Kanaly. La serie trasmessa a giugno negli Stati Uniti è stata seguita da quasi 7 milioni di telespettatori, cifra record per la TNT. In Italia è andata in onda a partire dal 16 ottobre (dello stesso anno) sempre nelle reti Mediaset.
La miniserie fu girata interamente a Dallas e nei sobborghi della città durante uno degli inverni più freddi della storia. Sebbene nella zona raramente ci fossero nevicate, nel febbraio di quell'anno una forte tempesta di neve costrinse gli sceneggiatori ad apportare dei cambiamenti alla storia. A causa del grande freddo, Charlene Tilton fu colpita da una fortissima influenza, e i produttori furono quasi costretti a rimaneggiare profondamente il personaggio di Lucy Ewing.
Il Cloyce Box Ranch, il vero Southfork Ranch, presso il quale fu girata la miniserie, è andato distrutto durante un incendio. La produzione della serie fu costretta ad abbandonare la location su richiesta del vero proprietario del ranch, stanco soprattutto della grande attenzione dei media locali. La produzione quindi si trasferì al Duncan Acres, dove fu girata tutta la serie. Comunque, dalla miniserie in poi, tutta l'area circostante il Cloyce Box Ranch è diventata una delle zone a maggiore sviluppo urbano.
Il Duncan Acres, che fu poi ribattezzato Southfork Ranch, oggi è un polo di attrazione per molti turisti. Si trova a Parker, una periferia a nord di Dallas. Sebbene in un episodio di Dallas fu affermato che il Southfork Ranch fosse di 100.000 acri, il Duncan Acres arrivava a malapena a 100 acri. Inoltre, durante le ultime stagioni della serie, una serie di costruzioni cominciarono a circondare il ranch. Per questo motivo, la produzione fu costretta a girare solo nel retro dell'edificio. Durante le ultime due stagioni, comunque, gli esterni non furono più girati al Duncan Acres, ma in studio dove fu ricostruita parte del ranch. Inoltre, per gli interni non fu mai usato il Duncan Acres, perché gli interni erano troppo modesti per una famiglia agiata come gli Ewing. Al suo posto, fu usata una "mansion" a Turtle Creek.
Fino alla metà della seconda stagione, la serie fu girata interamente a Dallas, al Duncan Acres e al Turtle Creek. Man mano che gli ascolti salivano, la produzione principale fu spostata a Los Angeles, dove furono ricostruiti in studio gli esterni del Duncan Acres e gli interni del Turtle Creek. Per dare comunque maggiore autenticità al telefilm, la produzione si recava a Dallas tutte le estati (intorno a luglio) dove girava, per circa otto settimane, scene che solitamente venivano inserite nella serie nelle puntate di novembre. Lo stesso proprietario del Duncan Acres dava la possibilità di girare nel suo ranch solo nei mesi estivi, per evitare distrazioni ai suoi figli durante i mesi di scuola. Solo le ultime due stagioni vennero girate totalmente in studio (ad eccezione delle scene della morte di April, che vennero girate a Parigi).
Uno sciopero del Writers Guild of America nel 1980 creò non pochi problemi alla produzione, soprattutto per quanto riguarda la rivelazione del nome di chi aveva sparato a J.R. A causa di questo sciopero, alcune parti della scena in questione furono girate durante la location annuale al Duncan Acres (per es. l'arrivo di Sue Ellen a Southfork per affrontare Kristen). Mentre la scena in cui Kristen rivela di essere lei la colpevole fu girata al "falso" Southfork molti mesi dopo la location a Dallas, appena qualche settimana prima la sua messa in onda, a novembre. I produttori, inoltre, pensarono di girare anche dei falsi finali del giallo per ingannare la stampa e i curiosi, in cui si davano per colpevoli svariati personaggi, inclusa Miss Ellie.
Sebbene il Duncan Acres fosse di modesta grandezza, nel corso della serie, il Southfork Ranch si ingrandiva sempre di più. Così, nel "cliffhanger" della quinta stagione, gli sceneggiatori pensarono bene di far scoppiare un incendio nel ranch per poi poterne ricostruire in studio una versione "allargata", soprattutto per quanto riguardavano gli interni. Così il salotto, la scalinata e il pianerottolo del primo piano furono ampliati, mentre furono creati ex novo una cucina più grande, una sorta di palestra e diverse stanze da letto.
lunedì 20 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 novembre.
Il 20 novembre 2003 Michael Jackson viene arrestato per molestie su minori.
Definito il "Re del pop" e "eterno Peter Pan" della musica leggera, Michael Joseph Jackson nasce il 29 agosto 1958 nella città di Gary, Indiana (USA). Di famiglia non certo benestante, Michael è fin dall'infanzia interessato alla musica, come del resto tutti gli altri componenti (la madre cantava frequentemente, il padre suonava la chitarra in una piccola band R&B), mentre i suoi fratelli maggiori lo accompagnavano suonando e cantando.
Joseph Jackson, il padre-padrone della famiglia, intuendo il talento dei figli, decide di costituire un gruppo: mai intuizione si rivelò più azzeccata.
I neonati "Jackson Five", aiutati dalla musica estremamente ritmica e coinvolgente, guidati dallo scatenato Michael passano velocemente dai piccoli show locali a un contratto con la leggendaria etichetta discografica "Motown". Realizzeranno qualcosa come quindici album (di cui quattro vedevano protagonista assoluto Michael Jackson come cantante solista) in soli sette anni, scalando le classifiche e sostenendo affollati tour.
Michael registra anche alcuni album da solista con la Motown, ma nel 1975, a causa della limitata libertà artistica concessagli, il gruppo decide di non rinnovare il contratto e scegliere una nuova etichetta. Tutti, tranne Jermaine, il quale decide di continuare a registrare album per la stessa etichetta.
Siglato un accordo con la Epic, i "Jackson Five" diventano semplicemente i "Jacksons" (il marchio e il nome del gruppo erano stati registrati dalla Motown), anche se ormai il successo sembra averli abbandonati.
Michael decide di intraprendere la carriera solista e nel 1978, partecipa come attore alle riprese del film "The Wiz", con Diana Ross, del quale incide anche la colonna sonora (partecipando in ben quattro canzoni, fra cui "You Can't Win" e "Easy on down on the road"); durante le registrazioni della colonna sonora del film conosce il leggendario Quincy Jones. Nel 1979 decide di collaborare con l'amico Quincy Jones, noto tuttofare nell'ambito R&B, registra il primo album solista per la Epic Records/CBS, "Off the Wall" (Con la Motown aveva già registrato ben quattro album come solista).
Il disco oscura il declino dei Jacksons, raggiungendo la vetta delle classifiche americane e del mondo intero. La strada per l'exploit successivo, quello che lo farà entrare nella storia come autore dell'album più venduto di sempre, è segnata. Dopo essersi riunito ai fratelli per un altro album e tour, Michael Jackson realizza il secondo album solista: "Thriller".
Siamo nel 1982 e servirà almeno un decennio per smaltire l'orgia dance che il disco "Thriller" ha prodotto. L'album rimane in cima alle classifiche per 37 settimane e ad oggi ha venduto oltre 40 milioni di copie. Celeberrimo è anche diventato l'innovativo video di lancio dell'omonimo singolo "Thriller", un videoclip di quindici minuti diretto dal regista cinematografico John Landis.
Nonostante il nuovo status da superstar, Jackson ancora una volta si esibisce con i fratelli nel 1984 (Victory Tour), evento che spinge qualcuno degli altri membri di famiglia alla carriera solista (come le sorelle Janet Jackson e La Toya Jackson).
Intanto, il sempre più paranoico Michael compra un enorme ranch in California, ribattezzato "Neverland", attrezzandolo a parco giochi e invitando ragazzi sempre più piccoli a visitarlo e rimanere ospiti da lui.
La sua propensione per la chirurgia plastica e comportamenti talvolta bizzarri (come indossare mascherine mediche in pubblico) fanno di lui un bersaglio gradito per i tabloid di tutto il mondo. Inoltre la sua riluttanza a concedere interviste aumenta inevitabilmente l'interesse sulla sua vita, dando adito a "leggende metropolitane" come quella secondo cui la star dormirebbe in una sorta di camera iperbarica.
Nel 1985 acquista la ATV Publishing, che possiede i diritti di molte canzoni dei Beatles (oltre a materiale di Elvis Presley, Little Richard e altri), una mossa che a quanto sembra ha rovinato i suoi rapporti con Paul McCartney.
Lo stesso anno Michael è promotore insieme a Lionel Richie del progetto "We are the world", un singolo i cui proventi sono destinati ai bambini africani; all'interpretazione partecipano le più grandi stelle USA della canzone: il successo è planetario.
Nel 1987 esce l'attesissimo album Bad che, sebbene raggiunga facilmente la vetta delle classifiche internazionali (vendendo in breve tempo ben 28 milioni di copie), fallisce nel tentativo di raggiungere il successo di "Thriller".
Segue un altro tour mondiale ma i suoi concerti vengono criticati per l'uso del playback.
Nel 1991 "Dangerous" è un altro successo, nonostante la concorrenza con "Nevermind" dei Nirvana, che segna il distacco dal pop al "grunge" per la MTV Generation. Negli USA l'immagine di Michael Jackson viene pesantemente ridimensionata dalle voci di improbabili molestie ai minori.
Nel 1992 Michael Jackson fu querelato per plagio da Albano Carrisi: il cantante italiano infatti, ritenendo che il brano Will You Be There del 1991 fosse un plagio di I cigni di Balaka, canzone di Albano Carrisi & Romina Power del 1987, denunciò Michael Jackson.
A seguito di ciò, l'album Dangerous (nel quale era incluso il brano in questione) venne sequestrato in tutta Italia dalla pretura civile di Roma, con un'ordinanza del 21 dicembre del 1994 revocata in seguito dalla prima sezione del Tribunale; dopo aver espresso la sua disponibilità ad essere interrogato in merito in Italia, Jackson nel 1997 si presentò al processo in corso a Roma, nell'aula numero cinque della Pretura di piazzale Clodio, rispondendo alle domande delle due parti.
I periti stabilirono che le due canzoni avevano 37 note di seguito identiche nel ritornello e quindi il plagio sussisteva; Jackson venne condannato a pagare quattro milioni di lire (circa duemila euro) di multa, ma non venne esaudita la richiesta di Albano Carrisi di ricevere come indennizzo per i danni subiti cinque miliardi di lire. La sentenza successiva della Corte di appello civile di Milano stabilì infine che entrambi i cantanti si erano ispirati a un brano popolare indiano, non protetto da copyright (Bless You for Being an Angel) e Albano fu tenuto a sostenere tutte le spese legali che, come riportato dalla biografia di Michael, si accollò poi Jackson con la promessa di realizzare un concerto insieme a favore dei bambini maltrattati nel mondo. Il concerto non ebbe mai luogo in quanto poco dopo Michael Jackson fu colpito dalle accuse di pedofilia.
L'amore di Jackson per i bambini è noto, ma le sue continue, troppe attenzioni generano sospetti a non finire, regolarmente corroborati, nel 1993, dalla denuncia di un bambino "amico" del cantante, che lo accusa di molestie. Il fatto si risolve con un accordo tra Jackson e l'accusatore (il padre del piccolo).
Nel tentativo di dare fondamento alla sua "normalità", il 26 maggio 1994 si unisce in matrimonio con Lisa Marie Presley, figlia del grande Elvis. Purtroppo, il matrimonio naufraga solo due anni dopo, anche se Jackson rimedia celermente sposando la sua infermiera che fra l'altro darà alla luce il primo figlio di Michael Jackson nel febbraio 1997.
Non si ferma neanche la voglia di fare musica ed ecco che nel frattempo esce "History", accompagnato come di consueto da un'enorme campagna promozionale, tra cui video di statue enormi di Jackson che vagano per le strade d'Europa. L'album è doppio e consiste in un disco di "greatest hits" e in uno di materiale nuovo, tra cui il singolo "Scream" (in duetto con la sorella Janet) e la canzone "They don't care about us" che diventa oggetto di controversie per i testi ritenuti da alcuni anti-semiti e quindi successivamente modificati. L'uscita viene supportata da un'altra tournée. Il blitz multimediale viene scalato per il successivo e più recente disco del 1997, "Blood on the dance floor".
Michael Jackson viene inserito nella Rock'n'Roll Hall of fame nel marzo 2001. Lo stesso anno viene organizzato un mega concerto al NYC 's Madison Square Garden per celebrare i 30 anni di carriera.
Oltre ai tributi in suo onore da Whitney Houston, Britney Spears, 'N Sync e Liza Minnelli (sua carissima amica), il concerto vede la partecipazione dei Jacksons, insieme sul palco dopo quasi 20 anni. Lo spettacolo, già sold-out, viene trasmesso dalla CBS e batte tutti i precedenti record di ascolto con oltre 25.000.000 di telespettatori.
Subito dopo il secondo concerto la città di New York viene sconvolta dalla tragedia delle Twin Towers.
Michael decide di reagire a questo duro colpo scrivendo una canzone dedicata alle vittime di quella tragedia. Raccoglie intorno a sé 40 star (Celine Dion, Shakira, Mariah Carey, Backstreet Boys, Santana) e registra il brano "What More Can I Give?" (Accompagnato da una versione in lingua spagnola dal titolo "Todo para ti", che vede la partecipazione fra gli altri anche di Laura Pausini).
Il 25 ottobre 2001 Michael e i suoi migliori amici si riuniscono a Whashington per un concerto benefico durante il quale viene presentata ufficialmente la canzone All-Star per le vittime delle Torri Gemelle.
Nell'ottobre 2001 viene pubblicato "Invincible", che contiene il singolo "You rock my world" accompagnato da un clip che, nella tradizione di Jackson, vede l'apparizione cameo di Marlon Brando e altre canzoni che vedono l'apparizione di grandi star della musica come Carlos Santana nella canzone "Whatever happens".
Nel novembre del 2003 esce la raccolta di successi "Number ones", ma anche la notizia che Michael Jackson dovrà essere arrestato per accuse plurime di molestie a bambini, con la possibilità di pagare una cauzione di tre milioni di dollari.
Il processo si conclude il 14 giugno 2005, dopo che la giuria del tribunale di Santa Maria lo dichiara non colpevole, per tutti e dieci i capi di accusa che lo vedevano imputato.
Dopo la chiusura del Neverland ranch, dopo presunti problemi di salute, con molti debiti da evadere e dopo molto tempo lontano dalle scene, nel mese di marzo del 2009 torna in pubblico organizzando a Londra una conferenza stampa per presentare il suo nuovo tour mondiale che proprio dalla capitale britannica avrebbe dovuto partire a luglio. Ma il tour non sarebbe mai iniziato: Michael Jackson muore improvvisamente a causa di un infarto, nella sua casa di Los Angeles il 25 giugno successivo, a 51 anni non ancora compiuti.
A poche settimane di distanza dal fatto si parla sempre più di un caso di omicidio, perpetrato ai danni del cantante dal suo medico personale, il quale gli avrebbe somministrato una dose letale di anestetico. L'ipotesi viene poi ufficializzata all'inizio del 2010.
Il 7 novembre 2011, dopo quarantanove testimonianze e sei settimane di udienze relative al processo Murray, i dodici giurati riunirono in camera di consiglio, in una sala del tribunale di Downtown Los Angeles, e ne uscirono dopo nove ore con una sentenza unanime: il medico Conrad Murray venne riconosciuto colpevole per la morte di Michael Jackson e condannato per omicidio colposo a quattro anni di carcere, reo di aver somministrato al cantante, poche ore prima della sua morte, un anestetico chirurgico che dovrebbe essere somministrato esclusivamente in ospedale. Questa è la massima pena prevista in California per questo genere di reato. Il giudice Pastor decise di infliggerla in quanto definì le pratiche che Murray esercitava su Jackson “pazzia medica”, "esperimenti in medicina che non possono essere tollerati" e ritenne che l'aspetto più intollerante del comportamento di Murray in tutta questa vicenda fu ed è la totale mancanza di senso di colpa e rimorso per quanto accaduto.
