Vivì Cholevas, che si portava addosso cinquantadue anni di stanchezza e settantotto chili di malinconia, si mise all'opera e infilò in lavatrice tre camici bianchi che usava per il lavoro, versò un po' di concime liquido nelle due piante, le innaffiò, sforbiciò i bordi sfilacciati del tendone, telefonò alla bulgara, la vecchia stava benone, finalmente era andata di corpo, l'aveva lavata, profumata e messa a letto come un bambino, telefonò alla bisbetica nipote del generale, Annula, tesoro, domani ricordati di andare alla mutua per farti prescrivere le creme e le altre medicazioni per il decubito, il nonno è in pessime condizioni, la terza, merdosa telefonata la fece alla cliente originaria di Kastorià afflitta dalla stitichezza, mia cara, se mi prometti di prendere il lassativo io ti prometto di pregare per te in tutte le chiese della città, proprio una bella carriera la mia, dalla danza classica alla merda, pensò.
La preoccupava l'idea di affidare i suoi clienti per cinque giorni a mani estranee, lo faceva a malincuore, fino ad allora era stata sempre disponibile, a qualsiasi ora del giorno e della notte, pronta a soccorrere quelle creature con la bocca aperta come una tasca bucata da cui si fosse rovesciato un mucchio di monete tintinnanti, e con gli occhi prima ingialliti e adesso spenti, anche se una volta erano tersi e brillanti come fiori di mandorlo.
Telefonò alla coppia che viveva a Exarchia, parlò con il marito, riguardatevi, disse, poi chiamò il matusa di Creta che le sussurrò il solito stornello edificante e le augurò di divertirsi alle nozze, augurò ogni felicità agli sposini, lei lo ringraziò con le parole che lui adorava, sì, mio prode, quando verrà la tua ora, non mancherò di sbeffeggiare la morte.
Finito il giro dei clienti non riagganciò la cornetta, telefonò all'amminístratore per le spese condominiali, l'ammontare era ancora ignoto, Vivì, sei l'unica che non vede l'ora di pagarle, poi chiamò Ioukaris, te l'ho detto, è tutto a posto, fatti trovare lì alle sette del mattino, Vivì, stai tranquilla e tieni gli occhi ben aperti.
Soltanto aperti?, pensò mentre si alzava. Ripose gli abiti e la biancheria intima nella valigia, preparò il borsone di Linos, la cosa più difficile fu riprenderne in mano le scarpe nuove, appoggiò i due bagagli accanto alla porta d'ingresso.
Tirò fuori il portafoglio dalla borsa, contò di nuovo i soldi, otto biglietti da cento euro, quattro da cinquanta, qualche spicciolo, la tessera del bancomat, le due carte d'identità. Lo rimise a posto, accanto c'erano i due astucci con gli occhiali da sole, i due opuscoli preistorici, i tre ritagli piegati in quattro, la busta con le quattro fotografie, qualche effetto femminile e l'agendina con i numeri di telefono utili, peraltro pochi, che conosceva tutti a memoria.
Si recò in cucina, prese il pestello di metallo e il coltello per affettare il formaggio, li infilò nella borsa, ci stavano comodamente entrambi, ma alla fine vi lasciò soltanto il pestello, il coltello lo rimise nel cassetto.
Il pestello lo aveva acquistato a Komotinì durante un ponte festivo di venti e rotti anni prima, non l'aveva mai usato, l'aveva messo su una mensola in alto insieme ad altri due utensili di rame, una lucerna a olio e un'oliera, e li usava come soprammobili, tempo per spolverarli e tantomeno per lucidarli non ne aveva, erano tutti coperti da una patina grigiastra. Anche se le ricordavano un momento felice, a salvarli dai continui repulisti e dai frequenti traslochi era il fatto che finivano sempre su qualche scaffale fuori mano.
Fece ritorno nell'ingresso, appese la borsa all'appendiabiti proprio sopra i due bagagli e pensò, non per la prima volta, che da dieci anni i quattro ganci di quell'appendiabiti ospitavano esclusivamente capi di vestiario e altre cianfrusaglie appartenenti a lei, il cappotto, l'impermeabile, l'ombrello, i sacchetti, la sciarpa logora che indossava durante le veglie estive sul balconcino.
Da questa posizione girò il collo e la testa per osservare il salotto adibito a ripostiglio. Ormai era troppo tardi per rimetterlo in sesto, non intendeva mai più abbellirlo con tendine ricamate o con vasi di fiori illudendosi che tutto fosse come prima.
Paul Gaguin, Nudo di donna che cuce
Non è facile trovare il coraggio per virare il timone della vita, pensò consultando l'orologio, erano le nove di sera, tutto era pronto, e adesso via in cucina.
Mise il bricco sul fuoco, immerse per la terza volta nell'acqua bollente la stessa bustina di tè, com'era solita fare da tre anni a quella parte, prese la tazza contenente la broda e un pezzo di pane, e raggiunse il divano. Ripeté sottovoce e con cura le frasi mandate a memoria, un sorso, un boccone e un paragrafo, il rilievo delle amazzonomachie scolpito sul frontone del Tesoro degli Ateniesi, la celeberrima Sfinge dei Nassi innalzata su un piedistallo ionico.
