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lunedì 21 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 21 aprile.

Il 21 aprile 272 d.C., secondo alcune agiografie, è la data in cui nacque San Gennaro.

Fra i santi dell’antichità è certamente uno dei più venerati dai fedeli e se poi consideriamo che questi fedeli, sono primariamente napoletani, si può comprendere per la nota estemporaneità e focosa fede che li distingue, perché il suo culto, travalicando i secoli, sia giunto intatto fino a noi, accompagnato periodicamente dal misterioso prodigio della liquefazione del suo sangue, che tanto attira i napoletani.

Prima di tutto il suo nome diffuso in Campania e anche nel Sud Italia, risale al latino ‘Ianuarius’ derivato da ‘Ianus’ (Giano) il dio bifronte delle chiavi del cielo, dell’inizio dell’anno e del passaggio delle porte e delle case.

Il nome era in genere attribuito ai bambini nati nel mese di gennaio “Ianuarius”, undicesimo mese dell’anno secondo il calendario romano, ma il primo dopo la riforma del II secolo d.C.

Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, perché Ianuarius che significa “consacrato al dio Ianus” non era il suo nome, che non ci è pervenuto, ma il gentilizio corrispondente al nostro cognome.

Vi sono ben sette antichi ‘Atti’, ‘Passio’, ‘Vitae’, che parlano di Gennaro, fra i più celebri gli “Atti Bolognesi” e gli “Atti Vaticani”. Da questi documenti si apprende che Gennaro nato a Napoli (?) nella seconda metà del III secolo, fu eletto vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai pagani per la cura, che impiegava nelle opere di carità a tutti indistintamente; si era nel primo periodo dell’impero di Diocleziano (243-313), il quale permise ai cristiani di occupare anche posti di prestigio e una certa libertà di culto.

Nella sua vecchiaia però, sotto la pressione del suo cesare Galerio (293), firmò ben tre editti contro i cristiani, provocando una delle più feroci persecuzioni, colpendo la Chiesa nei suoi membri e nei suoi averi per impedirle di soccorrere i poveri e spezzare così il favore popolare.

E in questo contesto s’inserisce la storia del martirio di Gennaro; egli conosceva il diacono Sosso (o Sossio) che guidava la comunità cristiana di Miseno, importante porto romano sulla costa occidentale del litorale flegreo; Sosso fu incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania, per le funzioni religiose che quotidianamente venivano celebrate nonostante i divieti.

In quel periodo il vescovo di Benevento Gennaro, accompagnato dal diacono Festo e dal lettore Desiderio, si trovava a Pozzuoli in incognito, visto il gran numero di pagani che si recavano nella vicinissima Cuma ad ascoltare gli oracoli della Sibilla Cumana e aveva ricevuto di nascosto anche qualche visita del diacono di Miseno (località tutte vicinissime tra loro).

Gennaro, saputo dell’arresto di Sosso, volle recarsi insieme ai suoi due compagni Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere e anche con alcuni scritti, per esortarlo insieme agli altri cristiani prigionieri a resistere nella fede.

Il giudice Dragonio informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio.

Anche questi tre furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell’anfiteatro, ancora oggi esistente, per essere sbranati dagli orsi, in un pubblico spettacolo. Ma durante i preparativi, il proconsole Dragonio si accorse che il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi, cambiò decisione e il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri cristiani nel Foro di Vulcano, presso la celebre Solfatara di Pozzuoli.

Si racconta che una donna di nome Eusebia riuscì a raccogliere in due ampolle (i cosiddetti lacrimatoi) parte del sangue del vescovo e conservarlo con molta venerazione; era usanza dei cristiani dell’epoca di cercare di raccogliere corpi o parte di corpi, abiti, ecc. per poter poi venerarli come reliquie dei loro martiri.

I cristiani di Pozzuoli nottetempo seppellirono i corpi dei martiri nell’agro Marciano presso la Solfatara; si presume che s. Gennaro avesse sui 35 anni, come pure giovani erano i suoi compagni di martirio. Oltre un secolo dopo, nel 431 (13 aprile) si trasportarono le reliquie del solo s. Gennaro da Pozzuoli nelle catacombe di Capodimonte a Napoli, dette poi “Catacombe di S. Gennaro”, per volontà del vescovo di Napoli, s. Giovanni I e sistemate vicino a quelle di s. Agrippino vescovo.

Le reliquie degli altri sei martiri hanno una storia a parte per le loro traslazioni, ma in maggioranza ebbero culto e spostamento nelle loro zone di origine.

Durante il trasporto delle reliquie di s. Gennaro a Napoli, la suddetta Eusebia o altra donna, alla quale le aveva affidate prima di morire, consegnò al vescovo le due ampolline contenenti il sangue del martire; a ricordo delle tappe della solenne traslazione vennero erette due cappelle: S. Gennariello al Vomero e San Gennaro ad Antignano.

Il culto per il santo vescovo si diffuse fortemente con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba. Affreschi, iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano ornate di sue immagini.

Va notato che già nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. La tomba divenne, come già detto, meta di continui pellegrinaggi per i grandi prodigi che gli venivano attribuiti; nel 472 ad esempio, in occasione di una violenta eruzione del Vesuvio, i napoletani accorsero in massa nella catacomba per chiedere la sua intercessione, iniziando così l’abitudine ad invocarlo nei terremoti e nelle eruzioni, e mentre aumentava il culto per s. Gennaro, diminuiva man mano quello per s. Agrippino vescovo, fino allora patrono della città di Napoli; dal 472 s. Gennaro cominciò ad assumere il rango di patrono principale della città.

Durante un’altra eruzione nel 512, fu lo stesso vescovo di Napoli, s. Stefano I, ad iniziare le preghiere propiziatorie; dopo fece costruire in suo onore, accanto alla basilica costantiniana di S. Restituta (prima cattedrale di Napoli), una chiesa detta Stefania, sulla quale verso la fine del secolo XIII, venne eretto il Duomo; riponendo nella cripta il cranio e la teca con le ampolle del sangue.

Questa provvidenziale decisione preservò le suddette reliquie dal furto operato dal longobardo Sicone, che durante l’assedio di Napoli dell’831, penetrò nelle catacombe, allora fuori della cinta muraria della città, asportando le altre ossa del santo che furono portate a Benevento, sede del ducato longobardo.

Le ossa restarono in questa città fino al 1156, quando vennero traslate nel santuario di Montevergine (AV), dove rimasero per tre secoli; addirittura se ne persero le tracce, finché durante alcuni scavi effettuati nel 1480 furono ritrovate casualmente sotto l’altare maggiore, insieme a quelle di altri santi, ma ben individuate da una lamina di piombo con il nome.

Il 13 gennaio 1492, dopo interminabili discussioni e trattative con i monaci dell’abbazia verginiana, le ossa furono riportate a Napoli nel succorpo del Duomo ed unite al capo ed alle ampolle. Intanto le ossa del cranio erano state sistemate in un preziosissimo busto d’argento, opera di tre orafi provenzali, dono di Carlo II d’Angiò nel 1305, al Duomo di Napoli.

Successivamente nel 1646 il busto d’argento con il cranio e le ormai famose ampolline col sangue furono poste nella nuova artistica Cappella del Tesoro, ricca di capolavori d’arte d’ogni genere. Le ampolle erano state incastonate in una teca preziosa fatta realizzare da Roberto d’Angiò, in un periodo imprecisato del suo lungo regno (1309-1343).

La teca assunse l’aspetto attuale nel XVII secolo: racchiuse fra due vetri circolari di circa dodici centimetri di diametro, vi sono le due ampolline, una più grande di forma ellittica schiacciata, ripiena per circa il 60% di sangue e quella più piccola cilindrica con solo alcune macchie rosso-brunastre sulle pareti; la liquefazione del sangue avviene solo in quella più grande.

Le altre reliquie poste in un’antica anfora sono rimaste nella cripta del Duomo, su cui s’innalza l’abside e l’altare maggiore della grande Cattedrale. San Gennaro è conosciuto in tutto il mondo, grazie anche al culto esportato insieme ai tantissimi emigranti napoletani, suoi fedeli, non solo per i suoi prodigiosi interventi nel bloccare le calamità naturali, purtroppo ricorrenti che colpivano Napoli, come pestilenze, terremoti e le numerose eruzioni del vulcano Vesuvio, croce e vanto di tutto il Golfo di Napoli; ma anche per il famoso prodigio della liquefazione del sangue contenuto nelle antiche ampolle, completamente sigillate e custodite in una nicchia chiusa con porte d’argento, situata dietro l’altare principale, della già menzionata Cappella del Tesoro.

Il Tesoro è oggi custodito in un caveau di una banca, essendo ingente e preziosissimo, quale testimonianza dei doni fatti al santo patrono da sovrani, nobili e quanti altri abbiano ricevuto grazie per sua intercessione, o alla loro persona e famiglia o alla città stessa.

Le chiavi della nicchia sono conservate dalla Deputazione del Tesoro di S. Gennaro, da secoli composta da nobili e illustri personaggi napoletani con a capo il sindaco della città. Il miracolo della liquefazione del sangue, che è opportuno dire non è un’esclusiva del santo vescovo, ma anche di altri santi e in altre città, ma che a Napoli ha assunto una valenza incredibile, secondo un antico documento è avvenuto per la prima volta nel lontano 17 agosto 1389; non è escluso, perché non documentato, che sia avvenuto anche in precedenza.

Detto prodigio avviene da allora tre volte l’anno; nel primo sabato di maggio, in cui il busto ornato di preziosissimi paramenti vescovili e il reliquiario con la teca e le ampolle viene portato in processione, insieme ai busti d’argento dei numerosi santi compatroni di Napoli, anch’essi esposti nella suddetta Cappella del Tesoro, dal Duomo alla Basilica di S. Chiara, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli, e qui dopo le rituali preghiere, avviene la liquefazione del sangue raggrumito; la seconda avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione; una volta avveniva nella Cappella del Tesoro, ma per il gran numero di fedeli il busto e le reliquie sono oggi esposte sull’altare maggiore del Duomo, dove anche qui dopo ripetute preghiere, con la presenza del cardinale arcivescovo, autorità civili e fedeli, avviene il prodigio tra il tripudio generale.

Avvenuta la liquefazione, la teca sorretta dall’arcivescovo viene mostrata quasi capovolgendola ai fedeli e al bacio dei più vicini; il sangue rimane sciolto per tutta l’ottava successiva e i fedeli sono ammessi a vedere da vicini la teca e baciarla con un prelato che la muove per far constatare la liquidità, dopo gli otto giorni viene di nuovo riposta nella nicchia e chiusa a chiave.

