Buongiorno, oggi è il 31 maggio.
Il 31 maggio 1997 viene inaugurato in Canada il Confederation Bridge, interrompendo così il secolare isolamento dell'Isola Prince Edward.
Nel mondo ci sono numerosi grandi ponti da poter annoverare tra i prodigi architettonici del nostro tempo. Cosa rende questo ponte degno di speciale menzione? Non è certo il più lungo del mondo, ma in inverno vanta di essere “il ponte più lungo su acque coperte di ghiaccio”.
Invariabilmente, durante i cinque mesi invernali lo stretto di Northumberland ghiaccia, ragion per cui il ponte è stato progettato per resistere a condizioni atmosferiche così rigide. Il suo punto di partenza è sulla Jourimain Island, nel New Brunswick, e attraversa lo stretto fino ad arrivare sulla costa di arenaria nella parte sud-occidentale dell’Isola Principe Edoardo, vicino al piccolo villaggio di Borden. Siete ansiosi di guidare l’automobile su questo viadotto a due corsie largo 11 metri? Non è permesso camminare e andare in bicicletta sul ponte, per cui è operativo un servizio navetta per trasportare pedoni e ciclisti. Nel tratto più alto vi troverete a circa 60 metri dall’acqua, all’incirca la stessa altezza di un edificio di 20 piani. Perché il ponte è così alto? Per far passare le navi più grosse nella parte centrale dello stretto.
Un progetto di queste dimensioni richiede la stipulazione di una complessa polizza assicurativa e molto lavoro di pianificazione ambientale per proteggere l’ecosistema. Un problema significativo era l’effetto che il ponte avrebbe avuto sul flusso di ghiaccio nello stretto durante la primavera. Un accumulo di ghiaccio poteva avere un forte impatto sul locale habitat terrestre e marino, nonché sull’industria della pesca. Perfino il materiale dragato dal fondo marino è stato trasferito in luoghi appositamente scelti con la speranza di creare nuovi ambienti per gli astici.
Gli elementi rompighiaccio di rame di forma conica posti a livello dell’acqua su ciascun pilone hanno una funzione importante. A cosa servono? Quando il ghiaccio è in movimento fa pressione contro il cono e scivola verso l’alto finché si rompe sotto il suo stesso peso. Quindi ricade nella corrente e scivola da uno dei due lati del pilone. Per ridurre al minimo l’accumulo di ghiaccio nello stretto, i piloni sono fissati al fondo roccioso a circa 250 metri di distanza l’una dall’altra.
La mole dei pezzi del ponte è impressionante. I quattro elementi principali sono: la base dei piloni, che poggia sul fondo dello stretto su una fondazione predisposta e si eleva fino alla superficie dell’acqua; il fusto dei piloni, collegato alla base; la trave principale, che è appoggiata sulla sommità del fusto del pilone; gli elementi intermedi in campata per collegare le travi principali. La costruzione ha richiesto l’impiego di oltre 6.000 lavoratori, e più dell’80 per cento del lavoro è stato compiuto sulla terraferma presso “un imponente cantiere di 60 ettari”. I singoli pezzi sono stati poi trasportati da qui al sito marino e assemblati in mare.
Una trave finita misura fino a 192 metri da un’estremità all’altra. Forse vi chiederete: ‘Com’è possibile spostare pezzi così grandi?’ Usando un trasportatore su rotaie. Vederne uno in azione fa pensare a una formica che trasporta un oggetto molto più grande di lei. Ogni trave pesa ben 7.500 tonnellate! Di certo, muovendosi molto lentamente lungo le rotaie alla velocità di tre metri al minuto, il trasportatore non avrebbe vinto una gara di velocità. Non è strano che i due trasportatori usati fossero soprannominati “la Tartaruga” e “l’Aragosta”!
Dato che queste “formiche” non erano anfibie, fu utilizzata una gru su pontone a doppio scafo alta 102 metri. Un giornalista la definì “un oggetto alquanto brutto”, come un uccello marino “con il collo troppo lungo e i piedi mostruosamente grandi”, ma capace di muoversi “con la grazia di un cigno”. Costruita nel 1990 per il lavoro sul ponte tra le isole danesi di Fionia e Sjælland, questa gru fu adattata e fatta venire da Dunkerque, in Francia. Fatto sorprendente, essa “può sollevare l’equivalente di 30 Boeing 737 ed è in grado di muoversi in mare aperto con la precisione di un chirurgo”. Guidata da un navigatore satellitare, ha posizionato le travi principali e tutti gli altri elementi con un margine di errore inferiore a 2 centimetri.
Il nuovo ponte è un simbolo del progresso. Tuttavia rimangono senza risposta alcune domande sul futuro. Ancora oggi, dopo 20 anni dall’apertura, è troppo presto per prevedere quale sarà l’impatto complessivo, soprattutto per quanto riguarda l’ambiente. Nel 2002 un biologo che studia gli astici riferì che apparentemente il ponte non aveva influito sulla popolazione degli astici. Inoltre affermò: “Gli ultimi cinque anni sono stati i migliori per i granchi commestibili”. Qual è stato l’effetto sul turismo?
Secondo un rapporto, in un recente periodo il turismo è cresciuto di “un incredibile 61 per cento”. Naturalmente la maggior parte dei turisti viene durante l’estate. Per giunta, tra il 1996 e il 2001 le esportazioni sono quasi raddoppiate. Anche l’occupazione è migliorata. Per quanto concerne gli aspetti negativi, molti dei lavoratori del servizio di traghetto ora guadagnano considerevolmente meno. Un’altra critica ha a che fare con l’elevato costo del pedaggio. Ma, come direbbe qualcuno, il progresso ha un prezzo.
La maggiore facilità di accesso alla terraferma ha fatto diminuire l’attrattiva dell’isola? Chi viene da lontano per godersi la tranquillità dell’isola forse si chiede se potrà ancora trovare un rifugio dal ritmo frenetico della terraferma fra i luoghi intatti e le dune sabbiose di Abegweit, la “culla nelle onde”, come la chiamavano i nativi Micmac.
Il Confederation Bridge è davvero un’opera notevole. Gli automobilisti tendono ad addormentarsi al volante durante il breve percorso? Difficilmente. La forma a S della strada li aiuta a rimanere attenti e a provare piacere nella guida. Forse il ponte sarà un ulteriore incentivo a visitare questo “Giardino del Golfo” e assaporarne la vita pacifica, sia che vi piaccia Anna dai capelli rossi o meno.
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venerdì 31 maggio 2024
giovedì 30 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 30 maggio.
Il 30 maggio 1848 ebbe luogo la Battaglia di Goito.
Il 27 maggio Radetzky uscì da Verona diretto verso Mantova. Per raggiungere il capoluogo virgiliano fece un giro largo, marciando a sud, in modo da aggirare le posizioni sarde a Villafranca. Giunto a Mantova la sera del 28 maggio Radetzky si accampò a San Giorgio. Il 29 fece avanzare 20mila uomini (19 battaglioni, 2 squadroni e 52 cannoni) verso Curtatone e Montanara, località presidiate dal contingente toscano formato da 6 mila uomini e munito di soli 3 cannoni. I Toscani offrirono una strenua e inaspettata resistenza (166 morti, 510 feriti e 1.186 prigionieri), che costò agli Austriaci ben 1.000 fra morti e feriti e, soprattutto, diede il tempo all'esercito piemontese di concentrarsi su Goito.
Dopo Curtatone e Montanara, l'esercito austriaco rallentò la marcia e si fece prudente. Nella circostanza Radetzky commise due fondamentali errori: inviò 12.000 uomini del II Corpo in una lunghissima e inutile manovra aggirante, sulla direttrice Rodigo-Ceresara, sottraendoli in tal modo alle forze in campo; procedette con ritardo tale da giungere a Goito solo alle tre del pomeriggio del 30 maggio.
Il ritardo aveva, infatti, permesso a Carlo Alberto di prepararsi alla manovra aggirante preparata dal Radetzky, concentrando su Goito 23mila uomini.
La difesa di Goito era un imperativo per i sardo-piemontesi, tenuto conto che un eventuale arretramento avrebbe compromesso il transito sul Mincio, tagliando fuori l’intera metà dell’esercito sulla sinistra del fiume ovvero tutte le posizioni conquistate nell’ultimo mese.
Lo schieramento era stato completato a mezzogiorno, e da Goito andava alla frazione di Cerlongo, in direzione di Brescia, con alle spalle il nodo viario di Volta, circa 7 km più indietro.
Il tardivo riconoscimento della necessità di mantenere quella posizione strategica aveva tuttavia permesso di raccogliere solo una parte delle truppe potenzialmente a disposizione. Bava mise insieme 21 battaglioni, 23 squadroni e 56 cannoni. Ovvero poco più di 23mila uomini, tutti del 1° corpo, e della divisione di riserva. Mancava all’appello la brigata Regina, 2 dei 5 battaglioni della brigata Cuneo, 3 dei 5 battaglioni della brigata Acqui, che non fecero in tempo a raggiungere il campo di battaglia. Mancava, inoltre, l’intero 2° corpo del di Sonnaz, schierato all’assedio di Peschiera ed alla protezione del fronte settentrionale. Si trattava, insomma, di poco più della metà dell’esercito che Carlo Alberto aveva portato alla campagna.
Le truppe vennero fatte marciare da nord verso Goito, man mano che le esplorazioni confermavano l’assenza di avanguardie austriache, attardate, come si è visto, a Curtatone.
Giunta in loco, venne divisa in 5 gruppi principali:
• all’estrema destra 2 dei 3 reggimenti di cavalleria, insieme a molti bersaglieri, ad evitare eventuali tentativi di aggiramento
• a destra, su Cerlongo, stava la brigata Cuneo (solo 3 dei 5 battaglioni)
• a sinistra, sino a Goito, stava la brigata Casale, sostenuta dalla brigata Acqui (solo 2 dei 5 battaglioni) un piccolo battaglione napoletano
• all'estrema sinistra, Goito era occupata da 2 battaglioni, fortificata e protetta da numerosa artiglieria, e veniva ad appoggiarsi al fiume.
• in seconda linea, sulle alture dette ‘dei Somenzari’, la brigata Aosta, la brigata Guardie e una forte riserva d'artiglieria
Si trattava di tutto ciò che il Bava era riuscito a richiamare. Ma non sarebbe stato sufficiente se Radetzky avesse portato tra Goito e Cerlongo l’intero esercito che si era trascinato da Verona, aggiunto ai 7 battaglioni di Mantova: in totale fuori Mantova aveva a disposizione 37 battaglioni, 27 squadroni ed 88 cannoni: sino a 44mila uomini contro 23mila. Si trattava, insomma, di circa i 2/3 dell’esercito del feldmaresciallo, contro poco più della metà dell’esercito di Carlo Alberto.
Ma quando l’esercito austriaco si presentò di fronte al Bava ed a Carlo Alberto era composto solo dal I Corpo del Wratislaw, rinforzato di alcune unità del II Corpo e seguito dalla divisione di riserva del Wocher. In tutto, probabilmente, 29mila uomini.
Il resto, 12mila uomini, affidati al d'Aspre, si erano incamminati sulla lunga strada per Rodigo - Ceresara, mirando ad aggirare le linee sarde sulla direttrice Ceresara – Guidizzolo. Manovra che non avrebbe mai raggiunto l’obiettivo. Il 30 maggio Carlo Alberto, dal suo punto di osservazione sulla collina detta ‘dei Somenzari’, vide arrivare le truppe del Wratislaw che marciavano lungo la direttrice Sacca-Goito.
Giunte in prossimità del punto di attacco, le colonne si arrestarono, vennero raggiunte dalla retrovia d’artiglieria e cavalleria ed impiegarono molto tempo per schierarsi sul terreno intricato di colline e coltivazioni. L’assalto iniziò molto tardi, verso le 15.00, contro la sinistra del Bava, appoggiata su Goito. Venne annunciato da un nutrito fuoco d'artiglieria, ben risposto dai 14 pezzi dei difensori. Il Bava staccò truppe dal centro e fece passare sulla riva sinistra del Mincio un battaglione con quattro pezzi e prendere il nemico di fianco. In tal modo l'attacco austriaco venne cinque volte ripetuto e cinque volte respinto.
Poco dopo cominciò anche l’assalto delle brigate Wohlgemuth e Strassoldo alla destra sarda. La linea difensiva piemontese cominciò a vacillare e alcuni battaglioni della brigata Cuneo presero a ripiegare. Gli Austriaci giunsero ad impadronirsi delle prime case di Cerlongo.
A quel punto l'artiglieria sarda, dalle retrovie, venne posta in batteria e sostenne la fanteria con un nutrito fuoco di sbarramento, arrestando l’avanzata austriaca. La brigata Aosta, posta in seconda linea, fu mandata a tappare la falla, e recuperò terreno. Intervenne anche l’Aosta Cavalleria ed il Nizza Cavalleria, all’inizio della battaglia schierate sul centrale poggio ‘dei Somenzari’, accanto ai Carabinieri a cavallo.
L’azione consentì di interrompere il tentativo di aggiramento del Radetzky, e porne le avanguardie sulla difensiva.
Venne, quindi, l’ora del contrattacco. Vittorio Emanuele, erede al trono e Duca di Savoia, condusse la brigata Guardie (l’ultima riserva) verso il fronte: quella marcia intercettò la fuga della brigata Cuneo, che venne arrestata e riorganizzata. Riannodate le fila le 2 brigate, verso le 18,00, contrattaccarono il centro e l'ala sinistra del feldmaresciallo: le fecero indietreggiare per poi caricarlo alla baionetta, gettarlo nello scompiglio e costringerlo ad un precipitoso dietro-front. Vittorio Emanuele guidò personalmente all'assalto la brigata Guardia, rimanendo lievemente ferito. Nel combattimento si erano distinti anche i bersaglieri delle compagnie del Lions, Cart e De Biller.Verso le 18.30, dopo tre ore e mezzo di combattimento, Radetzky ordinò la ritirata, riconoscendo la sconfitta: nessuna notizia dal d’Aspre (attardato lungo la strada tra Ceresara e Solarolo), la destra sfondata, il tentativo di aggiramento della linea Goito-Cerlongo definitivamente fallito. Il Maresciallo aveva perso la battaglia, poiché aveva commesso un grave errore di condotta strategica: pur disponendo di forze sovrabbondanti, ne aveva impiegato una parte rilevante in una fallimentare, quanto ridondante, diversione.
Carlo Alberto aveva vinto la terza battaglia, su tre combattute. Bava aveva confermato il successo di Santa Lucia, come il Sonnaz aveva vinto a Pastrengo. I Toscani a Curtatone avevano dimostrato grande ardimento e resistenza.
La battaglia di Goito del 30 maggio ebbe conseguenza strategica assai rilevante: Carlo Alberto aveva interrotto la grande manovra del Radetzky e la liberazione di Peschiera dall’assedio era avvenuta.
Non solo il grosso dell’esercito non era riuscito a risalire il Mincio, ma, pure, una colonna di soccorso (colma di vettovaglie) scesa da Rivoli Veronese e forte di ben 6mila uomini era stata bloccata dai Sardi a Calmasino. Il fatto che tale combattimento sia avvenuto il 29, in coincidenza con gli scontri di Curtatone, testimonia sia della fretta del Radetzky, sia di una certa disarticolazione dei comandi.
Quel giorno stesso, prima ancora che si cominciasse a sparare a Goito, la guarnigione di Peschiera si arrese. Si consegnarono 1.600 uomini, 150 cannoni e una gran quantità di polvere e di proiettili. Ciò che portava il saldo generale della ‘grande manovra’ decisamente all’attivo di Carlo Alberto.
Infatti sul campo di Goito, mentre cominciava la ritirata austriaca, un corriere inviato dal Duca di Genova recò la notizia della resa di Peschiera, e per tutto il campo i soldati presero a gridare: ‘Viva il re d'Italia’.
Il 30 maggio 1848 ebbe luogo la Battaglia di Goito.
Il 27 maggio Radetzky uscì da Verona diretto verso Mantova. Per raggiungere il capoluogo virgiliano fece un giro largo, marciando a sud, in modo da aggirare le posizioni sarde a Villafranca. Giunto a Mantova la sera del 28 maggio Radetzky si accampò a San Giorgio. Il 29 fece avanzare 20mila uomini (19 battaglioni, 2 squadroni e 52 cannoni) verso Curtatone e Montanara, località presidiate dal contingente toscano formato da 6 mila uomini e munito di soli 3 cannoni. I Toscani offrirono una strenua e inaspettata resistenza (166 morti, 510 feriti e 1.186 prigionieri), che costò agli Austriaci ben 1.000 fra morti e feriti e, soprattutto, diede il tempo all'esercito piemontese di concentrarsi su Goito.
Dopo Curtatone e Montanara, l'esercito austriaco rallentò la marcia e si fece prudente. Nella circostanza Radetzky commise due fondamentali errori: inviò 12.000 uomini del II Corpo in una lunghissima e inutile manovra aggirante, sulla direttrice Rodigo-Ceresara, sottraendoli in tal modo alle forze in campo; procedette con ritardo tale da giungere a Goito solo alle tre del pomeriggio del 30 maggio.
Il ritardo aveva, infatti, permesso a Carlo Alberto di prepararsi alla manovra aggirante preparata dal Radetzky, concentrando su Goito 23mila uomini.
La difesa di Goito era un imperativo per i sardo-piemontesi, tenuto conto che un eventuale arretramento avrebbe compromesso il transito sul Mincio, tagliando fuori l’intera metà dell’esercito sulla sinistra del fiume ovvero tutte le posizioni conquistate nell’ultimo mese.
Lo schieramento era stato completato a mezzogiorno, e da Goito andava alla frazione di Cerlongo, in direzione di Brescia, con alle spalle il nodo viario di Volta, circa 7 km più indietro.
Il tardivo riconoscimento della necessità di mantenere quella posizione strategica aveva tuttavia permesso di raccogliere solo una parte delle truppe potenzialmente a disposizione. Bava mise insieme 21 battaglioni, 23 squadroni e 56 cannoni. Ovvero poco più di 23mila uomini, tutti del 1° corpo, e della divisione di riserva. Mancava all’appello la brigata Regina, 2 dei 5 battaglioni della brigata Cuneo, 3 dei 5 battaglioni della brigata Acqui, che non fecero in tempo a raggiungere il campo di battaglia. Mancava, inoltre, l’intero 2° corpo del di Sonnaz, schierato all’assedio di Peschiera ed alla protezione del fronte settentrionale. Si trattava, insomma, di poco più della metà dell’esercito che Carlo Alberto aveva portato alla campagna.
Le truppe vennero fatte marciare da nord verso Goito, man mano che le esplorazioni confermavano l’assenza di avanguardie austriache, attardate, come si è visto, a Curtatone.
Giunta in loco, venne divisa in 5 gruppi principali:
• all’estrema destra 2 dei 3 reggimenti di cavalleria, insieme a molti bersaglieri, ad evitare eventuali tentativi di aggiramento
• a destra, su Cerlongo, stava la brigata Cuneo (solo 3 dei 5 battaglioni)
• a sinistra, sino a Goito, stava la brigata Casale, sostenuta dalla brigata Acqui (solo 2 dei 5 battaglioni) un piccolo battaglione napoletano
• all'estrema sinistra, Goito era occupata da 2 battaglioni, fortificata e protetta da numerosa artiglieria, e veniva ad appoggiarsi al fiume.
• in seconda linea, sulle alture dette ‘dei Somenzari’, la brigata Aosta, la brigata Guardie e una forte riserva d'artiglieria
Si trattava di tutto ciò che il Bava era riuscito a richiamare. Ma non sarebbe stato sufficiente se Radetzky avesse portato tra Goito e Cerlongo l’intero esercito che si era trascinato da Verona, aggiunto ai 7 battaglioni di Mantova: in totale fuori Mantova aveva a disposizione 37 battaglioni, 27 squadroni ed 88 cannoni: sino a 44mila uomini contro 23mila. Si trattava, insomma, di circa i 2/3 dell’esercito del feldmaresciallo, contro poco più della metà dell’esercito di Carlo Alberto.
Ma quando l’esercito austriaco si presentò di fronte al Bava ed a Carlo Alberto era composto solo dal I Corpo del Wratislaw, rinforzato di alcune unità del II Corpo e seguito dalla divisione di riserva del Wocher. In tutto, probabilmente, 29mila uomini.
Il resto, 12mila uomini, affidati al d'Aspre, si erano incamminati sulla lunga strada per Rodigo - Ceresara, mirando ad aggirare le linee sarde sulla direttrice Ceresara – Guidizzolo. Manovra che non avrebbe mai raggiunto l’obiettivo. Il 30 maggio Carlo Alberto, dal suo punto di osservazione sulla collina detta ‘dei Somenzari’, vide arrivare le truppe del Wratislaw che marciavano lungo la direttrice Sacca-Goito.
Giunte in prossimità del punto di attacco, le colonne si arrestarono, vennero raggiunte dalla retrovia d’artiglieria e cavalleria ed impiegarono molto tempo per schierarsi sul terreno intricato di colline e coltivazioni. L’assalto iniziò molto tardi, verso le 15.00, contro la sinistra del Bava, appoggiata su Goito. Venne annunciato da un nutrito fuoco d'artiglieria, ben risposto dai 14 pezzi dei difensori. Il Bava staccò truppe dal centro e fece passare sulla riva sinistra del Mincio un battaglione con quattro pezzi e prendere il nemico di fianco. In tal modo l'attacco austriaco venne cinque volte ripetuto e cinque volte respinto.
