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venerdì 8 marzo 2024

#Almanaccoquotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è l'8 marzo.
L'8 marzo 1918 si registra il primo caso dell'influenza "spagnola", che si rivelerà una pandemia di dimensioni planetarie.
«L’influenza ha invaso il mondo fino agli angoli più remoti, senza risparmiare civili e soldati, alla faccia della scienza» scrisse nel settembre del 1918 Victor C. Vaughan, capo dei chirurghi militari americani durante la Prima Guerra Mondiale, dopo aver visitato un campo militare nei pressi di Boston. L’obitorio era strapieno di corpi ammucchiati come fuscelli. I soldati erano stati falciati dall’influenza spagnola, la Great Pandemic che, in poco più di un anno, uccise più soldati americani che la guerra. Essa infettò un terzo dell’umanità, che allora contava circa un miliardo e settecento milioni di persone, e, in tre ondate, dal febbraio-marzo 1918 alla primavera del 1919, ne uccise circa 100 milioni, il maggior cataclisma demografico di tutti i tempi. Esso si aggiunse ai 15 milioni di morti a causa della guerra e a quelli d’infezioni ricorrenti o croniche come Tbc (di cui, negli ultimi mesi della guerra, solo in Austria morirono 35mila persone) colera, malaria, sifilide, tifo, morbillo. «Alla faccia della scienza», perché essa, che godeva molto prestigio negli Stati Uniti, non forniva rimedi. Il New York Times del 17 ottobre 1918 denunciò il «fallimento della scienza, che non ci ha protetto». I nemici della scienza ebbero buon gioco a proclamare «basta con le droghe» e a propagare medicine alternative, che, nei vent’anni successivi, ebbero una diffusione enorme. Con conseguenze micidiali ancora oggi, ad esempio in Italia, dove si ricomincia a morire di morbillo e ad ammalarsi di tetano perché si rifiutano i vaccini. Nello sconforto generale sorsero movimenti come lo spiritualismo, la convinzione cioè che si possa comunicare con i morti. Ne fu seguace Arthur Conald Doyle, che cessò di scrivere del più scientifico dei poliziotti dopo che la spagnola aveva ucciso suo figlio. La divulgatrice scientifica Laura Spinney, collaboratrice dell’Economist, tratta magistralmente la pandemia nel contesto economico, militare, religioso, della scienza e delle idee delle aree colpite. Ha buone ragioni per sostenere che quella strage, che si spense spontaneamente quasi ovunque nel 1920, dopo che, durante la seconda ondata nell’autunno del 1918, aveva fatto temere l’estinzione dell’umanità, ha cambiato il mondo. Il riaggiustamento sociale dopo simili disastri è sempre impervio e doloroso. Basti pensare alla situazione degli innumerevoli orfani. In Norvegia, ad esempio, per 6 anni dopo la fine della pandemia ci furono sette volte più ricoveri per disturbi mentali di prima. La pandemia dimostrò che l’umanità può essere esposta a minacce biologiche immense dalle quali – se non è preparata – non si può difendere. La “spagnola”, ha scritto la storica americana Nancy Tomes, è stata Destroyer and Teacher, distruttrice e maestra. Quell’esperienza apocalittica, che per alcune sette religiose era una punizione divina, insegnò che crisi sanitarie di quelle dimensioni non si possono affrontare con provvedimenti improvvisati. Sorsero servizi sanitari nazionali e ministeri che si federarono poi nella World Health Organization (WHO) delle Nazioni Unite, che controlla la condizione sanitaria del globo. La WHO sollecita a predisporre misure di sorveglianza e di contrasto nel caso di una pandemia influenzale, individuandone il più presto possibile l’agente patogeno, sorvegliandone le mutazioni anche in tempi tranquilli, producendo e distribuendo vaccini, ancora oggi l’unico provvedimento efficace contro