Una terza liquefazione avviene il 16 dicembre “festa del patrocinio di s. Gennaro”, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo. Il prodigio così puntuale non è sempre avvenuto, esiste un diario dei Canonici del Duomo che riporta nei secoli anche le volte che il sangue non si è sciolto, oppure con ore e giorni di ritardo, oppure a volte è stato trovato già liquefatto quando sono state aperte le porte argentee per prelevare le ampolle; il miracolo a volte è avvenuto al di fuori delle date solite, per eventi straordinari.

Il popolo napoletano nei secoli ha voluto vedere nella velocità del prodigio un auspicio positivo per il futuro della città, mentre una sua assenza o un prolungato ritardo è visto come fatto negativo per possibili calamità da venire. La catechesi costante degli ultimi arcivescovi di Napoli ha convinto la maggioranza dei fedeli che anche la mancanza del prodigio o il ritardo vanno vissuti con serenità e intensificazione semmai di una vita più cristiana.

Del resto questo “miracolo ballerino”, imprevedibile, è stato oggetto di profondi studi scientifici, l’ultimo nel 1988, con i quali usando l’esame spettroscopico, non potendosi aprire le ampolline sigillate da tanti secoli, si è potuto stabilire la presenza nel liquido di emoglobina, dunque sangue.

La liquefazione del sangue è innegabile e spiegazioni scientifiche finora non se ne sono trovate, come tutte le ipotesi contrarie formulate nei secoli, non sono mai state provate. È singolare il fatto che a Pozzuoli, contemporaneamente al miracolo che avviene a Napoli, la pietra conservata nella chiesa di S. Gennaro vicino alla Solfatara e che si crede sia il ceppo su cui il martire poggiò la testa per essere decapitato, diventa più rossa.

Pur essendo venuti tanti papi a Napoli in devoto omaggio, baciando personalmente la teca e lasciando doni, la Chiesa, è bene ricordarlo, non si è mai pronunciata ufficialmente sul miracolo di s. Gennaro.

Papa Paolo VI nel 1966, in un discorso ad un gruppo di pellegrini partenopei, richiamò chiaramente il prodigio: “…come questo sangue che ribolle ad ogni festa, così la fede del popolo di Napoli possa ribollire, rifiorire ed affermarsi”.


domenica 20 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 20 aprile.

Il 20 aprile 1992 allo stadio di Wembley si riuniscono moltissime star della musica mondiale per il celeberrimo concerto tributo alla memoria di Freddie Mercury.

Sono trascorsi 33 anni dal più grande tributo della storia della musica rock: The Freddie Mercury Tribute Concert For Aids Awareness.

Quel lungo sogno musicale si svolse al Wembley Stadium dal primo pomeriggio fino a tarda sera del 20 aprile 1992.

Mai così tante star della musica mondiale si sono riunite per celebrare la vita, la carriera e la musica di un solo artista: Freddie Mercury.

Nel febbraio del 1992, alla cerimonia annuale dei Brit Awards, Brian May e Roger Taylor, annunciarono il desiderio di organizzare un grande evento per rendere omaggio al frontman dei Queen, scomparso il 24 novembre del 1991 in seguito a una broncopolmonite dovuta alla deficienza immunitaria.

Il giorno seguente vennero messi in vendita i biglietti per il concerto e tutti i 72.000 tagliandi andarono esauriti in sole due ore, nonostante ancora non fosse stato diffusa la minima informazione su chi avrebbe suonato oltre ai componenti restanti della band.

Si comincia con Lady Diana Spencer e il Principe Carlo sugli spalti, mentre Brian, Roger e John aprono lo spettacolo con un breve discorso.

A fine concerto, la marea umana assetata di musica “sarà sorda, cieca e con la voglia di tornare il giorno dopo” (Brian May).

Aprono i Metallica con un trittico da far paura (Enter Sandman, Sad but True e Nothing Else Matter e poi gli Extreme (“Loro sono dei veri amici ed è il gruppo che più di tutti al mondo ha compreso la musica dei Queen” parole di Brian May) con un medley che comprende tra le altre Mustapha, Another One Bites The Dust, Fat Bottomed Girls, Bycycle Race e Love of My life.

Def Leppard (che duetteranno con Brian May su Now I’m Here), Bob Geldof , Spinal Tap e i Guns ‘n’ Roses con Paradise City e Knockin’ on Heaven’s Door.

Oltre alla musica ci sarà spazio anche per l’impegno sociale perché i proventi dell’incasso del Freddie Mercury Tribute Concert for Aids Awareness serviranno per dare vita all’associazione benefica The Mercury Phoenix Trust: il tema dell’Aids è stato ripreso in più occasioni durante il concerto con l’intervento di un giovane Ian Mackellen da Parliament Hill e il discorso di Elizabeth Taylor.

Durante la prima parte del Freddie Mercury Tribute vennero proiettati diversi video dei Queen mentre i tecnici eseguivano i cambi palco.

Quando il concerto venne trasmesso su MTV, gli U2 dedicarono a Freddie una performance via satellite dalla California dal vivo di Until The End Of The World.

Ma il bello doveva ancora venire perché una volta calata la sera, il palco del Wembley Stadium si sarebbe riempito di stelle.

La scaletta

Queen e Joe Elliott/Slash – Tie Your Mother Down

Queen e Roger Daltrey (con Tony Iommi) – Heaven And Hell (intro), Pinball Wizard (intro), I Want It All

Queen e Zucchero – Las Palabras de Amor

Queen e Gary Cherone (con Tony Iommi) – Hammer to Fall

Queen e James Hetfield (con Tony Iommi) – Stone Cold Crazy

Queen e Robert Plant – Innuendo (con estratti da Kashmir), Thank You (intro), Crazy Little Thing Called Love

Queen (Brian May con Spike Edney) – Too Much Love Will Kill You

Queen e Paul Young – Radio Ga Ga

Queen e Seal – Who Wants to Live Forever

Queen e Lisa Stansfield – I Want to Break Free

Queen e David Bowie/Annie Lennox – Under Pressure

Queen e Ian Hunter/David Bowie/Mick Ronson/Joe Elliott/Phil Collen – All the Young Dudes

Queen e David Bowie/Mick Ronson – Heroes/The Lord’s Prayer

Queen e George Michael – 39

Queen e George Michael/Lisa Stansfield – These Are the Days of Our Lives

Queen e George Michael – Somebody to Love

Queen e Elton John/Axl Rose – Bohemian Rhapsody

Queen e Elton John (con Tony Iommi) – The Show Must Go On

Queen e Axl Rose – We Will Rock You

Queen e Liza Minnelli/Cast – We Are the Champions

sabato 19 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 19 aprile.

Il 19 aprile 1937, in Italia e nelle colonie diventava legge il Regio Decreto Legislativo numero 880, la prima legge “di tutela della razza” promulgata dal regime fascista, riferito in particolar modo a tutti gli italiani che vivevano nelle allora colonie italiane in Africa, Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Le leggi razziali erano diventate realtà.

Cosa si intende per “leggi razziali”? Sono tutte quelle leggi basate sul principio di discriminazione razziale: discriminare degli esseri umani solo perché di etnie diverse dalla nostra, fondamentalmente, e farlo anche a livello legale e istituzionale. Per chi non è di corta memoria storica, sicuramente questa definizione fa venire in mente le leggi razziali fasciste, promulgate dal regime di Benito Mussolini in Italia dal 1938, e da molti storici considerati il vero e proprio prologo della Seconda Guerra Mondiale.

Quello che molti ignorano, però, è che le leggi razziali contro gli ebrei non furono le prime promulgate nel nostro paese: no, il triste primato di prima legge razziale lo detiene proprio il Regio Decreto Legislativo del 19 aprile 1937, denominato Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi. Con questo decreto lo stato italiano vietava definitivamente il matrimonio misto e la pratica del madamismo, cioè il concubinaggio con donne africane. Il decreto 880 non rappresentò nient’altro che l’apice della campagna razzista del regime nei confronti degli abitanti delle colonie.

Fu un apice tanto orrendo quanto predetto, perché la retorica del regime da anni aveva speso fiumi di parole nell’esaltare la “superiore purezza delle razza italiana”, esasperatamente messa a confronto con tutte le altre razze ritenute inferiori. L’atteggiamento del regime fascista nei confronti dei matrimoni misti – e soprattutto dei figli nati da questi matrimoni – si basava fondamentalmente su due elementi: l’assoluta necessità di una «politica demografica» che salvaguardasse la razza bianca da una parte, e il problema della denatalità dall’altra, secondo Mussolini una delle piaghe principali del paese. In un’escalation di misure sempre più restrittive e razziste nei confronti non solo dei figli di matrimoni misti, ma anche contro le popolazioni locali, si arrivò al decreto 880: gli italiani che si “macchiavano” della colpa di concubinaggio con una donna africana o, peggio ancora, di matrimonio rischiavano da 1 a 5 anni di reclusione, in quanto commettevano due delitti, uno biologico e uno morale. Il primo consisteva nell’accusa di «inquinare la razza», mentre per quello morale la colpa era di «elevare» l’indigena al proprio livello, perdendo così il prestigio che derivava dall’appartenenza alla «razza superiore».

Fu questo il decreto che aprì le porte alle leggi razziali prevalentemente contro gli ebrei, promulgate per la prima volta nel 1938: le stesse motivazioni pseudo scientifiche che vennero date per il decreto 880/37 vennero riutilizzate per motivare le leggi razziali emanate dal regime negli anni successivi.

Quella delle leggi razziali, e della segregazione che ne consegue, diretta conseguenza,  è una storia nota e tristemente diffusa in tutto il mondo e nella storia: da quella, secolare, nei confronti degli Ebrei, costretti a riunirsi nei ghetti, a quella dei neri; dall‘apartheid in Sudafrica (durato formalmente fino al 1994) a quello negli Stati Uniti, abolito con le grandi rivolte per i diritti civili di fine anni Sessanta a forza di I have a dream e a ritmo di We shall overcome.

Eppure sarebbe un errore considerare queste leggi come un qualcosa del passato, perché queste in alcuni paesi sono ancora una realtà contemporanea e viva: basta guardare a paesi come Malesia, India, Mauritania o Yemen.

E anche adesso,  nella democratica e moderna Europa si stanno affermando in diversi paesi partiti xenofobi che in maniera più o meno manifesta propugnano la non contaminazione con gli immigrati, i profughi, i disperati. In Ungheria, oltre al muro di filo spinato lungo il confine con la Serbia, si applica la detenzione sistematica di tutti i profughi che arrivano nel Paese, collocandoli in container lungo la frontiera con Croazia e Serbia. Al coro si uniscono anche Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, in nome della difesa dell’omogeneità culturale e religiosa della regione, riconquistata solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica. A questo si sommano anche vari tentativi di revisionismo storico e rilettura di fatti conclamati, con Marine Le Pen che nega la collaborazione del Regime di Vichy nello sterminio degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e l’affermarsi in diversi paesi del nord Europa di partiti che fanno dell’omogeneità culturale e etnica il loro grido di battaglia.