Poco dopo cominciò anche l’assalto delle brigate Wohlgemuth e Strassoldo alla destra sarda. La linea difensiva piemontese cominciò a vacillare e alcuni battaglioni della brigata Cuneo presero a ripiegare. Gli Austriaci giunsero ad impadronirsi delle prime case di Cerlongo.
A quel punto l'artiglieria sarda, dalle retrovie, venne posta in batteria e sostenne la fanteria con un nutrito fuoco di sbarramento, arrestando l’avanzata austriaca. La brigata Aosta, posta in seconda linea, fu mandata a tappare la falla, e recuperò terreno. Intervenne anche l’Aosta Cavalleria ed il Nizza Cavalleria, all’inizio della battaglia schierate sul centrale poggio ‘dei Somenzari’, accanto ai Carabinieri a cavallo.
L’azione consentì di interrompere il tentativo di aggiramento del Radetzky, e porne le avanguardie sulla difensiva.
Venne, quindi, l’ora del contrattacco. Vittorio Emanuele, erede al trono e Duca di Savoia, condusse la brigata Guardie (l’ultima riserva) verso il fronte: quella marcia intercettò la fuga della brigata Cuneo, che venne arrestata e riorganizzata. Riannodate le fila le 2 brigate, verso le 18,00, contrattaccarono il centro e l'ala sinistra del feldmaresciallo: le fecero indietreggiare per poi caricarlo alla baionetta, gettarlo nello scompiglio e costringerlo ad un precipitoso dietro-front. Vittorio Emanuele guidò personalmente all'assalto la brigata Guardia, rimanendo lievemente ferito. Nel combattimento si erano distinti anche i bersaglieri delle compagnie del Lions, Cart e De Biller.Verso le 18.30, dopo tre ore e mezzo di combattimento, Radetzky ordinò la ritirata, riconoscendo la sconfitta: nessuna notizia dal d’Aspre (attardato lungo la strada tra Ceresara e Solarolo), la destra sfondata, il tentativo di aggiramento della linea Goito-Cerlongo definitivamente fallito. Il Maresciallo aveva perso la battaglia, poiché aveva commesso un grave errore di condotta strategica: pur disponendo di forze sovrabbondanti, ne aveva impiegato una parte rilevante in una fallimentare, quanto ridondante, diversione.
Carlo Alberto aveva vinto la terza battaglia, su tre combattute. Bava aveva confermato il successo di Santa Lucia, come il Sonnaz aveva vinto a Pastrengo. I Toscani a Curtatone avevano dimostrato grande ardimento e resistenza.
La battaglia di Goito del 30 maggio ebbe conseguenza strategica assai rilevante: Carlo Alberto aveva interrotto la grande manovra del Radetzky e la liberazione di Peschiera dall’assedio era avvenuta.
Non solo il grosso dell’esercito non era riuscito a risalire il Mincio, ma, pure, una colonna di soccorso (colma di vettovaglie) scesa da Rivoli Veronese e forte di ben 6mila uomini era stata bloccata dai Sardi a Calmasino. Il fatto che tale combattimento sia avvenuto il 29, in coincidenza con gli scontri di Curtatone, testimonia sia della fretta del Radetzky, sia di una certa disarticolazione dei comandi.
Quel giorno stesso, prima ancora che si cominciasse a sparare a Goito, la guarnigione di Peschiera si arrese. Si consegnarono 1.600 uomini, 150 cannoni e una gran quantità di polvere e di proiettili. Ciò che portava il saldo generale della ‘grande manovra’ decisamente all’attivo di Carlo Alberto.
Infatti sul campo di Goito, mentre cominciava la ritirata austriaca, un corriere inviato dal Duca di Genova recò la notizia della resa di Peschiera, e per tutto il campo i soldati presero a gridare: ‘Viva il re d'Italia’.
mercoledì 29 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 29 maggio.
Il 29 maggio 1914 si ebbe il terzo più grave disastro navale della storia moderna.
Il 28 maggio 1914, uno “steamer”, cioè un piroscafo inglese, che si chiamava RMS (‘Royal Mail Steamer’), “Empress of Ireland” (‘Imperatrice d’Irlanda’), molla gli ormeggi dal porto di Québec, in Canada, per far rotta su Liverpool, Inghilterra, con 1.477 persone a bordo.
Intorno alle 01.00 del mattino seguente la vedetta segnalava la presenza di un'altra nave che procedeva in senso contrario sulla medesima rotta, la nave da carico norvegese Storstad. Il Comandante Kendall dell'Empress of Ireland inviava segnali con la sirena alla Storstad per avvertire quest'ultima della propria presenza, mentre ordinava nel contempo un cambiamento di rotta di 10º a sinistra rispetto alla rotta che era intento a seguire.
La Storstad rispondeva al segnale informando che avrebbe continuato ad avanzare sulla medesima propria rotta. Dopo il leggero cambiamento di rotta della Empress le due navi avrebbero dovuto passarsi fianco a fianco senza problemi, ma improvvisamente un banco di nebbia avvolgeva la Storsad e a quel punto il comandante dell'Empress ordinava per sicurezza di fermare i motori e avvertiva l'altra unità impegnata nel passaggio a breve distanza, ma nessun altro segnale arrivava da quest'ultima mentre la nebbia avvolgeva rapidamente anche la Empress.
Ciò che accadde a quel punto è di difficile interpretazione: poco dopo la Storstad entrava in collisione con la Empress infilandosi con la propria prua nel fianco destro del transatlantico per ben sette metri fin sotto la linea di galleggiamento. Dopo l'impatto la Storstad, con i motori indietro tutta, si disincagliava e spariva nella nebbia, mentre la Empress continuando ad imbarcare acqua si capovolgeva su un fianco.
Il 29 maggio 1914 alle 01.20 del mattino, dopo appena 9 ore e 42 minuti di navigazione la Empress of Ireland si inabissava nelle acque del fiume San Lorenzo in soli 14 minuti. Le vittime di questo disastro furono 1.012 persone tra cui almeno una ventina di nazionalità italiana.
Il 29 maggio 1914 si ebbe il terzo più grave disastro navale della storia moderna.
Il 28 maggio 1914, uno “steamer”, cioè un piroscafo inglese, che si chiamava RMS (‘Royal Mail Steamer’), “Empress of Ireland” (‘Imperatrice d’Irlanda’), molla gli ormeggi dal porto di Québec, in Canada, per far rotta su Liverpool, Inghilterra, con 1.477 persone a bordo.
Intorno alle 01.00 del mattino seguente la vedetta segnalava la presenza di un'altra nave che procedeva in senso contrario sulla medesima rotta, la nave da carico norvegese Storstad. Il Comandante Kendall dell'Empress of Ireland inviava segnali con la sirena alla Storstad per avvertire quest'ultima della propria presenza, mentre ordinava nel contempo un cambiamento di rotta di 10º a sinistra rispetto alla rotta che era intento a seguire.
La Storstad rispondeva al segnale informando che avrebbe continuato ad avanzare sulla medesima propria rotta. Dopo il leggero cambiamento di rotta della Empress le due navi avrebbero dovuto passarsi fianco a fianco senza problemi, ma improvvisamente un banco di nebbia avvolgeva la Storsad e a quel punto il comandante dell'Empress ordinava per sicurezza di fermare i motori e avvertiva l'altra unità impegnata nel passaggio a breve distanza, ma nessun altro segnale arrivava da quest'ultima mentre la nebbia avvolgeva rapidamente anche la Empress.
Ciò che accadde a quel punto è di difficile interpretazione: poco dopo la Storstad entrava in collisione con la Empress infilandosi con la propria prua nel fianco destro del transatlantico per ben sette metri fin sotto la linea di galleggiamento. Dopo l'impatto la Storstad, con i motori indietro tutta, si disincagliava e spariva nella nebbia, mentre la Empress continuando ad imbarcare acqua si capovolgeva su un fianco.
Il 29 maggio 1914 alle 01.20 del mattino, dopo appena 9 ore e 42 minuti di navigazione la Empress of Ireland si inabissava nelle acque del fiume San Lorenzo in soli 14 minuti. Le vittime di questo disastro furono 1.012 persone tra cui almeno una ventina di nazionalità italiana.
martedì 28 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 28 maggio.
Il 28 maggio 1999, dopo 22 anni di restauri, viene riaperto al pubblico a Milano il Cenacolo di Leonardo.
Tra il 1495 e il 1497 Leonardo dipinge nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, a Milano, un'Ultima Cena, conosciuta anche come ”Cenacolo”.
In quest´opera Leonardo rappresenta le emozioni dei protagonisti della storia, Gesù e gli Apostoli. Sappiamo che per il pittore è molto importante illustrare i ”moti dell'animo”: nel suo Trattato della Pittura scrive che il bravo pittore deve saper rappresentare non solo l'aspetto esteriore dell'uomo ma anche i suoi pensieri, le sue emozioni; la prima cosa non è difficile da fare, ma la seconda sì, perché pensieri ed emozioni si devono rendere con i gesti e gli atteggiamenti (Lo bono pittore ha da dipingere due cose principali, cioè l'homo e il concetto della mente sua. Il primo è facile, il secondo difficile perché s'ha a figurare con gesti e movimenti delle membra).
Per questo motivo Leonardo decide di rappresentare il momento successivo alle parole di Gesù "Uno di voi mi tradirà". È il momento più drammatico della Cena: ogni apostolo si domanda, e domanda agli altri, chi può essere il traditore. Leonardo si concentra sull'effetto che le parole di Gesù provocano sugli apostoli, sulla loro reazione: proprio per questo cambia il modo di rappresentare la scena rispetto agli artisti precedenti.
Cominciamo da sinistra. Il primo gruppo è formato da tre personaggi in piedi: Bartolomeo, Giacomo Minore e Andrea. Bartolomeo ha le mani poggiate sul tavolo e si tende con il corpo verso Cristo: dà l'impressione di non voler credere alle terribili parole che ha sentito e chiede come una conferma. Giacomo Minore poggia una mano sul braccio di Andrea, e con l'altra tocca la spalla di Pietro, nel gruppo successivo. Andrea sta fermo al suo posto e solleva in alto le mani con i palmi rivolti all'esterno, come per allontanare da sé i sospetti.
Nel secondo gruppo troviamo Pietro, Giuda e Giovanni. Giovanni, uomo di carattere tranquillo, ascolta in silenzio le parole che Pietro sussurra nel suo orecchio; Pietro ha in mano un coltello e reagisce con rabbia alle parole di Cristo. Giuda è isolato, con il gomito destro poggiato sul tavolo.
Il terzo gruppo è composto da Tommaso, Giacomo Maggiore e Filippo. Giacomo è seduto ed allarga le braccia: con il suo gesto vuole dimostrare che non ha niente da nascondere. Tommaso, con il dito teso, si piega verso Cristo: la sua caratteristica è quella di mettere sempre in dubbio le parole degli altri. Filippo è in piedi, con le mani sul petto in segno di innocenza.
Nel quarto gruppo ci sono Matteo, Simone e Taddeo. Matteo tende le braccia verso Cristo, ma il busto ed il viso sono rivolti all'indietro, verso Simone e Taddeo, come per comunicare la sua angoscia; Taddeo è rappresentato con le mani aperte verso l'alto, per manifestare la sua meraviglia.
Leonardo fa capire il carattere di ogni apostolo e come ognuno di loro reagisce alla stessa situazione emotiva in modo diverso, in base al suo diverso carattere: è veramente l'applicazione della sua teoria dei moti dell'animo.
Il restauro dell’Ultima Cena spesso viene ricordato come una delle opere più complesse nel campo della conservazione del patrimonio artistico italiano, non solo per la lunghezza della sua durata e per il numero di persone coinvolte. Occorre, infatti, considerare anche le difficilissime condizioni in cui si trovava il dipinto, realizzato tra il 1494 e il 1498.
Con l’Ultima Cena Leonardo aveva voluto sperimentare una nuova tecnica; anziché fare un affresco, aveva dipinto con una tecnica mista a secco su due strati di preparazione dell’intonaco. Ma i risultati ben presto si erano rivelati insoddisfacenti e già alla metà del Cinquecento l’opera presentava evidenti segni di usura. A più riprese, in seguito, vennero decisi vari interventi di restauro, spesso ottenendo l’effetto contrario a quello desiderato: l’opera divenne quasi illeggibile, ricoperta di innumerevoli strati di pitture, colle, stucchi che, insieme alla polvere, alla sporcizia e all’umidità, convinsero molti esperti a giudicare l’Ultima Cena un’opera “irrestaurabile”.
Al degrado avevano contribuito anche l’uso del Cenacolo come magazzino per le truppe napoleoniche alla fine del Settecento, l’apertura da parte dei frati di Santa Maria delle Grazie di una porta proprio sotto la figura del Cristo e, nel 1943, i bombardamenti che colpirono in pieno l’Ultima Cena, distruggendo la volta e una parete, ma lasciando miracolosamente in piedi, seppure senza la protezione del tetto, la parete con il dipinto di Leonardo e quella antistante con un grande affresco del Montorfano.
Il lavoro della restauratrice Pinin Brambilla e di tutti i suoi collaboratori si è quindi dimostrato estremamente complesso e laborioso. E’ stato necessario compiere un numero incredibile di campionature e di studi per trovare le tecniche migliori con cui restaurare l’opera e, soprattutto, per riportare alla luce i colori e le sagome originali di Leonardo.
Grazie agli enormi sforzi compiuti, si è potuto scoprire come il tempo e i restauri del passato avessero completamente stravolto l’opera vinciana, trasformando, ad esempio, i capelli di Matteo da biondi a scuri, oppure alcune bocche dei presenti a tavola da aperte, in segno di stupore, a chiuse. Tutti particolari, questi, che hanno dato nuova vita ad una delle opere più famose del mondo e che hanno permesso di riportare alla luce i veri tratti disegnati alla fine del 1400 da Leonardo.
Il restauro è stato completato con la realizzazione di impianti per la conservazione ambientale: filtraggio dell'aria, abbattimento delle polveri, isolamento della sala, monitoraggio statico della parete e delle condizioni termo-igrometriche, regolazione di intensità e calore dell’illuminazione, impianti di sicurezza.
Dal 28 maggio 1999, all’indomani di una festosa inaugurazione, il dipinto di Leonardo, completamente rigenerato, è tornato ad essere una delle maggiori attrazioni artistiche di Milano.
Il 28 maggio 1999, dopo 22 anni di restauri, viene riaperto al pubblico a Milano il Cenacolo di Leonardo.
Tra il 1495 e il 1497 Leonardo dipinge nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, a Milano, un'Ultima Cena, conosciuta anche come ”Cenacolo”.
In quest´opera Leonardo rappresenta le emozioni dei protagonisti della storia, Gesù e gli Apostoli. Sappiamo che per il pittore è molto importante illustrare i ”moti dell'animo”: nel suo Trattato della Pittura scrive che il bravo pittore deve saper rappresentare non solo l'aspetto esteriore dell'uomo ma anche i suoi pensieri, le sue emozioni; la prima cosa non è difficile da fare, ma la seconda sì, perché pensieri ed emozioni si devono rendere con i gesti e gli atteggiamenti (Lo bono pittore ha da dipingere due cose principali, cioè l'homo e il concetto della mente sua. Il primo è facile, il secondo difficile perché s'ha a figurare con gesti e movimenti delle membra).
Per questo motivo Leonardo decide di rappresentare il momento successivo alle parole di Gesù "Uno di voi mi tradirà". È il momento più drammatico della Cena: ogni apostolo si domanda, e domanda agli altri, chi può essere il traditore. Leonardo si concentra sull'effetto che le parole di Gesù provocano sugli apostoli, sulla loro reazione: proprio per questo cambia il modo di rappresentare la scena rispetto agli artisti precedenti.
Cominciamo da sinistra. Il primo gruppo è formato da tre personaggi in piedi: Bartolomeo, Giacomo Minore e Andrea. Bartolomeo ha le mani poggiate sul tavolo e si tende con il corpo verso Cristo: dà l'impressione di non voler credere alle terribili parole che ha sentito e chiede come una conferma. Giacomo Minore poggia una mano sul braccio di Andrea, e con l'altra tocca la spalla di Pietro, nel gruppo successivo. Andrea sta fermo al suo posto e solleva in alto le mani con i palmi rivolti all'esterno, come per allontanare da sé i sospetti.
Nel secondo gruppo troviamo Pietro, Giuda e Giovanni. Giovanni, uomo di carattere tranquillo, ascolta in silenzio le parole che Pietro sussurra nel suo orecchio; Pietro ha in mano un coltello e reagisce con rabbia alle parole di Cristo. Giuda è isolato, con il gomito destro poggiato sul tavolo.
Il terzo gruppo è composto da Tommaso, Giacomo Maggiore e Filippo. Giacomo è seduto ed allarga le braccia: con il suo gesto vuole dimostrare che non ha niente da nascondere. Tommaso, con il dito teso, si piega verso Cristo: la sua caratteristica è quella di mettere sempre in dubbio le parole degli altri. Filippo è in piedi, con le mani sul petto in segno di innocenza.
Nel quarto gruppo ci sono Matteo, Simone e Taddeo. Matteo tende le braccia verso Cristo, ma il busto ed il viso sono rivolti all'indietro, verso Simone e Taddeo, come per comunicare la sua angoscia; Taddeo è rappresentato con le mani aperte verso l'alto, per manifestare la sua meraviglia.
Leonardo fa capire il carattere di ogni apostolo e come ognuno di loro reagisce alla stessa situazione emotiva in modo diverso, in base al suo diverso carattere: è veramente l'applicazione della sua teoria dei moti dell'animo.
Il restauro dell’Ultima Cena spesso viene ricordato come una delle opere più complesse nel campo della conservazione del patrimonio artistico italiano, non solo per la lunghezza della sua durata e per il numero di persone coinvolte. Occorre, infatti, considerare anche le difficilissime condizioni in cui si trovava il dipinto, realizzato tra il 1494 e il 1498.
Con l’Ultima Cena Leonardo aveva voluto sperimentare una nuova tecnica; anziché fare un affresco, aveva dipinto con una tecnica mista a secco su due strati di preparazione dell’intonaco. Ma i risultati ben presto si erano rivelati insoddisfacenti e già alla metà del Cinquecento l’opera presentava evidenti segni di usura. A più riprese, in seguito, vennero decisi vari interventi di restauro, spesso ottenendo l’effetto contrario a quello desiderato: l’opera divenne quasi illeggibile, ricoperta di innumerevoli strati di pitture, colle, stucchi che, insieme alla polvere, alla sporcizia e all’umidità, convinsero molti esperti a giudicare l’Ultima Cena un’opera “irrestaurabile”.
Al degrado avevano contribuito anche l’uso del Cenacolo come magazzino per le truppe napoleoniche alla fine del Settecento, l’apertura da parte dei frati di Santa Maria delle Grazie di una porta proprio sotto la figura del Cristo e, nel 1943, i bombardamenti che colpirono in pieno l’Ultima Cena, distruggendo la volta e una parete, ma lasciando miracolosamente in piedi, seppure senza la protezione del tetto, la parete con il dipinto di Leonardo e quella antistante con un grande affresco del Montorfano.
Il lavoro della restauratrice Pinin Brambilla e di tutti i suoi collaboratori si è quindi dimostrato estremamente complesso e laborioso. E’ stato necessario compiere un numero incredibile di campionature e di studi per trovare le tecniche migliori con cui restaurare l’opera e, soprattutto, per riportare alla luce i colori e le sagome originali di Leonardo.
Grazie agli enormi sforzi compiuti, si è potuto scoprire come il tempo e i restauri del passato avessero completamente stravolto l’opera vinciana, trasformando, ad esempio, i capelli di Matteo da biondi a scuri, oppure alcune bocche dei presenti a tavola da aperte, in segno di stupore, a chiuse. Tutti particolari, questi, che hanno dato nuova vita ad una delle opere più famose del mondo e che hanno permesso di riportare alla luce i veri tratti disegnati alla fine del 1400 da Leonardo.
Il restauro è stato completato con la realizzazione di impianti per la conservazione ambientale: filtraggio dell'aria, abbattimento delle polveri, isolamento della sala, monitoraggio statico della parete e delle condizioni termo-igrometriche, regolazione di intensità e calore dell’illuminazione, impianti di sicurezza.
Dal 28 maggio 1999, all’indomani di una festosa inaugurazione, il dipinto di Leonardo, completamente rigenerato, è tornato ad essere una delle maggiori attrazioni artistiche di Milano.
lunedì 27 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 27 maggio.
Il 27 maggio 1972 tra USA e URSS viene siglato l'accordo SALT 1.
