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sabato 28 aprile 2012

Avevo messo incinta una ragazza #Dan Turèll, #Assassinio di lunedì #thriller #gravidanza #maternità


Avevo messo incinta una ragazza. Storia vecchia, e non crediate che ne andassi particolarmente fiero: qualunque fattorino avrebbe potuto fare lo stesso, se non meglio. Solo che quella era opera mia e di conseguenza un mio problema.

Benché certo, considerate le leggi di natura, più un suo problema che mio.

E lei, Gitte Bristol, l'avvocato dalla nera chioma fulgente con cui mi «accompagnavo» da sei mesi, ossia da quando ci eravamo incontrati su un aereo per Rodby, (senza che il nostro rapporto fosse molto progredito in tutto quel tempo), era piena di dubbi. Non era sicura che le piacesse l'idea di avere un figlio da me. Non era sicura che le piacesse l'idea di un figlio in generale. A dirla tutta, non era neppure sicurissima che le piacessi io.

I pronostici erano tra i più difficili.




Così alternava stati di depressione, in cui sembrava un po' persa nel vuoto, ad altri di rabbia e furore, spesso contro il mondo intero, talvolta specialmente contro di me, in quanto ne ero parte molto invadente. Non la più invadente in assoluto, si capisce, ma certo più facile da aggredire dell'essere sconosciuto che se ne stava rannicchiato nel suo ventre, in attesa.

Cambiava idea a intervalli di qualche giorno, come influenzata da un imprevedibile ciclo ormonale. Ora voleva il «suo» bambino, ora pensava di provare ad avere il «nostro» bambino, ora decideva di abortire.

La furia e l'isteria delle donne, come dicono gli americani, sono right as rain.

Al lavoro però era sempre la stessa: determinata, efficiente, precisa. Con quelle vette disumane di deontologia professionale che solo le donne molto consapevoli riescono a sostenere.

Quella sera, naturalmente, aveva dato di matto. Date le circostanze non mi sentivo di biasimarla. E avendo lei manifestato il desiderio di «rimanere un po' sola», un modo di dire che le ragazze della sua educazione adoperano con la massima naturalezza, io mi ero ritrovato fuori, sotto la pioggia, e avevo preso in maniera più o meno inconsapevole la via di casa: quella casa che mantenevo tuttora, pur vivendo per metà del mio tempo – o almeno pernottando spesso – da lei. Vagavo, dunque, e intanto pensavo, se non è una parola troppo grossa.

Pensai alla prima volta che l'avevo vista, nel ristorante del mio amico cinese Ho Ling Fung. Mangiava da sola, e mi fece un effetto travolgente, mai provato. Pensai alla prima volta che le avevo parlato, all'aeroporto di Rodby, grazie alla riprovevole mancanza di carrelli di quell'aeroporto di provincia. Pensai – tremando leggermente per la pioggia e al ricordo – alla notte all'Hotel Rodby in cui mi aveva «aperto la porta».

Pensai alla sua vita, alle scuole francesi, alla famiglia di giuristi in cui era cresciuta. Il padre, giudice pomposo, e quel passerotto succube della madre, eternamente indaffarata tra le tazze da caffè in un salotto chesterfield immerso nel fumo di sigaretta. Pensai al suo primo matrimonio fallito accorgendomi che, se ci pensavo come al primo, mi stavo evidentemente già candidando per il secondo.

Infatti io l'amavo. Più di quanto avessi amato nessun altro.

Contrariamente a quanto affermano i mediocri oratori della domenica, l'amore non rende affatto ciechi. È vero l'esatto opposto: l'amore apre gli occhi. Chi ama vede cose che sfuggono a tutti gli altri, e si comporta spesso in maniera più logica e coerente di chi agisce a sangue freddo.

Di conseguenza io vedevo benissimo il fatto lampante di non essere il partito ideale per lei. Se è vero, come dice il proverbio, che «chi si somiglia si piglia» noi non avremmo dovuto neppure sognare di metterci a giocare ad acchiapparella.


(Dan Turèll, Assassinio di lunedì, Milano, Iperborea, 2010, pp. 11 ss.)



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