Il corpo di Michael Jackson riposa al Forest Lawn Memorial Park di Los Angeles, il cimitero delle celebrità.
Il 20 novembre 2003 Michael Jackson viene arrestato per molestie su minori.
Definito il "Re del pop" e "eterno Peter Pan" della musica leggera, Michael Joseph Jackson nasce il 29 agosto 1958 nella città di Gary, Indiana (USA). Di famiglia non certo benestante, Michael è fin dall'infanzia interessato alla musica, come del resto tutti gli altri componenti (la madre cantava frequentemente, il padre suonava la chitarra in una piccola band R&B), mentre i suoi fratelli maggiori lo accompagnavano suonando e cantando.
Joseph Jackson, il padre-padrone della famiglia, intuendo il talento dei figli, decide di costituire un gruppo: mai intuizione si rivelò più azzeccata.
I neonati "Jackson Five", aiutati dalla musica estremamente ritmica e coinvolgente, guidati dallo scatenato Michael passano velocemente dai piccoli show locali a un contratto con la leggendaria etichetta discografica "Motown". Realizzeranno qualcosa come quindici album (di cui quattro vedevano protagonista assoluto Michael Jackson come cantante solista) in soli sette anni, scalando le classifiche e sostenendo affollati tour.
Michael registra anche alcuni album da solista con la Motown, ma nel 1975, a causa della limitata libertà artistica concessagli, il gruppo decide di non rinnovare il contratto e scegliere una nuova etichetta. Tutti, tranne Jermaine, il quale decide di continuare a registrare album per la stessa etichetta.
Siglato un accordo con la Epic, i "Jackson Five" diventano semplicemente i "Jacksons" (il marchio e il nome del gruppo erano stati registrati dalla Motown), anche se ormai il successo sembra averli abbandonati.
Michael decide di intraprendere la carriera solista e nel 1978, partecipa come attore alle riprese del film "The Wiz", con Diana Ross, del quale incide anche la colonna sonora (partecipando in ben quattro canzoni, fra cui "You Can't Win" e "Easy on down on the road"); durante le registrazioni della colonna sonora del film conosce il leggendario Quincy Jones. Nel 1979 decide di collaborare con l'amico Quincy Jones, noto tuttofare nell'ambito R&B, registra il primo album solista per la Epic Records/CBS, "Off the Wall" (Con la Motown aveva già registrato ben quattro album come solista).
Il disco oscura il declino dei Jacksons, raggiungendo la vetta delle classifiche americane e del mondo intero. La strada per l'exploit successivo, quello che lo farà entrare nella storia come autore dell'album più venduto di sempre, è segnata. Dopo essersi riunito ai fratelli per un altro album e tour, Michael Jackson realizza il secondo album solista: "Thriller".
Siamo nel 1982 e servirà almeno un decennio per smaltire l'orgia dance che il disco "Thriller" ha prodotto. L'album rimane in cima alle classifiche per 37 settimane e ad oggi ha venduto oltre 40 milioni di copie. Celeberrimo è anche diventato l'innovativo video di lancio dell'omonimo singolo "Thriller", un videoclip di quindici minuti diretto dal regista cinematografico John Landis.
Nonostante il nuovo status da superstar, Jackson ancora una volta si esibisce con i fratelli nel 1984 (Victory Tour), evento che spinge qualcuno degli altri membri di famiglia alla carriera solista (come le sorelle Janet Jackson e La Toya Jackson).
Intanto, il sempre più paranoico Michael compra un enorme ranch in California, ribattezzato "Neverland", attrezzandolo a parco giochi e invitando ragazzi sempre più piccoli a visitarlo e rimanere ospiti da lui.
La sua propensione per la chirurgia plastica e comportamenti talvolta bizzarri (come indossare mascherine mediche in pubblico) fanno di lui un bersaglio gradito per i tabloid di tutto il mondo. Inoltre la sua riluttanza a concedere interviste aumenta inevitabilmente l'interesse sulla sua vita, dando adito a "leggende metropolitane" come quella secondo cui la star dormirebbe in una sorta di camera iperbarica.
Nel 1985 acquista la ATV Publishing, che possiede i diritti di molte canzoni dei Beatles (oltre a materiale di Elvis Presley, Little Richard e altri), una mossa che a quanto sembra ha rovinato i suoi rapporti con Paul McCartney.
Lo stesso anno Michael è promotore insieme a Lionel Richie del progetto "We are the world", un singolo i cui proventi sono destinati ai bambini africani; all'interpretazione partecipano le più grandi stelle USA della canzone: il successo è planetario.
Nel 1987 esce l'attesissimo album Bad che, sebbene raggiunga facilmente la vetta delle classifiche internazionali (vendendo in breve tempo ben 28 milioni di copie), fallisce nel tentativo di raggiungere il successo di "Thriller".
Segue un altro tour mondiale ma i suoi concerti vengono criticati per l'uso del playback.
Nel 1991 "Dangerous" è un altro successo, nonostante la concorrenza con "Nevermind" dei Nirvana, che segna il distacco dal pop al "grunge" per la MTV Generation. Negli USA l'immagine di Michael Jackson viene pesantemente ridimensionata dalle voci di improbabili molestie ai minori.
Nel 1992 Michael Jackson fu querelato per plagio da Albano Carrisi: il cantante italiano infatti, ritenendo che il brano Will You Be There del 1991 fosse un plagio di I cigni di Balaka, canzone di Albano Carrisi & Romina Power del 1987, denunciò Michael Jackson.
A seguito di ciò, l'album Dangerous (nel quale era incluso il brano in questione) venne sequestrato in tutta Italia dalla pretura civile di Roma, con un'ordinanza del 21 dicembre del 1994 revocata in seguito dalla prima sezione del Tribunale; dopo aver espresso la sua disponibilità ad essere interrogato in merito in Italia, Jackson nel 1997 si presentò al processo in corso a Roma, nell'aula numero cinque della Pretura di piazzale Clodio, rispondendo alle domande delle due parti.
I periti stabilirono che le due canzoni avevano 37 note di seguito identiche nel ritornello e quindi il plagio sussisteva; Jackson venne condannato a pagare quattro milioni di lire (circa duemila euro) di multa, ma non venne esaudita la richiesta di Albano Carrisi di ricevere come indennizzo per i danni subiti cinque miliardi di lire. La sentenza successiva della Corte di appello civile di Milano stabilì infine che entrambi i cantanti si erano ispirati a un brano popolare indiano, non protetto da copyright (Bless You for Being an Angel) e Albano fu tenuto a sostenere tutte le spese legali che, come riportato dalla biografia di Michael, si accollò poi Jackson con la promessa di realizzare un concerto insieme a favore dei bambini maltrattati nel mondo. Il concerto non ebbe mai luogo in quanto poco dopo Michael Jackson fu colpito dalle accuse di pedofilia.
L'amore di Jackson per i bambini è noto, ma le sue continue, troppe attenzioni generano sospetti a non finire, regolarmente corroborati, nel 1993, dalla denuncia di un bambino "amico" del cantante, che lo accusa di molestie. Il fatto si risolve con un accordo tra Jackson e l'accusatore (il padre del piccolo).
Nel tentativo di dare fondamento alla sua "normalità", il 26 maggio 1994 si unisce in matrimonio con Lisa Marie Presley, figlia del grande Elvis. Purtroppo, il matrimonio naufraga solo due anni dopo, anche se Jackson rimedia celermente sposando la sua infermiera che fra l'altro darà alla luce il primo figlio di Michael Jackson nel febbraio 1997.
Non si ferma neanche la voglia di fare musica ed ecco che nel frattempo esce "History", accompagnato come di consueto da un'enorme campagna promozionale, tra cui video di statue enormi di Jackson che vagano per le strade d'Europa. L'album è doppio e consiste in un disco di "greatest hits" e in uno di materiale nuovo, tra cui il singolo "Scream" (in duetto con la sorella Janet) e la canzone "They don't care about us" che diventa oggetto di controversie per i testi ritenuti da alcuni anti-semiti e quindi successivamente modificati. L'uscita viene supportata da un'altra tournée. Il blitz multimediale viene scalato per il successivo e più recente disco del 1997, "Blood on the dance floor".
Michael Jackson viene inserito nella Rock'n'Roll Hall of fame nel marzo 2001. Lo stesso anno viene organizzato un mega concerto al NYC 's Madison Square Garden per celebrare i 30 anni di carriera.
Oltre ai tributi in suo onore da Whitney Houston, Britney Spears, 'N Sync e Liza Minnelli (sua carissima amica), il concerto vede la partecipazione dei Jacksons, insieme sul palco dopo quasi 20 anni. Lo spettacolo, già sold-out, viene trasmesso dalla CBS e batte tutti i precedenti record di ascolto con oltre 25.000.000 di telespettatori.
Subito dopo il secondo concerto la città di New York viene sconvolta dalla tragedia delle Twin Towers.
Michael decide di reagire a questo duro colpo scrivendo una canzone dedicata alle vittime di quella tragedia. Raccoglie intorno a sé 40 star (Celine Dion, Shakira, Mariah Carey, Backstreet Boys, Santana) e registra il brano "What More Can I Give?" (Accompagnato da una versione in lingua spagnola dal titolo "Todo para ti", che vede la partecipazione fra gli altri anche di Laura Pausini).
Il 25 ottobre 2001 Michael e i suoi migliori amici si riuniscono a Whashington per un concerto benefico durante il quale viene presentata ufficialmente la canzone All-Star per le vittime delle Torri Gemelle.
Nell'ottobre 2001 viene pubblicato "Invincible", che contiene il singolo "You rock my world" accompagnato da un clip che, nella tradizione di Jackson, vede l'apparizione cameo di Marlon Brando e altre canzoni che vedono l'apparizione di grandi star della musica come Carlos Santana nella canzone "Whatever happens".
Nel novembre del 2003 esce la raccolta di successi "Number ones", ma anche la notizia che Michael Jackson dovrà essere arrestato per accuse plurime di molestie a bambini, con la possibilità di pagare una cauzione di tre milioni di dollari.
Il processo si conclude il 14 giugno 2005, dopo che la giuria del tribunale di Santa Maria lo dichiara non colpevole, per tutti e dieci i capi di accusa che lo vedevano imputato.
Dopo la chiusura del Neverland ranch, dopo presunti problemi di salute, con molti debiti da evadere e dopo molto tempo lontano dalle scene, nel mese di marzo del 2009 torna in pubblico organizzando a Londra una conferenza stampa per presentare il suo nuovo tour mondiale che proprio dalla capitale britannica avrebbe dovuto partire a luglio. Ma il tour non sarebbe mai iniziato: Michael Jackson muore improvvisamente a causa di un infarto, nella sua casa di Los Angeles il 25 giugno successivo, a 51 anni non ancora compiuti.
A poche settimane di distanza dal fatto si parla sempre più di un caso di omicidio, perpetrato ai danni del cantante dal suo medico personale, il quale gli avrebbe somministrato una dose letale di anestetico. L'ipotesi viene poi ufficializzata all'inizio del 2010.
Il 7 novembre 2011, dopo quarantanove testimonianze e sei settimane di udienze relative al processo Murray, i dodici giurati riunirono in camera di consiglio, in una sala del tribunale di Downtown Los Angeles, e ne uscirono dopo nove ore con una sentenza unanime: il medico Conrad Murray venne riconosciuto colpevole per la morte di Michael Jackson e condannato per omicidio colposo a quattro anni di carcere, reo di aver somministrato al cantante, poche ore prima della sua morte, un anestetico chirurgico che dovrebbe essere somministrato esclusivamente in ospedale. Questa è la massima pena prevista in California per questo genere di reato. Il giudice Pastor decise di infliggerla in quanto definì le pratiche che Murray esercitava su Jackson “pazzia medica”, "esperimenti in medicina che non possono essere tollerati" e ritenne che l'aspetto più intollerante del comportamento di Murray in tutta questa vicenda fu ed è la totale mancanza di senso di colpa e rimorso per quanto accaduto.
Il corpo di Michael Jackson riposa al Forest Lawn Memorial Park di Los Angeles, il cimitero delle celebrità.
domenica 19 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 novembre.
Il 19 novembre 1942 nasce a New York Calvin Klein, figlio di ungheresi ebrei.
Dopo aver imparato le prime nozioni di sartoria in qualità di autodidatta, iniziando a cucire e tagliare la stoffa, ha frequentato la Scuola d'Arte e di Design e il celebre Fashion Institute of Technology della Grande Mela (dove, tuttavia, non ottiene la laurea: conseguirà solamente un dottorato ad honorem nel 2003); dopodiché, inizia a lavorare come stilista nel 1962, facendo praticantato per cinque anni in diverse boutique della metropoli, compreso l'atelier di Dan Millstein.
Nel frattempo sposa Jayne Centre, che gli darà una figlia, Marci (che diventerà nota come Talent Producer nel programma comico "Saturday Night Live", in onda sulla Nbc). Poco dopo, fonda la sua compagnia, e grazie alla protezione di Baron de Gunzburg diventa progressivamente famoso sulla scena nazionale e internazionale, complice il lancio della sua collezione di cappotti femminili. Nei primi anni Settanta dà vita, invece, alla famosa linea di jeans attillati, che vengono pubblicizzati, tra l'altro, da una promettente non ancora adolescente: Brooke Shields.
Nel 1974 divorzia da Jayne, mentre quattro anni più tardi sua figlia Marci viene rapita e tenuta in ostaggio per nove ore: in cambio, i delinquenti che l'hanno sottratta chiedono un riscatto di 100mila dollari. Verranno arrestati in seguito.
Nel 1987 si sposa nuovamente, questa volta con una dipendente di Calvin Klein Inc., Kelly Rector. Divorzierà anche da lei, nel 2006. In seguito, inizia una relazione - nel 2010 - con la pornostar Nick Gruber, dal quale si separa nell'aprile del 2012 quando il giovane toy boy entra in riabilitazione.
Klein non è l'unico stilista cresciuto nella comunità del Bronx di immigrati ebrei: tra gli altri, si segnalano Ralph Lauren e Robert Denning. La sua moda da sempre punta sulla semplicità minimalista dell'abbigliamento sportivo, senza rinunciare, tuttavia, alla tradizione tipica del lusso americano. I suoi outfits coniugano giacche, blazer e camicie dai colori neutri con pantaloni unisex larghi, ma si configura come rivoluzionaria: non è un caso che abbia ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il "Best Menswear designer award" e il "Best womenswear".
Nel corso della sua carriera, Calvin Klein è apparso due volte come guest star di telefilm: nell'episodio "The Pick" della serie "Seinfeld", e nell'episodio "The Bubble" della serie "30 Rock".
Il 19 novembre 1942 nasce a New York Calvin Klein, figlio di ungheresi ebrei.
Dopo aver imparato le prime nozioni di sartoria in qualità di autodidatta, iniziando a cucire e tagliare la stoffa, ha frequentato la Scuola d'Arte e di Design e il celebre Fashion Institute of Technology della Grande Mela (dove, tuttavia, non ottiene la laurea: conseguirà solamente un dottorato ad honorem nel 2003); dopodiché, inizia a lavorare come stilista nel 1962, facendo praticantato per cinque anni in diverse boutique della metropoli, compreso l'atelier di Dan Millstein.
Nel frattempo sposa Jayne Centre, che gli darà una figlia, Marci (che diventerà nota come Talent Producer nel programma comico "Saturday Night Live", in onda sulla Nbc). Poco dopo, fonda la sua compagnia, e grazie alla protezione di Baron de Gunzburg diventa progressivamente famoso sulla scena nazionale e internazionale, complice il lancio della sua collezione di cappotti femminili. Nei primi anni Settanta dà vita, invece, alla famosa linea di jeans attillati, che vengono pubblicizzati, tra l'altro, da una promettente non ancora adolescente: Brooke Shields.