Una delle iniziative più rilevanti assunte da Usa e Urss nel quadro della Guerra Fredda è certamente costituita dagli accordi Salt, sigla che sta per Strategic Arms Limitation Talks. Si tratta, in poche parole, di trattati per porre un limite agli armamenti strategici. Infatti bisogna considerare che nello scontro indiretto tra le due superpotenze rivestiva un’importanza fondamentale la supremazia nel campo delle tecnologie spaziali e anche in quelle a scopo bellico. Nel corso degli anni Usa e Urss ingrossarono a dismisura i loro arsenali, dando vita ad una vera e propria corsa agli armamenti. Quest’ultima venne in una certa misura frenata in quelle fasi della Guerra Fredda caratterizzate da un clima di distensione: è il caso di quanto accaduto dalla metà degli anni Sessanta quando (dopo anni di rapporti tesissimi e crisi come quella di Berlino o quella missilistica a Cuba) le relazioni tra le due superpotenze iniziarono un periodo di relativa tranquillità. In questo quadro ebbe un’importanza fondamentale la dottrina della ‘risposta flessibile’ del segretario alla Difesa Robert McNamara, che prevedeva in sostanza la risposta alle azioni nemiche con mezzi proporzionati alla minaccia. McNamara ricoprì l’incarico di segretario alla Difesa durante le presidenze di John Kennedy e di Lyndon Johnson e fu proprio quest’ultimo a proporre all’Urss, nel 1967, il primo trattato Salt. Le due parti si accordarono non per una riduzione degli armamenti ma per non aumentarne la quantità. Il 27 maggio del 1972 il presidente degli Usa Richard Nixon (che nel frattempo era subentrato a Johnson) e il leader dell’Urss Leonid Breznev firmarono il Salt I, che congelava il numero degli Icbm (missili intercontinentali) e degli Abm (missili antimissile) già in possesso dei due Paesi. Alla firma dei primi accordi Salt seguì una seconda serie di accordi, i Salt II, che però inciamparono in maggiori difficoltà. Gli incontri tra le due parti, iniziati nel 1972, si arenarono negli anni seguenti per poi riprendere. Il Salt II venne firmato da Breznev e dall’allora presidente americano Carter nel giugno del 1979 ma poi lo stesso capo della Casa Bianca propose al Senato di rimandare a tempi indefiniti la ratifica in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel decennio successivo Usa e Urss avviarono altri negoziati sulla limitazione degli armamenti, che portarono nei primi anni Novanta agli accordi Start.
Il 27 maggio 1972 tra USA e URSS viene siglato l'accordo SALT 1.
Una delle iniziative più rilevanti assunte da Usa e Urss nel quadro della Guerra Fredda è certamente costituita dagli accordi Salt, sigla che sta per Strategic Arms Limitation Talks. Si tratta, in poche parole, di trattati per porre un limite agli armamenti strategici. Infatti bisogna considerare che nello scontro indiretto tra le due superpotenze rivestiva un’importanza fondamentale la supremazia nel campo delle tecnologie spaziali e anche in quelle a scopo bellico. Nel corso degli anni Usa e Urss ingrossarono a dismisura i loro arsenali, dando vita ad una vera e propria corsa agli armamenti. Quest’ultima venne in una certa misura frenata in quelle fasi della Guerra Fredda caratterizzate da un clima di distensione: è il caso di quanto accaduto dalla metà degli anni Sessanta quando (dopo anni di rapporti tesissimi e crisi come quella di Berlino o quella missilistica a Cuba) le relazioni tra le due superpotenze iniziarono un periodo di relativa tranquillità. In questo quadro ebbe un’importanza fondamentale la dottrina della ‘risposta flessibile’ del segretario alla Difesa Robert McNamara, che prevedeva in sostanza la risposta alle azioni nemiche con mezzi proporzionati alla minaccia. McNamara ricoprì l’incarico di segretario alla Difesa durante le presidenze di John Kennedy e di Lyndon Johnson e fu proprio quest’ultimo a proporre all’Urss, nel 1967, il primo trattato Salt. Le due parti si accordarono non per una riduzione degli armamenti ma per non aumentarne la quantità. Il 27 maggio del 1972 il presidente degli Usa Richard Nixon (che nel frattempo era subentrato a Johnson) e il leader dell’Urss Leonid Breznev firmarono il Salt I, che congelava il numero degli Icbm (missili intercontinentali) e degli Abm (missili antimissile) già in possesso dei due Paesi. Alla firma dei primi accordi Salt seguì una seconda serie di accordi, i Salt II, che però inciamparono in maggiori difficoltà. Gli incontri tra le due parti, iniziati nel 1972, si arenarono negli anni seguenti per poi riprendere. Il Salt II venne firmato da Breznev e dall’allora presidente americano Carter nel giugno del 1979 ma poi lo stesso capo della Casa Bianca propose al Senato di rimandare a tempi indefiniti la ratifica in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nel decennio successivo Usa e Urss avviarono altri negoziati sulla limitazione degli armamenti, che portarono nei primi anni Novanta agli accordi Start.
domenica 26 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 26 maggio.
Il 26 maggio 1831 viene giustiziato a Modena il patriota Ciro Menotti.
Ciro Menotti nasce a Carpi (Modena) il 22 gennaio 1798. In giovane età diventa uno dei membri della carboneria italiana. Si oppone alla dominazione austriaca in Italia, appoggiando subito l'idea di un'Italia unita. Il suo obiettivo è quello di liberare il ducato di Modena dalla dominazione asburgica. In giovinezza segue in prima linea gli eventi che interessano la Francia dominata dal sovrano Luigi Filippo d'Orléans, instaurando anche dei legami con i circoli liberali francesi dell'epoca.
Ha degli ottimi rapporti con esuli democratici italiani come Vittoria dei Gherardini e Cristina Trivulzio Belgioioso. In questi anni il piccolo ducato di Modena è governato dal duca Francesco IV d'Asburgo-Este, arciduca dell'Impero d'Austria. Questi ha nella città di Modena una corte molto sfarzosa, ma vorrebbe avere dei territori molto più vasti da governare. Francesco IV quindi ha un atteggiamento ambivalente, poiché da un lato finge di appoggiare in maniera lusinghiera i moti risorgimentali che i carbonari stanno preparando, ma dall'altro cerca di sfruttarli a suo vantaggio.
Presto sarà molto interessato alla successione al trono della famiglia Savoia, poiché è sposato con la figlia del re Vittorio Emanuele I, Maria Beatrice di Savoia. In realtà l'arciduca non trae beneficio dalla successione al trono, non avendo chance nel succedere al trono di Sardegna.
Ciro Menotti e i suoi compagni cercano di convincere l'arciduca d'Austria ad appoggiare la cospirazione che avrebbero voluto portare avanti. Inizialmente Francesco IV è molto dubbioso sul da farsi, infatti, sembra che delle trattative sono in corso con l'avvocato Enrico Misley, che appoggia gli ideali di matrice liberale e che è un assiduo frequentatore della corte dell'arciduca.
In un primo momento quindi l'arciduca sembra sostenere la cospirazione che viene organizzata da Menotti e dai suoi compagni. Nel gennaio del 1831 il giovane patriota italiano organizza la sollevazione nei minimi dettagli, avendo anche l'appoggio dei circoli liberali fondati nella Penisola italiana in quegli anni.
Nel febbraio dello stesso anno, nella sua abitazione che si trova a pochi passi da Palazzo Ducale, raduna una quarantina di uomini che devono partecipare all'insurrezione.
Nel frattempo però Francesco IV, non rispettando i patti, decide di chiedere il sostegno dei Paesi che fanno parte della Santa Alleanza: Russia, Francia, Austria e Prussia. Il suo obiettivo quindi è quello di soffocare la rivolta sul nascere, chiedendo il sostegno di questi grandi Paesi che avrebbero con la forza normalizzato la situazione.
Il duca dà ordine alle sue guardie di circondare l'abitazione di Menotti; molti uomini che hanno preso parte alla cospirazione riescono a fuggire e a mettersi in salvo, mentre altri come Ciro Menotti no. Questi viene quindi arrestato dagli uomini di Francesco IV. Nonostante il tentativo di cospirazione sia stato soffocato, innumerevoli sollevazioni scoppiano a Bologna e in tutta l'Emilia Romagna. In quest'occasione l'arciduca decide di lasciare Modena e di partire per Mantova, portando con sé il prigioniero. Giunti a Carpi, si cerca in tutti i modi di salvare la vita di Ciro Menotti, chiedendo che non venga giustiziato.
Trascorso un mese dalla prigionia, segue il duca che ritorna a Modena. Nella città si svolge il processo che avrebbe poi portato alla condanna a morte del patriota italiano.
Nel breve periodo che passa in carcere Menotti scrive una drammatica e commovente lettera alla moglie e ai suoi figli, in cui dice loro di essere in procinto di morire per una causa superiore, ovvero la liberazione della sua regione dal dominatore straniero. Prima di essere condannato consegna a uno dei padri confessori, che si trova in carcere per sostenerlo prima dell'esecuzione, la lettera che avrebbe dovuto consegnare alla moglie. Questa lettera in realtà arriverà a destinazione soltanto nel 1848, poiché viene sequestrata al confessore dalle autorità ivi presenti.
Ciro Menotti muore per impiccagione il 26 maggio 1831 all'età di 33 anni.
Il 26 maggio 1831 viene giustiziato a Modena il patriota Ciro Menotti.
Ciro Menotti nasce a Carpi (Modena) il 22 gennaio 1798. In giovane età diventa uno dei membri della carboneria italiana. Si oppone alla dominazione austriaca in Italia, appoggiando subito l'idea di un'Italia unita. Il suo obiettivo è quello di liberare il ducato di Modena dalla dominazione asburgica. In giovinezza segue in prima linea gli eventi che interessano la Francia dominata dal sovrano Luigi Filippo d'Orléans, instaurando anche dei legami con i circoli liberali francesi dell'epoca.
Ha degli ottimi rapporti con esuli democratici italiani come Vittoria dei Gherardini e Cristina Trivulzio Belgioioso. In questi anni il piccolo ducato di Modena è governato dal duca Francesco IV d'Asburgo-Este, arciduca dell'Impero d'Austria. Questi ha nella città di Modena una corte molto sfarzosa, ma vorrebbe avere dei territori molto più vasti da governare. Francesco IV quindi ha un atteggiamento ambivalente, poiché da un lato finge di appoggiare in maniera lusinghiera i moti risorgimentali che i carbonari stanno preparando, ma dall'altro cerca di sfruttarli a suo vantaggio.
Presto sarà molto interessato alla successione al trono della famiglia Savoia, poiché è sposato con la figlia del re Vittorio Emanuele I, Maria Beatrice di Savoia. In realtà l'arciduca non trae beneficio dalla successione al trono, non avendo chance nel succedere al trono di Sardegna.
Ciro Menotti e i suoi compagni cercano di convincere l'arciduca d'Austria ad appoggiare la cospirazione che avrebbero voluto portare avanti. Inizialmente Francesco IV è molto dubbioso sul da farsi, infatti, sembra che delle trattative sono in corso con l'avvocato Enrico Misley, che appoggia gli ideali di matrice liberale e che è un assiduo frequentatore della corte dell'arciduca.
In un primo momento quindi l'arciduca sembra sostenere la cospirazione che viene organizzata da Menotti e dai suoi compagni. Nel gennaio del 1831 il giovane patriota italiano organizza la sollevazione nei minimi dettagli, avendo anche l'appoggio dei circoli liberali fondati nella Penisola italiana in quegli anni.
Nel febbraio dello stesso anno, nella sua abitazione che si trova a pochi passi da Palazzo Ducale, raduna una quarantina di uomini che devono partecipare all'insurrezione.
Nel frattempo però Francesco IV, non rispettando i patti, decide di chiedere il sostegno dei Paesi che fanno parte della Santa Alleanza: Russia, Francia, Austria e Prussia. Il suo obiettivo quindi è quello di soffocare la rivolta sul nascere, chiedendo il sostegno di questi grandi Paesi che avrebbero con la forza normalizzato la situazione.
Il duca dà ordine alle sue guardie di circondare l'abitazione di Menotti; molti uomini che hanno preso parte alla cospirazione riescono a fuggire e a mettersi in salvo, mentre altri come Ciro Menotti no. Questi viene quindi arrestato dagli uomini di Francesco IV. Nonostante il tentativo di cospirazione sia stato soffocato, innumerevoli sollevazioni scoppiano a Bologna e in tutta l'Emilia Romagna. In quest'occasione l'arciduca decide di lasciare Modena e di partire per Mantova, portando con sé il prigioniero. Giunti a Carpi, si cerca in tutti i modi di salvare la vita di Ciro Menotti, chiedendo che non venga giustiziato.
Trascorso un mese dalla prigionia, segue il duca che ritorna a Modena. Nella città si svolge il processo che avrebbe poi portato alla condanna a morte del patriota italiano.
Nel breve periodo che passa in carcere Menotti scrive una drammatica e commovente lettera alla moglie e ai suoi figli, in cui dice loro di essere in procinto di morire per una causa superiore, ovvero la liberazione della sua regione dal dominatore straniero. Prima di essere condannato consegna a uno dei padri confessori, che si trova in carcere per sostenerlo prima dell'esecuzione, la lettera che avrebbe dovuto consegnare alla moglie. Questa lettera in realtà arriverà a destinazione soltanto nel 1848, poiché viene sequestrata al confessore dalle autorità ivi presenti.
Ciro Menotti muore per impiccagione il 26 maggio 1831 all'età di 33 anni.
sabato 25 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 25 maggio.
Il 25 maggio 1992, a Palermo, si svolgono i funerali di Stato del giudice Giovanni Falcone.
Se potesse, ci entrerebbe tutta Palermo – tutta la Sicilia – in quella chiesa per i funerali di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo. E i palermitani, i politici non ce li vogliono. Un sussulto che sa di ribellione, fatto di orgoglio e stanchezza, una rabbia che molti si portavano dietro dalla morte del generale Dalla Chiesa e che diventa matura. Il sentimento dei “Vespri” si rinnova, e il nemico ora non è francese, ma “romano”.
Così racconta quelle ore un’Ansa delle 14.22: «Si sono assiepati a migliaia sotto la pioggia, nella porzione di piazza lasciata libera dalla forze dell’ ordine e in un lunghissimo tratto di via Roma. Sono studenti, gente comune, lavoratori in un atmosfera di tensione contenuta e di commozione. Si sono aperti solo pochi varchi per far passare i sindaci che indossavano le fasce tricolori seguiti dai gonfaloni dei loro comuni. La folla ha sottolineato con applausi o con fischi l’arrivo di quelle personalità che hanno preferito entrare nella basilica di San Domenico dalla porta principale.
Gerardo Chiaromonte, presidente della commissione parlamentare antimafia, viene accolto da fischi; riceve applausi invece Leoluca Orlando che preferisce poi confondersi tra la folla e Marco Pannella che entra per pochi minuti nella Chiesa. ”Buffoni-buffoni”, ”Giustizia-giustizia”, ”Fuori la mafia dallo Stato”, ”Falcone- Falcone”, sono gli slogan più ripetuti. C’è anche chi saltella, come negli stadi, al ritmo di ”Chi non salta è mafioso”. Si è consumata così un’attesa di oltre un’ora e mezza, tutti gli occhi rivolti verso l’ ingresso della basilica in attesa dell’uscita delle bare.
Alle 12.06 esce la prima e dalla piazza di leva un applauso commovente, scrosciante, liberatorio che continua, con brevissime interruzioni, fino alle 12.30 quando si è fatto frenetico all’uscita del feretro del giudice Falcone».
È Rosaria Costa, vedova Schifani, che segna il tempo: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”; le sue parole, il suo pianto, il suo sconforto, il suo sembrar cedere, il suo resistere sono il simbolo di quel giorno, di quei giorni. Tutti sanno che il peggio dovrà ancora venire. Tutti hanno smesso di accettare senza proferir parola.
Di quel giorno, Manfredi Borsellino dice del padre Paolo: «Lo spettacolo di un apparato istituzionale così fragile, ma allo stesso tempo così distante dal sentimento popolare sembrava averlo annientato».
E l’apparato, a Roma, intanto, al sedicesimo scrutinio sceglie il suo Capo dello Stato. Il nome c’è e non è quello di Andreotti né quello di Forlani: è Oscar Luigi Scalfaro, in quel momento presidente della Camera. Il Palazzo trova la quadra per salvarsi nella conservazione: un democristiano di sinistra, un tassello che il tempo inserirà in un mosaico più complesso. Una scelta non casuale. Dal giorno dopo nulla sarà come prima, ma molti agiranno perché lo rimanga.
Il 25 maggio 1992, a Palermo, si svolgono i funerali di Stato del giudice Giovanni Falcone.
Se potesse, ci entrerebbe tutta Palermo – tutta la Sicilia – in quella chiesa per i funerali di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo. E i palermitani, i politici non ce li vogliono. Un sussulto che sa di ribellione, fatto di orgoglio e stanchezza, una rabbia che molti si portavano dietro dalla morte del generale Dalla Chiesa e che diventa matura. Il sentimento dei “Vespri” si rinnova, e il nemico ora non è francese, ma “romano”.
Così racconta quelle ore un’Ansa delle 14.22: «Si sono assiepati a migliaia sotto la pioggia, nella porzione di piazza lasciata libera dalla forze dell’ ordine e in un lunghissimo tratto di via Roma. Sono studenti, gente comune, lavoratori in un atmosfera di tensione contenuta e di commozione. Si sono aperti solo pochi varchi per far passare i sindaci che indossavano le fasce tricolori seguiti dai gonfaloni dei loro comuni. La folla ha sottolineato con applausi o con fischi l’arrivo di quelle personalità che hanno preferito entrare nella basilica di San Domenico dalla porta principale.
Gerardo Chiaromonte, presidente della commissione parlamentare antimafia, viene accolto da fischi; riceve applausi invece Leoluca Orlando che preferisce poi confondersi tra la folla e Marco Pannella che entra per pochi minuti nella Chiesa. ”Buffoni-buffoni”, ”Giustizia-giustizia”, ”Fuori la mafia dallo Stato”, ”Falcone- Falcone”, sono gli slogan più ripetuti. C’è anche chi saltella, come negli stadi, al ritmo di ”Chi non salta è mafioso”. Si è consumata così un’attesa di oltre un’ora e mezza, tutti gli occhi rivolti verso l’ ingresso della basilica in attesa dell’uscita delle bare.
Alle 12.06 esce la prima e dalla piazza di leva un applauso commovente, scrosciante, liberatorio che continua, con brevissime interruzioni, fino alle 12.30 quando si è fatto frenetico all’uscita del feretro del giudice Falcone».
È Rosaria Costa, vedova Schifani, che segna il tempo: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”; le sue parole, il suo pianto, il suo sconforto, il suo sembrar cedere, il suo resistere sono il simbolo di quel giorno, di quei giorni. Tutti sanno che il peggio dovrà ancora venire. Tutti hanno smesso di accettare senza proferir parola.
Di quel giorno, Manfredi Borsellino dice del padre Paolo: «Lo spettacolo di un apparato istituzionale così fragile, ma allo stesso tempo così distante dal sentimento popolare sembrava averlo annientato».
E l’apparato, a Roma, intanto, al sedicesimo scrutinio sceglie il suo Capo dello Stato. Il nome c’è e non è quello di Andreotti né quello di Forlani: è Oscar Luigi Scalfaro, in quel momento presidente della Camera. Il Palazzo trova la quadra per salvarsi nella conservazione: un democristiano di sinistra, un tassello che il tempo inserirà in un mosaico più complesso. Una scelta non casuale. Dal giorno dopo nulla sarà come prima, ma molti agiranno perché lo rimanga.
venerdì 24 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 24 maggio.
Il 24 maggio 1626 Peter Minuit compra l'isola di Manhattan.
Originario probabilmente della Vallonia e nato attorno al 1585 da genitori protestanti, Minuit fu incaricato dalla Compagnia Olandese delle Indie Occidentali di occuparsi della colonia di New Amsterdam. Così si chiamava all’epoca il villaggio fortificato olandese che sarebbe diventato in seguito la città di New York. La colonia si trovava in un luogo strategico, nella punta meridionale dell’isola di Manhattan. Era stata creata con l’intento di permettere alle compagnie che gestivano il commercio di pellicce nella valle del fiume Hudson, di difendere l’accesso fluviale. Il compito di Minuit fu quello di ristabilire l’ordine nella colonia, che da tempo non si riusciva più a gestire. Minuit riuscì entro breve a meglio organizzarla e a renderla più sicura. Fece costruire un forte e una strada per accelerare la rifornitura di frumento per il pane. Questa nuova via di transito fu chiamata „Breedweg“, l’attuale Broadway.
Minuit comperò l’isola di Manhattan dagli autoctoni per qualche ascia, degli specchi e degli utensili da cucina per una valore totale di 60 fiorini, pari oggi a poco più di 1000 dollari. In realtà aveva offerto loro del denaro, una somma che superava i 60 fiorini. Ma gli autoctoni, non riconoscendo il valore dei soldi loro offerti, preferirono gli oggetti al denaro contante. Il valore che diamo alle cose è sempre soggettivo e dipende dal contesto culturale in cui viviamo. Agli indigeni, i soldi non sarebbero serviti, perché non avrebbero potuto utilizzarli all’interno della loro società.
Per gli europei, fu davvero un affarone.
Il 24 maggio 1626 Peter Minuit compra l'isola di Manhattan.
Originario probabilmente della Vallonia e nato attorno al 1585 da genitori protestanti, Minuit fu incaricato dalla Compagnia Olandese delle Indie Occidentali di occuparsi della colonia di New Amsterdam. Così si chiamava all’epoca il villaggio fortificato olandese che sarebbe diventato in seguito la città di New York. La colonia si trovava in un luogo strategico, nella punta meridionale dell’isola di Manhattan. Era stata creata con l’intento di permettere alle compagnie che gestivano il commercio di pellicce nella valle del fiume Hudson, di difendere l’accesso fluviale. Il compito di Minuit fu quello di ristabilire l’ordine nella colonia, che da tempo non si riusciva più a gestire. Minuit riuscì entro breve a meglio organizzarla e a renderla più sicura. Fece costruire un forte e una strada per accelerare la rifornitura di frumento per il pane. Questa nuova via di transito fu chiamata „Breedweg“, l’attuale Broadway.