Ecco, è questo il monito e l’attenzione che dobbiamo porre verso fatti che ci appaiono lontani: lo scoprire che il demone dell’intolleranza e dell’odio e i germi del suprematismo razziale sono ancora vivi e vegeti: il nostro impegno deve essere quello di prosciugare l’acqua di coltura nella quale questi germi di intolleranza rischiano di moltiplicarsi, e crescere.

venerdì 18 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 18 aprile.

Il 18 aprile del 1948 gli italiani furono chiamati a votare per la prima volta dopo l'entrata in vigore della Costituzione della neonata Repubblica Italiana. E tutti, uomini e donne, poterono esprimere il loro voto politico: per le donne era la prima volta dopo il Referendum del 2 giugno. Ai seggi si recarono il 92% degli italiani aventi diritto, quasi 27 milioni di persone, e il responso delle urne parlò chiaro: il 48,5% degli Italiani votò per la Democrazia Cristiana. Ma quali erano le forze in campo e quali i protagonisti?

I tempi dell'alleanza antifascista erano ormai lontani. In mezzo c'era stata la nascita di quella che Churchill già nel 1946 definì "cortina di ferro", la linea di confine che divideva due zone di influenza politica. |

Le aree politiche erano due. Ed erano quelle che qualche anno prima avevano combattuto fianco a fianco la Resistenza contro il nazifascismo: da un lato c'era la Democrazia Cristiana, dall'altra il Fronte democratico popolare, una federazione di partiti di sinistra rappresentata dal Partito comunista e da quello socialista (che alle elezioni raccolse il 31% dei voti).

I volti erano quelli di Alcide De Gasperi (Dc), Palmiro Togliatti (Pci) e Pietro Nenni (Psi). La posta in gioco per il Paese era molto alta. In ballo non c'era infatti solo il governo del Paese, ma anche la sua appartenenza a uno dei due schieramenti politici internazionali, l'Unione Sovietica o l'America.

E le pressioni erano altissime: il 3 aprile dello stesso anno, 15 giorni prima del voto, il Presidente americano Harry Truman aveva lanciato il cosiddetto Piano Marshall, un piano di aiuti di 14 miliardi di dollari per la ricostruzione economica dell'Europa Occidentale. Piano contestato da Palmiro Togliatti che lo liquidò come un ricatto politico.

Gli italiani si recarono così al voto tra slogan urlati, appelli alla democrazia, manifesti elettorali caricaturali e intimidazioni bizzarre come quella ben sintetizzata dallo scrittore Guareschi, autore di Don Camillo che arrivò a dire “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”.

Anche l'attore Eduardo de Filippo venne coinvolto come testimonial in un cinegiornale per esortare al voto agli italiani. "Votare per chi si vuole ma votate" diceva.

 Il timore del prevalere del fronte comunista spinse inoltre la Chiesa a mobilitarsi in prima persona creando comitati civici per il voto alla Democrazia Cristiana. Alle urne si recò così, come in un pellegrinaggio, chiunque era in buone condizioni, ma, come racconta un video dell'Archivio Luce, anche chi in buone condizioni non lo era affatto: portato a braccio, in barella o in carrozzella.

Il risultato fu clamoroso: la Democrazia Cristiana si aggiudicò la maggioranza relativa dei voti e quella assoluta dei seggi. Il che significava che l'Italia rinunciava ufficialmente a entrare nell'orbita dell'Unione Sovietica comunista.

Alcide De Gasperi dal 1948 in poi divenne così un punto di riferimento imprescindibile per l'elettorato anticomunista che fu così destinato a rimanere all'opposizione. La Democrazia cristiana finì quindi per essere il principale partito italiano per quasi 50 anni, fino al suo scioglimento nel 1994.

giovedì 17 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 17 aprile.

Il 17 aprile 2014 la NASA annuncia la scoperta di un pianeta dalle caratteristiche molto simili a quelle della Terra, chiamandolo Kepler 186F.

Kepler-186 f è un esopianeta distante circa 500 anni luce più o meno grande quanto il nostro che si trova nella zona abitabile della sua stella. 

Uno studio, prodotto dal Georgia Institute of Technology, ci dà ulteriori conferme riguardo a queste somiglianze. Questa ricerca ha analizzato in particolare le dinamiche relative agli assi di rotazione dell’esopianeta, sostanzialmente quanto esso si inclina sul proprio asse e come questo angolo di inclinazione va ad evolversi nel tempo. Si tratta di un fattore importante perché questo tipo di angolazione influisce molto sul clima globale del pianeta, come avviene sulla Terra, dando il via alle stagioni e alle fasi climatiche.

Il nuovo studio suggerisce che Kepler-186f risulta in tal senso molto stabile e che proprio per questo probabilmente vanta delle stagioni regolari e un clima relativamente stabile, proprio come il nostro pianeta.

Inoltre, con la stessa metodologia di analisi (in sostanza simulazioni computerizzate sui dati già presenti), la stessa squadra di ricercatori ritiene che un altro esopianeta, Kepler-62f, questo lontano 1200 anni luce, possa essere anch’esso in tal senso molto simile alla Terra.

Secondo Gongjie Li, ricercatrice del GIT e autrice della ricerca questo studio è “tra i primi a studiare la stabilità climatica degli esopianeti e contribuisce alla crescente comprensione di questi mondi potenzialmente abitabili”.

Yutong Shan, studente di Harvard che ha collaborato alla ricerca, riferisce: “Non credo che capiamo abbastanza l’origine della vita per escludere la possibilità della loro presenza su pianeti con stagioni irregolari. Anche sulla Terra, la vita è notevolmente diversa e ha mostrato un’incredibile capacità di recupero in ambienti straordinariamente ostili. Ma un pianeta climaticamente stabile potrebbe essere un posto più comodo per iniziare.”

mercoledì 16 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 16 aprile.

Il 16 aprile 1947 il criminale tedesco Rudolf Ferdinand Höß, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz, viene impiccato all'ingresso dei forni crematori.

La notte dell’11 marzo 1946 una squadra della Field Security Britannica fece irruzione in una cascina di Gottrupel, una località della Germania del nord ai confini con la Danimarca. Trovarono un contadino che dormiva tranquillamente nella stalla: prima che avesse il tempo di capire quanto accadeva, l’uomo vide la faccia severa del capitano Hanns Alexander, un ebreo tedesco fuggito in Gran Bretagna, e arruolatosi nelle forze speciali di Sua Maestà. L’ufficiale gli chiese il nome. La risposta fu: «Franz Lang». «No - rispose il capitano – la tua carta d’identità è falsa, tu ti chiami Rudolf Hoss. Mostrami la fede di matrimonio». Il prigioniero tergiversò, lamentandosi che l’anello era incastrato, e non riusciva a sfilarlo. «Nessun problema - replicò Alexander - basta tagliarti il dito». Ed estrasse la baionetta affilata. L’amputazione non fu necessaria, l’uomo consegno l’anello, e l’inglese lesse la dedica all’interno. Assestò al tedesco un paio di ceffoni e ripeté la domanda. L’uomo rispose «Sì, sono Rudolf Höss, già comandante di Auschwitz».

Alexander annuì soddisfatto. I componenti della sua squadra erano quasi tutti ebrei che avevano avuto vari parenti sterminati nei campi nazisti, e chiesero una piccola soddisfazione personale. Il capitano capì e concesse dieci minuti, raccomandò cautela e si allontanò a fumare. Quando tornò, Höss era stato coscienziosamente sottoposto a un “passage à tabac”, ma senza gravi conseguenze: non si lamentò nemmeno del trattamento, lo considerò inevitabile e anche giustificato. Fu portato a Norimberga, dove fu sentito come testimone, citato a difesa del capo della Gestapo e del SD, Ernest Kaltenbrunner. Fu un boomerang per la difesa. Höss descrisse con minuzia gli ordini ricevuti e la loro diligente esecuzione, concludendo cosi: «Stimo che ad Auschwitz siano state giustiziate e sterminate almeno due milioni e mezzo di vittime, gasandole e bruciandole, e che un altro mezzo milione di individui sia morto di fame e malattia, per un ammontare di circa tre milioni di decessi». I moderni negazionisti dovrebbero rifletterci sopra. Kaltenbrunner fu impiccato, e Höss fu estradato in Polonia dove, in un carcere vicino a Cracovia, scrisse un lungo memoriale. L’11 Marzo 1947 comparve come imputato davanti alla Corte criminale di Varsavia. L’atto di accusa era di novantotto pagine: i reati più gravi, lo sterminio di trecentomila prigionieri russi e polacchi, e di quattro milioni di ebrei.

Fu un processo diverso dagli altri analoghi. Norimberga aveva giudicato i massimi gerarchi, sempre prudentemente lontani dai luoghi dei massacri. A Dachau venivano portati alla sbarra medici, giudici e altri funzionari minori. Gli alleati in realtà miravano essenzialmente a punire gli assassini dei loro prigionieri: in Italia, mentre Kappler e Reder, sottoposti alla nostra giurisdizione sfuggivano alla forca, gli americani fucilavano il generale Dostler, che aveva firmato l’esecuzione di un gruppo di commando catturato in divisa. Con Höss la vicenda era diversa. Qui si sarebbe visto in carne ed ossa il comandante del campo di sterminio più grande che la Storia avesse mai conosciuto: Auschwitz Birkenau, dove l’infernale catena di montaggio aveva incenerito, nell’estate del 44, diecimila persone al giorno. Dall’arrivo dei treni dei deportati fino al recupero dei denti d’oro delle vittime, e alla loro cremazione, tutto avveniva sotto la direzione vigile ed efficiente di Rudolf Höss. 

Lui viveva accanto al perimetro del campo, con la moglie e tre bambini. Coltivavano piante e fiori, anche per mitigare l’acre odore che usciva dagli incombenti camini. Era un padre tenero, e, al netto di qualche infedeltà, un marito premuroso: le sue ultime lettere incoraggiano i futuri orfanelli a curarsi della madre, «perché l’amore e la cura della mamma è la cosa più bella del mondo», e a «conservare un cuore buono, guidati da affetto e umanità». Si stenta a credere che tanta delicatezza si esaurisse tra le mura domestiche, per trasformarsi in gelida indifferenza davanti alle lunghe file di morituri. Eppure Höss non era uno schizofrenico dissociato: come molti suoi colleghi era convinto di due cose: che gli ordini andassero eseguiti, e che i nemici del Reich andassero fisicamente eliminati. Se poi tra questi figuravano vecchi, donne e neonati, ciò faceva parte del piano: il nemico non era l’ebreo con le armi in pugno, e nemmeno quello «plutocratico e usuraio». Era proprio il giudeo in quanto tale, una “razza” da sradicare con una macchina perfetta. E la macchina funzionò. Nelle sue memorie Höss descrisse con ordine e metodo le procedure di accoglimento, smistamento, e selezione dei nuovi arrivi: i pochi adatti, spediti allo sfruttamento delle residue energie fino alla morte. Gli altri, la maggioranza, direttamente intruppati verso le camere a gas. Poi l’accumulo dei corpi, la raccolta dei capelli e dell’oro delle dentiere, e infine la cremazione: un lavoro eseguito da altri internati, che pagavano questa breve e temporanea sopravvivenza con l’anticipazione della sorte che di lì a poco anche loro avrebbero subito.