Probabili domande: chi erano i genitori della Sfinge? Tifone ed Echidna. E i suoi fratelli? Cerbero, l'Idra di Lerna e altri mostri. Dieci e lode.
Si appoggiò sullo schienale, si sfiorò un angolo del labbro superiore con il mignolo, ci risiamo, mi è tornato l'herpes. Il sangue le saltellava nelle vene come un ranocchio, la testa somigliava a un cespo di lattuga senza foglie, la mente se l'erano mangiucchiata i vermi, li sentiva strisciare, poppare, gonfiarsi.
Doveva bloccare il flusso dei pensieri, il cervello non va mai in vacanza, non si concede mai una sosta.
Allora. L'ambra si estrae sulle rive del Baltico. Venti metri sotto il pelo dell'acqua ci sono pietre trasparenti, gialle, rosse, marroni, che racchiudono all'interno foglioline o insetti provenienti da un remoto passato. La più costosa è quella più chiara, anche millecinquecento dollari al pezzo.
Quando il mare si trasforma in ghiaccio, i pescatori di ambra rotti a tutte le intemperie praticano una serie di fori e vi infilano dei tubi, l'acqua comincia a scorrervi all'interno con vigore e rimesta i fondali facendone staccare le leggerissime, preziose pietre del sole, è così che le chiamano. I polacchi di Danzica creano collane di ambra che appendono al collo dei loro bambini, una era stata Rodo a regalargliela, la madrina di battesimo del figlio aveva fatto dieci volte il giro del mondo per lavoro e per diporto, ma soprattutto per scopare, nella sua collezione c'erano cazzi provenienti dai cinque continenti.
L'attenzione di Vivì Cholevas si aggrappò all'ambra verso le dieci, se ne sganciò verso le dieci e mezzo, esplorò altre possibilità, si avvinghiò per qualche istante alla manutenzione dell'automobile, costata duecento euro tondi tondi, passò allo scaldabagno nuovo, costato duecento euro anche quello, più altri centottanta per comprare le scarpe nuove di Linos, più cinquanta per le bomboniere, conta che ti riconta, il tempo passò senza che se ne accorgesse.
Rimase seduta sul divano fino alle due del mattino, irrigidita nella stessa posizione, incuneata tra un mucchio di sacchetti e una montagna di scatoloni, accanto alla radio spenta, di fronte al televisore spento, inchiodata al silenzio del suo appartamento e al crutch-crutch del vicino, un settantottenne titolare di un Alzheimer di prima categoria che cercava per l'ennesima volta di aprire la serratura per andarsene a passeggio. Da giovane aveva vissuto in Africa e lo chiamavano La Tigre, guadagnava cifre da capogiro grazie al commercio dell'avorio e del pellame, poi, tornato in patria, aveva fatto carriera come quadro aziendale, adesso, vedovo e in bolletta, era stato affidato alle cure di Uliana, un'ucraina che, non potendone più di inseguirlo in tutta la città, aveva fatto mettere la porta blindata e si era appesa le chiavi nuove al collo rifilando alla Tigre quelle vecchie, cosicché questi si incaponiva a grattare la porta, cercava di infilare le chiavi una dopo l'altra, ancora e ancora, senza fine, giorno e notte, per settimane e mesi.
Alle assemblee condominiali l'argomento era sempre all'ordine del giorno, Vivì ne faceva volentieri a meno, dal primo piano udiva una quindicina di forsennati riuniti nell'androne dell'ingresso che coprivano l'ucraina di contumelie. Quanto a Vivì, aveva fatto l'abitudine ai rumori che attraversavano le pareti sottili proprio come ci si abitua al tarlo che divora il buffet di legno, le tenevano compagnia nella solitudine delle sue serate, quando tornava dal lavoro, sollevava le gambe gonfie, le appoggiava sul bracciolo del divano e abbracciava il suo mondo con lo sguardo, cataste di pannoloni, alcune velette-regalo sopravvissute all'avventura del Tutù e una serie di altri oggetti che si identificavano con quanti li avevano donati, gli ultimi superstiti in attesa di sbarazzarsi anche di loro.
Un vaso di opalina rosa, enorme come un pancione al nono mese, appartenuto a Rodo, fungeva da salvadanaio, e poi puntine da disegno, graffette e biglietti da visita, la sedia cretese artigianale, dono di nozze dei colleghi del marito, ormai negletta causa lombaggine, l'abat-jour canadese con la foglia rossa, capovolto per tenere celate le conseguenze del pugno assestato due giorni prima durante uno sfogo solitario, e una quantità di carabattole, un portasigarette a forma di basilica di Santa Sofia e un posacenere a forma di gatto, new entry già appartenuta a un cliente deceduto di infarto, fumatore che più fumatore non si può, il quale sembrava deciso a fumare anche nel mondo dei più.
Anche quella sera si concesse il solito vagabondaggio dello sguardo, era una specie di controllo di routine volto a ottenere la conferma che le prove di un naufragio esistenziale si trovassero ciascuna al suo posto.
(Ioanna Karistiani, Ritorno a Delfi, Edizioni eo, Roma, 2011, pp. 11 ss.)
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