Minuit comperò l’isola di Manhattan dagli autoctoni per qualche ascia, degli specchi e degli utensili da cucina per una valore totale di 60 fiorini, pari oggi a poco più di 1000 dollari. In realtà aveva offerto loro del denaro, una somma che superava i 60 fiorini. Ma gli autoctoni, non riconoscendo il valore dei soldi loro offerti, preferirono gli oggetti al denaro contante. Il valore che diamo alle cose è sempre soggettivo e dipende dal contesto culturale in cui viviamo. Agli indigeni, i soldi non sarebbero serviti, perché non avrebbero potuto utilizzarli all’interno della loro società.
Per gli europei, fu davvero un affarone.
giovedì 23 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 23 maggio.
Il 23 maggio 1934, in un'imboscata ad opera dei Texas Rangers, vengono uccisi Bonnie & Clyde.
A tutti è capitato almeno una volta nella vita di sentire i nomi Bonnie e Clyde, magari in una canzone o forse in uno dei numerosi film che sono stati dedicati a questa coppia.
Bonnie Elizabeth Parker nacque a Rowena (Texas) il 1 ottobre del 1910. Seconda di tre figli e orfana di padre a soli quattro anni si trasferì a Dallas con la madre; nonostante provenisse da una famiglia poverissima riuscì ugualmente a realizzarsi negli studi, vinse un concorso letterario e iniziò a scrivere i discorsi per i politici della città.
Lavorando come cameriera a 16 anni incontra e sposa Roy Thornton. Il matrimonio durerà solo tre anni, ma nonostante tutto lei non chiederà mai il divorzio. Roy morirà in prigione nel 1937 cercando d’evadere dal carcere dove stava scontando una condanna per furto.
Clyde Chestnut Barrow nacque a Telico nel 1909 da una famiglia poverissima di contadini. La sua carriera di ladro iniziò presto: il primo arresto risale al 1926 per un furto d’auto. Clyde sopravviveva compiendo furti in negozi e banche. Si dice che Clyde incontrò Bonnie nel bar dove lavorava quest’ultima, la loro folle storia di fughe iniziò in seguito a una rapina in cui Clyde uccise il propietario del negozio.
In due anni di fuga Bonnie e Clyde si erano lasciati alle spalle la morte di ben 9 poliziotti e numerosi civili. Rubavano automobili e cambiavano di continuo le targhe per non essere rintracciati dalla polizia.
Nel 1933 si unirono alla coppia anche il fratello di Clyde, Buck, la moglie Blanche e Henry Methvin. Sempre nel 1933 Buck perse la vita durante una sparatoria, Henry rimase colpito dalla morte del suo amico, tanto che decise di collaborare con la polizia per la cattura dei suoi amici in cambio di far cadere le accuse a suo carico.
Nel 1934 i poliziotti decisero di usare come esca il furgone del padre di Henry abbandonandolo lungo una strada, in modo che Clyde riconoscendo il furgone si fermasse per vedere cosa stesse succedendo. Fu proprio cosi che Bonnie e Clyde a bordo della loro auto passando da quella strada riconobbero il furgone e rallentarono; i poliziotti nascosti, al loro passaggio iniziarono a sparare su i due scariche e scariche di proiettili fino ad ucciderli. Furono uccisi da 50 proiettili ciascuno, Clyde stringeva in mano il suo fucile e Bonnie fu ritrovata con la testa china su una rivista che aveva comprato poco prima. Dentro la macchina vennero ritrovate tantissime targhe, armi e più di 3.000 proiettili. Furono seppelliti entrambi nel cimitero di Dallas, il desiderio di Bonnie era quello di essere seppellita accanto al suo Clyde, desiderio che non fu mai rispettato per volere della madre di Bonnie.
Clyde aveva 25 anni quando morì e Bonnie 23.
Il 23 maggio 1934, in un'imboscata ad opera dei Texas Rangers, vengono uccisi Bonnie & Clyde.
A tutti è capitato almeno una volta nella vita di sentire i nomi Bonnie e Clyde, magari in una canzone o forse in uno dei numerosi film che sono stati dedicati a questa coppia.
Bonnie Elizabeth Parker nacque a Rowena (Texas) il 1 ottobre del 1910. Seconda di tre figli e orfana di padre a soli quattro anni si trasferì a Dallas con la madre; nonostante provenisse da una famiglia poverissima riuscì ugualmente a realizzarsi negli studi, vinse un concorso letterario e iniziò a scrivere i discorsi per i politici della città.
Lavorando come cameriera a 16 anni incontra e sposa Roy Thornton. Il matrimonio durerà solo tre anni, ma nonostante tutto lei non chiederà mai il divorzio. Roy morirà in prigione nel 1937 cercando d’evadere dal carcere dove stava scontando una condanna per furto.
Clyde Chestnut Barrow nacque a Telico nel 1909 da una famiglia poverissima di contadini. La sua carriera di ladro iniziò presto: il primo arresto risale al 1926 per un furto d’auto. Clyde sopravviveva compiendo furti in negozi e banche. Si dice che Clyde incontrò Bonnie nel bar dove lavorava quest’ultima, la loro folle storia di fughe iniziò in seguito a una rapina in cui Clyde uccise il propietario del negozio.
In due anni di fuga Bonnie e Clyde si erano lasciati alle spalle la morte di ben 9 poliziotti e numerosi civili. Rubavano automobili e cambiavano di continuo le targhe per non essere rintracciati dalla polizia.
Nel 1933 si unirono alla coppia anche il fratello di Clyde, Buck, la moglie Blanche e Henry Methvin. Sempre nel 1933 Buck perse la vita durante una sparatoria, Henry rimase colpito dalla morte del suo amico, tanto che decise di collaborare con la polizia per la cattura dei suoi amici in cambio di far cadere le accuse a suo carico.
Nel 1934 i poliziotti decisero di usare come esca il furgone del padre di Henry abbandonandolo lungo una strada, in modo che Clyde riconoscendo il furgone si fermasse per vedere cosa stesse succedendo. Fu proprio cosi che Bonnie e Clyde a bordo della loro auto passando da quella strada riconobbero il furgone e rallentarono; i poliziotti nascosti, al loro passaggio iniziarono a sparare su i due scariche e scariche di proiettili fino ad ucciderli. Furono uccisi da 50 proiettili ciascuno, Clyde stringeva in mano il suo fucile e Bonnie fu ritrovata con la testa china su una rivista che aveva comprato poco prima. Dentro la macchina vennero ritrovate tantissime targhe, armi e più di 3.000 proiettili. Furono seppelliti entrambi nel cimitero di Dallas, il desiderio di Bonnie era quello di essere seppellita accanto al suo Clyde, desiderio che non fu mai rispettato per volere della madre di Bonnie.
Clyde aveva 25 anni quando morì e Bonnie 23.
mercoledì 22 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 22 maggio.
Il 22 maggio 1939 Germania e Italia firmano il "patto d'acciaio".
Con il termine Patto d’Acciaio si fa riferimento all’alleanza stretta tra Regno d’Italia e Germania nazista il 22 maggio del 1939 a Berlino. Tale accordo, con durata decennale, stabiliva un’alleanza politico-militare tra i due stati.
La politica estera italiana nei primi anni ’30 è caratterizzata dall’incertezza: da un lato vi è la volontà di mantenere il peso determinante acquisito grazie alla vittoria nella Prima guerra mondiale, che ha portato l’Italia a far parte del consesso di potenze che vigila sulla stabilità delle condizioni definite con il trattato di Versailles; dall’altro l’insoddisfazione riguardante alcuni punti del Trattato stesso e la volontà di espandersi spingono l’Italia a cercare nuovi spazi di intervento. Nel 1933 Hitler prende il potere in Germania e fin da subito caratterizza il suo agire con la forte volontà di modificare lo status quo e in generale cambiare gli equilibri generati dal trattato di Versailles, che aveva penalizzato molto la Germania sconfitta.
Mussolini, già favorevolmente attratto dal regime nazista per le affinità ideologiche che questo presenta con la sua linea politica, è interessato alla volontà tedesca di contestare l’assetto europeo post Versailles, in quanto vede in questo atteggiamento uno spazio di manovra per l’Italia stessa. D’altro canto però, Mussolini si preoccupa fin da subito per la possibile espansione nazista verso l’Europa balcanica e danubiana, zona nella quale l’Italia cerca di espandere la propria influenza. Il duce teme soprattutto la volontà hitleriana di unire tutte le popolazioni germaniche sotto il suo dominio e quindi, in primo luogo, di annettere l’Austria (questa operazione diverrà poi nota come Anschluss). Proprio la questione austriaca porta ad un raffreddamento nei rapporti tra le due potenze, in seguito al mancato colpo di stato nazista in Austria il 25 luglio del 1934.
Così, mentre Hitler prosegue nella sua contestazione dell’ordine europeo con l’uscita dalla Società delle Nazioni avvenuta nell’ottobre del 1933, Mussolini, dopo gli eventi riguardanti l’Austria, inizia un processo di riavvicinamento con la Francia. Tale processo sfocia negli accordi firmati a Roma tra Mussolini e il Ministro degli Esteri francese Pierre Laval il 7 gennaio del 1935. Ciò che interessa di tali accordi in questo contesto è l’assenso della Francia alla conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia, che aveva già iniziato le operazioni militari alla fine del 1934.
Il 1935 vede quindi un avvicinamento dell’Italia a Francia e Gran Bretagna, sancito anche dagli accordi di Stresa di aprile: il fronte di Stresa nasce a seguito dell’annuncio, nel marzo ‘35, del riarmo tedesco. In questo frangente possiamo vedere ancora una volta la doppiezza dell’atteggiamento italiano: da un lato condanna il superamento del trattato di Versailles compiuto dalla Germania con l’annuncio del riarmo, dall’altro viola essa stessa gli accordi con la già citata occupazione dell’Etiopia. Secondo la retorica fascista l’occupazione della colonia è però da considerarsi non un punto di rottura ma un giusto compenso per il ruolo di grande potenza mediatrice svolto dall’Italia in Europa.
Frattanto però la conquista italiana dell’Etiopia non si ferma, costringendo la Società delle Nazioni ad affrontare il tema. Gran Bretagna e Francia cercano un compromesso con Mussolini al fine di evitare un acuirsi delle tensioni: offrono quindi all’Italia porzioni sempre maggiori di territorio etiope, raggiungendo il punto massimo con il piano Hoare-Laval, che pone di fatto l’intera Etiopia in mani italiane. L’opinione pubblica inglese e francese però reagisce in modo fortemente contrario a tale risoluzione e i due governi sono spinti a fare marcia indietro e a votare sanzioni economiche contro l’Italia.
Alle sanzioni votate dalla Società delle Nazioni, si uniscono nello stesso periodo l’accordo tra Francia e URSS con fini antifascisti e gli accordi navali della Gran Bretagna con la Germania oltre alla sua esplicita volontà di mantenere un ruolo importante nel Mediterraneo. Tutte queste questioni portano ad una definitiva rottura del cosiddetto fronte di Stresa e all’avvicinamento dell’Italia, ormai politicamente isolata, alla Germania hitleriana.
Il 1936 si caratterizza per l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista: seppure all’interno del Partito Fascista vi siano alcune perplessità sull’instaurare relazioni più strette con il nazismo, il legame con la Germania appare al momento l’unica possibilità. Per questo motivo, nel gennaio del 1936 Mussolini, in un incontro con l’ambasciatore tedesco Ulrich von Hassel a Roma, si dice a favore della possibilità di un’Austria formalmente indipendente ma satellite della Germania nelle decisioni di politica estera. D’altra parte la Germania riconosce la conquista italiana dell’Etiopia e la nascita dell’Impero. Con l’ammorbidirsi della posizione italiana sull’Anschluss si aprono quindi nuove strade di collaborazione tra i due paesi, favorite anche dalla nomina, nel giugno 1936, di Galeazzo Ciano a Ministro degli Esteri: Ciano è infatti notoriamente a favore di un accordo con la Germania.
Nell’estate del 1936 lo scoppio della guerra civile spagnola contribuisce ulteriormente a rinsaldare il legame tra Italia e Germania: nonostante la firma da parte delle grandi potenze di un patto di non intervento nel confronto che vede contrapporsi il Fronte popolare - al governo - e i ribelli guidati dal generale Francisco Franco, Mussolini e Hitler danno un grande aiuto al secondo, fornendogli sia uomini che mezzi.
In un discorso tenuto a Milano il 1 novembre del 1936 il Duce annuncia un nuovo passo in avanti nelle relazioni tra i due stati: la nascita dell’Asse Roma-Berlino. Firmato in ottobre a Berlino dai ministri degli esteri dei due paesi, l’Asse Roma-Berlino consiste in un protocollo segreto di collaborazione tra i due regimi in vari ambiti, dall’appoggio ai generali ribelli in Spagna alla lotta al bolscevismo. Secondo quanto annunciato da Mussolini, l’accordo avrebbe dovuto essere “un asse intorno al quale possono collaborare tutti gli stati europei animati da volontà di collaborazione e di pace”; il Duce infatti non desidera vincolarsi in un’alleanza esclusiva, ma cerca di utilizzare il legame con la Germania come mezzo di pressione sulle altre potenze occidentali. Tuttavia, la realtà dei fatti è diversa: da un lato l’impegno italiano in Spagna rende difficili i rapporti con Gran Bretagna e Francia, dall’altro il dinamismo e la spregiudicatezza tedesca finiscono per incatenare sempre più l’Italia all’alleanza con Adolf Hitler. Così nel novembre del 1937 l’Italia aderisce al Patto Anticomintern stipulato da Germania e Giappone l’anno precedente: se per i due primi firmatari il patto aveva fondamentalmente una funzione antisovietica, l’impegno espresso diventa ora quello di opporsi in senso più ampio all’Internazionale Comunista.
Fino al 1938 il rapporto tra Italia e Germania è caratterizzato dall’ interesse di Hitler nei confronti del regime di Mussolini e dai tentativi di instaurare un’alleanza con l’Italia. Il regime fascista, dal canto suo, preferisce mantenere legami con tutte le potenze occidentali, portando avanti relazioni ambigue e oscillanti e respingendo continuamente la richiesta tedesca di un’alleanza più vincolante tra i due stati. Il 1938 si caratterizza per il sempre maggiore attivismo hitleriano (con l’obiettivo di includere tutti i popoli germanici sotto il dominio tedesco) e per la politica dell’appeasement portata avanti dalle principali potenze europee nell’illusione di poter limitare e controllare l’espansionismo hitleriano.
Il 13 marzo, senza nessun avviso previo all’alleato fascista, la Germania realizza l’Anschluss, mentre in settembre ottiene i Sudeti cecoslovacchi a seguito della Conferenza di Monaco, tenutasi tra Germania, Francia, Inghilterra e Italia. In questa situazione Francia e Gran Bretagna portano avanti una politica che non contempla più l’appoggio italiano, visto anche il cambiamento diplomatico e governativo di Hitler e il legame ormai molto forte tra Italia e Germania, visibile anche nel sempre maggiore allineamento fascista alla politica nazista, in particolare con l’adozione delle leggi razziali. Questo atteggiamento delle potenze occidentali non fa altro, in realtà, che spingere l’Italia a mettere da parte le ultime remore e ad accettare di stringere una vera e propria alleanza con la Germania: nel gennaio del 1939 Ciano comunica a Ribbentrop, Ministro degli Esteri tedesco, la disponibilità italiana. Le trattative si prolungano fino a maggio perché inizialmente si cerca di giungere ad un’alleanza tripartita anche con il Giappone (questo patto che si concluderà solo il 27 settembre del 1940 con la firma del “Patto Tripartito”).
Il 22 maggio 1939 nella cancelleria del Reich i ministri Ribbentrop e Ciano firmano il cosiddetto Patto d’Acciaio, con il fine di unire le proprie forze “per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace”. I primi due articoli del trattato definiscono l’obbligo di entrambi i contraenti a mantenersi in contatto su tutte le questioni e ad assicurarsi appoggio politico e diplomatico. Il terzo articolo affronta la questione centrale, delineando un’alleanza militare sia difensiva che offensiva:
[...] se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti contraenti, dovesse accadere che una di esse venisse ad essere impegnata in complicazioni belliche con un'altra o con altre Potenze, l'altra Parte contraente si porrà immediatamente come alleata al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari, per terra, per mare e nell'aria.
L’aspetto offensivo dell’alleanza è da considerarsi una novità rispetto a quelle precedenti, caratterizzate principalmente da accordi militari di tipo difensivo (come la Triplice Intesa o la Triplice Alleanza al tempo del primo conflitto mondiale). Gli articoli successivi si rifanno ai primi tre definendo la necessità di una maggiore collaborazione in campo militare e di economia di guerra, prevedendo l’obbligo di non concludere paci separate e impegnandosi a sviluppare relazioni comuni con potenze amiche. In ultimo la durata del trattato viene definita in dieci anni a decorrere dal momento della sua firma.
Tale accordo è molto impegnativo per l’Italia, che si trova in una situazione di maggiore debolezza militare. Anche Mussolini è consapevole dei limiti italiani, per questo fa consegnare a Hitler il cosiddetto “Memoriale Cavallero” nel quale indica i motivi che rendono impossibile per l’Italia la partecipazione ad una guerra prima di tre anni. Tra questi la necessità di portare a compimento il rinnovamento dell’artiglieria, l’ampliamento della flotta e il trasferimento delle industrie di guerra nel meridione. A questo si unisce la volontà di raggiungere una distensione nei rapporti tra Vaticano e nazismo, ma anche la necessità di fortificare l’impero appena conquistato. Hitler risponde al Memoriale in maniera evasiva dicendosi in linea di massima d’accordo. L’Italia, con il Patto d’Acciaio, si priva di una politica estera autonoma e diventa a tutti gli effetti dipendente dalla politica di Hitler che, anche a pochi mesi dal trattato, porta avanti i suoi piani di invasione della Polonia e conclude il patto di non aggressione con l’Urss, senza prendere in considerazione il parere dell’alleato italiano. Dal canto suo Mussolini è consapevole che l’alleanza con la Germania nazista è l’unica vera possibilità che ha per poter continuare una politica aggressiva (come nel 1939 con la conquista dell’Albania), forte dell’aiuto bellico tedesco, ritenuto invincibile.
Con l’invasione della Polonia, il 1 settembre del 1939, ha inizio la Seconda Guerra Mondiale. Mussolini, dopo un intenso scambio di lettere con Hitler, annuncia la non belligeranza italiana, che proseguirà fino all’intervento del luglio 1940 contro una Francia ormai prostrata e in una situazione militare che sembra preannunciare una grande vittoria tedesca.
Il Patto d’Acciaio resterà in vigore fino al luglio del 1943 quando, con la caduta del fascismo e la firma di un armistizio con gli alleati da parte del re, risulterà annullato, anche se l’alleanza con la Germania verrà portata aventi dalla Repubblica di Salò fino alla conclusione della guerra.
Il 22 maggio 1939 Germania e Italia firmano il "patto d'acciaio".
Con il termine Patto d’Acciaio si fa riferimento all’alleanza stretta tra Regno d’Italia e Germania nazista il 22 maggio del 1939 a Berlino. Tale accordo, con durata decennale, stabiliva un’alleanza politico-militare tra i due stati.
La politica estera italiana nei primi anni ’30 è caratterizzata dall’incertezza: da un lato vi è la volontà di mantenere il peso determinante acquisito grazie alla vittoria nella Prima guerra mondiale, che ha portato l’Italia a far parte del consesso di potenze che vigila sulla stabilità delle condizioni definite con il trattato di Versailles; dall’altro l’insoddisfazione riguardante alcuni punti del Trattato stesso e la volontà di espandersi spingono l’Italia a cercare nuovi spazi di intervento. Nel 1933 Hitler prende il potere in Germania e fin da subito caratterizza il suo agire con la forte volontà di modificare lo status quo e in generale cambiare gli equilibri generati dal trattato di Versailles, che aveva penalizzato molto la Germania sconfitta.
Mussolini, già favorevolmente attratto dal regime nazista per le affinità ideologiche che questo presenta con la sua linea politica, è interessato alla volontà tedesca di contestare l’assetto europeo post Versailles, in quanto vede in questo atteggiamento uno spazio di manovra per l’Italia stessa. D’altro canto però, Mussolini si preoccupa fin da subito per la possibile espansione nazista verso l’Europa balcanica e danubiana, zona nella quale l’Italia cerca di espandere la propria influenza. Il duce teme soprattutto la volontà hitleriana di unire tutte le popolazioni germaniche sotto il suo dominio e quindi, in primo luogo, di annettere l’Austria (questa operazione diverrà poi nota come Anschluss). Proprio la questione austriaca porta ad un raffreddamento nei rapporti tra le due potenze, in seguito al mancato colpo di stato nazista in Austria il 25 luglio del 1934.