In queste memorie non c’è traccia né di compiacimento né di rimorso. Sono pagine straordinariamente anodine, come il burocratico resoconto dei tempi e metodi di produzione industriale. Nei suoi interrogatori Hoss si disse consapevole della sua terribile opera, ed anche dispiaciuto di tanta morte. Il paradosso è che era sincero: personalmente non era un sadico, e a differenza di Mengele non gli piaceva veder morire. Nei rari film delle udienze, il suo volto non manifesta né il vergognoso rimorso di Hans Frank né lo sprezzante cinismo di Hermann Goering. È piuttosto pietrificato dalla rassegnazione: lui ammette di avere sbagliato, ma insiste di non aver avuto altra scelta.

La Corte fece quello che era giusto e prevedibile: lo condannò a morte per impiccagione. L’imputato ascoltò la sentenza con dignitosa compostezza: era un fanatico, non uno stupido, e sapeva perfettamente cosa lo aspettava. Non immaginava invece che il patibolo sarebbe stato eretto proprio ad Auschwitz, vicino al primo dei tanti forni che vi aveva fatto costruire. Il mattino del 16 Aprile 1947, davanti a un esiguo pubblico selezionato, Rudolf Höss salì sulla forca, e scambiò qualche parola con padre Tadeusz Zarembea, un prete locale di cui aveva chiesto la presenza. Mentre la botola si apriva, il sacerdote stava recitando una preghiera di perdono. Hanns Alexander, che lo aveva catturato, non perdonò né a lui né alla sua Patria di origine. Restituì la croce di ferro del padre, e si rifiutò di tornare in Germania anche per l’inaugurazione del museo di Bergen Belsen. «Non ho mai parlato della guerra con i miei bambini - disse - perché i bambini non devono esser cresciuti nell’odio. Ma io ne sono pieno». Visitando Auschwitz, se ne capisce il perché.

martedì 15 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 15 aprile.

Il 15 aprile 2019 un terribile incendio divampa nella cattedrale di Notre Dame a Parigi.

La cattedrale fu realizzata tra il Dodicesimo e il Quattordicesimo secolo sull'Ile de la Cité di Parigi e, fino a quel momento, non fu mai interessata da incendi. Purtroppo l'edificio fu gravemente danneggiato: i due terzi del tetto e la guglia in legno (flèche) presero fuoco rapidamente, coinvolgendo circa 400 pompieri in 15 ore di lavoro per riuscire a sedare le fiamme. 

Ma cosa causò l'incendio? Prima di andare ad indagare le cause del disastro, ripercorriamo brevemente cosa accade quella sera.

Come vedremo a breve, il disastro fu causato (in parte) dalla presenza di un cantiere sulla cattedrale: si trattava di un imponente progetto decennale di ristrutturazione dal costo di 150 milioni di euro iniziato l'anno precedente. Al momento dell'incendio, quindi, erano presenti impalcature sia all'esterno che all'interno del luogo sacro.

La sera del disastro, alle 18:20 (ora locale) all'interno della Cattedrale era in corso una funzione religiosa e, nonostante il suono dell'allarme, il parroco proseguì. Alle 18:43 però i fedeli vennero evacuati dopo il suono di un secondo allarme e alle 19:10 si iniziò a formare una colonna di fumo. Nella mezz'ora seguente le fiamme iniziarono ad avvolgere il tetto e la guglia della cattedrale: proprio questa collasserà alle 19:50 circa.

Nelle ore seguenti i pompieri lottarono sia per cercare di spegnere l'incendio, sia per portare in salvo quante più opere e oggetti di valore possibile dalla cattedrale. Alla fine le fiamme furono domate attorno alle 3:40 del mattino seguente, dopo il crollo di circa due terzi del tetto.

In un primo momento le indagini puntarono il dito contro gli operai che, stando alle ricostruzioni, avrebbero fumato sulle impalcature, gettando mozziconi di sigaretta. In realtà, però, pare che l'incendio si sia sviluppato all'interno della cattedrale e non dalle impalcature esterne, dunque questa ipotesi è stata presto accantonata.

Ad oggi si ritiene la causa principale sia legata ad alcune impalcature installate nel sottotetto: queste avrebbero inavvertitamente danneggiato il sistema che si occupava del movimento delle campane, causandone il cortocircuito e il conseguente incendio.

Allo stesso tempo però non è giusto demonizzare solo l'azienda incaricata di svolgere il restauro: se la cattedrale ha preso fuoco così tragicamente è perché la struttura non era dotata di un idoneo sistema antincendio. Trattandosi di una cattedrale dall'immenso valore storico, infatti, l'installazione di un sistema di sprinkler non solo avrebbe alterato parte dell'originale struttura in legno e delle opere presenti, ma sarebbe anche stata un'importante spesa.

Al momento dell'incendio quindi erano solo presenti dei rilevatori che, suonando, avrebbero attivato l'intervento dei pompieri, senza alcun sistema di spegnimento attivo delle fiamme. In più, come segnalato da alcuni dipendenti, questi sistemi vennero anche ricalibrati per suonare il meno possibile, dal momento che i falsi allarmi erano all'ordine del giorno: per questo motivo il loro squillo non venne preso sul serio fino a quando non furono visibili le fiamme e il fumo.

La ricostruzione fu uno dei principali argomenti di dibattito già dai giorni successivi all'incendio, vista l'enorme importanza religiosa, artistica e turistica del luogo. Finora sono stati coinvolti nel progetto circa 1000 operai che hanno lavorato sia in loco che nei laboratori artigianali del Paese.

La cerimonia di riapertura si è tenuta il 7 dicembre 2024 mentre la ricostruzione completa della struttura dovrebbe terminare quest'anno.


lunedì 14 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 14 aprile.

Il 14 aprile 1471 muore in battaglia Richard Neville, il "creatore di Re".

Richard Neville, conte di Warwick, è passato alla storia come il “Kingmaker”: per lui fu coniato questo termine e del suo significato è e rimarrà il più completo interprete.

Kingmaker, però, è una di quelle parole “anguilla”, il cui senso vero sfugge, nelle frasi scivola via, andando a perdersi nei fondali più scuri della storia: e inevitabilmente, ai precisi contenuti che questa gli ha conferito, se ne sono sostituiti altri, residui galleggianti che invocano al non detto, senza in realtà voler dire nulla.

La semantica quotidiana le assegna, così, solo un mozzicone di senso: la suggestione di un potere capace di nominare “re”, e quindi, si sottintende, di condizionarli come marionette: il più sfacciato, celebrato e invidiato tra i poteri dei retrobottega della politica, l’argomento con il quale suggerire dietrologie e scenari machiavellici. Un potere che, oltretutto, viene esercitato invariabilmente rivendicandolo con compiacimento, a ulteriore dimostrazione di quanto disordine vi sia in giro.

Una definizione solo un po’ più attenta e meno superficiale, e già sufficientemente in contrasto con la precedente tanto da essere utile a qualcosa, è quella della politologia, che identifica il Kingmaker con un individuo che, pur non essendo un candidato “presentabile” alla carica più alta, è in grado di esercitare potere o influenza tali da contribuire in modo sostanziale a determinarne il prescelto, o ad essere in questo almeno strumentale.

A corollario di questa definizione, si pone quella della teoria dei giochi, per la quale in un confronto plurimo il Kingmaker è colui che sacrifica se stesso e le proprie risorse per determinare il vincitore: il Kingmaker è il giocatore che, scegliendo tra due avversari quello contro il quale immolarsi, lo indebolisce (o indebolisce se stesso) a tal punto da renderlo (o rendersi), inevitabilmente, facile vittima del terzo, ultimo e vincente sopravvissuto.

Ci sono delle sottigliezze nel ruolo e nel destino del Kingmaker che nessuna delle definizioni presentate riesce ad illustrare. E siccome siamo nel campo della politica degli uomini più che delle logiche, delle poltrone prima (molto prima) che delle idee, la personalizzazione non può che far parte integrante della definizione, e allora, per capire, personalizziamo fino in fondo, e risaliamo alla persona di Richard Neville e alle guerre delle rose di cui egli fu, per quasi metà del loro corso, un protagonista assoluto.

Richard Neville nacque il 22 novembre del 1428 da una famiglia di nobiltà relativamente recente, i cui avi, dopo aver guadagnato lustro nelle guerre contro gli scozzesi avevano ricevuto il titolo di conti di Westmorland. Da Ralph Neville, primo conte di Westmorland, nacque Richard Neville che non aveva diritto al titolo e divenne “jure uxoris” conte di Salisbury, ovvero sposò Alice Montacute, erede unica del titolo, e lo assunse tramite lei. In modo identico il suo omonimo figlio, il nostro Kingmaker, promesso sposo all’età di sei anni di Anne Beauchamp, figlia di Richard de Beauchamp, 13o conte di Warwick, e di Isabel Despenser, divenne nel 1449 per un complesso intreccio di successioni il 14o conte di Warwick, concentrando nella sua persona una parte sostanziale delle eredità delle famiglie Neville, Montacute, Beauchamp e Despenser. Così al titolo di conte di Salisbury sostituì quello più prestigioso di conte di Warwick, e con questo è ricordato ancora oggi.

Tanto Ralph che Richard Neville padre avevano avuto famiglie numerose con una ventina di figli il primo e una decina il secondo ed erano riusciti ad intrecciare il proprio sangue con le più importanti famiglie d’Inghilterra: ad esempio una zia di Warwick, Cecily Neville, sposando Richard Plantagenet, III duca di York, diventerà madre di ben due re, Edoardo IV e Riccardo III.

Warwick si trovò così non solo ad essere l’uomo più ricco d’Inghilterra dopo il re, ma anche uno dei più influenti, al centro tanto di un’estesa e solida rete di relazioni sociali e politiche interne, la cosiddetta “affinity”, quanto di rapporti autorevoli con le nazioni del continente.

