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mercoledì 25 aprile 2012

Pregavo il Signore che facesse morire tutta la mia famiglia #Alda Merini #Uomini miei #parricidio #infanzia #citazione #padre


Mia sorella era una bambina perbene, coi capelli ben ravviati e il vestito alla marinara, e aveva un amore sconsiderato per me, che ero più piccola di quattro anni. A cinque anni ero già una bambina avida, tanto che per farmi una foto dovevano riempirmi le tasche di soldi perché altrimenti non sorridevo. Cercai di ammazzare mia sorella due o tre volte, ma senza risultato. Mia mamma mi difendeva e diceva che, essendo piccola, ero semplicemente gelosa; in realtà ero cattivissima.
Mia sorella impiegò tutta la vita per cercare di piacermi, ma io la mandavo al diavolo e pregavo il Signore che facesse morire tutta la mia famiglia.
A dieci anni cominciai a desiderare un figlio e non so da chi mi venne quell'idea malsana. Pensavo che la maternità mi avrebbe donato, e mangiavo a crepapelle e di tutto, fino ad avere un tifo petecchiale da cui mi salvarono per un pelo.
Ero una bambina bellissima, piena di riccioli e con una volontà di ferro. Non mi piegava nessuno. Avevo anche una prodigiosa memoria e non parlavo con nessuno, credendomi un padreterno.
Fu così che scoprii la mia vocazione religiosa. E volevo ammazzare mia madre per sposare il papà. Mia sorella era timidissima, ma io ero talmente chiusa che nessuno riusciva a sfondare la mia porta. Solo la nonna, in punto di morte, disse a mia madre le fatidiche parole: «Attenta alla piccolina, è completamente matta».
Quando violentai Manganelli, lui rimase senza parole e non parlò per mesi e mesi, finché si decise a prendere in mano la penna. Fui io che feci di Manganelli un grande scrittore. Ma ero così tremenda che mi soprannominò la «bakunina» e il nostro amore andò avanti a suon di schiaffoni. La «bakunina» voleva averla vinta e lo tiranneggiò a tal punto che Manganelli scappò, lasciando da parte desiderio e contemplazione, finché approdai alle acque quiete e torbide di Salvatore Quasimodo.
A dodici anni mi presentai nell'ufficio di mio padre e chiesi di essere assunta come ingegnere. Mi buttarono fuori e mi guardarono con tanta pietà. In fondo nessuno aveva capito che io ero un genio della matematica.

Mio padre lavorava nella vecchia mutua Grandici e faceva l'assicuratore. Era un uomo coltissimo e padrone della lingua italiana. E anche molto bello, talmente bello che lui e mia madre sembravano una coppia di attori. Era anche un tenore di grazia. Cantava nelle operette e io già da bambina ebbi una grande dimestichezza col palcoscenico.
Erano talmente innamorati l'uno dell'altra, i miei genitori, che io crebbi in un clima di amore e di musica unico al mondo. Lui era bello come Robert Taylor, ma era un uomo chiuso e molto garbato. Fu un grande educatore, mio padre. Amò i suoi figli teneramente e aveva mani così ben curate che sembravano persino femminili. Mio nonno era maestro d'organo e in casa mia non ci furono mai né parolacce né offese, e mio padre aveva un tale rispetto per sua moglie che per tutta la vita io credetti che il matrimonio fosse la vera felicità.
Mio padre si chiamava Nemo, perché mio nonno era un appassionato lettore di Giulio Verne. Mio padre, che non era cattolico, sposò mia madre solo quando nacqui io, per intervento di un nostro cugino che voleva santificare quell'unione così perfetta (ma io avevo il diavolo in corpo e non volevo santificarmi). Solo mio padre, così paziente e generoso, riusciva a calmarmi, e a lui confidavo tutto, anche i miei baci, i miei primi baci. E mio padre era così contento di queste confidenze che rideva, rideva a crepapelle della sua piccola «bakunina» che aveva paura dell'amore.

(Alda Merini, Uomini miei, Ed. Frassinelli, 2005; fonte web: http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/382/cafelib.htm )






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