Nel 1974 divorzia da Jayne, mentre quattro anni più tardi sua figlia Marci viene rapita e tenuta in ostaggio per nove ore: in cambio, i delinquenti che l'hanno sottratta chiedono un riscatto di 100mila dollari. Verranno arrestati in seguito.
Nel 1987 si sposa nuovamente, questa volta con una dipendente di Calvin Klein Inc., Kelly Rector. Divorzierà anche da lei, nel 2006. In seguito, inizia una relazione - nel 2010 - con la pornostar Nick Gruber, dal quale si separa nell'aprile del 2012 quando il giovane toy boy entra in riabilitazione.
Klein non è l'unico stilista cresciuto nella comunità del Bronx di immigrati ebrei: tra gli altri, si segnalano Ralph Lauren e Robert Denning. La sua moda da sempre punta sulla semplicità minimalista dell'abbigliamento sportivo, senza rinunciare, tuttavia, alla tradizione tipica del lusso americano. I suoi outfits coniugano giacche, blazer e camicie dai colori neutri con pantaloni unisex larghi, ma si configura come rivoluzionaria: non è un caso che abbia ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il "Best Menswear designer award" e il "Best womenswear".
Nel corso della sua carriera, Calvin Klein è apparso due volte come guest star di telefilm: nell'episodio "The Pick" della serie "Seinfeld", e nell'episodio "The Bubble" della serie "30 Rock".
sabato 18 novembre 2023
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 novembre.
Il 18 novembre 1940 Hitler e Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri di Mussolini, si incontrano per discutere della fallimentare invasione della Grecia da parte delle truppe italiane.
Nel 1940 l’obiettivo di Mussolini era di avere un nemico da sconfiggere in modo da poter avviare la cosiddetta "guerra parallela" alla Germania; egli, infatti, voleva dimostrare a Hitler (che prendeva le decisioni sull’andamento della guerra senza preventivamente consultarlo) che l'Italia doveva essere considerata potenza militare, politica ed economica di uguale importanza a quella tedesca. Per poter raggiungere il suo scopo, però, aveva bisogno di un avversario militarmente alla sua portata.
Questo avversario sembrava essere la Grecia (governata dal dittatore Joannis Metaxas) in quanto era geograficamente vicina e sembrava avere forze armate deboli, una classe politica poco disposta a battersi e una popolazione poco interessata agli eventi nazionali. Inoltre vi erano già da un po’ dei motivi di contrasto con i greci:
All’inizio della prima guerra mondiale gli stati dell’Intesa avevano promesso a Grecia ed Italia delle sfere d'influenza nelle stesse zone dell’Asia Minore, ma, durante i trattati di pace finali, i greci erano riusciti ad ottenere larghissime concessioni tutte a danno degli italiani;
Vi era l’occupazione italiana dell’Albania (8 aprile 1939); essa era sgradita ai greci che consideravano invece ellenica tutta la sua zona meridionale fino ad Argirocastro. Essi temevano, soprattutto, che questa occupazione fosse l’ultimo passo prima di un attacco vero e proprio alla Grecia stessa; nella politica di Mussolini, infatti, c’erano un progetto per la conquista di Corfù e uno per l’occupazione dell’Epiro. Entrambi i piani però erano stati studiati solo superficialmente senza mai essere approfonditi;
Vi era la questione del Dodecaneso, conquistato dagli italiani in seguito alla guerra con la Turchia ma abitato da una popolazione prevalentemente greca.
Il 16 agosto 1939 Mussolini, adirato per il fatto che i greci cercassero la protezione dell’Inghilterra dopo l’occupazione italiana dell’Albania, ordinò al capo di Stato maggiore Generale, Pietro Badoglio, di elaborare un piano per l’invasione della Grecia. Il generale Alfredo Guzzoni, a sua volta incaricato della cosa, lo mise a punto in soli tre giorni, riadattando un vecchio piano da lui stesso preparato; in questo piano si prevedeva l’utilizzo di 18 divisioni (divise in 6 corpi d’Armata) di cui 12 avrebbero puntato su Salonicco, tre su Gianina e tre avrebbero presidiato la frontiera con la Jugoslavia. Guzzoni, però, per attuarlo chiedeva almeno un anno di preparazione e la presenza di tutte le divisioni richieste in Albania prima dell’attacco nonché lavori alle strade e ai porti. L’allora sottosegretario alla Guerra Alberto Pariani consigliò che le 18 divisioni previste fossero incrementate a venti.
Già l’11 settembre 1939, però, Mussolini, che cambiava continuamente idea, fece sapere all’ambasciatore italiano ad Atene Emanuele Grazzi che “La Grecia non è sulla nostra strada e noi non vogliamo nulla dalla Grecia. Ho piena fiducia in Metaxas che ha riportato l’ordine nel suo paese” . Il 20 settembre ribadiva a Guzzoni che “della guerra contro la Grecia non se ne fa più nulla. La Grecia è un osso spolpato, e non vale la pena che perdiamo anche uno solo dei nostri granatieri di Sardegna” . Nonostante le assicurazioni italiane, la Grecia non si sentiva tranquilla ed il generale Papagos cominciò a prendere delle misure volte a contenere un eventuale attacco italiano.
Quando l’Italia entrò in guerra, Mussolini rivolse ai paesi neutrali un appello: “Io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare nel conflitto altri popoli con essa confinanti per terra e per mare. Svizzera Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole. Dipende da loro e soltanto da loro se esse saranno o no rigorosamente confermate” . Metaxas credette alla buona fede di Mussolini e, incontrando Grazzi, gli confermò che “la Grecia è fortemente decisa a conservare la più stretta neutralità” e che “la Grecia è decisa a difendersi con le armi e l’Inghilterra è stata informata di tale decisione” . A gettare benzina sul fuoco ci pensò il governatore delle isole italiane nell’Egeo, De Vecchi, che continuava ad inviare a Roma segnalazioni che gli aerei inglesi usavano la Grecia per rifornire le proprie navi.
Mussolini si infuriò e la propaganda italiana iniziò ad indirizzare l’opinione pubblica verso una possibile azione militare contro la Grecia fornendo prove e accuse circa la non buona fede dei greci che, a parole, dicevano neutralità assoluta e, nei fatti, aiutavano gli inglesi. Ovviamente tutto questo non era vero ma serviva a trovare una giustificazione per scatenare il conflitto.
Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop non voleva assolutamente che scoppiasse un conflitto con un paese amico quale era la Grecia perché temeva, ed a ragione, che questo avrebbe aperto le porte ad un intervento inglese e quindi ad un insediamento di forze britanniche nel sud dell’Europa con la conseguenza di rendere più pericoloso il Mediterraneo. Ciano rispondeva a Ribbentrop che “con la Grecia stiamo portando la vertenza su un piano diplomatico e ci limitiamo a rinforzare con altre divisioni le attuali sei che presidiano l’Albania” .
Il 4 ottobre Hitler e Mussolini si incontrarono al Brennero ed il Führer gli ribadì la sua contrarietà a un intervento italiano nei Balcani; secondo le sue previsioni, infatti, i nazisti avrebbero presto invaso l’Inghilterra e la pace sarebbe tornata in Europa. Mussolini, rassicurato, decise di sospendere i piani d'invasione.
L’11 ottobre i tedeschi informarono Mussolini di aver accolto la richiesta di protezione del governo rumeno inviando proprie truppe a difesa del bacino petrolifero di Ploesti. Un'ennesima iniziativa militare fu quindi presa da Hitler senza consultare il Duce. Mussolini era indignato: "Hitler mi mette sempre di fronte al fatto compiuto. Questa volta lo pago della stessa moneta: saprà dai giornali che ho occupato la Grecia. Così l'equilibrio verrà ristabilito” . Fu in quei giorni che l'idea di attaccare la Grecia prese definitivamente corpo; la decisione fu favorita anche da altri motivi: il regime era in declino, la guerra si stava prolungando più di quel che si prevedeva e i risultati erano ben al di sotto delle aspettative. La battaglia sulle Alpi con la Francia e la guerra in Africa con l’Inghilterra, infatti, si stavano rivelando un insuccesso e c’era quindi un bisogno estremo di un successo militare che facesse tornare la fiducia all’opinione pubblica.
Il 15 ottobre il Duce convocò una riunione a Palazzo Venezia: erano presenti Ciano, Badoglio (capo di Stato Maggiore Generale), Jacomoni (ambasciatore in Albania), Soddu (sottosegretario alla Guerra), Visconti Prasca (comandante delle truppe in Albania) e Roatta (sottocapo di Stato Maggiore). Erano assenti, invece, Cavagnari e Pricolo, rispettivamente capo di Stato Maggiore della Marina e dell'Aeronautica. In questa riunione venne decisa, in maniera del tutto inadeguata, la futura campagna di Grecia. Il Duce disse che “Lo scopo di questa riunione è quello di definire le modalità dell’azione (nel suo carattere generale) che ho deciso di iniziare contro la Grecia. Questa azione, in un primo tempo, deve avere obiettivi di carattere marittimo e di carattere territoriale. Gli obiettivi di carattere territoriale ci debbono portare alla presa di possesso di tutta la costa meridionale albanese, quelli cioè che ci devono dare la occupazione delle isole ioniche (Zante, Cefalonia, Corfù) e la conquista di Salonicco. Quando noi avremo raggiunto questi obiettivi, avremo migliorato le nostre posizioni nel Mediterraneo nei confronti dell’Inghilterra. In un secondo tempo, o in concomitanza di queste azioni, l’occupazione integrale della Grecia, per metterla fuori combattimento e per assicurarci che in ogni circostanza rimarrà nel nostro spazio politico economico. Precisata così la questione, ho stabilito anche la data, che a mio parere non può essere ritardata neanche di un’ora: cioè il 26 di questo mese. Questa è un’azione che ho maturata lungamente da mesi e mesi; prima della nostra partecipazione alla guerra e anche prima dell’inizio del conflitto… Aggiungo che non vedo complicazioni al nord. La Jugoslavia ha tutto l’interesse di stare tranquilla… Complicazioni di carattere turco le escludo, specialmente da quando la Germania si è impiantata in Romania e da quando la Bulgaria si è rafforzata. Essa può costituire una pedina nel nostro gioco, e io farò i passi necessari perché non perda questa occasione unica per il raggiungimento delle sue aspirazioni sulla Macedonia e per lo sbocco al mare…” .
La gelosia tra le varie forze armate contribuì al fallimento dell’impresa; infatti, fin dall'inizio, l'Esercito aveva la presunzione di fare tutto da solo, lasciando all'aviazione e alla marina ruoli secondari, tanto da non metterli neppure al corrente di quello che si andava preparando. Il risultato fu che la marina si trovò in difficoltà nell'organizzare in fretta e furia il trasporto delle truppe e la protezione dei convogli, mentre l'aeronautica dovette allestire in fretta dei campi di volo in Albania (che risultarono di fatto sempre impraticabili) in modo da potervi schierare gli aerei necessari.
Hitler venne tenuto all'oscuro di tutto per precisa scelta di Mussolini che voleva avere una vittoria solo italiana da mettergli sotto il naso nel loro prossimo incontro.
Nessuno dei presenti alla riunione osò opporsi alla decisione di Mussolini di invadere la Grecia. Nessuno si assunse la responsabilità delle proprie opinioni e tutti puntarono sulla facile vittoria.
I greci, intanto, di fronte alla politica ostile del governo italiano, non se ne stettero con le mani in mano e iniziarono a mobilitare le loro forze armate. Erano in una situazione difficile poiché, oltre alla possibilità di un attacco italiano, dovevano fronteggiare anche la minaccia bulgara che rivendicava da tempo uno sbocco sull'Egeo. Metaxas non volle assumere atteggiamenti che potessero essere considerati provocatori: la mobilitazione fu massiccia, ma, mediante un abile stratagemma, riuscì a mascherare la preparazione in corso.
Non era comunque facile per loro predisporre un piano difensivo: infatti la morfologia del paese, per un terzo insulare e con migliaia di chilometri di coste, avrebbe causato una gran dispersione di forze. Ma l'insistenza con cui l’Italia fomentava l’irredentismo ciamuriota e il continuo parlare degli sbarchi di truppe in Albania indicarono ai greci, come molto probabile, un'azione militare nemica verso l'Epiro e, di conseguenza, il loro dispositivo difensivo si organizzò in tal senso. L'Italia preparò, quindi, la sua guerra preavvertendo l’avversario delle sue mosse ed indicandogli addirittura il luogo dell'attacco, rinunciando in partenza alla sorpresa. Segreto e rapidità evidentemente erano doti sconosciute al nostro governo ed ai nostri vertici militari.
In Albania vi erano solo otto divisioni italiane (più alcuni reggimenti), che vennero inquadrate in quattro nuclei sotto il comando di Sebastiano Visconti Prasca:
Il XXV Corpo d'Armata "Ciamuria" (25.000 uomini), comprendente una divisione corazzata e due divisioni di fanteria, con il compito offensivo di penetrazione in Epiro;
Il XXVI Corpo d'Armata (43.000 uomini), composto di quattro divisioni di fanteria, con compiti prevalentemente difensivi lungo il confine della Macedonia occidentale;
La divisione alpina "Julia" (10.000 uomini), attestata a ridosso della catena montuosa del Pindo, a cerniera dello schieramento tra i due Corpi d'Armata;
Il "Raggruppamento del Litorale" (5.000 uomini), schierato lungo la costa, composto di due reggimenti di cavalleria, uno di artiglieria, uno di Granatieri di Sardegna ed un battaglione di Camicie Nere. In pratica, un'altra divisione.
L’Italia dispone, in totale, di circa centomila uomini, alle cui spalle vi erano linee di comunicazione difficili via mare. Il nemico, invece, era ben organizzato: aveva già mobilitato le sue forze, era stato provocato ed aizzato, conosceva le nostre probabili direttrici di marcia e poteva arrivare a radunare fino a diciotto divisioni.
I due eserciti erano analoghi per armamento ed addestramento. Solo in due settori gli italiani erano superiori: nelle forze corazzate e nella superiorità aerea. La divisione corazzata (la "Centauro"), però, aveva un organico di 5.000 uomini con 24 pezzi di artiglieria, 8 cannoncini anticarro e 170 carri leggeri, una forza d'urto quindi molto limitata e nemmeno paragonabile a quelle tedeschi e inglesi. In più i carri, nel pantano fangoso in cui spesso si sarebbero trovati, servivano a poco o niente.
L’aeronautica in Albania disponeva in tutto di circa 400 apparecchi, molti però inadeguati (come i caccia Cr32) e scarsamente efficienti. Comunque, nel complesso, di fronte ad un'aviazione debole come quella greca, quella italiana poteva considerarsi agguerritissima.
Anche a livello di marine non c’era paragone. La Marina ellenica disponeva di poche ed antiquate unità ed il compito di contrastare la Regia Marina era tutto nelle mani degli inglesi. L'apporto della marina italiana, però, in una guerra prevalentemente terrestre, si rivelò modesto per due motivi: il primo fu la decisione di non effettuare uno sbarco nell'isola di Corfù, rinunciando a quella che sarebbe stata forse l'unica mossa azzeccata dell'intera campagna; il secondo fu l'insufficiente capacità di sbarco dei porti albanesi. Oltre a questo, i problemi furono aggravati dalla scarsità di naviglio mercantile e dalla disorganizzazione generale delle forze armate.
Da parte greca, in totale, erano schierati 53 battaglioni (sotto il comando del generale Alexandros Papagos), di cui 20 fra il lago di Prespa e il monte Grammos, 3 sul Pindo, 19 in Epiro e 11 di riserva. In Macedonia, invece, si stava completando il dispiegamento di una divisione di cavalleria, della 1ª divisione di fanteria e della 5ª brigata.