Così, mentre Hitler prosegue nella sua contestazione dell’ordine europeo con l’uscita dalla Società delle Nazioni avvenuta nell’ottobre del 1933, Mussolini, dopo gli eventi riguardanti l’Austria, inizia un processo di riavvicinamento con la Francia. Tale processo sfocia negli accordi firmati a Roma tra Mussolini e il Ministro degli Esteri francese Pierre Laval il 7 gennaio del 1935. Ciò che interessa di tali accordi in questo contesto è l’assenso della Francia alla conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia, che aveva già iniziato le operazioni militari alla fine del 1934.
Il 1935 vede quindi un avvicinamento dell’Italia a Francia e Gran Bretagna, sancito anche dagli accordi di Stresa di aprile: il fronte di Stresa nasce a seguito dell’annuncio, nel marzo ‘35, del riarmo tedesco. In questo frangente possiamo vedere ancora una volta la doppiezza dell’atteggiamento italiano: da un lato condanna il superamento del trattato di Versailles compiuto dalla Germania con l’annuncio del riarmo, dall’altro viola essa stessa gli accordi con la già citata occupazione dell’Etiopia. Secondo la retorica fascista l’occupazione della colonia è però da considerarsi non un punto di rottura ma un giusto compenso per il ruolo di grande potenza mediatrice svolto dall’Italia in Europa.
Frattanto però la conquista italiana dell’Etiopia non si ferma, costringendo la Società delle Nazioni ad affrontare il tema. Gran Bretagna e Francia cercano un compromesso con Mussolini al fine di evitare un acuirsi delle tensioni: offrono quindi all’Italia porzioni sempre maggiori di territorio etiope, raggiungendo il punto massimo con il piano Hoare-Laval, che pone di fatto l’intera Etiopia in mani italiane. L’opinione pubblica inglese e francese però reagisce in modo fortemente contrario a tale risoluzione e i due governi sono spinti a fare marcia indietro e a votare sanzioni economiche contro l’Italia.
Alle sanzioni votate dalla Società delle Nazioni, si uniscono nello stesso periodo l’accordo tra Francia e URSS con fini antifascisti e gli accordi navali della Gran Bretagna con la Germania oltre alla sua esplicita volontà di mantenere un ruolo importante nel Mediterraneo. Tutte queste questioni portano ad una definitiva rottura del cosiddetto fronte di Stresa e all’avvicinamento dell’Italia, ormai politicamente isolata, alla Germania hitleriana.
Il 1936 si caratterizza per l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista: seppure all’interno del Partito Fascista vi siano alcune perplessità sull’instaurare relazioni più strette con il nazismo, il legame con la Germania appare al momento l’unica possibilità. Per questo motivo, nel gennaio del 1936 Mussolini, in un incontro con l’ambasciatore tedesco Ulrich von Hassel a Roma, si dice a favore della possibilità di un’Austria formalmente indipendente ma satellite della Germania nelle decisioni di politica estera. D’altra parte la Germania riconosce la conquista italiana dell’Etiopia e la nascita dell’Impero. Con l’ammorbidirsi della posizione italiana sull’Anschluss si aprono quindi nuove strade di collaborazione tra i due paesi, favorite anche dalla nomina, nel giugno 1936, di Galeazzo Ciano a Ministro degli Esteri: Ciano è infatti notoriamente a favore di un accordo con la Germania.
Nell’estate del 1936 lo scoppio della guerra civile spagnola contribuisce ulteriormente a rinsaldare il legame tra Italia e Germania: nonostante la firma da parte delle grandi potenze di un patto di non intervento nel confronto che vede contrapporsi il Fronte popolare - al governo - e i ribelli guidati dal generale Francisco Franco, Mussolini e Hitler danno un grande aiuto al secondo, fornendogli sia uomini che mezzi.
In un discorso tenuto a Milano il 1 novembre del 1936 il Duce annuncia un nuovo passo in avanti nelle relazioni tra i due stati: la nascita dell’Asse Roma-Berlino. Firmato in ottobre a Berlino dai ministri degli esteri dei due paesi, l’Asse Roma-Berlino consiste in un protocollo segreto di collaborazione tra i due regimi in vari ambiti, dall’appoggio ai generali ribelli in Spagna alla lotta al bolscevismo. Secondo quanto annunciato da Mussolini, l’accordo avrebbe dovuto essere “un asse intorno al quale possono collaborare tutti gli stati europei animati da volontà di collaborazione e di pace”; il Duce infatti non desidera vincolarsi in un’alleanza esclusiva, ma cerca di utilizzare il legame con la Germania come mezzo di pressione sulle altre potenze occidentali. Tuttavia, la realtà dei fatti è diversa: da un lato l’impegno italiano in Spagna rende difficili i rapporti con Gran Bretagna e Francia, dall’altro il dinamismo e la spregiudicatezza tedesca finiscono per incatenare sempre più l’Italia all’alleanza con Adolf Hitler. Così nel novembre del 1937 l’Italia aderisce al Patto Anticomintern stipulato da Germania e Giappone l’anno precedente: se per i due primi firmatari il patto aveva fondamentalmente una funzione antisovietica, l’impegno espresso diventa ora quello di opporsi in senso più ampio all’Internazionale Comunista.
Fino al 1938 il rapporto tra Italia e Germania è caratterizzato dall’ interesse di Hitler nei confronti del regime di Mussolini e dai tentativi di instaurare un’alleanza con l’Italia. Il regime fascista, dal canto suo, preferisce mantenere legami con tutte le potenze occidentali, portando avanti relazioni ambigue e oscillanti e respingendo continuamente la richiesta tedesca di un’alleanza più vincolante tra i due stati. Il 1938 si caratterizza per il sempre maggiore attivismo hitleriano (con l’obiettivo di includere tutti i popoli germanici sotto il dominio tedesco) e per la politica dell’appeasement portata avanti dalle principali potenze europee nell’illusione di poter limitare e controllare l’espansionismo hitleriano.
Il 13 marzo, senza nessun avviso previo all’alleato fascista, la Germania realizza l’Anschluss, mentre in settembre ottiene i Sudeti cecoslovacchi a seguito della Conferenza di Monaco, tenutasi tra Germania, Francia, Inghilterra e Italia. In questa situazione Francia e Gran Bretagna portano avanti una politica che non contempla più l’appoggio italiano, visto anche il cambiamento diplomatico e governativo di Hitler e il legame ormai molto forte tra Italia e Germania, visibile anche nel sempre maggiore allineamento fascista alla politica nazista, in particolare con l’adozione delle leggi razziali. Questo atteggiamento delle potenze occidentali non fa altro, in realtà, che spingere l’Italia a mettere da parte le ultime remore e ad accettare di stringere una vera e propria alleanza con la Germania: nel gennaio del 1939 Ciano comunica a Ribbentrop, Ministro degli Esteri tedesco, la disponibilità italiana. Le trattative si prolungano fino a maggio perché inizialmente si cerca di giungere ad un’alleanza tripartita anche con il Giappone (questo patto che si concluderà solo il 27 settembre del 1940 con la firma del “Patto Tripartito”).
Il 22 maggio 1939 nella cancelleria del Reich i ministri Ribbentrop e Ciano firmano il cosiddetto Patto d’Acciaio, con il fine di unire le proprie forze “per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace”. I primi due articoli del trattato definiscono l’obbligo di entrambi i contraenti a mantenersi in contatto su tutte le questioni e ad assicurarsi appoggio politico e diplomatico. Il terzo articolo affronta la questione centrale, delineando un’alleanza militare sia difensiva che offensiva:
[...] se, malgrado i desideri e le speranze delle Parti contraenti, dovesse accadere che una di esse venisse ad essere impegnata in complicazioni belliche con un'altra o con altre Potenze, l'altra Parte contraente si porrà immediatamente come alleata al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze militari, per terra, per mare e nell'aria.
L’aspetto offensivo dell’alleanza è da considerarsi una novità rispetto a quelle precedenti, caratterizzate principalmente da accordi militari di tipo difensivo (come la Triplice Intesa o la Triplice Alleanza al tempo del primo conflitto mondiale). Gli articoli successivi si rifanno ai primi tre definendo la necessità di una maggiore collaborazione in campo militare e di economia di guerra, prevedendo l’obbligo di non concludere paci separate e impegnandosi a sviluppare relazioni comuni con potenze amiche. In ultimo la durata del trattato viene definita in dieci anni a decorrere dal momento della sua firma.
Tale accordo è molto impegnativo per l’Italia, che si trova in una situazione di maggiore debolezza militare. Anche Mussolini è consapevole dei limiti italiani, per questo fa consegnare a Hitler il cosiddetto “Memoriale Cavallero” nel quale indica i motivi che rendono impossibile per l’Italia la partecipazione ad una guerra prima di tre anni. Tra questi la necessità di portare a compimento il rinnovamento dell’artiglieria, l’ampliamento della flotta e il trasferimento delle industrie di guerra nel meridione. A questo si unisce la volontà di raggiungere una distensione nei rapporti tra Vaticano e nazismo, ma anche la necessità di fortificare l’impero appena conquistato. Hitler risponde al Memoriale in maniera evasiva dicendosi in linea di massima d’accordo. L’Italia, con il Patto d’Acciaio, si priva di una politica estera autonoma e diventa a tutti gli effetti dipendente dalla politica di Hitler che, anche a pochi mesi dal trattato, porta avanti i suoi piani di invasione della Polonia e conclude il patto di non aggressione con l’Urss, senza prendere in considerazione il parere dell’alleato italiano. Dal canto suo Mussolini è consapevole che l’alleanza con la Germania nazista è l’unica vera possibilità che ha per poter continuare una politica aggressiva (come nel 1939 con la conquista dell’Albania), forte dell’aiuto bellico tedesco, ritenuto invincibile.
Con l’invasione della Polonia, il 1 settembre del 1939, ha inizio la Seconda Guerra Mondiale. Mussolini, dopo un intenso scambio di lettere con Hitler, annuncia la non belligeranza italiana, che proseguirà fino all’intervento del luglio 1940 contro una Francia ormai prostrata e in una situazione militare che sembra preannunciare una grande vittoria tedesca.
Il Patto d’Acciaio resterà in vigore fino al luglio del 1943 quando, con la caduta del fascismo e la firma di un armistizio con gli alleati da parte del re, risulterà annullato, anche se l’alleanza con la Germania verrà portata aventi dalla Repubblica di Salò fino alla conclusione della guerra.
martedì 21 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 21 maggio.
Il 21 maggio 1471 nasce Albrecht Dürer.
Nato a Norimberga nel 1471 da una famiglia agiata di artigiani, Dürer fu il terzo di diciotto figli. Il padre, Albrecht Dürer il Vecchio, di discendenza ungherese, proveniva da una famiglia di orafi e sposò Barbara Holper, figlia di un orafo. Insieme aprirono una bottega propria.
Le eccellenti doti artistiche di Albrecht furono immediatamente evidenti tanto che il padre decise di mandarlo nella bottega del pittore Michael Wolgemut, uno dei più importanti illustratori di Norimberga. Qui il ragazzo passò il periodo fra il 1486 e il 1490. Durante l’apprendistato da Wolgemut, Dürer imparò le più importanti tecniche di incisione che non avrebbe mai più abbandonato.
Finito l’apprendistato, il giovane pittore cominciò a viaggiare. Nördlingen, Ulm e Colmar le prime tappe del suo viaggio-studio. Nella città di Colmar venne ospitato dai figli del famoso pittore Martin Schongauer, morto da poco tempo. Poi si spostò a Basilea, sempre da un altro figlio del pittore scomparso. Al 1493 risale il famoso Autoritratto con il fiore, oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi.
L’anno successivo, nel 1494, fece ritorno nella città natale dove, a ventitré anni, sposò Agnes Frey. Anche lei figlia di un orafo, Agnes sperava di condurre una vita tranquilla e agiata ma non aveva fatto i conti con il temperamento di Albrecht, sempre alla ricerca di nuove motivazioni e desideroso di viaggiare. Il matrimonio non fu tra i più felici. La coppia non ebbe nessun figlio.
In questi anni arrivò anche una commissione importante da parte di Federico di Sassonia, detto il Saggio, grande elettore di Wittenberg. Sotto la protezione di un mecenate così influente, la carriera professionale di Dürer non poté fare altro che subire un’inevitabile ascesa.
Nel 1495 il pittore fece il suo primo viaggio in Italia con l’obiettivo di conoscere da vicino i maestri che più influenzarono la pittura a livello mondiale, da Giotto a Raffaello, a Leonardo. Le tappe italiane furono Venezia, Mantova, Padova e Pavia. Durante i suoi viaggi, Dürer riusciva a mantenersi lavorando e proprio durante il soggiorno veneziano realizzò disegni, acquerelli e stampe.
A questo periodo risale la tavola della “Festa del Rosario”, commissionatagli dal mercante d’arte Christoph Fugger per la chiesa di S. Bartolomeo. L’opera raffigura la Madonna che incorona l’imperatore, mentre, a sua volta, è incoronata da due angeli. Il dipinto è oggi custodito nella Galleria Nazionale Narodni di Praga.
Acquerelli a soggetto paesaggistico furono fra i soggetti più dipinti durante il viaggio di ritorno dall’Italia. Opere come il “Castello di Trento”, il “Castello Alpino”, la “Veduta di Arco” e la “Veduta di Innsbruck” risalgono a questo primo viaggio nel Bel Paese. L’influenza dell’arte italiana nello stile di Dürer si fece più evidente dopo il secondo soggiorno nello Stivale del pittore tedesco, nel 1505. In quest’occasione ebbe anche l’opportunità di incontrare Leonardo da Vinci. Da quel momento in poi lo stile si fa più maturo, lo spessore psicologico nei personaggi ritratti è più attento.
Oltre alla vita artistica, Dürer non trascurò mai la carriera da orafo. Morto il padre, curò la bottega di famiglia insieme a uno dei fratelli. Oramai la sua fama e il suo successo erano così consolidati da permettergli una vita agiata e l’inserimento nei circoli dei potenti in città. Cominciò quindi a lavorare, realizzando ritratti, per le personalità di spicco della vita politica e sociale di Norimberga e non solo. Nel 1512, l’imperatore Massimiliano I gli commissiona importanti opere. Per questi incarichi gli sarà concessa una pensione.
Oltre alla pittura e all’oreficeria, Dürer non smise mai di dedicarsi alle illustrazioni di libri, avvalendosi delle tecniche imparate da ragazzo. Tra il 1496 e il 1505 realizza, con tecnica xilografica, le famose serie della Grande Passione, dell’Apocalisse e della Vita della Madonna. Fra i suoi ultimi viaggi ci sono i Paesi Bassi. Dürer arrivò ad Aversa nel 1520 e poi continuò a visitare l’Olanda e le Fiandre. La sua fama era consolidata e godeva, in questo periodo, di una posizione di prestigio. Dopo il viaggio in Olanda, Albrecht si ammalò.
Negli ultimi anni di vita, cominciò a scrivere importanti trattati sulla geometria, la prospettiva, l’antropometria e l’astronomia. Nel 1525 scrisse il “Trattato di geometria”, due anni più tardi porta la sua firma il Trattato sulle fortificazioni e sulle mura capaci di resistere alle armi da fuoco. Infine, il terzo trattato è del 1528. Pubblicato postumo in tedesco e in latino, il volume è dedicato allo studio della simmetria e alle proporzioni del corpo umano.
Il suo progetto ambizioso di scrivere un trattato sulla pittura rimase, purtroppo incompiuto. L’opera, che avrebbe avuto il titolo “Underricht der Malerei”, doveva rispondere all’ambizioso obiettivo di fornire ai giovani pittori tutte le nozioni che Dürer aveva acquisito grazie alla sua esperienza di ricerca. Ma il trattato non vide mai la luce perché Albrecht Dürer morì a Norimberga il 6 aprile del 1528 a 57 anni.
Una produzione di circa 700 opere, tra le quali quaranta acquerelli, oltre duecento incisioni su legno e un centinaio su rame, e un’ottantina di dipinti è l’eredita che Dürer lascia alle sue spalle. Intellettuale di grande spessore, perennemente interessato alla ricerca e allo studio su vari campi del sapere, il pittore tedesco seppe fondere egregiamente la lezione del Rinascimento italiano con la pittura e le tradizioni locali. Nella sua ricca produzione, troviamo una corposa quantità di ritratti, ma anche paesaggi e soggetti di carattere naturalistico.
Il 21 maggio 1471 nasce Albrecht Dürer.
Nato a Norimberga nel 1471 da una famiglia agiata di artigiani, Dürer fu il terzo di diciotto figli. Il padre, Albrecht Dürer il Vecchio, di discendenza ungherese, proveniva da una famiglia di orafi e sposò Barbara Holper, figlia di un orafo. Insieme aprirono una bottega propria.
Le eccellenti doti artistiche di Albrecht furono immediatamente evidenti tanto che il padre decise di mandarlo nella bottega del pittore Michael Wolgemut, uno dei più importanti illustratori di Norimberga. Qui il ragazzo passò il periodo fra il 1486 e il 1490. Durante l’apprendistato da Wolgemut, Dürer imparò le più importanti tecniche di incisione che non avrebbe mai più abbandonato.
Finito l’apprendistato, il giovane pittore cominciò a viaggiare. Nördlingen, Ulm e Colmar le prime tappe del suo viaggio-studio. Nella città di Colmar venne ospitato dai figli del famoso pittore Martin Schongauer, morto da poco tempo. Poi si spostò a Basilea, sempre da un altro figlio del pittore scomparso. Al 1493 risale il famoso Autoritratto con il fiore, oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi.
L’anno successivo, nel 1494, fece ritorno nella città natale dove, a ventitré anni, sposò Agnes Frey. Anche lei figlia di un orafo, Agnes sperava di condurre una vita tranquilla e agiata ma non aveva fatto i conti con il temperamento di Albrecht, sempre alla ricerca di nuove motivazioni e desideroso di viaggiare. Il matrimonio non fu tra i più felici. La coppia non ebbe nessun figlio.
In questi anni arrivò anche una commissione importante da parte di Federico di Sassonia, detto il Saggio, grande elettore di Wittenberg. Sotto la protezione di un mecenate così influente, la carriera professionale di Dürer non poté fare altro che subire un’inevitabile ascesa.
Nel 1495 il pittore fece il suo primo viaggio in Italia con l’obiettivo di conoscere da vicino i maestri che più influenzarono la pittura a livello mondiale, da Giotto a Raffaello, a Leonardo. Le tappe italiane furono Venezia, Mantova, Padova e Pavia. Durante i suoi viaggi, Dürer riusciva a mantenersi lavorando e proprio durante il soggiorno veneziano realizzò disegni, acquerelli e stampe.
A questo periodo risale la tavola della “Festa del Rosario”, commissionatagli dal mercante d’arte Christoph Fugger per la chiesa di S. Bartolomeo. L’opera raffigura la Madonna che incorona l’imperatore, mentre, a sua volta, è incoronata da due angeli. Il dipinto è oggi custodito nella Galleria Nazionale Narodni di Praga.
Acquerelli a soggetto paesaggistico furono fra i soggetti più dipinti durante il viaggio di ritorno dall’Italia. Opere come il “Castello di Trento”, il “Castello Alpino”, la “Veduta di Arco” e la “Veduta di Innsbruck” risalgono a questo primo viaggio nel Bel Paese. L’influenza dell’arte italiana nello stile di Dürer si fece più evidente dopo il secondo soggiorno nello Stivale del pittore tedesco, nel 1505. In quest’occasione ebbe anche l’opportunità di incontrare Leonardo da Vinci. Da quel momento in poi lo stile si fa più maturo, lo spessore psicologico nei personaggi ritratti è più attento.
Oltre alla vita artistica, Dürer non trascurò mai la carriera da orafo. Morto il padre, curò la bottega di famiglia insieme a uno dei fratelli. Oramai la sua fama e il suo successo erano così consolidati da permettergli una vita agiata e l’inserimento nei circoli dei potenti in città. Cominciò quindi a lavorare, realizzando ritratti, per le personalità di spicco della vita politica e sociale di Norimberga e non solo. Nel 1512, l’imperatore Massimiliano I gli commissiona importanti opere. Per questi incarichi gli sarà concessa una pensione.
Oltre alla pittura e all’oreficeria, Dürer non smise mai di dedicarsi alle illustrazioni di libri, avvalendosi delle tecniche imparate da ragazzo. Tra il 1496 e il 1505 realizza, con tecnica xilografica, le famose serie della Grande Passione, dell’Apocalisse e della Vita della Madonna. Fra i suoi ultimi viaggi ci sono i Paesi Bassi. Dürer arrivò ad Aversa nel 1520 e poi continuò a visitare l’Olanda e le Fiandre. La sua fama era consolidata e godeva, in questo periodo, di una posizione di prestigio. Dopo il viaggio in Olanda, Albrecht si ammalò.
Negli ultimi anni di vita, cominciò a scrivere importanti trattati sulla geometria, la prospettiva, l’antropometria e l’astronomia. Nel 1525 scrisse il “Trattato di geometria”, due anni più tardi porta la sua firma il Trattato sulle fortificazioni e sulle mura capaci di resistere alle armi da fuoco. Infine, il terzo trattato è del 1528. Pubblicato postumo in tedesco e in latino, il volume è dedicato allo studio della simmetria e alle proporzioni del corpo umano.