Le relazioni di affinity, tipiche del periodo che gli inglesi definiscono spregiativamente “feudalesimo bastardo”, non erano più semplici dipendenze feudali, ma non erano ancora organizzazioni, diremmo oggi, “partitiche”: si erano configurate come fazioni basate su patti di scambio di servizi, dove il magnate, che aveva bisogno soprattutto di uomini d’arme e di denaro, li otteneva dalla piccola nobiltà locale, remunerandola con incarichi, tra quelli assegnatigli dal re o da quelli propri, e protezione in un mondo dove il concetto di giustizia si confondeva con quello di prepotenza. Portare l’insegna di Warwick, l’orso domato, era una bella assicurazione sulle proprie proprietà e sulla propria vita, almeno all’interno dei vasti confini dove egli esercitava il proprio potere.

Sulle affinity si regolavano, però, anche i rapporti di forza della politica, intrecciata saldamente con faide familiari di cui si era persa memoria dei motivi.

Una di esse, la faida tra i Neville e i Percy, famiglie i cui interessi gravitavano per entrambe nel nord dell’Inghilterra, fu una delle cause scatenanti le guerre delle rose, e se i Percy avevano trovato il favore del re Enrico VI, i Neville non potevano che schierarsi con il suo rivale Riccardo duca di York.

Alla battaglia di St. Albans, il 22 maggio 1455, la prima delle guerre delle rose, Warwick non poteva mancare e qui si guadagnò una notevole fama militare, per altro non molto fondata, ma che lo proiettò in modo ancora più prepotentemente alla ribalta politica.

La carriera politica di Warwick prese il volo fino a guadagnarsi, con le guerre e l’azione politica, il ruolo che gli valse l’appellativo col quale lo ricordiamo, e che però, come cercheremo di spiegare, è assolutamente fuorviante.

Il primo autore a definire Warwick un “kingmaker”, seppure nella formulazione latina “regum creator”, fu John Mair nel 1521, mentre chi coniò la parola in inglese fu Samuel Daniel nel 1609. Al pensiero illuminista di David Hume nel Settecento va invece fatta risalire la popolarizzazione del termine.

In realtà si tratta di un vero e proprio equivoco, perché Warwick non creò affatto dei re, ma semmai partecipò e contribuì soltanto alla loro deposizione: prima di Enrico VI e quindi di Edoardo IV. E anche nel breve periodo di sei mesi tra l’inverno del 1470 e la primavera del 1471, in cui Warwick effettivamente riportò Enrico VI al trono e ne sorresse la gracile mente, detenendo il potere di fatto, non si può sostenere in senso politico che egli creò un re: nella contesa dinastica delle guerre delle rose, la legittimità a governare se la disputeranno esclusivamente le due famiglie reali, e Warwick, anche se avesse voluto, poteva solo schierarsi per l’una o per l’altra.

Per inciso in quei sei mesi Warwick prese la decisione che ne decretò la fine: riallacciò alleanza con la Francia e dichiarò addirittura guerra alla Borgogna, che si affrettò a sostenere Edoardo IV nel suo tentativo di riprendersi il trono.

Questa è la prima lezione per aspiranti “Kingmaker”: la scelta alla quale questi è vincolato è quella di schierarsi per qualcuno che è già re in pectore. Una volta scelto il partito, si può essere importanti e perfino decisivi, ma il re è sempre un’altra persona: lo stesso Edoardo IV si autoproclamò re, e non ebbe bisogno di chiedere il permesso a nessuno, "Kingmaker" compreso.

E questo concetto Warwick dopo la prima presa del potere da parte di Edoardo IV lo comprese molto bene col passare del tempo. Molto più interessato alla politica e al potere vero, che non alle elargizioni e agli incarichi roboanti ma privi di contenuto, di cui Edoardo IV fu per altro sempre generoso, Warwick entrò in conflitto con il nuovo re quando questi iniziò effettivamente a fare il re, a scegliersi una moglie, dei consiglieri (della famiglia della moglie), delle alleanze internazionali: ad allontanarlo da centro del potere e a prendere decisioni sui fatti decisivi della politica come fanno i "re".

Riuscì a detronizzare anche lui e a reinsediare Enrico VI, ma come anticipato fu un successo effimero, perché il triste destino del Kingmaker, al quale non può in alcun modo sfuggire, è che il re è sempre un altro.

Warwick morì a 42 anni, durante il suo ultimo tentativo di deporre un re, o meglio di deporre nuovamente Edoardo IV. Fu ucciso da un gruppo di comuni quando, sconfitto alla battaglia di Barnet il 14 aprile 1471, tentava di raggiungere il proprio cavallo per darsi alla fuga.

domenica 13 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 13 aprile.

Il 13 aprile 1919 avvenne ciò che Theresa May, in occasione del centenario della ricorrenza,  ha definito una “cicatrice vergognosa nella storia delle relazioni anglo-indiane”: il massacro di Amritsar.

 Quel giorno il generale di brigata dell’esercito inglese Reginald Dyer ordinò infatti di aprire il fuoco su una folla di civili disarmati riunitasi in un parco della città di Amritsar, nell’attuale Stato del Punjab (nord-ovest dell’India).

I dati ufficiali parlano di 379 morti e 1200 feriti, ma ulteriori accertamenti non sono mai stati fatti ed è convinzione ormai diffusa che in realtà si sia trattato di diverse centinaia in più. L’atto compiuto da Dyer venne giudicato disumano e sleale soprattutto per la mancanza di preavviso: il generale non ritenne necessario sparare colpi di avvertimento per disperdere la folla, ma ordinò di sparare ad altezza uomo fino a esaurimento delle munizioni. Inoltre non vennero risparmiati donne e bambini, che costituivano buona parte dei presenti, né venne tenuto in considerazione il carattere pacifico della manifestazione, i cui partecipanti erano del tutto disarmati.

La folla si era riunita a nel piccolo parco di Jalianwalla Bagh ad Amritsar in occasione della festività Sikh di Baisakhi, che celebra l’inizio della primavera; con questo pretesto era stato organizzato parallelamente un comizio per protestare pacificamente contro l’arresto immotivato di due leader nazionalisti. Gli inglesi giudicarono la manifestazione provocatoria, in quanto violava la legge marziale instaurata appena un mese prima in seguito ai ripetuti attacchi subiti dall’amministrazione britannica; essa vietava riunioni pubbliche di qualsiasi genere che comprendessero più di quattro persone.

A marzo era stato infatti approvato il Rowlatt Act, che permetteva di incarcerare in modo arbitrario coloro i quali venivano etichettati come dissidenti, senza bisogno di sottoporli a processo. Il Partito del Congresso, guidato da Mohandas Gandhi, aveva criticato questa decisione e organizzato una serie di manifestazioni pacifiche di dissenso. In alcuni casi però le proteste erano sfociate in scontri violenti con ripetuti attentati contro i funzionari britannici e le sedi dell’amministrazione; fu per questo motivo che in alcune regioni dell’India come il Punjab venne istituita la legge marziale, riducendo le poche concessioni fatte agli indiani dalla fine della prima guerra mondiale e che avevano fatto sperare in una maggiore autonomia in futuro.

Il massacro di Amritsar ha costituito secondo molti il punto di svolta nel tragitto verso l’Indipendenza indiana. Innanzitutto ha significato un netto cambio di rotta nelle relazioni anglo-indiane: se fino a quel momento gli indiani avevano mostrato rispetto per gli inglesi e in certi casi persino ammirazione per le loro istituzioni, il tragico evento ha messo punto all’apparenza filantropica che fino ad allora avevano avuto i colonizzatori agli occhi dei colonizzati. Gandhi e il suo partito in primis hanno subito condannato duramente l’operato dell’esercito, affermando che da quel momento gli inglesi avevano dimostrato di non avere moralmente più alcun diritto di governare l’India.

In realtà l’azione intrapresa dal generale Dyer fu subito condannata dall’amministrazione britannica stessa, che lo costrinse a dimettersi. Dyer venne sottoposto a processo, sia in Inghilterra che in India, dove fu costituita una commissione apposita che lo giudicò colpevole all’unanimità e gli vietò da quel momento in poi di ricoprire qualsiasi tipo di incarico ufficiale. Durante il processo il generale non mostrò alcun segno di pentimento: alle domande “Generale, è vero che ha ordinato di sparare dove la folla era più fitta? Era consapevole della presenza di donne e bambini?” Dyer ha risposto affermativamente entrambe le volte, aggiungendo che era sua intenzione dare una lezione all’India intera. È vero che ci fu chi lo dipinse come un eroe e lo elogiò, ma la gran parte degli inglesi criticò il suo operato e ne prese immediatamente le distanze.

Il gesto sul momento venne comunque attribuito ai dominatori britannici nel complesso, la cui presenza già sempre meno tollerata dagli indiani divenne inaccettabile. Per questo motivo il massacro ha rappresentato un punto di svolta, che ha dato un forte impulso ai movimenti nazionalisti di tutta l’India. La nascita del movimento di non-cooperazione, scaturita dalla dichiarazione di Gandhi e del Partito del Congresso di non voler più collaborare con l’amministrazione britannica, contribuì alla presa di coscienza di un sentimento nazionalista in tutto il Paese. Espandendosi in poco tempo da nord a sud, il movimento ebbe infatti la funzione di unire il subcontinente indiano intero: i suoi abitanti iniziarono a provare un senso di appartenenza alla stessa nazione, che li spinse a rivendicare con forza l’indipendenza, rifiutando di accontentarsi semplicemente di una maggiore autonomia come ipotizzato in passato.

Conseguenza a catena di un simile processo è stata l’ascesa immediata del Partito del Congresso, che si è imposto come principale promotore dell’indipendenza. La decisione di non-cooperazione con il governo britannico ha infatti consolidato le istanze nazionaliste del suo partito, che pian piano ha finito con il rappresentare il fulcro dei movimenti indipendentisti di tutto il Paese. Ponendosi alla guida del movimento di non-cooperazione, Gandhi ha fatto sì che il suo partito finisse per coincidere col movimento indipendentista, venendo identificato come tale a livello nazionale. In questo senso dunque il massacro di Amritsar è stato considerato da molti come un punto di svolta cruciale anche per la storia del Partito del Congresso.

Come fatto notare da molti in occasione dell’enorme fiaccolata che ha ricordato il 13 aprile del 2019 le vittime della strage, il centesimo anniversario avrebbe potuto rappresentare il momento ideale per presentare le dovute scuse. Ma la allora premier inglese Theresa May ha solamente espresso dispiacere per l’accaduto, definendo l’evento un “esempio doloroso del passato inglese in India”.