Alle 3 del mattino del 28 ottobre 1940 l’ambasciatore italiano ad Atene Emanuele Grazzi consegnò l’ultimatum al dittatore greco Metaxas; esso conteneva l'accusa alla Grecia di essere venuta meno al suo status di nazione neutrale e di schierarsi apertamente con l'Inghilterra; si esigeva anche di occupare, per tutta la durata del conflitto, alcune zone del territorio greco, ritenute di importanza strategica, con lo scopo di impedire agli inglesi il controllo del Mediterraneo. Metaxas chiese a Grazzi quali fossero questi punti strategici ma il diplomatico ammise, con un certo imbarazzo, che non li conosceva…(!).
Ci fu anche un tentativo di corrompere alcuni uomini politici greci (con uno stanziamento di circa sei milioni di lire) ma questo fallì e non diede risultati concreti.
"Donc, c'est la guerre" rispose il dittatore greco e, alla fine, respinse sdegnosamente l’ultimatum.
Prima dell’inizio dell’attacco italiano Metaxàs andò dall’ambasciatore inglese perché inoltrasse all’ammiraglio Cunningham la richiesta di schierare la flotta a difesa di Corfù e del Peloponneso; egli infatti temeva uno sbarco italiano in questa zona dato che la resistenza che avrebbe potuto contrapporre sarebbe stata molto debole.
L’offensiva di Mussolini iniziò alle 6 del mattino del 28 ottobre. Cinque ore più tardi Mussolini e Hitler si incontrarono alla stazione Santa Maria Novella di Firenze. Solo quando fu a Bologna il Fuhrer apprese “dai giornali”, come voleva Mussolini, dell’attacco italiano in Grecia.
Sul fronte dell’Epiro l’offensiva doveva svolgersi facendo avanzare le ali: a sinistra la divisione "Julia" doveva risalire la Voiussa e raggiungere il passo di Metsovo per separare le truppe greche dell'Epiro da quelle della Macedonia; a destra il Raggruppamento del litorale doveva puntare su Prevesa in modo da creare l’impressione di un accerchiamento; al centro, invece, la "Ferrara" doveva dirigersi verso Gianina e la "Siena" verso Filiates; infine, una parte della "Centauro”, insieme alla "Ferrara", doveva attaccare il nodo di Kalibaki.
Sul versante sinistro la divisione "Julia" partì decisamente verso il passo di Metsovo, distante oltre 80 km. Alle basi di Erseke e Leskoviku furono lasciati corredo, bagagli, cucine ufficiali, oggetti di equipaggiamento, e portati al seguito viveri per soli cinque giorni. Il terreno reso fangoso dalle piogge incessanti, l'attraversamento del fiume Sarandaporos in piena e la resistenza di alcuni reparti greci ritardarono l'avanzata italiana.
Alla fine del 28 ottobre i battaglioni Gemona e Cividale dell'ottavo Reggimento occuparono il monte Stavros mentre, il giorno 31, l'ottavo Alpini si impossessò del nodo di Furka ed il nono raggiunse le pendici dello Smolika. I soldati italiani dovevano affrontare marce dure, freddo intenso e piogge fitte; l’artiglieria non riusciva a tenere il passo della fanteria e l’aviazione non poté intervenire nella battaglia.
Con l’occupazione del monte Stavros, per i greci si creava una minaccia di separazione delle forze schierate sul Pindo da quelle schierate nella Macedonia occidentale; ordinarono, quindi, l’afflusso sul Pindo di tutte le truppe più vicine per prepararle alla difesa della Tessaglia lungo la direttrice Gianina – Metsovo - Trikkala.
Nel settore macedone gli italiani non si mossero e stettero sulla difensiva.
Sul versante destro, invece, il Raggruppamento del litorale e la divisione "Siena" raggiunsero in poche ore il fiume Kalamas che, con il fondo melmoso, le forti correnti e le sponde ripide, si rivelò inguadabile. Solamente il 5 novembre riuscirono a essere gettati due ponti con cui far passare le due unità e stabilire un collegamento regolare tra le due sponde; alla fine, nel tardo pomeriggio del 7, il Kalamas fu oltrepassato e gli italiani formarono un’ampia testa di ponte che andava da Varfani al mare.
Il 3° granatieri procedette verso sud e i lancieri "Aosta" e "Milano" si spinsero fino a Paramithiá e Margariti. Il giorno 7, però, venne loro ordinato di fermarsi, sostare sul Kalamas e rientrare all’interno della testa di ponte.
Questo ordine di ripiegamento era dovuto allo sfavorevole andamento delle operazioni al centro dove il corpo d'armata “Ciamuria” aveva attaccato insieme alla "Ferrara" e alla "Siena" (tenendo di riserva la "Centauro").
Una colonna della "Ferrara" si impossessò del Ponte di Perati prima che i greci lo facessero saltare e gli altri reparti di fanteria lo attraversarono per procedere oltre, ma le strade interrotte, i ponti distrutti e la resistenza dei greci rallentarono la marcia e spezzettarono le colonne d'attacco in molti tronconi ai quali la "Centauro" cedette, poco alla volta, gran parte dei suoi mezzi. Il 31 ottobre il corpo d'armata iniziò a scontrarsi con la linea di resistenza greca Kalibaki-Kalamas che gli italiani, privi di artiglierie (rimaste attardate per i trasporti resi difficili dal terreno pantanoso dovuto alle continue piogge), all’inizio non riuscirono a sfondare.
Il primo di novembre iniziò l’offensiva greca in Macedonia occidentale. Gli obiettivi del generale Papagos erano raggiungere la linea del Devol e la piana di Coriza. I greci attaccarono alle 8 del mattino: in caso di conseguimento degli obiettivi essi avrebbero minacciato tutto lo schieramento italiano dell’Epiro di accerchiamento. I loro attacchi furono sostenuti dall’aviazione che si distinse in bombardamenti, mitragliamenti e in ricognizioni sui movimenti delle truppe italiane. La divisione alpina Julia venne attaccata da sette divisioni greche nei pressi del passo di Metsovo. Le divisioni Parma, Piemonte, Venezia e Arezzo (le ultime due arrivate dal confine iugoslavo) furono anch'esse travolte.
La divisione "Bari" sbarcò a Valona con organici ridotti ma, invece che nel Corciano dov'era destinata, dovette impegnare i suoi battaglioni, man mano che arrivavano, nel tentativo di tamponare la falla che stava per aprirsi nella zona Erseke-Leskoviku-Konitsa. Anche la minuscola marina ellenica effettuò, sul basso Kalamas con un paio di piccole unità, il bombardamento di truppe italiane.
Il giorno 8, di fronte alla grave situazione che si era venuta a creare, il comando italiano diede l’ordine di ritirata. Le comunicazioni non funzionarono a dovere e la Julia viene sopraffatta da tre divisioni. I greci iniziavano ad entrare in territorio albanese e gli italiani non avevano riserve tattiche e strategiche.
Il 10, dopo aver commentato che "le cose non sono andate come si poteva pensare e come ci avevano fatto sperare il Luogotenente Generale per l'Albania e il generale Visconti Prasca" , Mussolini inviò in Albania il generale Ubaldo Soddu a sostituire lo stesso Visconti Prasca. Il 30 dello stesso mese quest’ultimo fu posto in congedo assoluto.
Soddu dovette riconoscere che l'offensiva era fallita e che il numero di truppe destinate alla campagna era inconsistente; inutili si rivelarono le sue speranze di mantenere, in Epiro, la testa di ponte oltre il Kalamas a destra e la zona Kalibaki-Konitsa a sinistra. Telegrafò a Roma che "Nostro attacco può ritenersi arrestato da resistenza nemica. Inutile sperare raggiungimento obiettivo senza altre divisioni" .
Un altro colpo negativo che l’Italia dovette subire per l’andamento del conflitto avvenne la notte dell'11 novembre quando un attacco di una ventina di aerosiluranti inglesi Swordfish (decollati dalla portaerei inglese Illustrious) mise fuori combattimento tre corazzate italiane (Littorio, Duilio e Cavour) ancorate nel porto di Taranto. La stessa notte, inoltre, un gruppo di incrociatori e cacciatorpediniere britannici affondò quattro navi mercantili nel Canale di Otranto.
Il 14 novembre i greci sferrarono una nuova offensiva. Papagos, infatti, ormai sicuro di avere arrestato la spinta italiana, aveva raccolto le sue forze per attaccare uno schieramento avversario molto sparpagliato su un ampio fronte. Il primo corpo era dislocato in Epiro, il secondo sul Pindo e il terzo nel Corciano. Di riserva vi erano 3 divisioni e una brigata di fanteria. Il primo corpo attaccò su tre direttrici, esattamente verso Ponte Perati, verso Kakavi e sul basso Kalamas, il secondo corpo si impadronì della zona Erseke Leskoviku ed il terzo aggirò il massiccio del Morova conquistando, il 22 novembre, Coriza.
L’offensiva greca mise in evidenza la disorganizzazione dei comandi italiani e la confusione delle retrovie; i servizi logistici erano carenti, mancavano viveri, medicine ed ospedali da campo. Alcuni reparti combatterono rabbiosamente, altri rimasero come storditi dal repentino capovolgimento di fronte.
I battaglioni di rinforzo, che man mano affluivano in prima linea, non cambiarono le sorti dei combattimenti ed i greci avevano riserve a sufficienza per mantenere il predominio. Mussolini cercò di risollevare il morale di un'opinione pubblica sempre più sgomenta, affermando, il 19 novembre in un famoso discorso alla radio, che le "Le aspre montagne dell'Epiro e le loro valli fangose non si prestano a guerre lampo come pretenderebbero gli incorruttibili che praticano la comoda strategia degli spilli sulle carte. Nessun atto, o parola mia o del governo l'ha fatto prevedere. Non credo che valga la pena di smentire tutte le notizie diramate dalla propaganda greca e dai suoi altoparlanti inglesi. .. C'é qualcuno fra di voi, o camerati, che ricorda l'inedito discorso di Eboli pronunciato nel luglio del 1935 prima della guerra etiopica? Dissi che avremmo spezzato le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia" .
Ma il giorno seguente al discorso Soddu dovette far arretrare il fronte ripiegando di una cinquantina di chilometri e lasciando al nemico una grossa fetta di territorio albanese. L'intero esercito greco avanzò procedendo senza resistenza e recuperando il materiale, tra cui vari carri L3, abbandonato dalle truppe italiane in ritirata.
Il bollettino di guerra del 22 novembre 1940 ammise praticamente il fallimento della campagna italiana: "Le nostre truppe di copertura, formate da due divisioni, che, all'inizio delle ostilità si erano attestate sulla difensiva al confine Greco-Albanese di Coriza, si sono ritirate, dopo 11 giorni di lotta, su una linea ad ovest della città, che è stata evacuata. Durante questo periodo si sono svolti aspri combattimenti. Le nostre perdite sono sensibili. Altrettante e forse più gravi quelle del nemico. Sulla nuova linea si concentrano i nostri rinforzi" .
L'impressione in Grecia e nel mondo fu enorme: i greci festeggiarono in tutto il paese, la "grande potenza" era stata sopraffatta da un piccolo paese; alla Camera dei comuni lord Halifax fece un elogio "all'eroico popolo greco" mentre, nella Parigi occupata, gli strilloni offrirono i giornali gridando "les grecs à Coriza, les italiens dans la merde"; al confine di Mentone, addirittura, i doganieri esposero un sarcastico cartello che recitava "Grecs, arretez-vous. Ici France!".
Ormai l’immagine delle forze armate italiane era compromessa. Hitler inviò a Mussolini una lettera nella quale elencava tutti gli errori italiani e scrisse che l'azione sarebbe dovuta essere "procrastinata a stagione più propizia" . Il Duce fu costretto a rispondere in tono conciliante, giustificando i primi insuccessi con il "maltempo che ha arrestato la marcia delle forze meccanizzate" , con la "defezione quasi totale delle forze albanesi" e con "l'atteggiamento della Bulgaria" . In pratica bastarono tre settimane per farlo desistere dai propositi di "guerra parallela" e per farlo pentire della decisione di aver voluto mettere Hitler di fronte al fatto compiuto.
Il 28 novembre i greci presero anche Pogradec e la crisi militare e politica del regime divenne gravissima.
La testa che cadde in seguito a questa crisi fu quella di Pietro Badoglio il quale, dopo un violento attacco che gli rivolse Farinacci sul suo giornale “Regime Fascista” e incapace di difendersi dalle accuse, prese quattro giorni di licenza e si ritirò nella sua casa. Scrisse la sua lettera di dimissioni pensando, in cuor suo, che Vittorio Emanuele III prendesse le sue difese, ma non fu così. Il giorno 29 Mussolini informò il re delle dimissioni di Badoglio ed egli si trovò d’accordo e non le respinse. Il 4 dicembre, il Duce si incontrò con Badoglio, gli fece un discorso umiliante e poi lo sostituì con il generale Ugo Cavallero.
Papagos, non rendendosi conto delle condizioni in cui si trovavano gli italiani, non intuì che sarebbe bastato un attacco deciso al centro del loro schieramento per dividere le lo truppe e puntare quindi su Valona e Tirana. Continuò, invece, effettuando piccoli attacchi (su tutto il fronte) ma non aveva la forza di sopraffare gli avversari.
La precarietà delle truppe italiane era evidente e il generale Soddu cominciò a pensare di ordinare un ripiegamento generale molto profondo, anche perché sapeva che l'avversario poteva immettere nuove forze nella battaglia mentre lui non aveva riserve). Dall’Italia arrivarono dei rinforzi (le divisioni Acqui, Tridentina, Gruppo Alpini Valle Taro, Pusteria) ma questi venivano mandati in battaglia non nella loro unità ma inviando singoli reparti dove si aveva più bisogno di truppe. Significativo fu quel che accadde alla divisione "Lupi di Toscana": fu lanciata, appena sbarcata e durante una notte di bufera, contro una formazione nemica che si muoveva in avanti in modo compatto; gli italiani si scompaginarono senza nemmeno rendersi conto di quello che stava accadendo.
I greci continuavano ad attaccare e gli italiani dovettero indietreggiare ancora di qualche chilometro. Soddu suggerì a Mussolini di “cercare una soluzione per via diplomatica" ma il Duce non ne volle sapere e rispose che "....sarebbe meglio andare tutti in prima linea a farsi ammazzare dai Greci, piuttosto che trattare con loro un armistizio…." .
Soddu mandò al Capo di Gabinetto alla Guerra una dura lettera che alla fine causò la sua destituzione. Scrisse che "La nostra linea è tenuta da truppe la cui capacità di reazione è ben scarsa. Da settimane, alcune da mesi, attendono il cambio, sempre promesso, che mai giunge .. Di fronte ad un attacco un po' nutrito possiamo essere sfondati in qualsiasi punto .. Il continuo precipitarsi quaggiù di "teste" di divisioni, nonché il guaio della "binaria" hanno fatto sì che l'Albania sia piena di comandi .. senza che in linea esista adeguato numero di combattenti, tanto che io proporrò tra poco che, senza mandarmi nuove grandi unità, mi si invii un terzo reggimento di divisione .. le truppe in linea sono sfinite, quelle che contrattaccano si logorano prima di essere al completo .. la linea è rimasta un velo. Se io logoro in contrattacchi le poche forze fresche che ho, chi resisterà poi al nuovo urto?"
Convocato a Roma, Soddu non tornò più in Albania: il suo incarico di comandante delle truppe operanti su quel fronte fu assunto dallo stesso Ugo Cavallero.
Quest’ultimo seppe affrontare la situazione con calma e portò un’ondata di attivismo in uno Stato maggiore demoralizzato; in breve tempo riuscì ad impiegare organicamente le divisioni che affluivano dall'Italia e a riorganizzare i rifornimenti.
Gli italiani, intanto, decisero di abbandonare una linea che copriva località di notevole valore politico come Permeti e Argirocastro (sgombrate rispettivamente il 4 e l'8 dicembre) ma che non davano sufficienti garanzie di stabilità.