Il suo progetto ambizioso di scrivere un trattato sulla pittura rimase, purtroppo incompiuto. L’opera, che avrebbe avuto il titolo “Underricht der Malerei”, doveva rispondere all’ambizioso obiettivo di fornire ai giovani pittori tutte le nozioni che Dürer aveva acquisito grazie alla sua esperienza di ricerca. Ma il trattato non vide mai la luce perché Albrecht Dürer morì a Norimberga il 6 aprile del 1528 a 57 anni.
Una produzione di circa 700 opere, tra le quali quaranta acquerelli, oltre duecento incisioni su legno e un centinaio su rame, e un’ottantina di dipinti è l’eredita che Dürer lascia alle sue spalle. Intellettuale di grande spessore, perennemente interessato alla ricerca e allo studio su vari campi del sapere, il pittore tedesco seppe fondere egregiamente la lezione del Rinascimento italiano con la pittura e le tradizioni locali. Nella sua ricca produzione, troviamo una corposa quantità di ritratti, ma anche paesaggi e soggetti di carattere naturalistico.
lunedì 20 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 20 maggio.
Il 20 maggio 1795 viene eseguita la condanna a morte dell'avvocato Francesco Paolo Di Blasi.
Dopo che nell'ottobre 1794 avevano trovavano la morte a Napoli i primi martiri degli ideali della libertà, dell'uguaglianza e della democrazia repubblicana, i giovani studenti Vincenzo Vitaliani, Emanuele De Deo e Vincenzo Galiani, toccò in Sicilia ad altri patrioti repubblicani subire la condanna a morte nel 1795 per amore della Repubblica e dell'uguaglianza.
Tali patrioti siciliani erano guidati dall'avvocato Francesco Paolo Di Blasi. Del suo sogno di instaurare in Sicilia una Repubblica ce ne parla lo scrittore Leonardo Sciascia in uno dei più riusciti romanzi storici, Il Consiglio d'Egitto, da cui è stato tratto un lavoro cinematografico, riconosciuto come d'interesse culturale nazionale dalla Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, in base alla delibera ministeriale del 24 marzo 2000.
Avvocato palermitano, già dal 1779, il ventenne Di Blasi aveva elaborato una riforma tributaria che colpisse i latifondisti, prima di scrivere la sua opera più importante: Dissertazioni sopra l'egualità e la disuguaglianza degli uomini in riguardo alla loro felicità.
Un altro testo importante del Di Blasi è Saggio sopra la legislazione della Sicilia, in cui si mostrava seguace delle nuove dottrine di Beccaria, di Filangieri e Mario Pagano, elaborando un’interessante descrizione degli abusi e pericoli dei giudizi penali.
Pietro Colletta, forse il maggiore storico italiano dell’epoca, scrisse di come nei primi mesi del 1795 “ […] le genti affamate per iscarso raccolto[…], impoverite per nuovo tributi, scontente dell’arcivescovo Lopez, tumultuarono. Un avvocato Blasi, ed altri pochi si unirono in segreto per consultare se quella popolare disperazione bastasse ad aperto sconvolgimento”.
Ricordiamo che l’arcivescovo Filippo Lopez y Royo (Monteroni di Lecce, 26 maggio 1728 – Napoli, 1º maggio 1811) era in quegli anni di antico regime viceré di Sicilia.
Francesco Paolo De Blasi, quindi, progettava da tempo una rivolta nell’isola per liberarla, secondo un’espressione di Atto Vannucci, “dal giogo barbarico dei vescovi, dei baroni e del re”, ed era riuscito ad organizzare nel suo movimento popolani e soldati, basando realisticamente il disegno rivoluzionario sulla promozione degli ideali di libertà, uguaglianza, su necessarie riforme contro lo strapotere dei baroni e contando sul malcontento profondo e diffuso.
L’isola, in quel tempo, era una delle terre più dimenticate dallo Stato che l’amministrava e la sfruttava.
Come scrive Giuseppe Ferrari, in quel tempo di tirannia da antico regime “non distinguevasi da Napoli se non per una barbarie più profonda dei governanti”.
Il moto insurrezionale avrebbe dovuto scoppiare a Palermo il 3 aprile 1795 in occasione della processione del Venerdì Santo al grido di “Viva la Repubblica! Abbasso i privilegi!”.
I congiurati furono traditi e Di Blasi fu arrestato con tre suoi compagni del movimento insurrezionale: Giudo Tinagli, Benedetto La Villa e il sergente Bernardo Palumbo. A tradirli erano stati un tal Giuseppe Teriaca, argentiere, e un soldato svizzero del reggimento comandato da Carlo Jauch.
Leonardo Sciascia, ne Il Consiglio d’Egitto, scrive che “se l’occhio del mondo e l’età l’avessero consentito, monsignor Lopez y Royo, a sentire quelle rivelazioni, per la gioia si sarebbe arrampicato alle tende, ai panneggi, ai lampadari”.
In effetti Sciascia, a proposito del ruolo che Mons. Filippo Lopez y Royo ebbe nella condanna dell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, fa di lui lo stereotipo dell’inquisitore spagnolo, le cui uniche preoccupazioni “erano quelle, interdipendenti, di tener d’occhio i giacobini e di restare a fare il viceré”.
Le pagine più toccanti di Sciascia sono quelle che descrivono la tortura subita dal Di Blasi, in cui, nello scontro dialettico tra la vittima ed i suoi carnefici, tratteggia un ritratto dell’umanità in cui i colori prevalenti sono costantemente quelli dell’avidità unita all’ignoranza e alla prepotenza, mentre verità e ragione sono sempre destinate a soccombere.
Uno dei dotti carnefici si rivolge all’avvocato Di Blasi con parole sarcastiche: “Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo: ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu ora non resistessi… Alla domanda quid est quaestio? Hai risposto in nome della ragione e della dignità: ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa, nei nervi; e tacere… Quel che avevi da dire sulla questione lo hai detto…”
Con dignità Francesco Paolo Di Blasi subì la decapitazione il 20 maggio 1795, privilegio concesso in virtù del suo rango nobile, mentre i compagni Giulio Tinagli, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo furono impiccati.
Il 20 maggio 1795 viene eseguita la condanna a morte dell'avvocato Francesco Paolo Di Blasi.
Dopo che nell'ottobre 1794 avevano trovavano la morte a Napoli i primi martiri degli ideali della libertà, dell'uguaglianza e della democrazia repubblicana, i giovani studenti Vincenzo Vitaliani, Emanuele De Deo e Vincenzo Galiani, toccò in Sicilia ad altri patrioti repubblicani subire la condanna a morte nel 1795 per amore della Repubblica e dell'uguaglianza.
Tali patrioti siciliani erano guidati dall'avvocato Francesco Paolo Di Blasi. Del suo sogno di instaurare in Sicilia una Repubblica ce ne parla lo scrittore Leonardo Sciascia in uno dei più riusciti romanzi storici, Il Consiglio d'Egitto, da cui è stato tratto un lavoro cinematografico, riconosciuto come d'interesse culturale nazionale dalla Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, in base alla delibera ministeriale del 24 marzo 2000.
Avvocato palermitano, già dal 1779, il ventenne Di Blasi aveva elaborato una riforma tributaria che colpisse i latifondisti, prima di scrivere la sua opera più importante: Dissertazioni sopra l'egualità e la disuguaglianza degli uomini in riguardo alla loro felicità.
Un altro testo importante del Di Blasi è Saggio sopra la legislazione della Sicilia, in cui si mostrava seguace delle nuove dottrine di Beccaria, di Filangieri e Mario Pagano, elaborando un’interessante descrizione degli abusi e pericoli dei giudizi penali.
Pietro Colletta, forse il maggiore storico italiano dell’epoca, scrisse di come nei primi mesi del 1795 “ […] le genti affamate per iscarso raccolto[…], impoverite per nuovo tributi, scontente dell’arcivescovo Lopez, tumultuarono. Un avvocato Blasi, ed altri pochi si unirono in segreto per consultare se quella popolare disperazione bastasse ad aperto sconvolgimento”.
Ricordiamo che l’arcivescovo Filippo Lopez y Royo (Monteroni di Lecce, 26 maggio 1728 – Napoli, 1º maggio 1811) era in quegli anni di antico regime viceré di Sicilia.
Francesco Paolo De Blasi, quindi, progettava da tempo una rivolta nell’isola per liberarla, secondo un’espressione di Atto Vannucci, “dal giogo barbarico dei vescovi, dei baroni e del re”, ed era riuscito ad organizzare nel suo movimento popolani e soldati, basando realisticamente il disegno rivoluzionario sulla promozione degli ideali di libertà, uguaglianza, su necessarie riforme contro lo strapotere dei baroni e contando sul malcontento profondo e diffuso.
L’isola, in quel tempo, era una delle terre più dimenticate dallo Stato che l’amministrava e la sfruttava.
Come scrive Giuseppe Ferrari, in quel tempo di tirannia da antico regime “non distinguevasi da Napoli se non per una barbarie più profonda dei governanti”.
Il moto insurrezionale avrebbe dovuto scoppiare a Palermo il 3 aprile 1795 in occasione della processione del Venerdì Santo al grido di “Viva la Repubblica! Abbasso i privilegi!”.
I congiurati furono traditi e Di Blasi fu arrestato con tre suoi compagni del movimento insurrezionale: Giudo Tinagli, Benedetto La Villa e il sergente Bernardo Palumbo. A tradirli erano stati un tal Giuseppe Teriaca, argentiere, e un soldato svizzero del reggimento comandato da Carlo Jauch.
Leonardo Sciascia, ne Il Consiglio d’Egitto, scrive che “se l’occhio del mondo e l’età l’avessero consentito, monsignor Lopez y Royo, a sentire quelle rivelazioni, per la gioia si sarebbe arrampicato alle tende, ai panneggi, ai lampadari”.
In effetti Sciascia, a proposito del ruolo che Mons. Filippo Lopez y Royo ebbe nella condanna dell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, fa di lui lo stereotipo dell’inquisitore spagnolo, le cui uniche preoccupazioni “erano quelle, interdipendenti, di tener d’occhio i giacobini e di restare a fare il viceré”.
Le pagine più toccanti di Sciascia sono quelle che descrivono la tortura subita dal Di Blasi, in cui, nello scontro dialettico tra la vittima ed i suoi carnefici, tratteggia un ritratto dell’umanità in cui i colori prevalenti sono costantemente quelli dell’avidità unita all’ignoranza e alla prepotenza, mentre verità e ragione sono sempre destinate a soccombere.
Uno dei dotti carnefici si rivolge all’avvocato Di Blasi con parole sarcastiche: “Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo: ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu ora non resistessi… Alla domanda quid est quaestio? Hai risposto in nome della ragione e della dignità: ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa, nei nervi; e tacere… Quel che avevi da dire sulla questione lo hai detto…”
Con dignità Francesco Paolo Di Blasi subì la decapitazione il 20 maggio 1795, privilegio concesso in virtù del suo rango nobile, mentre i compagni Giulio Tinagli, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo furono impiccati.
domenica 19 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 19 maggio.
Il 19 maggio 1944 si ebbe la strage del Turchino.
La Strage del Turchino è il nome di un eccidio di prigionieri politici compiuto dalle SS, durante le prime ore del mattino del 19 maggio 1944 in località Fontanafredda, sulle pendici del Bric Busa, nelle vicinanze del passo del Turchino. Vi trovarono la morte 59 civili italiani.
La strage seguì di qualche giorno l’attentato al cinema Odeon di Genova, che era stato requisito per essere destinato ad uso esclusivo delle truppe tedesche. L’accesso ai civili italiani era rigorosamente vietato ed un presidio di militari controllava l’identità di chi entrava. Nell’attentato, compiuto alle ore 19 del 15 maggio da un gappista che si era travestito da tenente della Wehrmacht, morirono quattro marinai tedeschi ed altri sedici rimasero feriti, uno dei quali decedette nei giorni successivi.
Le modalità di esecuzione della rappresaglia furono particolarmente crudeli, andando tra l’altro oltre il rapporto di 10 a 1 previsto dal bando di Kesselring, già messo in opera nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Prelevate di notte dal carcere genovese di Marassi, le 59 vittime, molte non ancora ventenni, furono trasportate a bordo di camion al Passo del Turchino e di lì, dopo un percorso di un paio di chilometri, i prigionieri furono condotti fino ai prati del versante meridionale del Bric Busa. In questa località, a gruppi di sei, vennero fatti salire sopra delle tavole, disposte su una grande fossa che il giorno precedente un gruppo di ebrei era stato costretto a scavare, in modo che ognuno, prima di cadervi dentro dopo la scarica di mitra, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.
Tra le 59 vittime, 17 erano scampate alla Strage della Benedicta compiuta solo un mese prima.
Per la Strage del Turchino e per quelle della Benedicta, di Portofino e di Cravasco, dove trovarono la morte complessivamente 246 persone, Friedrich Engel ex-capo delle SS a Genova, conosciuto anche come il «boia di Genova», è stato condannato all’ergastolo in Italia nel 1999, ma non ha mai scontato la pena in quanto la legge tedesca non ne permetteva l’estradizione. Nel 2002, ad ormai 93 anni, Engel è stato processato ad Amburgo e condannato a sette anni di reclusione per crimini di guerra che non ha scontato a causa dell’età ormai avanzata.
È morto nel 2006 a 97 anni senza aver mai fatto un solo giorno di carcere.
Nel luogo della strage, lungo la Strada Provinciale SP73 del passo del Faiallo, è stato costruito un monumento commemorativo conosciuto come “Sacrario dei Martiri del Turchino”.
Il 19 maggio 1944 si ebbe la strage del Turchino.
La Strage del Turchino è il nome di un eccidio di prigionieri politici compiuto dalle SS, durante le prime ore del mattino del 19 maggio 1944 in località Fontanafredda, sulle pendici del Bric Busa, nelle vicinanze del passo del Turchino. Vi trovarono la morte 59 civili italiani.
La strage seguì di qualche giorno l’attentato al cinema Odeon di Genova, che era stato requisito per essere destinato ad uso esclusivo delle truppe tedesche. L’accesso ai civili italiani era rigorosamente vietato ed un presidio di militari controllava l’identità di chi entrava. Nell’attentato, compiuto alle ore 19 del 15 maggio da un gappista che si era travestito da tenente della Wehrmacht, morirono quattro marinai tedeschi ed altri sedici rimasero feriti, uno dei quali decedette nei giorni successivi.
Le modalità di esecuzione della rappresaglia furono particolarmente crudeli, andando tra l’altro oltre il rapporto di 10 a 1 previsto dal bando di Kesselring, già messo in opera nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Prelevate di notte dal carcere genovese di Marassi, le 59 vittime, molte non ancora ventenni, furono trasportate a bordo di camion al Passo del Turchino e di lì, dopo un percorso di un paio di chilometri, i prigionieri furono condotti fino ai prati del versante meridionale del Bric Busa. In questa località, a gruppi di sei, vennero fatti salire sopra delle tavole, disposte su una grande fossa che il giorno precedente un gruppo di ebrei era stato costretto a scavare, in modo che ognuno, prima di cadervi dentro dopo la scarica di mitra, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.
Tra le 59 vittime, 17 erano scampate alla Strage della Benedicta compiuta solo un mese prima.
Per la Strage del Turchino e per quelle della Benedicta, di Portofino e di Cravasco, dove trovarono la morte complessivamente 246 persone, Friedrich Engel ex-capo delle SS a Genova, conosciuto anche come il «boia di Genova», è stato condannato all’ergastolo in Italia nel 1999, ma non ha mai scontato la pena in quanto la legge tedesca non ne permetteva l’estradizione. Nel 2002, ad ormai 93 anni, Engel è stato processato ad Amburgo e condannato a sette anni di reclusione per crimini di guerra che non ha scontato a causa dell’età ormai avanzata.
È morto nel 2006 a 97 anni senza aver mai fatto un solo giorno di carcere.
Nel luogo della strage, lungo la Strada Provinciale SP73 del passo del Faiallo, è stato costruito un monumento commemorativo conosciuto come “Sacrario dei Martiri del Turchino”.
sabato 18 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 18 maggio.
Il 18 maggio 1810 nasce a Murano Francesco Maria Piave.
Librettista, destinato dal padre alla carriera ecclesiastica, abbandonata nel 1827, si trasferì a Roma, dove venne nominato socio dell’Accademia Tiberina, al cui interno ebbe modo di conoscere Giuseppe Gioachino Belli, che gli dedicò il sonetto Al Signor Francesco Maria Piave. Tornato a Venezia nel 1838, quattro anni più tardi venne assunto come poeta del Teatro La Fenice. Il 10 agosto 1843, scrivendo all’amico Jacopo Ferretti – conosciuto ai tempi del soggiorno romano – Piave parla della sua prima collaborazione con Verdi (Ernani, andato in scena alla Fenice il 9 marzo 1844), che permise al librettista di entrare a pieno diritto nella stretta cerchia dei verseggiatori d’opera più ricercati dell’epoca, scrivendo testi – solo per citarne alcuni – per Mercadante, Pacini e Braga. Piave fu il più prolifico librettista verdiano, componendo nell’arco di diciotto anni ben dieci titoli per il Maestro: oltre al già citato Ernani, verseggiò I due Foscari (3 novembre 1844), Macbeth (14 marzo 1847), di cui curò anche la seconda versione (21 aprile 1865), Il corsaro (25 ottobre 1848), Stiffelio (16 novembre 1850), Rigoletto (11 marzo 1851), La traviata (6 marzo 1853), Simon Boccanegra (12 marzo 1857), Aroldo (16 agosto 1857), rifacimento di Stiffelio, e La forza del destino (10 novembre 1862). Le ragioni del duraturo sodalizio tra Verdi e Piave sono da ricercare principalmente nella capacità del librettista di adattarsi con estrema flessibilità alle esigenze musicali imposte dal Maestro, accettando persino – su iniziativa di Verdi – le umilianti revisioni di Macbeth e di Simon Boccanegra rispettivamente ad opera di Andrea Maffei e Giuseppe Montanelli. In segno di profonda riconoscenza, nel 1867 Verdi fornì un consistente aiuto economico alla famiglia di Piave, il quale non poté più provvedere al sostentamento di moglie e figlia a causa di un invalidante attacco apoplettico.
Piave morì qualche anno dopo, il 5 marzo 1876 a Milano. Verdi provvedette perfino alle spese di funerale e sepoltura al Cimitero Monumentale della città. In seguito i suoi resti sono stati trasferiti in un’ampia celletta nella Cripta del Famedio dello stesso Monumentale.
Il 18 maggio 1810 nasce a Murano Francesco Maria Piave.
Librettista, destinato dal padre alla carriera ecclesiastica, abbandonata nel 1827, si trasferì a Roma, dove venne nominato socio dell’Accademia Tiberina, al cui interno ebbe modo di conoscere Giuseppe Gioachino Belli, che gli dedicò il sonetto Al Signor Francesco Maria Piave. Tornato a Venezia nel 1838, quattro anni più tardi venne assunto come poeta del Teatro La Fenice. Il 10 agosto 1843, scrivendo all’amico Jacopo Ferretti – conosciuto ai tempi del soggiorno romano – Piave parla della sua prima collaborazione con Verdi (Ernani, andato in scena alla Fenice il 9 marzo 1844), che permise al librettista di entrare a pieno diritto nella stretta cerchia dei verseggiatori d’opera più ricercati dell’epoca, scrivendo testi – solo per citarne alcuni – per Mercadante, Pacini e Braga. Piave fu il più prolifico librettista verdiano, componendo nell’arco di diciotto anni ben dieci titoli per il Maestro: oltre al già citato Ernani, verseggiò I due Foscari (3 novembre 1844), Macbeth (14 marzo 1847), di cui curò anche la seconda versione (21 aprile 1865), Il corsaro (25 ottobre 1848), Stiffelio (16 novembre 1850), Rigoletto (11 marzo 1851), La traviata (6 marzo 1853), Simon Boccanegra (12 marzo 1857), Aroldo (16 agosto 1857), rifacimento di Stiffelio, e La forza del destino (10 novembre 1862). Le ragioni del duraturo sodalizio tra Verdi e Piave sono da ricercare principalmente nella capacità del librettista di adattarsi con estrema flessibilità alle esigenze musicali imposte dal Maestro, accettando persino – su iniziativa di Verdi – le umilianti revisioni di Macbeth e di Simon Boccanegra rispettivamente ad opera di Andrea Maffei e Giuseppe Montanelli. In segno di profonda riconoscenza, nel 1867 Verdi fornì un consistente aiuto economico alla famiglia di Piave, il quale non poté più provvedere al sostentamento di moglie e figlia a causa di un invalidante attacco apoplettico.
Piave morì qualche anno dopo, il 5 marzo 1876 a Milano. Verdi provvedette perfino alle spese di funerale e sepoltura al Cimitero Monumentale della città. In seguito i suoi resti sono stati trasferiti in un’ampia celletta nella Cripta del Famedio dello stesso Monumentale.
venerdì 17 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 17 maggio.
Il 17 maggio 1941 un giovane ragazzo albanese attenta alla vita di Re Vittorio Emanuele III.
L'occupazione italiana del Regno di Albania ebbe luogo tra il 1939 e il 1943, quando la corona del Regno Albanese fu assunta da Vittorio Emanuele III d'Italia, a seguito della guerra promossa dal regime fascista e dell'instaurazione del Protettorato Italiano del Regno d'Albania.