Ogni anno, le celebrazioni in memoria delle vittime di Amritsar riportano alla luce frizioni tra i due Paesi, che nonostante si cerchi di nascondere o attutire ricordano inevitabilmente come questo evento abbia lasciato una cicatrice indelebile nelle relazioni anglo-indiane. È vero dunque che il massacro di Amritsar ha portato all’ottenimento dell’indipendenza indiana in tempi più rapidi, ma il prezzo che il Paese ha dovuto pagare è stato alto e rimarrà sempre uno degli episodi più sanguinosi della storia recente indiana, ricordato ogni anno con orrore e dolore.

sabato 12 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 12 aprile.

Il 12 aprile 1334 Giotto viene nominato capomastro del duomo di Firenze.

Giotto da Bondone, meglio noto semplicemente come Giotto, nasce probabilmente nell'anno 1267, a Colle di Vespignano, presso Vicchio, nel Mugello. Pittore, architetto, scultore, è una delle massime figure dell'arte non solo italiana, ma dell'intero Occidente. E' ricordato per aver dato un senso del tutto nuovo ai concetti di colore, spazio e volume, "riprendendo" e immortalando i suoi soggetti direttamente dalla realtà, "dal naturale", come si diceva un tempo. La sua arte segna il passaggio dal Medioevo all'Umanesimo, di cui può ben dirsi il traghettatore, almeno per tutto quanto attiene l'arte figurativa.

Uomo d'affari ed imprenditore, il suo nome è legato alla città di Firenze, di cui diviene, nel 1334, "Magistrum et gubernatorem", per quanto riguarda il lavori del duomo e delle parti più importanti della città.

Di famiglia contadina, il suo nome deriverebbe con ogni probabilità da Angiolotto, o al limite da Ambrogiotto, due nomi all'epoca molto usati. Suo padre è Bondone di Angiolino, lavoratore della terra, secondo le cronache dell'epoca. Prendendo per buona la testimonianza di un grande storico dell'arte come Giorgio Vasari, l'allora maestro Cimabue l'avrebbe scovato, ragazzino, nel tentativo di disegnare delle pecore, durante una delle sue giornate di lavoro al campo. In verità, appare ormai certa l'iscrizione del futuro artista nella potente "Arte della lana di Firenze", dopo l'inurbamento della sua famiglia, di cui si attesta la venuta nella parrocchia di Santa Maria Novella.

Ad ogni modo, intorno ai dieci anni, il piccolo Giotto comincia già a frequentare la bottega di Cimabue, dove di lì a poco suo padre finirà per collocarlo in pianta stabile.

Tra il 1285 e il 1288, è molto probabile che l'artista, durante i suoi studi, abbia soggiornato per la prima volta a Roma, forse al seguito del suo maestro Cimabue o, come scrivono alcune cronache, insieme con Arnolfo da Cambio, altra figura importante a quel tempo.

L'influenza di Cimabue è evidente in quelle che sono considerate le prime opere dell'allievo: la "Croce dipinta" di Santa Maria Novella, compiuta tra il 1290 e il 1295, con il volto del Cristo dai lineamenti tardo bizantini, e nella "Madonna col bambino", conservata nella pieve di Borgo San Lorenzo, databile anch'essa intorno al 1290.

In questo stesso periodo, Giotto sposa tale Ciuta, da Ricevuta, di Lapo del Pela di Firenze. La data di nozze con tutta probabilità dovrebbe essere il 1290, ma non ci sono certezze in merito. Con la donna il pittore avrà otto figli, anche se alcune cronache gliene attribuiscono cinque (quattro femmine e un maschio).

Verso il 1300, dopo alcuni probabili pernottamenti anche ad Assisi, Giotto fa ritorno a Firenze. Realizza nell'arco di un biennio le opere "Il polittico di Badia" e la tavola firmata con le "Stigmate di San Francesco". Frequenti sono i suoi ritorni nella capitale, dove attende ai lavori del ciclo papale nella Basilica di San Giovanni in Laterano, oltre ad occuparsi di altre decorazioni, preparando la città ad accogliere il Giubileo del 1300, indetto da Papa Bonifacio VIII. È, forse, uno dei periodi di massimo splendore e slancio artistico per il pittore toscano.

Dal 1303 al 1305 è a Padova, chiamato a realizzare l'affresco della cappella di Enrico Scrovegni. La "chiamata" ricevuta al Nord, testimonia la grande considerazione che gode a quel tempo l'artista, considerato ormai nettamente superiore al suo maestro Cimabue. Come dirà lo stesso Dante Alighieri nella "Divina Commedia": "Ora Giotto ha il grido".

Intorno al 1311, ritornato a Firenze, dipinge una delle opere più importanti della sua carriera di artista: la "Maestà" degli Uffizi. Collocata originariamente nella chiesa fiorentina di Ognissanti, l'opera esprime tutta la grande modernità dell'artista, in procinto di stabilire un nuovissimo rapporto con lo spazio, come testimonia la prospettiva del trono.

Tra il 1313 e il 1315 cerca di assicurarsi alcuni affari importanti, come certi appezzamenti di terreno da un tale ser Grimaldo, di cui si lamenta in alcune lettere, o nominando un procuratore per riavere delle masserizie lasciate nella capitale anni prima, non ancora ritornate all'ovile. Dipinge intanto, probabilmente entro il 1322, la Cappella Peruzzi, sita in Santa Croce a Firenze. È ormai un uomo ricco, non vi sono dubbi su questo, che cura con astuzia le proprie finanze e che, nei momenti di assenza dalla sua città, affida al figlio Francesco il compito di gestire i suoi affari, dai poderi alle committenze di lavoro.

Tra il 1322 e il 1328 inoltre realizza il Polittico Stefaneschi alla Pinacoteca Vaticana, Il Polittico Baroncelli e l'affresco a secco delle "Storie Francescane" della Cappella Bardi, sita in Santa Croce, sempre a Firenze. Il lavoro per Baroncelli rappresenta una vera e propria testimonianza di vita trecentesca ed è notevole: una delle sue migliori realizzazioni. Quello per la famiglia Bardi, banchieri importanti della città, consta di sette riquadri, incentrati su alcune scene tratte dalla vita di San Francesco.

Nello stesso 1328 Giotto si trasferisce nella città di Napoli. Durante questo periodo compie diversi studi e lavori, percependo da Roberto d'Angiò una somma di denaro importante, oltre al beneficio dell'esenzione fiscale. Tuttavia, del periodo napoletano non rimane nulla. Intorno al 1333 Giotto soggiorna anche a Bologna, di ritorno dal Meridione. Nel 1334, a Firenze, ove rientra, le autorità cittadine lo nominano capomastro nell'Opera di Santa Maria del Fiore, oltre che Soprintendente assoluto alle opere del Comune. In pratica, gli viene affidato il Duomo fiorentino, oltre che la costruzione delle mura della città, con uno stipendio di circa cento fiorini all'anno.

Il 18 luglio del 1334, dà inizio al campanile da lui disegnato, che prenderà il suo stesso nome, per quanto la realizzazione finale non risponderà fedelmente ai suoi voleri iniziali. Il giorno 8 gennaio del 1337 Giotto muore a Firenze: viene sepolto con grandi onori in Santa Reparata (Santa Maria del Fiore), a spese comunali.


venerdì 11 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'11 aprile.

L'11 aprile 1987 Primo Levi muore, cadendo dalle scale della propria abitazione.

Primo Levi, scrittore e testimone delle deportazioni naziste, nonchè sopravvissuto ai lager hitleriani, nasce il 31 luglio 1919 a Torino.

Di origini ebraiche, ha descritto in alcuni suoi libri le pratiche e le tradizioni tipiche del suo popolo e ha rievocato alcuni episodi che vedono al centro la sua famiglia. Nel 1921 nasce la sorella Anna Maria, cui resterà legatissimo per tutta la vita. Cagionevole di salute, fragile e sensibile, la sua infanzia è contrassegnata da una certa solitudine a cui mancano i tipici giochi condotti dai coetanei.

Nel 1934 Primo Levi si iscrive al Ginnasio - Liceo D'Azeglio di Torino, istituto noto per aver ospitato docenti illustri e oppositori del fascismo come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Zino Zini, Norberto Bobbio e molti altri. Si dimostra un eccellente studente, uno dei migliori, grazie alla sua mente lucida ed estremamente razionale. A questo si aggiunga, come poi dimostreranno i suoi libri, una fantasia fervida e una grande capacità immaginativa, tutte doti che gli permettono di brillare sia nella materie scientifiche che letterarie.

In prima Liceo, fra l'altro, ha per qualche mese come professore d'italiano nientemeno che Cesare Pavese.

E' comunque già evidente in Levi la predilezione per la chimica e la biologia, le materie del suo futuro professionale. Dopo il Liceo si iscrive alla Facoltà di Scienze alla locale Università (dove stringerà amicizie che dureranno tutta la vita); si laurea con lode nel 1941.

Un piccolo particolare macchia però quell'attestato, esso infatti riporta la dicitura "Primo Levi, di razza ebraica". Levi al proposito commenta: "[...]le leggi razziali furono provvidenziali per me, ma anche per gli altri: costituirono la dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo. Si era ormai dimenticato il volto criminale del fascismo (quello del delitto Matteotti per intenderci); rimaneva da vederne quello sciocco".

Nel 1942, per ragioni di lavoro, è costretto a trasferirsi a Milano. La guerra impazza in tutta Europa ma non solo: i nazisti hanno anche occupato il suolo italico. Inevitabile la reazione della popolazione italiana. Lo stesso Levi ne è coinvolto. Nel 1943 si rifugia sulle montagne sopra Aosta, unendosi ad altri partigiani, venendo però quasi subito catturato dalla milizia fascista. Un anno dopo si ritrova internato nel campo di concentramento di Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz.

Questa orribile esperienza è raccontata con dovizia di particolari, ma anche con un grandissimo senso di umanità e di altezza morale, nonché di piena dignità, nel romanzo-testimonianza, "Se questo è un uomo", pubblicato nel 1947, imperituro documento delle violenze naziste, scritto da un uomo di limpida e cristallina personalità.

In un'intervista concessa poco dopo la pubblicazione (e spesso integrata al romanzo), Primo Levi afferma di essere disposto a perdonare i suoi aguzzini e di non provare rancore nei confronti dei nazisti. Ciò che gli importa, dice, è solo rendere una testimonianza diretta, allo scopo di fornire un contributo personale affinché si eviti il ripetersi di tali e tanti orrori.

Viene liberato il 27 gennaio 1945 in occasione dell'arrivo dei Russi al campo di Buna-Monowitz, anche se il suo rimpatrio avverrà solo nell'ottobre successivo.