Il mattino del 9 dicembre lo schieramento italiano si stendeva per 160 km di ampiezza (in linea d'aria) sul margine sud del ridotto meridionale albanese: lago di Ocrída-Klisura-Himare.
Mentre in Italia il disorientamento era enorme, in Grecia Metaxas era preoccupato: nonostante le vittorie che stava conseguendo sul campo, sapeva in cuor suo che queste sarebbero state alla fine inutili. Metaxas era malato e sentiva che la vittoria non poteva durare; era certo, infatti, che, prima o poi, i tedeschi avrebbero aiutato l’Italia e allora la sconfitta sarebbe stata inevitabile; per ora i tedeschi si limitavano solo a fornire una cinquantina di Ju 52 da trasporto per aiutare gli italiani nel trasporto dei rinforzi in Albania, ma non poteva durare così.
I combattimenti continuarono accaniti: i greci cercavano di raggiungere Berati e Valona ma conseguirono solo successi locali che culminarono, il 25 gennaio 1941, con la conquista di Klisura. Furono anche fermati circa 10 km a sud di Tepeleni. Alla fine di dicembre del 1940 il fronte aveva ormai acquistato un sufficiente stato di solidità.
Alla fine del 1940 l’esercito greco poteva disporre ancora di una buona superiorità di forze, perché, nonostante avesse praticamente sguarnita la frontiera con la Bulgaria, schierava sul fronte albanese 14 divisioni di fanteria, 1 di cavalleria e 2 brigate di fanteria. Gli italiani potevano contrapporre, invece, 12 divisioni di fanteria, 4 alpine e 1 corazzata, anche se bisogna tener presente la minor consistenza delle divisioni che non avevano ricevuto gli effettivi necessari per rimpiazzare le gravi perdite subite.
Gli italiani, però, avevano iniziato a migliorare le possibilità di sbarco sulle coste dell’Albania. Furono potenziati i porti di Durazzo e di Valona con la costruzione di pontili e l'invio di chiatte e di zatteroni ed inoltre fu utilizzato anche il piccolo ancoraggio di San Giovanni di Medua.
La media giornaliera di scarico, da meno di 2.000 tonnellate in dicembre, salì a 4.000 in marzo, grazie anche alla sostituzione del personale albanese totalmente inaffidabile.
La difesa contraerea guadagnò in efficienza e riuscì finalmente a proteggere i punti di sbarco, mentre la Marina aumentò la sua attività. Dopo il caos iniziale, i convogli diventarono regolari e poterono assicurare un rifornimento costante.
Vennero di conseguenza, tra novembre e marzo, inviate molte divisioni e, se anche solo la metà di queste fosse stata presente all'inizio del conflitto, l'andamento della guerra sarebbe stato molto diverso.
All’inizio del 1941 i greci erano ormai all’offensiva e attaccavano in direzione di Klisura (che fu evacuata dagli italiani), di Berat e di Valona; i combattimenti erano aspri e gli italiani non erano in grado di lanciare una controffensiva nonostante Mussolini ne facesse continua richiesta a Cavallero.
Per rimediare al fallimento italiano e venire in soccorso del suo alleato Hitler iniziò a organizzare “l’operazione Marita” per l’invasione e l’occupazione della Grecia; venuto a conoscenza della possibile invasione tedesca, Metaxas, che ormai era gravemente malato, cercò di avere aiuti da parte degli inglesi ma Wavell poté inviare solo un reggimento di artiglieria, uno contraereo e una sessantina di carri armati.
Metaxas morì il 29 gennaio. Gli successe Alexandros Koritzis, governatore della Banca Ellenica, che rinnovò subito agli inglesi la richiesta di maggiori rinforzi. Churchill temeva che i greci, se non aiutati con mezzi e truppe, potessero in qualche modo accordarsi coi tedeschi e inoltre riteneva che, con la conquista della penisola balcanica da parte di Hitler, la Turchia sarebbe potuta entrare nel conflitto a fianco dell’Asse; ordinò quindi a Wavell di inviare subito sul fronte greco tutte le forze non strettamente indispensabili in Cirenaica.
Il 23 febbraio Koritzis accettò ufficialmente l’aiuto della Gran Bretagna consistente in circa 100.000 uomini (anche se alla fine ne sbarcarono non più di 57.000), 240 pezzi di artiglieria, quasi 200 cannoni antiaerei e 142 carri armati; queste forze furono assegnate al comando del generale Henry Maitland Wilson che arrivò ad Atene il 28.
Il 9 marzo Cavallero, alla presenza di Mussolini nel frattempo giunto in Albania, lanciò un attacco nel settore tra Tomor e il fiume Voiussa ma, dopo quattro giorni di combattimento che causarono dodicimila morti, gli italiani non riuscirono nemmeno a fare una piccola avanzata! Vi era stata, infatti, una scarsa preparazione di artiglieria mediante pezzi tutti di piccolo calibro, un insufficiente addestramento dei rincalzi e l'assenza di un efficace appoggio aereo.
La decisione italiana di attaccare la Grecia non piacque affatto a Hitler che, in cuor suo, sperava di conquistare la penisola balcanica con manovre politiche; con la sua offensiva Mussolini, invece, aveva, in pratica, offerto agli inglesi la possibilità di mandare truppe e aerei nei Balcani e di minacciare, quindi, i preziosi pozzi petroliferi romeni. Inoltre Hitler non voleva che i Balcani costituissero una “spina nel fianco” per il suo attacco all’Unione Sovietica che, ormai, era stato fissato definitivamente per la metà del 1941.
La pressione diplomatica che il Fuhrer esercitò su Ungheria, Romania e Bulgaria fece si che questi Stati divenissero in pratica satelliti della Germania.
Il 13 gennaio 1941 Re Boris di Bulgaria venne invitato da Hitler in Germania per tre motivi: aderire al Patto Tripartito, consentire alle truppe tedesche il transito sul proprio territorio in vista dell’attacco alla Grecia e schierarsi militarmente a tutti gli effetti accanto alle potenze dell’Asse; dieci giorni dopo il capo di Stato Maggiore dell’esercito bulgaro preparò un piano di collaborazione e cooperazione con i nazisti.
L’adesione bulgara al Patto venne siglata il primo marzo a Vienna; il giorno dopo le truppe tedesche destinate all’invasione greca incominciarono a passare sul suo territorio per posizionarsi proprio sul confine con lo Stato ellenico. La Gran Bretagna ruppe le relazioni diplomatiche con Sofia.
Il 14 febbraio toccò al presidente del consiglio jugoslavo Dragisa Cvetkovic ricevere dal Fuhrer la richiesta di entrare nel Patto Tripartito; venti giorni dopo rinnovò la richiesta al principe Paolo, reggente di Jugoslavia, con la promessa che, in cambio del libero transito dei suoi soldati attraverso il suo territorio, la Jugoslavia si sarebbe annessa il porto di Salonicco e una parte della Macedonia.
Nel Paese, però, ci furono molte dimostrazioni antitedesche e anti italiane che coinvolsero contadini, esercito e Chiesa. Irritato, Hitler il 19 marzo lanciò un ultimatum concedendo solo 5 giorni di tempo per aderire al Patto; il 25 il ministro degli esteri Markovic e Cvetkovic firmarono il trattato di adesione nonostante gli ammonimenti ricevuti dal governo britannico.
Al ritorno in patria, però, i due vennero arrestati in seguito a un colpo di stato messo in atto da un gruppo di ufficiali dell’aeronautica capeggiati dal capo di Stato Maggiore Dusan Simovic; questi rovesciò il governo, costrinse all’esilio il principe Paolo e formò un esecutivo di unità nazionale che stipulò quasi subito un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica.
Il Fuhrer decise di invadere militarmente la Jugoslavia in quanto la considerava ormai uno Stato nemico ed il 30 marzo approvò, fin nei dettagli, il piano di attacco chiamato “operazione Marita”. Anche l’Ungheria, che già si trovava nell’orbita tedesca, decise di partecipare all'invasione insieme alla Germania.
Il 6 aprile 1941, alle ore 5.15, la Germania diede il via all’operazione "Marita" invadendo la Jugoslavia e dichiarando guerra alla Grecia; le sue forze, al comando del generale List, consistevano in sei divisioni di fanteria, tre motorizzate e due corazzate (con 200 carri armati); inoltre erano presenti il XLI corpo motorizzato e il 1° Panzergruppe mentre la Luftwaffe schierava quasi 800 aerei tra bombardieri, caccia e ricognitori.
Venne subito effettuato un pesantissimo bombardamento su Belgrado (operazione “Castigo”) e su tutti i campi d’aviazione.
La 2° armata tedesca, agli ordini di von Weichs, partendo dall’Austria e dall’Ungheria, puntò direttamente sulla capitale mentre la 12° armata di List attaccò verso Strumica; infine, il gruppo corazzato di von Kleist, avanzando dalla Bulgaria, si diresse sia a nord verso Nis sia a sud verso Skopje per tagliare i collegamenti tra le truppe jugoslave e quelle greche.
Il giorno successivo i nazisti occuparono Skopje e si diressero verso Monastir mentre, nel nord, puntarono verso Zagabria; intanto anche l’Italia aveva dichiarato guerra alla Jugoslavia e le sue truppe superarono la frontiera giuliana.
L’esercito jugoslavo poté fare ben poco contro la netta superiorità tedesca; il 10 aprile cadde Zagabria, il 12 la capitale Belgrado e il 16 Sarajevo. Nel frattempo gli italiani avanzavano sia verso Lubiana sia verso Spalato e Ragusa (l’attuale Dubrovnik) mentre gli ungheresi si diressero verso Novi Sad.
Il 17 aprile le ultime sacche di resistenza si arresero. L’atto di resa fu firmato a Belgrado alla presenza di Markovic per la Jugoslavia, von Weichs per la Germania e Bonfatti per l’Italia. Furono fatti prigionieri circa 334.000 uomini.
Il governo jugoslavo riparò, in esilio, prima in Grecia e poi a Londra. La Croazia si proclamò indipendente e venne messo a capo dello Stato Ante Pavelic, leader del movimento separatista locale e, in pratica, fantoccio di Mussolini.
A fronteggiare le forze di Hitler vi erano 4 divisioni greche e, una cinquantina di chilometri più indietro, il corpo di spedizione britannico di Wilson. Altre 3 divisioni greche erano schierate lungo la “linea Metaxas”, una catena di fortificazioni di circa 160 km che andava dai monti Belastica fino alla foce del fiume Nestos.
Il XVIII corpo d'armata doveva sfondare la linea Metaxas al centro e il XXX corpo d'armata doveva avanzare nella Tracia occidentale; queste due offensive avrebbero tagliato fuori l'armata greca situata nella Macedonia orientale.
Il 6 aprile 1941 il XXX corpo d'armata tedesco penetrò nella pianura di Komotini, nella Tracia orientale. Qui i greci erano inferiori di numero e male equipaggiati e non opposero grossa resistenza; Soltanto i due forti di Nymféa e di Echinos riuscirono a tenere testa per l'intera giornata.
Due colonne tedesche si diressero verso Xánthi mentre una terza si spinse verso Alessandropoli, sulla costa.
Il XVIII corpo d'armata tedesco, invece, sferrò tre attacchi contro tre punti diversi del settore centrale della linea Metaxas mentre la 72ª divisione di fanteria (con l'appoggio di carri armati, artiglieria e degli Stuka) avanzò da Nevrokop dirigendosi verso sud per attaccare la linea stessa a nord di Serre.
Mentre la Luftwaffe continuava a martellare i depositi militari nelle retrovie della linea difensiva greca danneggiando comunicazioni e impianti ferroviari, la 2ª divisione corazzata tedesca, la sera del 7 aprile, entrò a Dojran, all’estremità sinistra della linea difensiva greca.
L'aggiramento della linea Metaxas fu completato l'8 aprile dal XVIII corpo d'armata e causò la capitolazione dell'armata greca nella Macedonia orientale; il giorno dopo il grosso della colonna di carri armati tedeschi entrò a Salonicco. Settantamila uomini furono fatti prigionieri.
I tedeschi, con 15 divisioni, continuarono a premere sulle truppe greche e britanniche e, in una riunione con i comandanti britannici e con gli ufficiali dello stato maggiore ellenico, Wilson decise di ritirarsi; infatti, tenendo conto che la Luftwaffe in cielo era incontrastata, solamente il continuo arretramento poteva salvare il corpo di spedizione britannico dall'annientamento totale. Durante i giorni dal 14 al 25 aprile, la prima brigata corazzata non fece altro che ripiegare.
Nel frattempo anche gli italiani, il giorno 14, passarono all’offensiva e il loro attacco permise di riconquistare Corcia, Permeti, Argirocastro e Porto Palermo mentre alcune divisioni avanzarono nell’Epiro. Il 24 la nona armata di Mussolini arrivò al ponte di Perati congiungendosi con le truppe tedesche.
Il 18 aprile i nazisti oltrepassarono il monte Olimpo e presero la città di Larissa mentre, nel frattempo, il XL corpo d’armata entrò a Florina e Trikkala; in questo modo riuscirono a incunearsi tra i soldati greci a ovest e il corpo di spedizione britannico a est. Sbarrarono anche la ritirata alle truppe elleniche che arretravano davanti all’attacco italiano in Epiro.
Per i greci ormai la lotta era finita mentre i britannici cercavano di raggiungere il più velocemente possibile i punti prefissati per il reimbarco lasciando le retroguardie ad opporre un’ultima resistenza alle Termopili.
Dopo che il comandante dell’armata greca della Macedonia occidentale aveva già avviato trattative per la resa, il giorno 19 si tenne una riunione tra il re Giorgio II, Papagos, Wavell e Wilson; in essa i greci accettarono che il corpo di spedizione britannico lasciasse la Grecia continentale.
Due giorni dopo una divisione corazzata tedesca arrivò a Giannina accerchiando completamente i greci. A Larissa venne firmata la capitolazione dell’esercito ellenico e 16 divisioni deposero le armi. Il 23 aprile, presso Salonicco, venne sancita la resa anche con gli italiani.
Il 24 il generale Papagos si dimise, l'esercito greco capitolò e il re partì per l'esilio.
La Germania occupò militarmente la Macedonia centrale e orientale con l'importante porto di Salonicco, la capitale Atene e le isole dell'Egeo Settentrionale; la Bulgaria ottenne la Tracia; l'Italia, ottenne il controllo del resto del territorio greco.
Ad Atene venne instaurato un governo militare sotto il controllo tedesco e guidato dal Generale Tsolakoglu.
I britannici resistettero alle Termopili e in una nuova linea a sud di Tebe fino alla mattina del 26; questa resistenza fece in modo che potessero essere evacuati complessivamente più di 18.000 uomini (anche se ne rimanevano ancora più di 40.000).
Il giorno 27 le truppe italo-tedesche entrarono in Atene mentre la settimana successiva gli italiani occuparono le isole greche dello Ionio: Cefalonia, Zante ed Itaca.
Il 28, dai porti di Nauplia, Monemvasia e Kalamata, vennero evacuati 43.000 tra britannici e polacchi che si imbarcarono su 6 incrociatori, 19 cacciatorpediniere e numerose piccole navi da trasporto. Settemila soldati non fecero in tempo a salire sulle navi e furono fatti prigionieri.
La campagna di Grecia era conclusa ma restava in mano inglese l'isola di Creta che le truppe di Hitler conquistarono poi con un’operazione condotta da reparti di paracadutisti.
Per la seconda volta dopo Dunkerque l'esercito britannico dovette lasciare il continente europeo; nonostante l’80 per cento dei suoi effettivi fosse stato salvato, subì comunque grandissime perdite: 12.000 uomini, circa 200 velivoli, 400 cannoni, 1.800 mitragliatrici, 8.000 veicoli e 27 navi affondate.