Vittorio Emanuele III decise di visitare l'Albania il 12 aprile 1941 ,ma arrivò nel paese un mese più tardi, dopo essere stato rassicurato dalla polizia fascista italiana di Tirana che fossero state adottate tutte le misure di sicurezza. Vasil Laçi, un ragazzo di 19 anni, seppe della visita di Vittorio Emanuele in Albania quindici giorni prima del suo arrivo, il 2 maggio 1941. Successivamente riuscì a trovare un lavoro presso l'Hotel International, dove Vittorio Emanuele sarebbe rimasto. Il ragazzo che tanto odiava gli invasori prese in prestito una pistola Beretta M1915 da un altro albanese. Il 17 maggio 1941, Vasil Laci, indossando il costume tradizionale albanese, prese di mira la macchina in cui Vittorio Emanuele e Shefqet Bej Verlaci, primo ministro albanese, viaggiavano accompagnati dai ministri del governo. Sparò quattro colpi verso di loro gridando "Viva l'Albania! Abbasso il fascismo", ma non riuscì ad uccidere nessuno.
Laçi venne arrestato immediatamente e giustiziato per impiccagione dieci giorni dopo. fu uno dei primi ad essere dichiarato "Eroe popolare d'Albania". Il suo tentativo di assassinare il re d'Italia è stato drammatizzato in primo luogo in un libro e poi in un film nel 1980 intitolato "pallottole per l'imperatore" (in albanese: Plumba Perandorit ). Un monumento a Tirana è stato eretto per onorare le sue azioni.
Il 17 maggio 1941 un giovane ragazzo albanese attenta alla vita di Re Vittorio Emanuele III.
L'occupazione italiana del Regno di Albania ebbe luogo tra il 1939 e il 1943, quando la corona del Regno Albanese fu assunta da Vittorio Emanuele III d'Italia, a seguito della guerra promossa dal regime fascista e dell'instaurazione del Protettorato Italiano del Regno d'Albania.
Vittorio Emanuele III decise di visitare l'Albania il 12 aprile 1941 ,ma arrivò nel paese un mese più tardi, dopo essere stato rassicurato dalla polizia fascista italiana di Tirana che fossero state adottate tutte le misure di sicurezza. Vasil Laçi, un ragazzo di 19 anni, seppe della visita di Vittorio Emanuele in Albania quindici giorni prima del suo arrivo, il 2 maggio 1941. Successivamente riuscì a trovare un lavoro presso l'Hotel International, dove Vittorio Emanuele sarebbe rimasto. Il ragazzo che tanto odiava gli invasori prese in prestito una pistola Beretta M1915 da un altro albanese. Il 17 maggio 1941, Vasil Laci, indossando il costume tradizionale albanese, prese di mira la macchina in cui Vittorio Emanuele e Shefqet Bej Verlaci, primo ministro albanese, viaggiavano accompagnati dai ministri del governo. Sparò quattro colpi verso di loro gridando "Viva l'Albania! Abbasso il fascismo", ma non riuscì ad uccidere nessuno.
Laçi venne arrestato immediatamente e giustiziato per impiccagione dieci giorni dopo. fu uno dei primi ad essere dichiarato "Eroe popolare d'Albania". Il suo tentativo di assassinare il re d'Italia è stato drammatizzato in primo luogo in un libro e poi in un film nel 1980 intitolato "pallottole per l'imperatore" (in albanese: Plumba Perandorit ). Un monumento a Tirana è stato eretto per onorare le sue azioni.
giovedì 16 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 16 maggio.
Il 16 maggio 1905 nasce Henry Fonda.
Henry Jaynes Fonda nasce il 16 maggio 1905 a Grand Island, nel Nebraska. I suoi antenati erano coloni olandesi fondatori della città di Fonda nello stato di New York.
Dopo essersi iscritto alla facoltà di giornalismo nell'università del Minnesota, abbandona gli studi per dedicarsi alla recitazione, prima alla Cape Cod University Players e poi a Broadway, dove si esibisce dal 1926 al 1934. Qui conosce James Stewart, che diverrà suo grande amico, e incontra l'attrice Margaret Sullavan, che sarà la prima delle sue cinque mogli (seguiranno Frances Seymour Brokaw, Susan Blanchard, Afdera Franchetti e Shirley Adams).
L'esordio cinematografico arriva nel 1935 con la versione cinematografica di The Farmer Takes a Wife, famosa commedia di Broadway interpretata a teatro dallo stesso Fonda.
L'anno successivo con Il sentiero del pino solitario di Henry Hataway ottiene il grande successo a Hollywood, diventando uno dei divi più popolari di sempre, e rimanendo legato al personaggio dell'eroe dotato di una forte integrità morale. Seguono rapidamente altri titoli di vario genere, come lo storico La figlia del vento di William Wyler, insieme a Bette Davis, l'oscuro dramma Sono innocente di Fritz Lang, la commedia Nel mondo della luna, l'avventuroso Il falco del nord.
Dal 1939 inizia una preziosa collaborazione con il maestro John Ford: sotto la sua direzione Fonda interpreterà numerosi personaggi indimenticabili in film storici come Alba di gloria del 1939, nel quale incarna un memorabile Abraham Lincoln; La più grande avventura, ambientato durante la Guerra d'indipendenza americana; l'intenso dramma sociale Furore del 1940, che gli vale la candidatura all'Oscar; il capolavoro Sfida infernale del 1946, dove è il mitico Wyatt Earp; La croce di fuoco del 1947, nel quale veste gli abiti talari di un missionario in fuga; il Massacro di Fort Apache del 1948, e infine il bellico Mister Roberts del 1955, in coppia con un giovane Jack Lemmon.
Parallelamente, non mancano le collaborazioni con altri registi, per pellicole di svariato genere: veste i panni di Jesse James in Jess il bandito e del fratello di James in Il vendicatore di Jess il bandito di Lang, ma si cimenta anche con un registro da commedia in Lady Eva di Preston Sturges, ne Il magnifico fannullone, dove è un simpatico buono a nulla, e in La strada della felicità di King Vidor. Notevole anche in ruoli romantici, come quelli in L'uomo questo dominatore, in Ragazze che sognano e ne L'amante immortale di Otto Preminger.
Dopo una breve pausa sfruttata per riprendere il lavoro teatrale, Fonda torna nel mondo del cinema nel 1956 nella trasposizione di Guerra e Pace di King Vidor e nel Ladro di Alfred Hitchcock, cui segue una delle sue performance più memorabili, quella nel capolavoro di impegno civile La parola ai giurati di Sidney Lumet, che in seguito lo vorrà anche nella commedia Fascino del palcoscenico e in A prova di errore, sulla tragedia della Guerra fredda.
Per Otto Preminger, invece, recita nell'intenso dramma politico Tempesta su Washington e nel bellico Prima vittoria. Non rinuncia però a praticare uno dei generi che lo ha reso famoso, il western, prendendo parte ad altri titoli degni di nota, come Ultima notte a Warlock di Edward Dmytryk, e l'affresco collettivo La conquista del West (tra i registi anche Ford). Presente nel film bellico corale Il giorno più lungo, cui seguono anche La battaglia dei giganti e La guerra segreta, non si fa mancare nemmeno i sentimentali L'uomo che capiva le donne e Donne, v'insegno come si seduce un uomo.
Henry Fonda ha accompagnato il western anche nella sua fase più crepuscolare e malinconica, dove a dominare sono soprattutto antieroi cinici e spietati (significativo è il titolo di un film bellico cui partecipa in questo periodo, Non è più tempo d'eroi di Robert Aldrich). Dopo alcuni western classici, ormai fuori tempo massimo, come Posta grossa a Dodge City, Gli indomabili dell'Arizona, Tempo di terrore e L'ora della furia, lo troviamo, infatti, nel lirico e nostalgico C'era una volta il West di Sergio Leone, insieme a Claudia Cardinale, nel polveroso Uomini e cobra di Joseph L. Mankiewicz con Kirk Douglas, ma anche nella commedia di Gene Kelly Non stuzzicate i cowboys che dormono e persino la parodia spaghetti-western Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii. Conclusasi l'era del western, Fonda si converte al genere poliziesco, anch'esso divenuto violento e spietato, partecipando a film come Squadra omicidi sparate a vista del maestro Don Siegel e Lo strangolatore di Boston di Richard Fleischer.
Negli anni seguenti Fonda passa dallo storico Mussolini: Ultimo atto di Carlo Lizzani, al film testamento di Billy Wilder Fedora, finendo anche in produzioni di serie B, come Tentacoli, Swarm e Meteor. La sua carriera raggiunge il culmine con la vittoria del premio Oscar come migliore attore protagonista nel 1982 per l'interpretazione nel commovente Sul lago dorato di Mark Rydell, accanto alla figlia Jane Fonda e alla veterana Katharine Hepburn (ma l'attore aveva già ricevuto un Oscar alla carriera l'anno prima).
Si spegne il 12 agosto 1982 a Los Angeles, in California.
Il 16 maggio 1905 nasce Henry Fonda.
Henry Jaynes Fonda nasce il 16 maggio 1905 a Grand Island, nel Nebraska. I suoi antenati erano coloni olandesi fondatori della città di Fonda nello stato di New York.
Dopo essersi iscritto alla facoltà di giornalismo nell'università del Minnesota, abbandona gli studi per dedicarsi alla recitazione, prima alla Cape Cod University Players e poi a Broadway, dove si esibisce dal 1926 al 1934. Qui conosce James Stewart, che diverrà suo grande amico, e incontra l'attrice Margaret Sullavan, che sarà la prima delle sue cinque mogli (seguiranno Frances Seymour Brokaw, Susan Blanchard, Afdera Franchetti e Shirley Adams).
L'esordio cinematografico arriva nel 1935 con la versione cinematografica di The Farmer Takes a Wife, famosa commedia di Broadway interpretata a teatro dallo stesso Fonda.
L'anno successivo con Il sentiero del pino solitario di Henry Hataway ottiene il grande successo a Hollywood, diventando uno dei divi più popolari di sempre, e rimanendo legato al personaggio dell'eroe dotato di una forte integrità morale. Seguono rapidamente altri titoli di vario genere, come lo storico La figlia del vento di William Wyler, insieme a Bette Davis, l'oscuro dramma Sono innocente di Fritz Lang, la commedia Nel mondo della luna, l'avventuroso Il falco del nord.
Dal 1939 inizia una preziosa collaborazione con il maestro John Ford: sotto la sua direzione Fonda interpreterà numerosi personaggi indimenticabili in film storici come Alba di gloria del 1939, nel quale incarna un memorabile Abraham Lincoln; La più grande avventura, ambientato durante la Guerra d'indipendenza americana; l'intenso dramma sociale Furore del 1940, che gli vale la candidatura all'Oscar; il capolavoro Sfida infernale del 1946, dove è il mitico Wyatt Earp; La croce di fuoco del 1947, nel quale veste gli abiti talari di un missionario in fuga; il Massacro di Fort Apache del 1948, e infine il bellico Mister Roberts del 1955, in coppia con un giovane Jack Lemmon.
Parallelamente, non mancano le collaborazioni con altri registi, per pellicole di svariato genere: veste i panni di Jesse James in Jess il bandito e del fratello di James in Il vendicatore di Jess il bandito di Lang, ma si cimenta anche con un registro da commedia in Lady Eva di Preston Sturges, ne Il magnifico fannullone, dove è un simpatico buono a nulla, e in La strada della felicità di King Vidor. Notevole anche in ruoli romantici, come quelli in L'uomo questo dominatore, in Ragazze che sognano e ne L'amante immortale di Otto Preminger.
Dopo una breve pausa sfruttata per riprendere il lavoro teatrale, Fonda torna nel mondo del cinema nel 1956 nella trasposizione di Guerra e Pace di King Vidor e nel Ladro di Alfred Hitchcock, cui segue una delle sue performance più memorabili, quella nel capolavoro di impegno civile La parola ai giurati di Sidney Lumet, che in seguito lo vorrà anche nella commedia Fascino del palcoscenico e in A prova di errore, sulla tragedia della Guerra fredda.
Per Otto Preminger, invece, recita nell'intenso dramma politico Tempesta su Washington e nel bellico Prima vittoria. Non rinuncia però a praticare uno dei generi che lo ha reso famoso, il western, prendendo parte ad altri titoli degni di nota, come Ultima notte a Warlock di Edward Dmytryk, e l'affresco collettivo La conquista del West (tra i registi anche Ford). Presente nel film bellico corale Il giorno più lungo, cui seguono anche La battaglia dei giganti e La guerra segreta, non si fa mancare nemmeno i sentimentali L'uomo che capiva le donne e Donne, v'insegno come si seduce un uomo.
Henry Fonda ha accompagnato il western anche nella sua fase più crepuscolare e malinconica, dove a dominare sono soprattutto antieroi cinici e spietati (significativo è il titolo di un film bellico cui partecipa in questo periodo, Non è più tempo d'eroi di Robert Aldrich). Dopo alcuni western classici, ormai fuori tempo massimo, come Posta grossa a Dodge City, Gli indomabili dell'Arizona, Tempo di terrore e L'ora della furia, lo troviamo, infatti, nel lirico e nostalgico C'era una volta il West di Sergio Leone, insieme a Claudia Cardinale, nel polveroso Uomini e cobra di Joseph L. Mankiewicz con Kirk Douglas, ma anche nella commedia di Gene Kelly Non stuzzicate i cowboys che dormono e persino la parodia spaghetti-western Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii. Conclusasi l'era del western, Fonda si converte al genere poliziesco, anch'esso divenuto violento e spietato, partecipando a film come Squadra omicidi sparate a vista del maestro Don Siegel e Lo strangolatore di Boston di Richard Fleischer.
Negli anni seguenti Fonda passa dallo storico Mussolini: Ultimo atto di Carlo Lizzani, al film testamento di Billy Wilder Fedora, finendo anche in produzioni di serie B, come Tentacoli, Swarm e Meteor. La sua carriera raggiunge il culmine con la vittoria del premio Oscar come migliore attore protagonista nel 1982 per l'interpretazione nel commovente Sul lago dorato di Mark Rydell, accanto alla figlia Jane Fonda e alla veterana Katharine Hepburn (ma l'attore aveva già ricevuto un Oscar alla carriera l'anno prima).
Si spegne il 12 agosto 1982 a Los Angeles, in California.
mercoledì 15 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 15 maggio.
Il 15 maggio 1610 Maria de' Medici viene incoronata regina di Francia.
Maria de' Medici nasce il 26 aprile del 1573 a Firenze: il padre è Francesco I de' Medici, figlio di Cosimo I de' Medici e discendente di Giovanni dalle Bande Nere e di Giovanni il Popolano; la madre è Giovanna d'Austria, figlia di Ferdinando I d'Asburgo e Anna Jagellone e discendente di Filippo I di Castiglia e Ladislao II di Boemia.
Il 17 dicembre del 1600 Maria de' Medici sposa Enrico IV re di Francia (per lui si tratta del secondo matrimonio, mentre la prima moglie Margherita di Valois è ancora viva), e in questo modo diventa regina consorte di Francia e Navarra. Il suo arrivo in Francia, a Marsiglia, è dipinto in un celebre quadro di Rubens.
Benché il loro matrimonio sia tutt'altro che felice, Maria dà alla luce sei figli: il 27 settembre del 1601 nasce Luigi (che diventerà re con il nome di Luigi XIII, sposerà Anna d'Austria, figlia di Filippo III di Spagna, e morirà nel 1643); il 22 novembre del 1602 nasce Elisabetta (che sposerà a soli tredici anni Filippo IV di Spagna e morirà nel 1644); il 10 febbraio del 1606 nasce Maria Cristina (che a sua volta a soli tredici anni sposerà Vittorio Amedeo I di Savoia, e morirà nel 1663); il 16 aprile del 1607 nasce Nicola Enrico, duca d'Orléans (che morirà nel 1611, a quattro anni e mezzo); il 25 aprile del 1608 nasce Gastone d'Orléans (che sposerà in prime nozze Maria di Borbone e in seconde nozze Margherita di Lorena, e morirà nel 1660); il 25 novembre del 1609 nasce Enrichetta Maria (che a sedici anni sposerà Carlo I d'Inghilterra e che morirà nel 1669).
Il 15 maggio del 1610, dopo l'uccisione del marito, Maria de' Medici viene nominata reggente per conto del suo figlio maggiore, Luigi, che all'epoca non ha ancora compiuto nove anni.
La donna intraprende, quindi, una politica estera che risulta condizionata in maniera evidente dai suoi consiglieri italiani, e che - in contrasto con le decisioni prese dal defunto marito - la porta a stringere una solida alleanza con la monarchia di Spagna, divenendo di conseguenza più orientata al cattolicesimo rispetto al protestantesimo (a differenza del volere di Enrico IV).
Proprio in virtù di tale politica, Maria de' Medici predispone il matrimonio del figlio Luigi, all'epoca quattordicenne, con l'infanta Anna: matrimonio che si celebra il 28 novembre del 1615.
Allo stesso periodo risale il matrimonio della figlia Elisabetta con l'infante Filippo (che poi diventerà Filippo IV di Spagna), in totale contrasto con i patti che, in occasione del Trattato di Bruzolo risalente al 25 aprile del 1610, Enrico IV aveva stipulato poco prima di essere ucciso con il Duca Carlo Emanuele I di Savoia.
Sul fronte della politica interna, la reggenza di Maria de' Medici si rivela molto più complicata: ella, infatti, è costretta ad assistere - senza potere intervenire in maniera efficace - alle numerose rivolte messe in atto dai principi protestanti.
In particolare, l'alta nobiltà francese (ma anche il popolo) non le perdona i favori concessi a Concino Concini (figlio di un notaio divenuto governatore della Piccardia e della Normandia) e a sua moglie Eleonora Galigai: nel 1614 (anno di forti contrasti con gli Stati Generali) e nel 1616 vanno in scena due rivolte dei principi, mentre l'anno successivo, dopo forti dissidi tra Maria e il Parlamento, Concini viene fatto assassinare su intervento diretto di Luigi.
Anche per questa ragione, nella primavera del 1617 Maria - dopo avere cercato di contrastare il duca Charles De Luynes, favorito del figlio, senza risultati - viene esautorata da Luigi e si vede costretta ad abbandonare Parigi e a ritirarsi a Blois, nel castello di famiglia.
Pochi anni dopo, in ogni caso, viene riammessa nel Consiglio di Stato: è il 1622. Grazie al nuovo ruolo acquisito e ai privilegi riottenuti, Maria tenta di riottenere anche la corona, e per questo cerca di sostenere il più possibile l'ascesa del duca di Richelieu, che proprio nel 1622 viene nominato cardinale, e che due anni più tardi entrerà a far parte del Consiglio reale.
Tuttavia, Richelieu da subito si mostra decisamente ostile alla politica estera progettata e attuata da Maria, decidendo di ribaltare tutte le alleanze strette con la Spagna fino a quel momento. L'ex regina, di conseguenza, tenta di opporsi in qualsiasi maniera alla politica attuata da Richelieu, organizzando anche un complotto ai suoi danni con la collaborazione del figlio Gastone e di una parte della nobiltà (quello che viene definito "Partito devoto", il "Parti dévot").
Il progetto prevede di indurre il re a non approvare il piano - progettato da Richelieu - di alleanze contro gli Asburgo con i Paesi protestanti, allo scopo di fare crollare la reputazione dello stesso Richelieu. La congiura, tuttavia, non ha esito positivo, perché Richelieu viene a conoscenza dei dettagli del piano, e nel corso di un colloquio con Luigi XIII lo induce a punire i congiurati e a ritornare sulle proprie decisioni.
L'11 novembre del 1630 (quello che passerà alla storia come "Journée des Dupes", la "giornata degli ingannati"), quindi, Richelieu viene confermato nel suo ruolo di primo ministro: i suoi nemici vengono definitivamente rovesciati, e anche Maria de' Medici è costretta all'esilio.
Dopo aver perso qualunque autorità, la regina madre all'inizio del 1631 viene obbligata a vivere a Compiègne agli arresti domiciliari; poco dopo, viene spedita a Bruxelles in esilio.
Dopo avere vissuto per alcuni anni nella casa del pittore Rubens, Maria de' Medici morirà in circostanze poco chiare il 3 luglio del 1642 a Colonia, probabilmente sola e abbandonata dai familiari e dagli amici.
Il 15 maggio 1610 Maria de' Medici viene incoronata regina di Francia.
Maria de' Medici nasce il 26 aprile del 1573 a Firenze: il padre è Francesco I de' Medici, figlio di Cosimo I de' Medici e discendente di Giovanni dalle Bande Nere e di Giovanni il Popolano; la madre è Giovanna d'Austria, figlia di Ferdinando I d'Asburgo e Anna Jagellone e discendente di Filippo I di Castiglia e Ladislao II di Boemia.
Il 17 dicembre del 1600 Maria de' Medici sposa Enrico IV re di Francia (per lui si tratta del secondo matrimonio, mentre la prima moglie Margherita di Valois è ancora viva), e in questo modo diventa regina consorte di Francia e Navarra. Il suo arrivo in Francia, a Marsiglia, è dipinto in un celebre quadro di Rubens.