Nel 1963 Levi pubblica il suo secondo libro "La tregua", cronache del ritorno a casa dopo la liberazione (il seguito del capolavoro "Se questo è un uomo"), per il quale gli viene assegnato il premio Campiello. Altre opere da lui composte sono: una raccolta di racconti dal titolo "Storie naturali", con il quale gli viene conferito il Premio Bagutta; una seconda raccolta di racconti, "Vizio di forma", una nuova raccolta "Il sistema periodico", con cui gli viene assegnato il Premio Prato per la Resistenza; una raccolta di poesie "L'osteria di Brema" e altri libri come "La chiave a stella", "La ricerca delle radici", "Antologia personale" e "Se non ora quando", con il quale vince per la seconda volta il Premio Campiello.

Infine scrive nel 1986 un altro testo assai ispirato dall'emblematico titolo "I Sommersi e i Salvati".

Primo Levi muore, probabilmente suicida, l'11 aprile 1987, forse lacerato dalle strazianti esperienze vissute e dal quel sottile senso di colpa che talvolta, assurdamente, si ingenera negli ebrei scampati all'Olocausto: di essere cioè "colpevoli" di essere sopravvissuti.

Le spoglie dello scrittore riposano presso il campo israelitico del cimitero monumentale di Torino.

giovedì 10 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 10 aprile.

Il 10 aprile 2019 è stata pubblicata la prima, storica fotografia di un buco nero, nello specifico quella del buco nero supermassiccio nel cuore della galassia M87, sita a circa 50 milioni di anni luce dal nostro Pianeta. Ma cos'è esattamente un buco nero? E perché  averlo fotografato cambia la nostra storia?

Un buco nero è la fase terminale della “vita” di una stella di grande massa, che dopo essere collassata si trasforma in un corpo estremamente denso e compatto, una regione dello spazio-tempo caratterizzata da una fortissima attrazione gravitazionale. Essa è così intensa da non lasciar sfuggire qualsiasi tipo di radiazione elettromagnetica (ottica, raggi X, infrarossa e così via), oltre che la materia. Per questa ragione i buchi neri sono tecnicamente inosservabili dai nostri strumenti. Ciò che gli scienziati hanno immortalato è infatti il plasma incandescente che circonda il cosiddetto orizzonte degli eventi, una sorta di aura attorno al buco nero oltre la quale anche la luce non può sfuggire. Una spiegazione dettagliata del concetto di buco nero è stata data all'AGI dal professor Ciriaco Goddi dell'Università di Nijmegen e Leiden (Olanda), uno dei ricercatori dell'Event Horizon Telescope. "I buchi neri sono oggetti cosmici estremamente compressi, contenenti incredibili quantità di massa all'interno di una regione minuscola. La presenza di questi oggetti influenza il loro ambiente in modi estremi, deformando lo spazio-tempo e surriscaldando qualsiasi materiale circostante. Questi oggetti sono necessariamente circondati da materia (plasma incandescente) che viene inghiottito scomparendo nell'orizzonte degli eventi, mentre un'altra parte del materiali viene espulso a velocità relativistica (prossima cioè alla velocità della luce) in potentissimi jet di materia, dando vita alla cosiddetta emissione di sincrotrone. Se immerso in una regione luminosa, come appunto un disco di gas incandescente, ci aspettiamo che un buco nero crei una regione oscura simile a un'ombra, qualcosa di previsto dalla relatività generale di Einstein che non abbiamo mai visto prima. Questa ombra, causata dalla distorsione o curvatura gravitazionale e dalla cattura della luce dall'orizzonte degli eventi, rivela molto sulla natura di questi oggetti affascinanti”. È esattamente ciò che possiamo ammirare nel magnifico scatto ottenuto dall'ETH.

La prima vera immagine di un buco nero è un risultato storico, definito "una pietra miliare dell'astrofisica moderna, e un formidabile esempio di cooperazione globale" dal presidente dell'Istituto Nazionale di Fisica e Astronomia Nichi d'Amico. Ma perché è così importante averla ottenuta? Oltre a dimostrare ancora una volta la validità della Teoria della Relatività Generale di Albert Einstein, sottolinea che la nostra tecnologia è stata in grado di documentare qualcosa di invisibile, come dichiarato all'ANSA dal professor Luciano Rezzolla, direttore dell'INFN di Francoforte e membro del comitato scientifico della collaborazione Eht. “La grande novità della prima fotografia di un buco nero è che oggetti cosmici invisibili per definizione per la prima volta possono essere visti e studiati direttamente. Adesso possiamo finalmente osservarli. Si apre la prima pagina di un libro nel quale è possibile fare osservazioni sempre più accurate di questi oggetti, previsti un secolo fa da Albert Einstein”.


mercoledì 9 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 9 aprile.

Il 9 aprile 193 d.C. Settimio Severo viene proclamato imperatore.

Settimio Severo era nato a Leptis Magna, in Tripolitania. Era il primo imperatore di origine africana; anche se i suoi antenati erano cavalieri e senatori romani, quindi probabilmente notabili del posto. Sembra che fin da piccolo giocasse a fare il giudice, cosa che amava molto. Aveva ricoperto varie cariche del cursus honorum ed era governatore della Pannonia Superiore, senza molta esperienza militare, quando fu acclamato imperatore durante l’anno dei cinque imperatori.

Settimio, dipinto dalle fonti come manipolatore, riuscì a far uccidere Didio Giuliano e farsi riconoscere come imperatore dal senato, mentre dava a Clodio Albino, anche lui acclamato imperatore in Britannia, il titolo di Cesare, fingendo che lo avrebbe nominato suo successore. Arrivato a Roma, convocò i pretoriani, e con l’inganno li fece accerchiare e disarmare, mentre i suoi sequestravano le armi rimaste nei Castra Pretoria. Sciolse poi le coorti, per aver venduto il titolo all’asta (ma i 30.000 sesterzi a testa offerti da Didio Giuliano non erano molto lontano dai 20.000 dati da Marco Aurelio e Lucio Vero alla loro elezione), riformandole con soldati pannonici a lui fedeli.

Mentre il nuovo prefetto al pretorio Plauziano teneva la città di Roma, e Clodio Albino credeva nella promessa fatta, Settimio Severo si recava in oriente per affrontare Pescennio Nigro, acclamato in Siria e appoggiato anche dai parti. Sconfitto a Isso, nello stesso luogo dove Alessandro aveva vinto Dario, ritornò in occidente, accusò Clodio Albino di congiurare contro di lui e affrontò anche lui in battaglia. Dopo un durissimo scontro lo vinse a Lugdunum, e inviò la testa ai senatori, molti dei quali rei di averlo appoggiato. Rimasto ormai unico imperatore, decise di attaccare i parti, che avevano appoggiato il suo rivale Pescennio Nigro.

Settimio Severo arruolò poi tre nuove legioni partiche, e la II Parthica venne stanziata nei Castra Albana, vicino Roma; la pressione di truppe fedeli all’imperatore attorno l’Urbe non era mai stata così forte. Le altre due rimasero in oriente, in Osroene e Mesopotamia. Tutte e tre furono affidate a prefetti equestri; ormai il ceto equestre, cui faceva sempre più affidamento l’imperatore romano, stava prendendo sempre più funzioni e mansioni dell’amministrazione e dell’esercito, a discapito del senato.

Inoltre l’imperatore aumentò la paga dell’esercito, mentre la moneta stava cominciando a svalutarsi. Diede anche all’esercito nuovi benefici, come la possibilità di sposarsi, mentre i centurioni primipili ottennero il rango equestre. Dopo essere rientrato a Roma e mandato a morte l’ingombrante Plauziano, Settimio si rivolse anche alla Britannia, dove il vallo di Antonino cadeva a pezzi. Probabilmente nei suoi piani c’era l’annessione di tutta l’isola.

Tuttavia, mentre combatteva a nord, morì a York, il 4 febbraio del 211 d.C. Secondo Cassio Dione in punto di morte avrebbe detto ai figli Caracalla e Geta di non preoccuparsi di nient’altro che arricchire i soldati e andare d’accordo fra di loro.


martedì 8 aprile 2025

San Carlo: trionfo rom

 Un concerto trionfale con standing ovation finale e grandi emozioni al Teatro di San Carlo per la Giornata Internazionale dei Rom e Sinti grazie alla musica di Gennaro e Santino Spinelli
 Memorabile concerto si è tenuto Nella Sala degli Specchi del Teatro San Carlo di Napoli colma di pubblico. La musica, da sempre lingua universale, è stata scelta per celebrare la Giornata Internazionale dei Rom e dei Sinti. Il 4 aprile 2025 l'attento pubblico si è emozionato ascoltando le note del violinista Gennaro Spinelli e del fisarmonicista e compositore Santino Spinelli, che si sono esibiti insieme e da solisti in una performance che ha unito la musica etnica a quella classica.  Accompagnati dai solisti del Teatro di San Carlo guidati dal violinista Salvatore Lombardo e dai solisti dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini di Pesaro guidati dal violinista Marco Bartolini. Santino e Gennaro hanno proposto un viaggio musicale che si è snodato dal repertorio classico rivisitato in chiave etnica a composizioni originali della tradizione romanì.
 “Vedere un pubblico così numeroso e attento in un Teatro meraviglioso, inserito dall'UNESCO nella lista dei monumenti Patrimonio dell'Umanità - dichiarano i due musicisti solisti - è stato molto emozionante. Ringraziamo i talentuosi musicisti che ci hanno accompagnato per celebrare la musica e la cultura romanì".
 Il concerto rientra all’interno di una serie di eventi che si svolgono su tutto il territorio nazionale in occasione della Giornata dell’8 aprile, un’iniziativa che quest’anno coincide con la seconda Settimana (romanì week) della Cultura Rom e Sinta lanciata dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), con il supporto dell’Unione delle Comunità Romanès e dell'Associazione Them Romanò.
 Per l'8 aprile  Santino Spinelli, con il suo Alexian Group e con la figlia arpista Evedise Spinelli, si esibirà da solista nella Chiesa dell'Annunziata di Pesaro assieme all'Orchestra Sinfonica Gioacchino Rossini diretta dal Maestro Nicola Russo in presenza di un funzionario dell'UNAR e delle autorità cittadine. Un altro grande evento che vede protagonista la famiglia Spinelli, una famiglia di grandi artisti.

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è l'8 aprile.

L'8 aprile, in Giappone, si festeggia l'"hana Matsuri", la festa dei fiori, il giorno del compleanno del Buddha.

In Giappone si apre ufficialmente un nuovo anno: è l’inizio dell’anno fiscale, delle scuole e università, e per molti è l’inizio di un nuovo lavoro. La primavera porta con sé il risveglio della natura, i fiori di ciliegio sbocciano e vengono celebrati, e nel farlo ci si prepara a una nuova vita, a un nuovo inizio. È il capodanno del Giappone, un po’ quello che rappresenta per noi settembre, il mese della ripresa delle normali attività, dei nuovi progetti e propositi.