La campagna di Grecia, però, influenzò l’opinione pubblica statunitense che condannò l’invasione tedesca e contribuì a far approvare al Congresso la legge “affitti e prestiti” con la quale venne dato inizio alle fondamentali forniture di materiale bellico americano.
Anche il bilancio italiano fu terribile; si ebbero 13.755 morti, 50.784 feriti, 12.638 congelati, 25.067 dispersi e 52.108 invalidi. Inoltre si mise in evidenza tutta la debolezza della potenza militare del Duce perché nessuno poteva prevedere che non sarebbe riuscito ad avere la meglio sulla piccola Grecia.
L’aspirazione di Mussolini di poter condurre in piena autonomia da Hitler la cosiddetta "guerra parallela" era definitivamente sfumata e l’Italia avrebbe, quindi, potuto proseguire la guerra solo come “satellite” della Germania.
Il 18 novembre 1940 Hitler e Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri di Mussolini, si incontrano per discutere della fallimentare invasione della Grecia da parte delle truppe italiane.
Nel 1940 l’obiettivo di Mussolini era di avere un nemico da sconfiggere in modo da poter avviare la cosiddetta "guerra parallela" alla Germania; egli, infatti, voleva dimostrare a Hitler (che prendeva le decisioni sull’andamento della guerra senza preventivamente consultarlo) che l'Italia doveva essere considerata potenza militare, politica ed economica di uguale importanza a quella tedesca. Per poter raggiungere il suo scopo, però, aveva bisogno di un avversario militarmente alla sua portata.
Questo avversario sembrava essere la Grecia (governata dal dittatore Joannis Metaxas) in quanto era geograficamente vicina e sembrava avere forze armate deboli, una classe politica poco disposta a battersi e una popolazione poco interessata agli eventi nazionali. Inoltre vi erano già da un po’ dei motivi di contrasto con i greci:
All’inizio della prima guerra mondiale gli stati dell’Intesa avevano promesso a Grecia ed Italia delle sfere d'influenza nelle stesse zone dell’Asia Minore, ma, durante i trattati di pace finali, i greci erano riusciti ad ottenere larghissime concessioni tutte a danno degli italiani;
Vi era l’occupazione italiana dell’Albania (8 aprile 1939); essa era sgradita ai greci che consideravano invece ellenica tutta la sua zona meridionale fino ad Argirocastro. Essi temevano, soprattutto, che questa occupazione fosse l’ultimo passo prima di un attacco vero e proprio alla Grecia stessa; nella politica di Mussolini, infatti, c’erano un progetto per la conquista di Corfù e uno per l’occupazione dell’Epiro. Entrambi i piani però erano stati studiati solo superficialmente senza mai essere approfonditi;
Vi era la questione del Dodecaneso, conquistato dagli italiani in seguito alla guerra con la Turchia ma abitato da una popolazione prevalentemente greca.
Il 16 agosto 1939 Mussolini, adirato per il fatto che i greci cercassero la protezione dell’Inghilterra dopo l’occupazione italiana dell’Albania, ordinò al capo di Stato maggiore Generale, Pietro Badoglio, di elaborare un piano per l’invasione della Grecia. Il generale Alfredo Guzzoni, a sua volta incaricato della cosa, lo mise a punto in soli tre giorni, riadattando un vecchio piano da lui stesso preparato; in questo piano si prevedeva l’utilizzo di 18 divisioni (divise in 6 corpi d’Armata) di cui 12 avrebbero puntato su Salonicco, tre su Gianina e tre avrebbero presidiato la frontiera con la Jugoslavia. Guzzoni, però, per attuarlo chiedeva almeno un anno di preparazione e la presenza di tutte le divisioni richieste in Albania prima dell’attacco nonché lavori alle strade e ai porti. L’allora sottosegretario alla Guerra Alberto Pariani consigliò che le 18 divisioni previste fossero incrementate a venti.
Già l’11 settembre 1939, però, Mussolini, che cambiava continuamente idea, fece sapere all’ambasciatore italiano ad Atene Emanuele Grazzi che “La Grecia non è sulla nostra strada e noi non vogliamo nulla dalla Grecia. Ho piena fiducia in Metaxas che ha riportato l’ordine nel suo paese” . Il 20 settembre ribadiva a Guzzoni che “della guerra contro la Grecia non se ne fa più nulla. La Grecia è un osso spolpato, e non vale la pena che perdiamo anche uno solo dei nostri granatieri di Sardegna” . Nonostante le assicurazioni italiane, la Grecia non si sentiva tranquilla ed il generale Papagos cominciò a prendere delle misure volte a contenere un eventuale attacco italiano.
Quando l’Italia entrò in guerra, Mussolini rivolse ai paesi neutrali un appello: “Io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare nel conflitto altri popoli con essa confinanti per terra e per mare. Svizzera Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole. Dipende da loro e soltanto da loro se esse saranno o no rigorosamente confermate” . Metaxas credette alla buona fede di Mussolini e, incontrando Grazzi, gli confermò che “la Grecia è fortemente decisa a conservare la più stretta neutralità” e che “la Grecia è decisa a difendersi con le armi e l’Inghilterra è stata informata di tale decisione” . A gettare benzina sul fuoco ci pensò il governatore delle isole italiane nell’Egeo, De Vecchi, che continuava ad inviare a Roma segnalazioni che gli aerei inglesi usavano la Grecia per rifornire le proprie navi.
Mussolini si infuriò e la propaganda italiana iniziò ad indirizzare l’opinione pubblica verso una possibile azione militare contro la Grecia fornendo prove e accuse circa la non buona fede dei greci che, a parole, dicevano neutralità assoluta e, nei fatti, aiutavano gli inglesi. Ovviamente tutto questo non era vero ma serviva a trovare una giustificazione per scatenare il conflitto.
Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop non voleva assolutamente che scoppiasse un conflitto con un paese amico quale era la Grecia perché temeva, ed a ragione, che questo avrebbe aperto le porte ad un intervento inglese e quindi ad un insediamento di forze britanniche nel sud dell’Europa con la conseguenza di rendere più pericoloso il Mediterraneo. Ciano rispondeva a Ribbentrop che “con la Grecia stiamo portando la vertenza su un piano diplomatico e ci limitiamo a rinforzare con altre divisioni le attuali sei che presidiano l’Albania” .
Il 4 ottobre Hitler e Mussolini si incontrarono al Brennero ed il Führer gli ribadì la sua contrarietà a un intervento italiano nei Balcani; secondo le sue previsioni, infatti, i nazisti avrebbero presto invaso l’Inghilterra e la pace sarebbe tornata in Europa. Mussolini, rassicurato, decise di sospendere i piani d'invasione.
L’11 ottobre i tedeschi informarono Mussolini di aver accolto la richiesta di protezione del governo rumeno inviando proprie truppe a difesa del bacino petrolifero di Ploesti. Un'ennesima iniziativa militare fu quindi presa da Hitler senza consultare il Duce. Mussolini era indignato: "Hitler mi mette sempre di fronte al fatto compiuto. Questa volta lo pago della stessa moneta: saprà dai giornali che ho occupato la Grecia. Così l'equilibrio verrà ristabilito” . Fu in quei giorni che l'idea di attaccare la Grecia prese definitivamente corpo; la decisione fu favorita anche da altri motivi: il regime era in declino, la guerra si stava prolungando più di quel che si prevedeva e i risultati erano ben al di sotto delle aspettative. La battaglia sulle Alpi con la Francia e la guerra in Africa con l’Inghilterra, infatti, si stavano rivelando un insuccesso e c’era quindi un bisogno estremo di un successo militare che facesse tornare la fiducia all’opinione pubblica.
Il 15 ottobre il Duce convocò una riunione a Palazzo Venezia: erano presenti Ciano, Badoglio (capo di Stato Maggiore Generale), Jacomoni (ambasciatore in Albania), Soddu (sottosegretario alla Guerra), Visconti Prasca (comandante delle truppe in Albania) e Roatta (sottocapo di Stato Maggiore). Erano assenti, invece, Cavagnari e Pricolo, rispettivamente capo di Stato Maggiore della Marina e dell'Aeronautica. In questa riunione venne decisa, in maniera del tutto inadeguata, la futura campagna di Grecia. Il Duce disse che “Lo scopo di questa riunione è quello di definire le modalità dell’azione (nel suo carattere generale) che ho deciso di iniziare contro la Grecia. Questa azione, in un primo tempo, deve avere obiettivi di carattere marittimo e di carattere territoriale. Gli obiettivi di carattere territoriale ci debbono portare alla presa di possesso di tutta la costa meridionale albanese, quelli cioè che ci devono dare la occupazione delle isole ioniche (Zante, Cefalonia, Corfù) e la conquista di Salonicco. Quando noi avremo raggiunto questi obiettivi, avremo migliorato le nostre posizioni nel Mediterraneo nei confronti dell’Inghilterra. In un secondo tempo, o in concomitanza di queste azioni, l’occupazione integrale della Grecia, per metterla fuori combattimento e per assicurarci che in ogni circostanza rimarrà nel nostro spazio politico economico. Precisata così la questione, ho stabilito anche la data, che a mio parere non può essere ritardata neanche di un’ora: cioè il 26 di questo mese. Questa è un’azione che ho maturata lungamente da mesi e mesi; prima della nostra partecipazione alla guerra e anche prima dell’inizio del conflitto… Aggiungo che non vedo complicazioni al nord. La Jugoslavia ha tutto l’interesse di stare tranquilla… Complicazioni di carattere turco le escludo, specialmente da quando la Germania si è impiantata in Romania e da quando la Bulgaria si è rafforzata. Essa può costituire una pedina nel nostro gioco, e io farò i passi necessari perché non perda questa occasione unica per il raggiungimento delle sue aspirazioni sulla Macedonia e per lo sbocco al mare…” .
La gelosia tra le varie forze armate contribuì al fallimento dell’impresa; infatti, fin dall'inizio, l'Esercito aveva la presunzione di fare tutto da solo, lasciando all'aviazione e alla marina ruoli secondari, tanto da non metterli neppure al corrente di quello che si andava preparando. Il risultato fu che la marina si trovò in difficoltà nell'organizzare in fretta e furia il trasporto delle truppe e la protezione dei convogli, mentre l'aeronautica dovette allestire in fretta dei campi di volo in Albania (che risultarono di fatto sempre impraticabili) in modo da potervi schierare gli aerei necessari.
Hitler venne tenuto all'oscuro di tutto per precisa scelta di Mussolini che voleva avere una vittoria solo italiana da mettergli sotto il naso nel loro prossimo incontro.
Nessuno dei presenti alla riunione osò opporsi alla decisione di Mussolini di invadere la Grecia. Nessuno si assunse la responsabilità delle proprie opinioni e tutti puntarono sulla facile vittoria.
I greci, intanto, di fronte alla politica ostile del governo italiano, non se ne stettero con le mani in mano e iniziarono a mobilitare le loro forze armate. Erano in una situazione difficile poiché, oltre alla possibilità di un attacco italiano, dovevano fronteggiare anche la minaccia bulgara che rivendicava da tempo uno sbocco sull'Egeo. Metaxas non volle assumere atteggiamenti che potessero essere considerati provocatori: la mobilitazione fu massiccia, ma, mediante un abile stratagemma, riuscì a mascherare la preparazione in corso.
Non era comunque facile per loro predisporre un piano difensivo: infatti la morfologia del paese, per un terzo insulare e con migliaia di chilometri di coste, avrebbe causato una gran dispersione di forze. Ma l'insistenza con cui l’Italia fomentava l’irredentismo ciamuriota e il continuo parlare degli sbarchi di truppe in Albania indicarono ai greci, come molto probabile, un'azione militare nemica verso l'Epiro e, di conseguenza, il loro dispositivo difensivo si organizzò in tal senso. L'Italia preparò, quindi, la sua guerra preavvertendo l’avversario delle sue mosse ed indicandogli addirittura il luogo dell'attacco, rinunciando in partenza alla sorpresa. Segreto e rapidità evidentemente erano doti sconosciute al nostro governo ed ai nostri vertici militari.
In Albania vi erano solo otto divisioni italiane (più alcuni reggimenti), che vennero inquadrate in quattro nuclei sotto il comando di Sebastiano Visconti Prasca:
Il XXV Corpo d'Armata "Ciamuria" (25.000 uomini), comprendente una divisione corazzata e due divisioni di fanteria, con il compito offensivo di penetrazione in Epiro;
Il XXVI Corpo d'Armata (43.000 uomini), composto di quattro divisioni di fanteria, con compiti prevalentemente difensivi lungo il confine della Macedonia occidentale;
La divisione alpina "Julia" (10.000 uomini), attestata a ridosso della catena montuosa del Pindo, a cerniera dello schieramento tra i due Corpi d'Armata;
Il "Raggruppamento del Litorale" (5.000 uomini), schierato lungo la costa, composto di due reggimenti di cavalleria, uno di artiglieria, uno di Granatieri di Sardegna ed un battaglione di Camicie Nere. In pratica, un'altra divisione.
L’Italia dispone, in totale, di circa centomila uomini, alle cui spalle vi erano linee di comunicazione difficili via mare. Il nemico, invece, era ben organizzato: aveva già mobilitato le sue forze, era stato provocato ed aizzato, conosceva le nostre probabili direttrici di marcia e poteva arrivare a radunare fino a diciotto divisioni.
I due eserciti erano analoghi per armamento ed addestramento. Solo in due settori gli italiani erano superiori: nelle forze corazzate e nella superiorità aerea. La divisione corazzata (la "Centauro"), però, aveva un organico di 5.000 uomini con 24 pezzi di artiglieria, 8 cannoncini anticarro e 170 carri leggeri, una forza d'urto quindi molto limitata e nemmeno paragonabile a quelle tedeschi e inglesi. In più i carri, nel pantano fangoso in cui spesso si sarebbero trovati, servivano a poco o niente.
L’aeronautica in Albania disponeva in tutto di circa 400 apparecchi, molti però inadeguati (come i caccia Cr32) e scarsamente efficienti. Comunque, nel complesso, di fronte ad un'aviazione debole come quella greca, quella italiana poteva considerarsi agguerritissima.
Anche a livello di marine non c’era paragone. La Marina ellenica disponeva di poche ed antiquate unità ed il compito di contrastare la Regia Marina era tutto nelle mani degli inglesi. L'apporto della marina italiana, però, in una guerra prevalentemente terrestre, si rivelò modesto per due motivi: il primo fu la decisione di non effettuare uno sbarco nell'isola di Corfù, rinunciando a quella che sarebbe stata forse l'unica mossa azzeccata dell'intera campagna; il secondo fu l'insufficiente capacità di sbarco dei porti albanesi. Oltre a questo, i problemi furono aggravati dalla scarsità di naviglio mercantile e dalla disorganizzazione generale delle forze armate.
Da parte greca, in totale, erano schierati 53 battaglioni (sotto il comando del generale Alexandros Papagos), di cui 20 fra il lago di Prespa e il monte Grammos, 3 sul Pindo, 19 in Epiro e 11 di riserva. In Macedonia, invece, si stava completando il dispiegamento di una divisione di cavalleria, della 1ª divisione di fanteria e della 5ª brigata.
Alle 3 del mattino del 28 ottobre 1940 l’ambasciatore italiano ad Atene Emanuele Grazzi consegnò l’ultimatum al dittatore greco Metaxas; esso conteneva l'accusa alla Grecia di essere venuta meno al suo status di nazione neutrale e di schierarsi apertamente con l'Inghilterra; si esigeva anche di occupare, per tutta la durata del conflitto, alcune zone del territorio greco, ritenute di importanza strategica, con lo scopo di impedire agli inglesi il controllo del Mediterraneo. Metaxas chiese a Grazzi quali fossero questi punti strategici ma il diplomatico ammise, con un certo imbarazzo, che non li conosceva…(!).
Ci fu anche un tentativo di corrompere alcuni uomini politici greci (con uno stanziamento di circa sei milioni di lire) ma questo fallì e non diede risultati concreti.
