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giovedì 28 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 28 marzo.
Il 28 marzo 1997 una nave albanese si scontra nel canale di Otranto con la corvetta italiana Sibilla e affonda. 81 morti, di cui molti bambini.
Partiamo dalla fine. Sono ottantuno nomi. Uomini, donne e bambini che hanno perso la vita nel Canale d’Otranto. Era il 28 marzo 1997, un venerdì santo, ed erano a bordo della piccola motovedetta albanese Kater i Rades.
Trentuno di loro avevano meno di sedici anni. Tutti si erano ammassati su quella carretta per lasciarsi dietro una guerra civile. Tutti trascinavano speranze e progetti plasmati dall’abbagliante illusione di una vita nuova, sognata grazie alle onde trasmesse dalla piccola scatola al centro di ogni loro casa. Promesse di felicità naufragate a una trentina di miglia dalla costa italiana. Perse in un urto con un’altra imbarcazione, la Sibilla, corvetta della Marina militare italiana. Com’è successo? Com’è potuto accadere che un’imbarcazione impiegata in un’operazione di “contenimento” degli espatri clandestini sia stata la causa di una tale tragedia?
La risposta va cercata nel contesto italiano della politica dei respingimenti; la grammatica dell’epoca, quella “retorica dell’odio buono” praticata da forze politiche che ancora oggi ricorrono al mercato della paura in cerca d’un consenso viscerale e di bassa lega; l’esecuzione di una politica di forza che, non appena messa in campo, si trasforma subito in una strage; le regole d’ingaggio, ovvero le pratiche che gli uomini della Sibilla e delle altre navi presenti nel Canale d’Otranto devono eseguire (operazioni di dissuasione che chiamano harassment o anche, quasi con linguaggio futurista, “azioni cinematiche di disturbo”); la grammatica delle comunicazioni di quel pomeriggio che, dalle trascrizioni degli ordini di comando, parlano della nave albanese come di un “bersaglio”.
Si tratta di un momento importante per la nostra storia recente perché quel Venerdì Santo di morte costituisce un paradigma e uno spartiacque.
Di chi è la responsabilità? All'inizio furono messi sotto inchiesta i vertici della Marina, che avevano impartito le regole di ingaggio per ostacolare gli sbarchi dall'Albania. Poi la loro posizione è stata archiviata. E sul banco degli imputati è rimasto solo il capitano Laudadio, condannato a due anni di carcere mentre il reato di omicidio è stato dichiarato prescritto. L'ufficiale si è sempre difeso sostenendo di avere obbedito agli ordini, che prevedevano quelle manovre di dissuasione. Operazioni comunque ad alto rischio. La Sibilla è una nave da guerra lunga 87 metri, con un dislocamento di 1200 tonnellate: ogni virata solleva onde con effetti molto pericolosi nei confronti di barconi e gommoni. Eppure il governo non si fece scrupoli nel disporre queste attività. Ma nessuno dei politici di allora ha pagato per la decisione di mandare la flotta contro i migranti e l'unica responsabilità è ricaduta sull'ufficiale al timone. Uno scaricabarile che per oltre un decennio ha creato una frattura tra militari e autorità di governo.
La Suprema Corte ha condannato entrambi i comandati delle navi. Quello della Kater I Rades, Namik Xhaferi, salpato senza autorizzazione verso la Puglia, punito con 3 anni e mezzo di carcere. E quello della corvetta Sibilla, Fabrizio Laudadio, che aveva condotto le manovre per ostacolare l'approdo dello scafo.
La sentenza della Cassazione arriva mentre la Marina è impegnata in altre operazioni per fronteggiare l'esodo di migranti e profughi. Ma le regole d'ingaggio sono completamente diverse: non si dissuade, si soccorre. Quello che un Paese civile deve fare. E che la flotta concretizza usando le sue capacità tecniche, senza più mandare navi da guerra addosso agli scafi. 
Ma adesso, la politica degli sbarchi è cambiata ancora, e la gente ha ricominciato a morire in mare.

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