Oggi in Giappone è una giornata particolare: si festeggia infatti il Kanbutsue 灌仏会 (lavare l’immagine del Buddha), conosciuto soprattutto col nome di Hana Matsuri 花祭 (Festa dei Fiori).

La festa è una celebrazione che ricorda il compleanno del Buddha storico (Siddharta Gautama), legato al rituale del Vesak, una delle feste religiose più importanti del calendario buddista, nel corso della quale si celebrano, simbolicamente, la nascita, l’illuminazione (il raggiungimento del nirvana) e la morte del Gautama Buddha, e viene celebrata dai buddhisti di tutto il mondo e di tutte le tradizioni.

La data del compleanno di Buddha è basata sul calendario lunisolare e su quello Buddhista, pertanto non viene festeggiata ovunque nello stesso giorno. Nel sud-est asiatico, si celebra nel giorno di luna piena del mese di Vaisakha, secondo il calendario Buddhista.

Nell’Asia orientale, ad eccezione del Giappone, si celebra l’ottavo giorno del quarto mese secondo l’antico calendario lunare cinese, data che varia ogni anno. In Giappone, invece, si è celebrato seguendo il calendario lunare fino al 1837, quando venne adottato il calendario Gregoriano, e da allora la celebrazione è stata fissata per l’8 aprile.

In questa giornata vengono dedicate numerose e solenni cerimonie che omaggiano Buddha, con processioni e la realizzazione di piccoli edifici decorati con bellissimi fiori, al cui interno viene posto una statuetta del Buddha che i fedeli bagneranno con una bevanda sacra, l’amacha 甘茶, un tè dolce ottenuto lasciando in infusione foglie di ortensia in acqua bollente.

E per concludere questo breve articolo dedicato alle celebrazioni dello hana matsuri, ecco 3 modi di dire che hanno per protagonista Buddha:

知らぬが仏

[shiranu ga Hotoke]

L’ignoranza ci rende Buddha, o diremmo noi, beata ignoranza! La parola hotoke 仏 significa appunta Buddha, e questo modo di dire si riferisce al fatto che se non sappiamo qualcosa, o non conosciamo una persona o lo stato delle cose, noi ci rapporteremo con queste in maniera inconsapevole, indifferente e calma, senza preconcetti, o agiremo senza troppi problemi, senza nemmeno pensarci. Puri di cuore, come se fossimo un Buddha.

仏の顔も三度

[Hotoke no kao mosando]

O anche i Buddha nel loro piccolo si arrabbiano! Letteralmente significa anche Buddha, se viene colpito tre volte (sando 三度) al volto (kao 顔) perde la pazienza; questo vuol dire che per quanto una persona sia buona e paziente, se subisce ripetutamente dei torti, alla fine si arrabbierà come tutti. Spesso in italiano viene reso con “anche un santo perde la pazienza”, ma anche con se tiri troppo la corda, alla fine questa si spezza.

釈迦に説法

[Shaka ni seppou]

“Che fai, vuoi insegnare a Buddha?”. Il significato letterale è fare un sermone (seppou 説法) a Buddha (Shaka 釈迦). In sostanza vuol dire dare consigli o suggerimenti a chi ha molta più esperienza di noi (appunto, insegnare a Buddha). Nulla è più fastidioso di chi pretende di insegnarti un qualcosa che già si sa benissimo, una situazione che nella vita capita molto spesso. Il modo migliore per reagire? Fate i Buddha 😉 un bel sorriso e rimanere serafici! Avrete notato che in questo modo di dire si utilizzata un altro termine per Buddha: Shaka 釈迦, che viene da “Shakyamuni” 釈迦牟尼 , uno dei nomi dati a Siddharta Gautama mentre era ancora in vita.

lunedì 7 aprile 2025

#AlmanaccoQuotidiano, a cura di #MarioBattacchi


 Buongiorno, oggi è il 7 aprile.

Il 7 aprile del 1979 decine di persone, appartenenti o simpatizzanti o considerate vicine alla formazione di sinistra extraparlamentare Autonomia Operaia, furono arrestate in un’operazione che diede inizio a uno dei capitoli più discussi e controversi della storia giudiziaria italiana degli scorsi decenni. Fu una vicenda che coinvolse centinaia di persone ma che ebbe come protagonisti, mediatici e non solo, da una parte l’intellettuale e attivista Toni Negri, dall’altra il magistrato Pietro Calogero. Come su tante altre questioni di quegli anni, gli arresti del 7 aprile – e soprattutto i processi che ne seguirono – provocarono divisioni nette e dolorose nella politica e nella società italiana, e ancora oggi non c’è un vero consenso storico sul caso, anche se le critiche a come il processo fu impostato e portato avanti negli anni sono diventate predominanti.

Autonomia Operaia era un movimento di estrema sinistra di ispirazione marxista e operaista che nacque nel 1973 in parte dall’esperienza di Potere Operaio, un altro gruppo che si era sciolto quell’anno e che era guidato tra gli altri da Negri, docente all’università di Scienze Politiche di Padova. Autonomia Operaia fu uno dei tanti movimenti extraparlamentari di quegli anni che portò avanti istanze di lotta rivoluzionaria con comizi, pubblicazioni e proteste, e che sviluppò al suo interno anche frange favorevoli a uno scontro violento con le istituzioni. Alcuni militanti di Autonomia Operaia nel corso del tempo si unirono a gruppi armati come Prima Linea o i Nuclei Operai Armati.

Il contesto degli arresti del 7 aprile era quello dei cosiddetti “anni di piombo”, delle stragi fasciste e del rapimento di Aldo Moro, l’importante dirigente della Democrazia Cristiana rapito e ucciso l’anno prima dalle Brigate Rosse in uno degli episodi più traumatici della storia repubblicana. Sull’omicidio si svilupparono vaste indagini e inchieste giudiziarie, e vennero adottate “leggi speciali” tra cui quella che permetteva di applicare il reato di associazione a delinquere alle organizzazioni politiche, e non solo a quelle mafiose.

Fu su queste premesse che il magistrato siciliano Pietro Calogero, della procura di Padova, sviluppò quello che la stampa chiamò “teorema Calogero”: cioè che una serie di intellettuali, docenti universitari, giornalisti e militanti dell’area riconducibile ad Autonomia Operaia avesse diretto le operazioni delle Brigate Rosse, portando avanti un progetto di eversione armata. Alla base della tesi di Calogero c’era la dibattuta questione dei rapporti tra la propaganda e gli scritti dei molti e influenti intellettuali di estrema sinistra dell’epoca e le azioni di terrorismo politico che proliferavano in quegli anni.

La cosiddetta “predicazione all’eversione” era considerata da molti in realtà come un’attività di protesta che, nel contesto di quegli anni, rientrava nell’esercizio delle libertà politiche, pur condividendo significative responsabilità dell’inasprirsi delle tensioni sociali per via dei frequenti inviti alla violenza, responsabilità riconosciute poi in diversi casi dai loro stessi autori. Ma secondo il magistrato, quelle responsabilità andavano ben oltre: Calogero credeva infatti che esistesse un collegamento diretto e materiale tra alcuni movimenti politici extraparlamentari di sinistra e le bande armate del terrorismo rosso.

Tra le decine di persone indagate e arrestate ci furono Toni Negri, Oreste Scalzone ed Emilio Vesce. Franco Piperno e Lanfranco Pace sfuggirono all’arresto andando in Francia. Le accuse andavano dall’associazione sovversiva all’insurrezione armata, ma in certi casi erano molto precise: Negri per esempio fu accusato di aver partecipato direttamente al rapimento Moro, e addirittura di essere stato il telefonista delle Brigate Rosse che condusse le trattative. In realtà si dimostrò dopo che la voce brigatista era di Valerio Morucci. A Negri fu rivolta anche l’accusa di “mandante morale” del rapimento, ma anche in questo caso cadde insieme a quelle di altri omicidi a lui attribuiti, da quello dell’ingegnere milanese Carlo Saronio a quello del giudice Emilio Alessandrini.

Il processo si svolse con tempi lunghissimi, e secondo molti attivisti – e anche secondo Amnesty International – in violazione dello stato di diritto: Negri, insieme ad altri imputati come Scalzone, fu detenuto preventivamente in carcere per anni, e il processo cominciò soltanto nel 1983. In primo grado Negri fu condannato a 30 anni per associazione sovversiva, banda armata e diversi altri reati, ma fu prosciolto dall’accusa di insurrezione armata.

Prima dell’appello, Negri accettò la proposta del politico radicale Marco Pannella di candidarsi alla Camera, venendo eletto e uscendo per questo dal carcere grazie all’immunità parlamentare. Nel settembre del 1983, Negri fuggì in nave in Francia: inizialmente parlò di un gesto politico assicurando che sarebbe rientrato in Italia, ma dopo qualche anno cambiò idea e decise di approfittare della cosiddetta “dottrina Mitterrand” – con cui la Francia dava ospitalità e sicurezza, rifiutando le estradizioni, a chi lasciasse la lotta armata e la violenza – rimanendo latitante. Questo fece arrabbiare molto Pannella, e attirò le critiche di molti che in precedenza lo avevano sostenuto.

In molti, da Giorgio Bocca a Rossana Rossanda, criticarono duramente lo svolgimento del processo, considerandolo ingiusto e disumano nei confronti degli imputati a cui, secondo molti, non furono assicurate le garanzie alla base di un sistema giudiziario fondato sullo stato di diritto. Ma negli anni le critiche hanno riguardato sempre più l’impostazione alla base del processo, dall’affidamento fatto sulle testimonianze dei “pentiti” – pratica spesso contestata nei processi sul terrorismo politico – alla tesi di fondo che mirava ad attribuire responsabilità materiali nel terrorismo politico agli intellettuali di estrema sinistra che non parteciparono direttamente ai gruppi armati.

Alla fine le pene dei principali condannati nel processo del 7 aprile furono ridotte in appello e poi confermate in Cassazione: in tutto Negri ricevette 12 anni, Scalzone 8 anni, Pace e Piperno 4 anni. La giustizia ritenne dunque colpevole i leader di Autonomia Operaia di eversione e di banda armata, ma non trovò prove del “teorema Calogero” sui collegamenti con le Brigate Rosse e con i moltissimi omicidi e sequestri a loro inizialmente attribuiti. Negri rientrò in Italia nel 1997, costituendosi e scontando i rimanenti anni di carcere. Scalzone, che a sua volta era fuggito in Francia nel 1981, ci rimase fino al 2007 quando i suoi reati furono prescritti, così come fece Pace. Piperno, che per un periodo rimase latitante in Francia e in Canada, rientrò a sua volta in Italia e scontò la parte rimanente della pena.

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