"Donc, c'est la guerre" rispose il dittatore greco e, alla fine, respinse sdegnosamente l’ultimatum.
Prima dell’inizio dell’attacco italiano Metaxàs andò dall’ambasciatore inglese perché inoltrasse all’ammiraglio Cunningham la richiesta di schierare la flotta a difesa di Corfù e del Peloponneso; egli infatti temeva uno sbarco italiano in questa zona dato che la resistenza che avrebbe potuto contrapporre sarebbe stata molto debole.
L’offensiva di Mussolini iniziò alle 6 del mattino del 28 ottobre. Cinque ore più tardi Mussolini e Hitler si incontrarono alla stazione Santa Maria Novella di Firenze. Solo quando fu a Bologna il Fuhrer apprese “dai giornali”, come voleva Mussolini, dell’attacco italiano in Grecia.
Sul fronte dell’Epiro l’offensiva doveva svolgersi facendo avanzare le ali: a sinistra la divisione "Julia" doveva risalire la Voiussa e raggiungere il passo di Metsovo per separare le truppe greche dell'Epiro da quelle della Macedonia; a destra il Raggruppamento del litorale doveva puntare su Prevesa in modo da creare l’impressione di un accerchiamento; al centro, invece, la "Ferrara" doveva dirigersi verso Gianina e la "Siena" verso Filiates; infine, una parte della "Centauro”, insieme alla "Ferrara", doveva attaccare il nodo di Kalibaki.
Sul versante sinistro la divisione "Julia" partì decisamente verso il passo di Metsovo, distante oltre 80 km. Alle basi di Erseke e Leskoviku furono lasciati corredo, bagagli, cucine ufficiali, oggetti di equipaggiamento, e portati al seguito viveri per soli cinque giorni. Il terreno reso fangoso dalle piogge incessanti, l'attraversamento del fiume Sarandaporos in piena e la resistenza di alcuni reparti greci ritardarono l'avanzata italiana.
Alla fine del 28 ottobre i battaglioni Gemona e Cividale dell'ottavo Reggimento occuparono il monte Stavros mentre, il giorno 31, l'ottavo Alpini si impossessò del nodo di Furka ed il nono raggiunse le pendici dello Smolika. I soldati italiani dovevano affrontare marce dure, freddo intenso e piogge fitte; l’artiglieria non riusciva a tenere il passo della fanteria e l’aviazione non poté intervenire nella battaglia.
Con l’occupazione del monte Stavros, per i greci si creava una minaccia di separazione delle forze schierate sul Pindo da quelle schierate nella Macedonia occidentale; ordinarono, quindi, l’afflusso sul Pindo di tutte le truppe più vicine per prepararle alla difesa della Tessaglia lungo la direttrice Gianina – Metsovo - Trikkala.
Nel settore macedone gli italiani non si mossero e stettero sulla difensiva.
Sul versante destro, invece, il Raggruppamento del litorale e la divisione "Siena" raggiunsero in poche ore il fiume Kalamas che, con il fondo melmoso, le forti correnti e le sponde ripide, si rivelò inguadabile. Solamente il 5 novembre riuscirono a essere gettati due ponti con cui far passare le due unità e stabilire un collegamento regolare tra le due sponde; alla fine, nel tardo pomeriggio del 7, il Kalamas fu oltrepassato e gli italiani formarono un’ampia testa di ponte che andava da Varfani al mare.
Il 3° granatieri procedette verso sud e i lancieri "Aosta" e "Milano" si spinsero fino a Paramithiá e Margariti. Il giorno 7, però, venne loro ordinato di fermarsi, sostare sul Kalamas e rientrare all’interno della testa di ponte.
Questo ordine di ripiegamento era dovuto allo sfavorevole andamento delle operazioni al centro dove il corpo d'armata “Ciamuria” aveva attaccato insieme alla "Ferrara" e alla "Siena" (tenendo di riserva la "Centauro").
Una colonna della "Ferrara" si impossessò del Ponte di Perati prima che i greci lo facessero saltare e gli altri reparti di fanteria lo attraversarono per procedere oltre, ma le strade interrotte, i ponti distrutti e la resistenza dei greci rallentarono la marcia e spezzettarono le colonne d'attacco in molti tronconi ai quali la "Centauro" cedette, poco alla volta, gran parte dei suoi mezzi. Il 31 ottobre il corpo d'armata iniziò a scontrarsi con la linea di resistenza greca Kalibaki-Kalamas che gli italiani, privi di artiglierie (rimaste attardate per i trasporti resi difficili dal terreno pantanoso dovuto alle continue piogge), all’inizio non riuscirono a sfondare.
Il primo di novembre iniziò l’offensiva greca in Macedonia occidentale. Gli obiettivi del generale Papagos erano raggiungere la linea del Devol e la piana di Coriza. I greci attaccarono alle 8 del mattino: in caso di conseguimento degli obiettivi essi avrebbero minacciato tutto lo schieramento italiano dell’Epiro di accerchiamento. I loro attacchi furono sostenuti dall’aviazione che si distinse in bombardamenti, mitragliamenti e in ricognizioni sui movimenti delle truppe italiane. La divisione alpina Julia venne attaccata da sette divisioni greche nei pressi del passo di Metsovo. Le divisioni Parma, Piemonte, Venezia e Arezzo (le ultime due arrivate dal confine iugoslavo) furono anch'esse travolte.
La divisione "Bari" sbarcò a Valona con organici ridotti ma, invece che nel Corciano dov'era destinata, dovette impegnare i suoi battaglioni, man mano che arrivavano, nel tentativo di tamponare la falla che stava per aprirsi nella zona Erseke-Leskoviku-Konitsa. Anche la minuscola marina ellenica effettuò, sul basso Kalamas con un paio di piccole unità, il bombardamento di truppe italiane.
Il giorno 8, di fronte alla grave situazione che si era venuta a creare, il comando italiano diede l’ordine di ritirata. Le comunicazioni non funzionarono a dovere e la Julia viene sopraffatta da tre divisioni. I greci iniziavano ad entrare in territorio albanese e gli italiani non avevano riserve tattiche e strategiche.
Il 10, dopo aver commentato che "le cose non sono andate come si poteva pensare e come ci avevano fatto sperare il Luogotenente Generale per l'Albania e il generale Visconti Prasca" , Mussolini inviò in Albania il generale Ubaldo Soddu a sostituire lo stesso Visconti Prasca. Il 30 dello stesso mese quest’ultimo fu posto in congedo assoluto.
Soddu dovette riconoscere che l'offensiva era fallita e che il numero di truppe destinate alla campagna era inconsistente; inutili si rivelarono le sue speranze di mantenere, in Epiro, la testa di ponte oltre il Kalamas a destra e la zona Kalibaki-Konitsa a sinistra. Telegrafò a Roma che "Nostro attacco può ritenersi arrestato da resistenza nemica. Inutile sperare raggiungimento obiettivo senza altre divisioni" .
Un altro colpo negativo che l’Italia dovette subire per l’andamento del conflitto avvenne la notte dell'11 novembre quando un attacco di una ventina di aerosiluranti inglesi Swordfish (decollati dalla portaerei inglese Illustrious) mise fuori combattimento tre corazzate italiane (Littorio, Duilio e Cavour) ancorate nel porto di Taranto. La stessa notte, inoltre, un gruppo di incrociatori e cacciatorpediniere britannici affondò quattro navi mercantili nel Canale di Otranto.
Il 14 novembre i greci sferrarono una nuova offensiva. Papagos, infatti, ormai sicuro di avere arrestato la spinta italiana, aveva raccolto le sue forze per attaccare uno schieramento avversario molto sparpagliato su un ampio fronte. Il primo corpo era dislocato in Epiro, il secondo sul Pindo e il terzo nel Corciano. Di riserva vi erano 3 divisioni e una brigata di fanteria. Il primo corpo attaccò su tre direttrici, esattamente verso Ponte Perati, verso Kakavi e sul basso Kalamas, il secondo corpo si impadronì della zona Erseke Leskoviku ed il terzo aggirò il massiccio del Morova conquistando, il 22 novembre, Coriza.
L’offensiva greca mise in evidenza la disorganizzazione dei comandi italiani e la confusione delle retrovie; i servizi logistici erano carenti, mancavano viveri, medicine ed ospedali da campo. Alcuni reparti combatterono rabbiosamente, altri rimasero come storditi dal repentino capovolgimento di fronte.
I battaglioni di rinforzo, che man mano affluivano in prima linea, non cambiarono le sorti dei combattimenti ed i greci avevano riserve a sufficienza per mantenere il predominio. Mussolini cercò di risollevare il morale di un'opinione pubblica sempre più sgomenta, affermando, il 19 novembre in un famoso discorso alla radio, che le "Le aspre montagne dell'Epiro e le loro valli fangose non si prestano a guerre lampo come pretenderebbero gli incorruttibili che praticano la comoda strategia degli spilli sulle carte. Nessun atto, o parola mia o del governo l'ha fatto prevedere. Non credo che valga la pena di smentire tutte le notizie diramate dalla propaganda greca e dai suoi altoparlanti inglesi. .. C'é qualcuno fra di voi, o camerati, che ricorda l'inedito discorso di Eboli pronunciato nel luglio del 1935 prima della guerra etiopica? Dissi che avremmo spezzato le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia" .
Ma il giorno seguente al discorso Soddu dovette far arretrare il fronte ripiegando di una cinquantina di chilometri e lasciando al nemico una grossa fetta di territorio albanese. L'intero esercito greco avanzò procedendo senza resistenza e recuperando il materiale, tra cui vari carri L3, abbandonato dalle truppe italiane in ritirata.
Il bollettino di guerra del 22 novembre 1940 ammise praticamente il fallimento della campagna italiana: "Le nostre truppe di copertura, formate da due divisioni, che, all'inizio delle ostilità si erano attestate sulla difensiva al confine Greco-Albanese di Coriza, si sono ritirate, dopo 11 giorni di lotta, su una linea ad ovest della città, che è stata evacuata. Durante questo periodo si sono svolti aspri combattimenti. Le nostre perdite sono sensibili. Altrettante e forse più gravi quelle del nemico. Sulla nuova linea si concentrano i nostri rinforzi" .
L'impressione in Grecia e nel mondo fu enorme: i greci festeggiarono in tutto il paese, la "grande potenza" era stata sopraffatta da un piccolo paese; alla Camera dei comuni lord Halifax fece un elogio "all'eroico popolo greco" mentre, nella Parigi occupata, gli strilloni offrirono i giornali gridando "les grecs à Coriza, les italiens dans la merde"; al confine di Mentone, addirittura, i doganieri esposero un sarcastico cartello che recitava "Grecs, arretez-vous. Ici France!".
Ormai l’immagine delle forze armate italiane era compromessa. Hitler inviò a Mussolini una lettera nella quale elencava tutti gli errori italiani e scrisse che l'azione sarebbe dovuta essere "procrastinata a stagione più propizia" . Il Duce fu costretto a rispondere in tono conciliante, giustificando i primi insuccessi con il "maltempo che ha arrestato la marcia delle forze meccanizzate" , con la "defezione quasi totale delle forze albanesi" e con "l'atteggiamento della Bulgaria" . In pratica bastarono tre settimane per farlo desistere dai propositi di "guerra parallela" e per farlo pentire della decisione di aver voluto mettere Hitler di fronte al fatto compiuto.
Il 28 novembre i greci presero anche Pogradec e la crisi militare e politica del regime divenne gravissima.
La testa che cadde in seguito a questa crisi fu quella di Pietro Badoglio il quale, dopo un violento attacco che gli rivolse Farinacci sul suo giornale “Regime Fascista” e incapace di difendersi dalle accuse, prese quattro giorni di licenza e si ritirò nella sua casa. Scrisse la sua lettera di dimissioni pensando, in cuor suo, che Vittorio Emanuele III prendesse le sue difese, ma non fu così. Il giorno 29 Mussolini informò il re delle dimissioni di Badoglio ed egli si trovò d’accordo e non le respinse. Il 4 dicembre, il Duce si incontrò con Badoglio, gli fece un discorso umiliante e poi lo sostituì con il generale Ugo Cavallero.
Papagos, non rendendosi conto delle condizioni in cui si trovavano gli italiani, non intuì che sarebbe bastato un attacco deciso al centro del loro schieramento per dividere le lo truppe e puntare quindi su Valona e Tirana. Continuò, invece, effettuando piccoli attacchi (su tutto il fronte) ma non aveva la forza di sopraffare gli avversari.
La precarietà delle truppe italiane era evidente e il generale Soddu cominciò a pensare di ordinare un ripiegamento generale molto profondo, anche perché sapeva che l'avversario poteva immettere nuove forze nella battaglia mentre lui non aveva riserve). Dall’Italia arrivarono dei rinforzi (le divisioni Acqui, Tridentina, Gruppo Alpini Valle Taro, Pusteria) ma questi venivano mandati in battaglia non nella loro unità ma inviando singoli reparti dove si aveva più bisogno di truppe. Significativo fu quel che accadde alla divisione "Lupi di Toscana": fu lanciata, appena sbarcata e durante una notte di bufera, contro una formazione nemica che si muoveva in avanti in modo compatto; gli italiani si scompaginarono senza nemmeno rendersi conto di quello che stava accadendo.
I greci continuavano ad attaccare e gli italiani dovettero indietreggiare ancora di qualche chilometro. Soddu suggerì a Mussolini di “cercare una soluzione per via diplomatica" ma il Duce non ne volle sapere e rispose che "....sarebbe meglio andare tutti in prima linea a farsi ammazzare dai Greci, piuttosto che trattare con loro un armistizio…." .
Soddu mandò al Capo di Gabinetto alla Guerra una dura lettera che alla fine causò la sua destituzione. Scrisse che "La nostra linea è tenuta da truppe la cui capacità di reazione è ben scarsa. Da settimane, alcune da mesi, attendono il cambio, sempre promesso, che mai giunge .. Di fronte ad un attacco un po' nutrito possiamo essere sfondati in qualsiasi punto .. Il continuo precipitarsi quaggiù di "teste" di divisioni, nonché il guaio della "binaria" hanno fatto sì che l'Albania sia piena di comandi .. senza che in linea esista adeguato numero di combattenti, tanto che io proporrò tra poco che, senza mandarmi nuove grandi unità, mi si invii un terzo reggimento di divisione .. le truppe in linea sono sfinite, quelle che contrattaccano si logorano prima di essere al completo .. la linea è rimasta un velo. Se io logoro in contrattacchi le poche forze fresche che ho, chi resisterà poi al nuovo urto?"
Convocato a Roma, Soddu non tornò più in Albania: il suo incarico di comandante delle truppe operanti su quel fronte fu assunto dallo stesso Ugo Cavallero.
Quest’ultimo seppe affrontare la situazione con calma e portò un’ondata di attivismo in uno Stato maggiore demoralizzato; in breve tempo riuscì ad impiegare organicamente le divisioni che affluivano dall'Italia e a riorganizzare i rifornimenti.
Gli italiani, intanto, decisero di abbandonare una linea che copriva località di notevole valore politico come Permeti e Argirocastro (sgombrate rispettivamente il 4 e l'8 dicembre) ma che non davano sufficienti garanzie di stabilità.
Il mattino del 9 dicembre lo schieramento italiano si stendeva per 160 km di ampiezza (in linea d'aria) sul margine sud del ridotto meridionale albanese: lago di Ocrída-Klisura-Himare.
Mentre in Italia il disorientamento era enorme, in Grecia Metaxas era preoccupato: nonostante le vittorie che stava conseguendo sul campo, sapeva in cuor suo che queste sarebbero state alla fine inutili. Metaxas era malato e sentiva che la vittoria non poteva durare; era certo, infatti, che, prima o poi, i tedeschi avrebbero aiutato l’Italia e allora la sconfitta sarebbe stata inevitabile; per ora i tedeschi si limitavano solo a fornire una cinquantina di Ju 52 da trasporto per aiutare gli italiani nel trasporto dei rinforzi in Albania, ma non poteva durare così.