Benché il loro matrimonio sia tutt'altro che felice, Maria dà alla luce sei figli: il 27 settembre del 1601 nasce Luigi (che diventerà re con il nome di Luigi XIII, sposerà Anna d'Austria, figlia di Filippo III di Spagna, e morirà nel 1643); il 22 novembre del 1602 nasce Elisabetta (che sposerà a soli tredici anni Filippo IV di Spagna e morirà nel 1644); il 10 febbraio del 1606 nasce Maria Cristina (che a sua volta a soli tredici anni sposerà Vittorio Amedeo I di Savoia, e morirà nel 1663); il 16 aprile del 1607 nasce Nicola Enrico, duca d'Orléans (che morirà nel 1611, a quattro anni e mezzo); il 25 aprile del 1608 nasce Gastone d'Orléans (che sposerà in prime nozze Maria di Borbone e in seconde nozze Margherita di Lorena, e morirà nel 1660); il 25 novembre del 1609 nasce Enrichetta Maria (che a sedici anni sposerà Carlo I d'Inghilterra e che morirà nel 1669).
Il 15 maggio del 1610, dopo l'uccisione del marito, Maria de' Medici viene nominata reggente per conto del suo figlio maggiore, Luigi, che all'epoca non ha ancora compiuto nove anni.
La donna intraprende, quindi, una politica estera che risulta condizionata in maniera evidente dai suoi consiglieri italiani, e che - in contrasto con le decisioni prese dal defunto marito - la porta a stringere una solida alleanza con la monarchia di Spagna, divenendo di conseguenza più orientata al cattolicesimo rispetto al protestantesimo (a differenza del volere di Enrico IV).
Proprio in virtù di tale politica, Maria de' Medici predispone il matrimonio del figlio Luigi, all'epoca quattordicenne, con l'infanta Anna: matrimonio che si celebra il 28 novembre del 1615.
Allo stesso periodo risale il matrimonio della figlia Elisabetta con l'infante Filippo (che poi diventerà Filippo IV di Spagna), in totale contrasto con i patti che, in occasione del Trattato di Bruzolo risalente al 25 aprile del 1610, Enrico IV aveva stipulato poco prima di essere ucciso con il Duca Carlo Emanuele I di Savoia.
Sul fronte della politica interna, la reggenza di Maria de' Medici si rivela molto più complicata: ella, infatti, è costretta ad assistere - senza potere intervenire in maniera efficace - alle numerose rivolte messe in atto dai principi protestanti.
In particolare, l'alta nobiltà francese (ma anche il popolo) non le perdona i favori concessi a Concino Concini (figlio di un notaio divenuto governatore della Piccardia e della Normandia) e a sua moglie Eleonora Galigai: nel 1614 (anno di forti contrasti con gli Stati Generali) e nel 1616 vanno in scena due rivolte dei principi, mentre l'anno successivo, dopo forti dissidi tra Maria e il Parlamento, Concini viene fatto assassinare su intervento diretto di Luigi.
Anche per questa ragione, nella primavera del 1617 Maria - dopo avere cercato di contrastare il duca Charles De Luynes, favorito del figlio, senza risultati - viene esautorata da Luigi e si vede costretta ad abbandonare Parigi e a ritirarsi a Blois, nel castello di famiglia.
Pochi anni dopo, in ogni caso, viene riammessa nel Consiglio di Stato: è il 1622. Grazie al nuovo ruolo acquisito e ai privilegi riottenuti, Maria tenta di riottenere anche la corona, e per questo cerca di sostenere il più possibile l'ascesa del duca di Richelieu, che proprio nel 1622 viene nominato cardinale, e che due anni più tardi entrerà a far parte del Consiglio reale.
Tuttavia, Richelieu da subito si mostra decisamente ostile alla politica estera progettata e attuata da Maria, decidendo di ribaltare tutte le alleanze strette con la Spagna fino a quel momento. L'ex regina, di conseguenza, tenta di opporsi in qualsiasi maniera alla politica attuata da Richelieu, organizzando anche un complotto ai suoi danni con la collaborazione del figlio Gastone e di una parte della nobiltà (quello che viene definito "Partito devoto", il "Parti dévot").
Il progetto prevede di indurre il re a non approvare il piano - progettato da Richelieu - di alleanze contro gli Asburgo con i Paesi protestanti, allo scopo di fare crollare la reputazione dello stesso Richelieu. La congiura, tuttavia, non ha esito positivo, perché Richelieu viene a conoscenza dei dettagli del piano, e nel corso di un colloquio con Luigi XIII lo induce a punire i congiurati e a ritornare sulle proprie decisioni.
L'11 novembre del 1630 (quello che passerà alla storia come "Journée des Dupes", la "giornata degli ingannati"), quindi, Richelieu viene confermato nel suo ruolo di primo ministro: i suoi nemici vengono definitivamente rovesciati, e anche Maria de' Medici è costretta all'esilio.
Dopo aver perso qualunque autorità, la regina madre all'inizio del 1631 viene obbligata a vivere a Compiègne agli arresti domiciliari; poco dopo, viene spedita a Bruxelles in esilio.
Dopo avere vissuto per alcuni anni nella casa del pittore Rubens, Maria de' Medici morirà in circostanze poco chiare il 3 luglio del 1642 a Colonia, probabilmente sola e abbandonata dai familiari e dagli amici.
martedì 14 maggio 2024
#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi
Buongiorno, oggi è il 14 maggio.
Il 14 maggio 2018, a Gerusalemme, viene inaugurata la nuova ambasciata americana in Israele.
Si avvicinano alla frontiera e lanciano pietre in direzione dei soldati che rispondono sparando. Il ministero della Sanità di Gaza riferisce di 58 morti, otto hanno meno di 16 anni, c'è anche una donna, e di oltre 2.700 feriti, troppi per gli ospedali palestinesi. Tra le vittime anche un bambino ucciso dai gas lacrimogeni. Una strage, nel giorno dell'inaugurazione della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme, che coincide con il settantesimo anniversario della nascita dello Stato di Israele, la "catastrofe" per i palestinesi.
Il presidente palestinese Abu Mazen proclama uno sciopero per il giorno dopo, tre giorni di lutto per il "massacro" del settimo e si dice pronto a rifiutare qualsiasi mediazione di pace che arrivi dagli americani. La condanna è globale: arriva dall'Onu, dall'Unione Europea, dalla Francia, dal Regno Unito, dal Libano, dal Qatar, dalla Russia.
"La responsabilità di quanto sta accadendo è chiaramente di Hamas che sta intenzionalmente provocando la risposta di Israele", fa sapere un portavoce della Casa Bianca. L'amministrazione Trump difende la scelta di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, confermandone il riconoscimento come capitale d'Israele. Benzina sul fuoco. Da quando è stato annunciato lo spostamento, cinque mesi prima, la tensione è aumentata sempre di più e i venerdì della collera palestinese hanno visto morire decine e decine di persone. Inoltre, secondo fonti diplomatiche gli Stati Uniti avrebbero bloccato all'Onu una richiesta di inchiesta indipendente su ciò che è accaduto al confine tra Israele e Gaza.
La situazione è quella riassunta in pochi caratteri dal tweet del ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, che accusa durissimo: "Il regime israeliano massacra innumerevoli palestinesi a sangue freddo durante una protesta nella più grande prigione a cielo aperto. Nel frattempo, Trump celebra il trasferimento illegale dell'ambasciata Usa ed i suoi collaboratori arabi cercano di distogliere l'attenzione".
Alla cerimonia nella sede Usa di Gerusalemme, Donald Trump non c'è. Ci sono la figlia Ivanka, il marito Jared Kushner, il segretario al Tesoro David Mnuchin e una delegazione e un messaggio video del presidente: "La nostra più grande speranza è per la pace". Gli Stati Uniti, aggiunge il capo della Casa Bianca, "mantengono il loro impegno per facilitare un accordo di pace duraturo". E mentre il numero dei morti a Gaza aumenta di ora in ora, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, twitta: "Che giorno fantastico! Grazie @Potus Trump".
Ivanka e Mnuchin, scoprono la targa e danno il benvenuto "ufficialmente e per la prima volta alla missione diplomatica americana a Gerusalemme, capitale di Israele". Israele "ha il diritto di scegliere la sua capitale - ribadisce nel suo discorso il genero-consigliere Kushner che raramente prende la parola in pubblico - quando Trump fa una promessa, la mantiene. Abbiamo mostrato al mondo, ancora una volta, che degli Usa ci si può fidare".
Gli fa eco Netanyahu: "Grazie presidente Trump per avere avuto il coraggio di rispettare la sua promessa!". "È una giornata magnifica" continua il primo ministro israeliano, "riconoscendo che Gerusalemme è la capitale di Israele, Trump ha fatto la storia".
Fuori dalla sede diplomatica e in altre strade di Gerusalemme, va in scena la protesta. In piazza ci sono centinaia di persone, tra le quali profughi palestinesi, residenti nel campo profughi di Ain el Helweh, a Sidone, a sud di Beirut. "Il trasferimento dell'ambasciata statunitense è una dichiarazione di guerra contro il popolo palestinese", dice di fronte ai manifestanti Star Fouad Othman, rappresentante palestinese del Fronte Democratico. "A scuola, ci hanno insegnato che la Palestina è nostra, e che ci ritorneremo", afferma un bambino palestinese ai microfoni del Daily star. Piccole manifestazioni anche nei campi di Chatila e di Burj el Barajneh, a Beirut. "Un insulto al mondo e ai palestinesi", commenta Abu Mazen.
Dopo gli Stati Uniti, altri Paesi hanno in programma di trasferire la loro ambasciata a Gerusalemme. Mercoledì sarà la volta del Guatemala, che inaugurerà la nuova sede alla presenza del presidente Jimmy Morales. Anche il Paraguay ha annunciato che farà lo stesso prima della fine del mese. Stanno inoltre prendendo in considerazione questa opzione la Romania e la Repubblica Ceca. Mentre l'Honduras, che si è allineato con gli Stati Uniti e Israele il 21 dicembre durante il voto sulla risoluzione delle Nazioni Unite che condanna la decisione dell'amministrazione Trump, da allora non si è più pronunciato sulla sede dell'ambasciata, anche se il Parlamento ha approvato una risoluzione per il trasferimento.
Dalla fine di marzo, le manifestazioni da parte palestinese avevano già provocato più di 40 vittime, tutte palestinesi. Per sette venerdì consecutivi i giovani di Gaza hanno in massa partecipato alle manifestazioni che prendono il nome di "marcia del ritorno", fino a oggi, anniversario della Nakba, la "catastrofe", come i palestinesi chiamano la nascita dello Stato d'Israele nel 1948, quando la protesta è sfociata in un massacro. In giornata ci sono stati anche raid dell'aviazione israeliana contro cinque obiettivi in una struttura militare d'addestramento "dell'organizzazione terrorista Hamas nel nord della Striscia di Gaza". E Israele non ha intenzione di fermarsi: il ministro della Difesa Avigdor Lieberman "ha dato istruzioni di continuare ad agire con determinazione per prevenire qualsiasi attacco alla sovranità di Israele e ai cittadini israeliani", recita una nota diffusa dall'ufficio del ministro. Per Netanyahu, è solo "legittima difesa".
Tutto avviene nonostante la forte opposizione del mondo arabo, dei palestinesi, dell'Onu e di gran parte della comunità internazionale, Ue compresa, preoccupati che questo passaggio segni il definitivo naufragio di ogni possibilità di negoziare la pace. Il segretario generale aggiunto della Lega araba con delega per la questione palestinese e i territori occupati, Said Abou Ali, "ha fatto appello a un intervento internazionale urgente per fermare l'orribile massacro perpetrato dalle forze di occupazione israeliane contro i palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza". Un appello arriva anche dall'Alta rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, Federica Mogherini: "Ci aspettiamo che tutti agiscano con la massima moderazione per evitare ulteriori perdite di vite".
"Ci appelliamo a tutte le parti coinvolte - afferma l'allora ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano - affinché profondano ogni sforzo per evitare ulteriori spargimenti di sangue e auspichiamo una ripresa delle iniziative politico-diplomatiche tese a rilanciare la prospettiva di una soluzione politica, affinché i due popoli possano vivere fianco a fianco, in pace e sicurezza". Da diverse capitali europee arrivano appelli dello stesso tenore e si ribadisce la presa di distanza dalla scelta di Trump.
"Non permetteremo che oggi sia il giorno in cui il mondo musulmano ha perso Gerusalemme. Continueremo a restare con determinazione a fianco del popolo palestinese", dice il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, accusando "sia Israele sia gli Stati Uniti" per "questa tragedia umanitaria". Il suo ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, parla di "massacro" e "terrorismo di Stato" e richiama per consultazioni gli ambasciatori in Usa e Israele.
Anche Mosca è "preoccupata" e con il ministro degli Esteri Serghei Lavrov riafferma il proprio "parere negativo per quanto riguarda poi il trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme". Il primo ministro libanese, Saad Hariri, paragona l'inaugurazione della sede diplomatica alla 'catastrofe' del 1948, la fuga di 700 mila profughi durante la guerra seguita alla proclamazione dello Stato di Israele. Contro le violenze anche il Qatar, il Kuwait, il Sudafrica che ha anche richiamato in patria il proprio ambasciatore in Israele.
In un tweet Amnesty International denuncia una "ripugnante violazione delle norme internazionali e dei diritti umani". Tra i quasi "2000 feriti, molti sono stati colpiti alla testa e al petto. Oltre 500 sono stati feriti da pallottole. Bisogna porre fine adesso a tutto ciò", afferma l'Ong.
Il 14 maggio 2018, a Gerusalemme, viene inaugurata la nuova ambasciata americana in Israele.
Si avvicinano alla frontiera e lanciano pietre in direzione dei soldati che rispondono sparando. Il ministero della Sanità di Gaza riferisce di 58 morti, otto hanno meno di 16 anni, c'è anche una donna, e di oltre 2.700 feriti, troppi per gli ospedali palestinesi. Tra le vittime anche un bambino ucciso dai gas lacrimogeni. Una strage, nel giorno dell'inaugurazione della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme, che coincide con il settantesimo anniversario della nascita dello Stato di Israele, la "catastrofe" per i palestinesi.
Il presidente palestinese Abu Mazen proclama uno sciopero per il giorno dopo, tre giorni di lutto per il "massacro" del settimo e si dice pronto a rifiutare qualsiasi mediazione di pace che arrivi dagli americani. La condanna è globale: arriva dall'Onu, dall'Unione Europea, dalla Francia, dal Regno Unito, dal Libano, dal Qatar, dalla Russia.
"La responsabilità di quanto sta accadendo è chiaramente di Hamas che sta intenzionalmente provocando la risposta di Israele", fa sapere un portavoce della Casa Bianca. L'amministrazione Trump difende la scelta di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, confermandone il riconoscimento come capitale d'Israele. Benzina sul fuoco. Da quando è stato annunciato lo spostamento, cinque mesi prima, la tensione è aumentata sempre di più e i venerdì della collera palestinese hanno visto morire decine e decine di persone. Inoltre, secondo fonti diplomatiche gli Stati Uniti avrebbero bloccato all'Onu una richiesta di inchiesta indipendente su ciò che è accaduto al confine tra Israele e Gaza.
La situazione è quella riassunta in pochi caratteri dal tweet del ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, che accusa durissimo: "Il regime israeliano massacra innumerevoli palestinesi a sangue freddo durante una protesta nella più grande prigione a cielo aperto. Nel frattempo, Trump celebra il trasferimento illegale dell'ambasciata Usa ed i suoi collaboratori arabi cercano di distogliere l'attenzione".
Alla cerimonia nella sede Usa di Gerusalemme, Donald Trump non c'è. Ci sono la figlia Ivanka, il marito Jared Kushner, il segretario al Tesoro David Mnuchin e una delegazione e un messaggio video del presidente: "La nostra più grande speranza è per la pace". Gli Stati Uniti, aggiunge il capo della Casa Bianca, "mantengono il loro impegno per facilitare un accordo di pace duraturo". E mentre il numero dei morti a Gaza aumenta di ora in ora, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, twitta: "Che giorno fantastico! Grazie @Potus Trump".
Ivanka e Mnuchin, scoprono la targa e danno il benvenuto "ufficialmente e per la prima volta alla missione diplomatica americana a Gerusalemme, capitale di Israele". Israele "ha il diritto di scegliere la sua capitale - ribadisce nel suo discorso il genero-consigliere Kushner che raramente prende la parola in pubblico - quando Trump fa una promessa, la mantiene. Abbiamo mostrato al mondo, ancora una volta, che degli Usa ci si può fidare".
Gli fa eco Netanyahu: "Grazie presidente Trump per avere avuto il coraggio di rispettare la sua promessa!". "È una giornata magnifica" continua il primo ministro israeliano, "riconoscendo che Gerusalemme è la capitale di Israele, Trump ha fatto la storia".
Fuori dalla sede diplomatica e in altre strade di Gerusalemme, va in scena la protesta. In piazza ci sono centinaia di persone, tra le quali profughi palestinesi, residenti nel campo profughi di Ain el Helweh, a Sidone, a sud di Beirut. "Il trasferimento dell'ambasciata statunitense è una dichiarazione di guerra contro il popolo palestinese", dice di fronte ai manifestanti Star Fouad Othman, rappresentante palestinese del Fronte Democratico. "A scuola, ci hanno insegnato che la Palestina è nostra, e che ci ritorneremo", afferma un bambino palestinese ai microfoni del Daily star. Piccole manifestazioni anche nei campi di Chatila e di Burj el Barajneh, a Beirut. "Un insulto al mondo e ai palestinesi", commenta Abu Mazen.
Dopo gli Stati Uniti, altri Paesi hanno in programma di trasferire la loro ambasciata a Gerusalemme. Mercoledì sarà la volta del Guatemala, che inaugurerà la nuova sede alla presenza del presidente Jimmy Morales. Anche il Paraguay ha annunciato che farà lo stesso prima della fine del mese. Stanno inoltre prendendo in considerazione questa opzione la Romania e la Repubblica Ceca. Mentre l'Honduras, che si è allineato con gli Stati Uniti e Israele il 21 dicembre durante il voto sulla risoluzione delle Nazioni Unite che condanna la decisione dell'amministrazione Trump, da allora non si è più pronunciato sulla sede dell'ambasciata, anche se il Parlamento ha approvato una risoluzione per il trasferimento.
Dalla fine di marzo, le manifestazioni da parte palestinese avevano già provocato più di 40 vittime, tutte palestinesi. Per sette venerdì consecutivi i giovani di Gaza hanno in massa partecipato alle manifestazioni che prendono il nome di "marcia del ritorno", fino a oggi, anniversario della Nakba, la "catastrofe", come i palestinesi chiamano la nascita dello Stato d'Israele nel 1948, quando la protesta è sfociata in un massacro. In giornata ci sono stati anche raid dell'aviazione israeliana contro cinque obiettivi in una struttura militare d'addestramento "dell'organizzazione terrorista Hamas nel nord della Striscia di Gaza". E Israele non ha intenzione di fermarsi: il ministro della Difesa Avigdor Lieberman "ha dato istruzioni di continuare ad agire con determinazione per prevenire qualsiasi attacco alla sovranità di Israele e ai cittadini israeliani", recita una nota diffusa dall'ufficio del ministro. Per Netanyahu, è solo "legittima difesa".
Tutto avviene nonostante la forte opposizione del mondo arabo, dei palestinesi, dell'Onu e di gran parte della comunità internazionale, Ue compresa, preoccupati che questo passaggio segni il definitivo naufragio di ogni possibilità di negoziare la pace. Il segretario generale aggiunto della Lega araba con delega per la questione palestinese e i territori occupati, Said Abou Ali, "ha fatto appello a un intervento internazionale urgente per fermare l'orribile massacro perpetrato dalle forze di occupazione israeliane contro i palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza". Un appello arriva anche dall'Alta rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, Federica Mogherini: "Ci aspettiamo che tutti agiscano con la massima moderazione per evitare ulteriori perdite di vite".
"Ci appelliamo a tutte le parti coinvolte - afferma l'allora ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano - affinché profondano ogni sforzo per evitare ulteriori spargimenti di sangue e auspichiamo una ripresa delle iniziative politico-diplomatiche tese a rilanciare la prospettiva di una soluzione politica, affinché i due popoli possano vivere fianco a fianco, in pace e sicurezza". Da diverse capitali europee arrivano appelli dello stesso tenore e si ribadisce la presa di distanza dalla scelta di Trump.
"Non permetteremo che oggi sia il giorno in cui il mondo musulmano ha perso Gerusalemme. Continueremo a restare con determinazione a fianco del popolo palestinese", dice il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, accusando "sia Israele sia gli Stati Uniti" per "questa tragedia umanitaria". Il suo ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, parla di "massacro" e "terrorismo di Stato" e richiama per consultazioni gli ambasciatori in Usa e Israele.
Anche Mosca è "preoccupata" e con il ministro degli Esteri Serghei Lavrov riafferma il proprio "parere negativo per quanto riguarda poi il trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme". Il primo ministro libanese, Saad Hariri, paragona l'inaugurazione della sede diplomatica alla 'catastrofe' del 1948, la fuga di 700 mila profughi durante la guerra seguita alla proclamazione dello Stato di Israele. Contro le violenze anche il Qatar, il Kuwait, il Sudafrica che ha anche richiamato in patria il proprio ambasciatore in Israele.
In un tweet Amnesty International denuncia una "ripugnante violazione delle norme internazionali e dei diritti umani". Tra i quasi "2000 feriti, molti sono stati colpiti alla testa e al petto. Oltre 500 sono stati feriti da pallottole. Bisogna porre fine adesso a tutto ciò", afferma l'Ong.
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