Buongiorno, oggi è il 9 gennaio.
Il 9 gennaio 1944 si celebra la seconda delle tre giornate del cosiddetto "processo di Verona".
Nel gennaio del '44 l'Italia è divisa in due; eserciti stranieri ne calpestano il suolo. Nelle strade, nelle città e sulle montagne del centro e del nord si combatte una guerra fratricida. Verona diventa improvvisamente protagonista. I puri e duri della Repubblica Sociale intendevano vendicare il 25 luglio (giorno della caduta del fascismo e dell'arresto di Mussolini) e punire i 19 gerarchi fascisti membri del Gran Consiglio del Fascismo che avevano aderito all'ordine del giorno Grandi. La Repubblica sociale con una mostruosità giuridica (il decreto 11/11/43, di fatto una norma penale con effetti retroattivi) aveva voluto dare la formalizzazione giuridica alla vendetta, costituendo per l'occasione anche un tribunale destinato solamente a giudicare coloro che avevano approvato l'ordine del giorno.
Peraltro solo sei dei diciannove ricercati erano stati arrestati: gli altri era riusciti a sottrarsi alla polizia fascista, che aveva però potuto mettere le mani sul personaggio più ambito, Galeazzo Ciano, che non aveva esitato a cercare rifugio in Germania, convinto com'era che la sua parentela col Duce gli avrebbe assicurato l’impunità.
Alessandro Pavolini aveva personalmente compilato la lista dei giudici per sottoporla all'approvazione del Duce: e già questa lista era significativa perché i giudici, come del resto era previsto dalle norme istitutive del Tribunale Speciale, dovevano essere "fascisti di provata fede" e in particolare erano da scegliersi fra quanti "avessero avuto a patire per la loro fedeltà all'idea". L'esito del processo era dunque scontato.
Il processo si celebrò dall'8 al 10 gennaio del 1944 nel maniero di Castelvecchio, nel quale solo pochi giorni prima il Congresso del neonato Partito Fascista Repubblicano aveva invocato a gran voce la morte dei "traditori dell'idea".
Cinque condanne a morte, per Ciano, Marinelli, Gottardi, De Bono e Pareschi e una condanna a trent'anni per Cianetti (che salvò la pelle per aver ritrattato il giorno successivo la sua adesione all'ordine del giorno Grandi) conclusero una cupa farsa giudiziaria.
La notte del 10 gennaio del 1944 le autorità della Repubblica Sociale si trovarono tra i piedi un ostacolo che non avevano previsto: le domande di grazia. Mancava, nel decreto istitutivo del Tribunale Speciale, la stessa previsione delle domande di grazia: a chi andavano dunque rivolte, qual era autorità che poteva ancora decidere della sorte dei cinque condannati? L'avvocato Cersosimo, istruttore del processo, suggerì a Pavolini, per analogia con le norme che regolavano il funzionamento del vecchio Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, di sottoporre le domande di grazia alla massima autorità militare territoriale, il generale Piatti del Pozzo, comandante dell'esercito a Padova. Questi però, con l'appoggio di un consulente legale, respinse seccamente l'incombenza e Pavolini, che aveva con sé le domande di grazia, iniziò una strana peregrinazione in compagnia di Cosmin, prefetto di Verona, di Fortunato, p.m. al processo e del capo della polizia Tamburini. Andò dapprima da Pisenti, ministro della Giustizia, che disse che avrebbe subito sottoposto le domande a Mussolini: esattamente ciò che Pavolini non voleva. Disse che della faccenda si era occupato esclusivamente il partito, e che il Duce non doveva essere posto di fronte ad una alternativa così dolorosa.
Ma proprio lui, Pavolini, come massima autorità del partito, si dichiarò incompetente a respingere le domande di grazia. Fu interpellato allora anche il Ministro dell'Interno, Buffarini Guidi, il quale a sua volta ebbe la pensata di scovare un comandante militare disposto ad assumersi la responsabilità dell'esame delle domande. Dopo varie telefonate ed altre peregrinazioni, Pavolini riuscì a mettere le domande in mano al console della milizia Italo Vianini, ispettore della V Zona, e quindi competente per territorio. Così, con una procedura contorta (le domande non furono espressamente respinte ma semplicemente "non inoltrate", e con lo stesso provvedimento Vianini ordinava l'esecuzione della sentenza) i cinque condannati furono avviati alla morte.
Pavolini avrebbe potuto salvarli: nessuno, nella Repubblica sociale, sapeva di preciso dove risiedesse l’autorità. Soprattutto avrebbe potuto salvare il suo grande amico, Ciano (gli altri imputati, con l'eccezione di De Bono, erano degli sconosciuti al grande pubblico), l'uomo contro il quale era di fatto celebrato il processo. Non si può certo ipotizzare che Pavolini nutrisse per Ciano l'odio, mai nascosto, che avevano tanti altri fascisti: il genero del Duce era considerato infatti un arrampicatore, un profittatore, tanto più meritevole di punizione ora, per i fascisti "puri e duri" della Repubblica Sociale. Assumendosi la responsabilità di accogliere le domande di grazia (era stato lui stesso a obiettare a Pisenti che "la faccenda era di competenza del partito") Pavolini avrebbe potuto mostrare che il nuovo stato fascista era in grado di punire, con la gravità della sentenza, ma anche di essere magnanimo.
La sentenza dei cinque condannati presenti, veniva eseguita la mattina dell’11 gennaio 1944, nel poligono di Forte San Procolo, a Verona, con un plotone di esecuzione formato da trenta militi fascisti.
Tre ore dopo Mussolini apre il Consiglio dei ministri a Gargnano pronunciando la frase "Giustizia è fatta".
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