I combattimenti continuarono accaniti: i greci cercavano di raggiungere Berati e Valona ma conseguirono solo successi locali che culminarono, il 25 gennaio 1941, con la conquista di Klisura. Furono anche fermati circa 10 km a sud di Tepeleni. Alla fine di dicembre del 1940 il fronte aveva ormai acquistato un sufficiente stato di solidità.
Alla fine del 1940 l’esercito greco poteva disporre ancora di una buona superiorità di forze, perché, nonostante avesse praticamente sguarnita la frontiera con la Bulgaria, schierava sul fronte albanese 14 divisioni di fanteria, 1 di cavalleria e 2 brigate di fanteria. Gli italiani potevano contrapporre, invece, 12 divisioni di fanteria, 4 alpine e 1 corazzata, anche se bisogna tener presente la minor consistenza delle divisioni che non avevano ricevuto gli effettivi necessari per rimpiazzare le gravi perdite subite.
Gli italiani, però, avevano iniziato a migliorare le possibilità di sbarco sulle coste dell’Albania. Furono potenziati i porti di Durazzo e di Valona con la costruzione di pontili e l'invio di chiatte e di zatteroni ed inoltre fu utilizzato anche il piccolo ancoraggio di San Giovanni di Medua.
La media giornaliera di scarico, da meno di 2.000 tonnellate in dicembre, salì a 4.000 in marzo, grazie anche alla sostituzione del personale albanese totalmente inaffidabile.
La difesa contraerea guadagnò in efficienza e riuscì finalmente a proteggere i punti di sbarco, mentre la Marina aumentò la sua attività. Dopo il caos iniziale, i convogli diventarono regolari e poterono assicurare un rifornimento costante.
Vennero di conseguenza, tra novembre e marzo, inviate molte divisioni e, se anche solo la metà di queste fosse stata presente all'inizio del conflitto, l'andamento della guerra sarebbe stato molto diverso.
All’inizio del 1941 i greci erano ormai all’offensiva e attaccavano in direzione di Klisura (che fu evacuata dagli italiani), di Berat e di Valona; i combattimenti erano aspri e gli italiani non erano in grado di lanciare una controffensiva nonostante Mussolini ne facesse continua richiesta a Cavallero.
Per rimediare al fallimento italiano e venire in soccorso del suo alleato Hitler iniziò a organizzare “l’operazione Marita” per l’invasione e l’occupazione della Grecia; venuto a conoscenza della possibile invasione tedesca, Metaxas, che ormai era gravemente malato, cercò di avere aiuti da parte degli inglesi ma Wavell poté inviare solo un reggimento di artiglieria, uno contraereo e una sessantina di carri armati.
Metaxas morì il 29 gennaio. Gli successe Alexandros Koritzis, governatore della Banca Ellenica, che rinnovò subito agli inglesi la richiesta di maggiori rinforzi. Churchill temeva che i greci, se non aiutati con mezzi e truppe, potessero in qualche modo accordarsi coi tedeschi e inoltre riteneva che, con la conquista della penisola balcanica da parte di Hitler, la Turchia sarebbe potuta entrare nel conflitto a fianco dell’Asse; ordinò quindi a Wavell di inviare subito sul fronte greco tutte le forze non strettamente indispensabili in Cirenaica.
Il 23 febbraio Koritzis accettò ufficialmente l’aiuto della Gran Bretagna consistente in circa 100.000 uomini (anche se alla fine ne sbarcarono non più di 57.000), 240 pezzi di artiglieria, quasi 200 cannoni antiaerei e 142 carri armati; queste forze furono assegnate al comando del generale Henry Maitland Wilson che arrivò ad Atene il 28.
Il 9 marzo Cavallero, alla presenza di Mussolini nel frattempo giunto in Albania, lanciò un attacco nel settore tra Tomor e il fiume Voiussa ma, dopo quattro giorni di combattimento che causarono dodicimila morti, gli italiani non riuscirono nemmeno a fare una piccola avanzata! Vi era stata, infatti, una scarsa preparazione di artiglieria mediante pezzi tutti di piccolo calibro, un insufficiente addestramento dei rincalzi e l'assenza di un efficace appoggio aereo.
La decisione italiana di attaccare la Grecia non piacque affatto a Hitler che, in cuor suo, sperava di conquistare la penisola balcanica con manovre politiche; con la sua offensiva Mussolini, invece, aveva, in pratica, offerto agli inglesi la possibilità di mandare truppe e aerei nei Balcani e di minacciare, quindi, i preziosi pozzi petroliferi romeni. Inoltre Hitler non voleva che i Balcani costituissero una “spina nel fianco” per il suo attacco all’Unione Sovietica che, ormai, era stato fissato definitivamente per la metà del 1941.
La pressione diplomatica che il Fuhrer esercitò su Ungheria, Romania e Bulgaria fece si che questi Stati divenissero in pratica satelliti della Germania.
Il 13 gennaio 1941 Re Boris di Bulgaria venne invitato da Hitler in Germania per tre motivi: aderire al Patto Tripartito, consentire alle truppe tedesche il transito sul proprio territorio in vista dell’attacco alla Grecia e schierarsi militarmente a tutti gli effetti accanto alle potenze dell’Asse; dieci giorni dopo il capo di Stato Maggiore dell’esercito bulgaro preparò un piano di collaborazione e cooperazione con i nazisti.
L’adesione bulgara al Patto venne siglata il primo marzo a Vienna; il giorno dopo le truppe tedesche destinate all’invasione greca incominciarono a passare sul suo territorio per posizionarsi proprio sul confine con lo Stato ellenico. La Gran Bretagna ruppe le relazioni diplomatiche con Sofia.
Il 14 febbraio toccò al presidente del consiglio jugoslavo Dragisa Cvetkovic ricevere dal Fuhrer la richiesta di entrare nel Patto Tripartito; venti giorni dopo rinnovò la richiesta al principe Paolo, reggente di Jugoslavia, con la promessa che, in cambio del libero transito dei suoi soldati attraverso il suo territorio, la Jugoslavia si sarebbe annessa il porto di Salonicco e una parte della Macedonia.
Nel Paese, però, ci furono molte dimostrazioni antitedesche e anti italiane che coinvolsero contadini, esercito e Chiesa. Irritato, Hitler il 19 marzo lanciò un ultimatum concedendo solo 5 giorni di tempo per aderire al Patto; il 25 il ministro degli esteri Markovic e Cvetkovic firmarono il trattato di adesione nonostante gli ammonimenti ricevuti dal governo britannico.
Al ritorno in patria, però, i due vennero arrestati in seguito a un colpo di stato messo in atto da un gruppo di ufficiali dell’aeronautica capeggiati dal capo di Stato Maggiore Dusan Simovic; questi rovesciò il governo, costrinse all’esilio il principe Paolo e formò un esecutivo di unità nazionale che stipulò quasi subito un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica.
Il Fuhrer decise di invadere militarmente la Jugoslavia in quanto la considerava ormai uno Stato nemico ed il 30 marzo approvò, fin nei dettagli, il piano di attacco chiamato “operazione Marita”. Anche l’Ungheria, che già si trovava nell’orbita tedesca, decise di partecipare all'invasione insieme alla Germania.
Il 6 aprile 1941, alle ore 5.15, la Germania diede il via all’operazione "Marita" invadendo la Jugoslavia e dichiarando guerra alla Grecia; le sue forze, al comando del generale List, consistevano in sei divisioni di fanteria, tre motorizzate e due corazzate (con 200 carri armati); inoltre erano presenti il XLI corpo motorizzato e il 1° Panzergruppe mentre la Luftwaffe schierava quasi 800 aerei tra bombardieri, caccia e ricognitori.
Venne subito effettuato un pesantissimo bombardamento su Belgrado (operazione “Castigo”) e su tutti i campi d’aviazione.
La 2° armata tedesca, agli ordini di von Weichs, partendo dall’Austria e dall’Ungheria, puntò direttamente sulla capitale mentre la 12° armata di List attaccò verso Strumica; infine, il gruppo corazzato di von Kleist, avanzando dalla Bulgaria, si diresse sia a nord verso Nis sia a sud verso Skopje per tagliare i collegamenti tra le truppe jugoslave e quelle greche.
Il giorno successivo i nazisti occuparono Skopje e si diressero verso Monastir mentre, nel nord, puntarono verso Zagabria; intanto anche l’Italia aveva dichiarato guerra alla Jugoslavia e le sue truppe superarono la frontiera giuliana.
L’esercito jugoslavo poté fare ben poco contro la netta superiorità tedesca; il 10 aprile cadde Zagabria, il 12 la capitale Belgrado e il 16 Sarajevo. Nel frattempo gli italiani avanzavano sia verso Lubiana sia verso Spalato e Ragusa (l’attuale Dubrovnik) mentre gli ungheresi si diressero verso Novi Sad.
Il 17 aprile le ultime sacche di resistenza si arresero. L’atto di resa fu firmato a Belgrado alla presenza di Markovic per la Jugoslavia, von Weichs per la Germania e Bonfatti per l’Italia. Furono fatti prigionieri circa 334.000 uomini.
Il governo jugoslavo riparò, in esilio, prima in Grecia e poi a Londra. La Croazia si proclamò indipendente e venne messo a capo dello Stato Ante Pavelic, leader del movimento separatista locale e, in pratica, fantoccio di Mussolini.
A fronteggiare le forze di Hitler vi erano 4 divisioni greche e, una cinquantina di chilometri più indietro, il corpo di spedizione britannico di Wilson. Altre 3 divisioni greche erano schierate lungo la “linea Metaxas”, una catena di fortificazioni di circa 160 km che andava dai monti Belastica fino alla foce del fiume Nestos.
Il XVIII corpo d'armata doveva sfondare la linea Metaxas al centro e il XXX corpo d'armata doveva avanzare nella Tracia occidentale; queste due offensive avrebbero tagliato fuori l'armata greca situata nella Macedonia orientale.
Il 6 aprile 1941 il XXX corpo d'armata tedesco penetrò nella pianura di Komotini, nella Tracia orientale. Qui i greci erano inferiori di numero e male equipaggiati e non opposero grossa resistenza; Soltanto i due forti di Nymféa e di Echinos riuscirono a tenere testa per l'intera giornata.
Due colonne tedesche si diressero verso Xánthi mentre una terza si spinse verso Alessandropoli, sulla costa.
Il XVIII corpo d'armata tedesco, invece, sferrò tre attacchi contro tre punti diversi del settore centrale della linea Metaxas mentre la 72ª divisione di fanteria (con l'appoggio di carri armati, artiglieria e degli Stuka) avanzò da Nevrokop dirigendosi verso sud per attaccare la linea stessa a nord di Serre.
Mentre la Luftwaffe continuava a martellare i depositi militari nelle retrovie della linea difensiva greca danneggiando comunicazioni e impianti ferroviari, la 2ª divisione corazzata tedesca, la sera del 7 aprile, entrò a Dojran, all’estremità sinistra della linea difensiva greca.
L'aggiramento della linea Metaxas fu completato l'8 aprile dal XVIII corpo d'armata e causò la capitolazione dell'armata greca nella Macedonia orientale; il giorno dopo il grosso della colonna di carri armati tedeschi entrò a Salonicco. Settantamila uomini furono fatti prigionieri.
I tedeschi, con 15 divisioni, continuarono a premere sulle truppe greche e britanniche e, in una riunione con i comandanti britannici e con gli ufficiali dello stato maggiore ellenico, Wilson decise di ritirarsi; infatti, tenendo conto che la Luftwaffe in cielo era incontrastata, solamente il continuo arretramento poteva salvare il corpo di spedizione britannico dall'annientamento totale. Durante i giorni dal 14 al 25 aprile, la prima brigata corazzata non fece altro che ripiegare.
Nel frattempo anche gli italiani, il giorno 14, passarono all’offensiva e il loro attacco permise di riconquistare Corcia, Permeti, Argirocastro e Porto Palermo mentre alcune divisioni avanzarono nell’Epiro. Il 24 la nona armata di Mussolini arrivò al ponte di Perati congiungendosi con le truppe tedesche.
Il 18 aprile i nazisti oltrepassarono il monte Olimpo e presero la città di Larissa mentre, nel frattempo, il XL corpo d’armata entrò a Florina e Trikkala; in questo modo riuscirono a incunearsi tra i soldati greci a ovest e il corpo di spedizione britannico a est. Sbarrarono anche la ritirata alle truppe elleniche che arretravano davanti all’attacco italiano in Epiro.
Per i greci ormai la lotta era finita mentre i britannici cercavano di raggiungere il più velocemente possibile i punti prefissati per il reimbarco lasciando le retroguardie ad opporre un’ultima resistenza alle Termopili.
Dopo che il comandante dell’armata greca della Macedonia occidentale aveva già avviato trattative per la resa, il giorno 19 si tenne una riunione tra il re Giorgio II, Papagos, Wavell e Wilson; in essa i greci accettarono che il corpo di spedizione britannico lasciasse la Grecia continentale.
Due giorni dopo una divisione corazzata tedesca arrivò a Giannina accerchiando completamente i greci. A Larissa venne firmata la capitolazione dell’esercito ellenico e 16 divisioni deposero le armi. Il 23 aprile, presso Salonicco, venne sancita la resa anche con gli italiani.
Il 24 il generale Papagos si dimise, l'esercito greco capitolò e il re partì per l'esilio.
La Germania occupò militarmente la Macedonia centrale e orientale con l'importante porto di Salonicco, la capitale Atene e le isole dell'Egeo Settentrionale; la Bulgaria ottenne la Tracia; l'Italia, ottenne il controllo del resto del territorio greco.
Ad Atene venne instaurato un governo militare sotto il controllo tedesco e guidato dal Generale Tsolakoglu.
I britannici resistettero alle Termopili e in una nuova linea a sud di Tebe fino alla mattina del 26; questa resistenza fece in modo che potessero essere evacuati complessivamente più di 18.000 uomini (anche se ne rimanevano ancora più di 40.000).
Il giorno 27 le truppe italo-tedesche entrarono in Atene mentre la settimana successiva gli italiani occuparono le isole greche dello Ionio: Cefalonia, Zante ed Itaca.
Il 28, dai porti di Nauplia, Monemvasia e Kalamata, vennero evacuati 43.000 tra britannici e polacchi che si imbarcarono su 6 incrociatori, 19 cacciatorpediniere e numerose piccole navi da trasporto. Settemila soldati non fecero in tempo a salire sulle navi e furono fatti prigionieri.
La campagna di Grecia era conclusa ma restava in mano inglese l'isola di Creta che le truppe di Hitler conquistarono poi con un’operazione condotta da reparti di paracadutisti.
Per la seconda volta dopo Dunkerque l'esercito britannico dovette lasciare il continente europeo; nonostante l’80 per cento dei suoi effettivi fosse stato salvato, subì comunque grandissime perdite: 12.000 uomini, circa 200 velivoli, 400 cannoni, 1.800 mitragliatrici, 8.000 veicoli e 27 navi affondate.
La campagna di Grecia, però, influenzò l’opinione pubblica statunitense che condannò l’invasione tedesca e contribuì a far approvare al Congresso la legge “affitti e prestiti” con la quale venne dato inizio alle fondamentali forniture di materiale bellico americano.
Anche il bilancio italiano fu terribile; si ebbero 13.755 morti, 50.784 feriti, 12.638 congelati, 25.067 dispersi e 52.108 invalidi. Inoltre si mise in evidenza tutta la debolezza della potenza militare del Duce perché nessuno poteva prevedere che non sarebbe riuscito ad avere la meglio sulla piccola Grecia.
L’aspirazione di Mussolini di poter condurre in piena autonomia da Hitler la cosiddetta "guerra parallela" era definitivamente sfumata e l’Italia avrebbe, quindi, potuto proseguire la guerra solo come “satellite” della Germania.
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