simili attacchi. L’influenza cominciava (e comincia tutt’ora) con spossatezza, mal di gola e di testa, tosse e febbre. È la forma lieve di pochi giorni che si ripete quasi ogni anno. Questo fu, più o meno, il decorso nella prima ondata nel marzo del 1918. La seconda, micidiale ondata scoppiata alla fine dell’estate, verosimilmente in seguito ad una mutazione genetica virale, era una polmonite virale acuta e violenta, rapida nel bloccare la funzione dei polmoni e spesso aggravata da un’infezione batterica. Dopo un’epidemia di influenza in Russia nel 1889-1890, che aveva ucciso un milione di persone, si era creduto di averne trovato l’agente patogeno, il “bacillo influenzale di Pfeiffer”, cioè un batterio, rinvenuto nello sputo degli ammalati e contro il quale si allestì un vaccino. Contro la spagnola, non servì a nulla. Si usò l’aspirina, che abbassava la febbre, talora a dosi tali da far temere che essa stessa fosse mortale. Anche il chinino, efficace contro la malaria, fu inutile. Verso la fine della pandemia si sospettò che l’agente patogeno fosse più piccolo dei batteri, e quindi invisibile: un virus, di cui non si sapeva nulla. Il virus influenzale fu descritto nel 1930 e il suo traliccio genetico fu decifrato nel 1995, in frammenti polmonari di riesumazioni e di sopravvissuti. Il virus provocò ondate d’influenza fino al 1957, poi sparì per riapparire a partire dal 1969 in forma attenuata. È tenuto sotto controllo.
Il cosidetto “Paziente zero”, cioè il primo ad ammalarsi un secolo fa, fu sospettato in Francia, in Cina e nel Kansas. La malattia si diffuse con una rapidità e veemenza tali da far supporre più focolai. Le conseguenze di una pandemia dipendono dalle condizioni sociali, dal clima e dall’ambiente, da riti sociali e religiosi con molta folla, e, oggi sappiamo, dal DNA non solo degli agenti patogeni, ma anche della popolazione. Le aree più colpite furono l’Asia e l’Africa subsahariana, in particolare il Kenya. Le miniere d’oro e di diamanti del Sud Africa divennero le tombe degli indigeni. In India, torturata da una siccità cronica, morirono 18 milioni di persone. In una comunità dell’Alaska (Bristol Bay) morì il 40% della popolazione in brevissimo tempo. In Persia la città di Mashhad fu letteralmente spopolata, come favelas di Rio de Janeiro e diverse isole oceaniche. Numerosi italiani emigrati negli Stati Uniti morirono perché già indeboliti dalla Tbc. Nell’immenso campo di battaglia in Europa, l’arma del gas mostarda potrebbe aver favorito la diffusione dell’infezione indebolendo le vie respiratorie e inducendo variazioni genetiche nei virus. A Parigi ci si stupì che fossero più colpiti i quartieri benestanti, fin quando si accertò che i morti erano soprattutto persone di servizio, che lavoravano 18 ore al giorno e dormivano fino in dieci in una stanza. Il virus era trasmesso con l’aria, e quindi erano più esposte aree densamente popolate. Per questo fu anche chiamata crowd disease (malattia di massa). Si chiamò “spagnola” perché i giornali, nella Spagna neutrale, parlarono subito della malattia, in particolare e con enfasi dell’ammalato re Alfonso XIII, mentre i Paesi in guerra tendevano ad ignorarla. È certo che la malattia non sorse in Spagna. Oggi ci si muove molto di più e velocemente, per cui la diffusione del contagio è rapida, tanto più che i 7 miliardi di esseri umani attuali tendono a vivere nelle città. Gli anziani, particolarmente esposti, sono sempre più numerosi. Nel 2013 una simulazione della spagnola nel mondo com’è ora, previde, senza prevenzione e quarantene, circa 21-33 milioni di vittime. Anche oggi una polmonite virale acuta può essere mortale, specie nei bambini e nelle persone anziane. Si combatte e previene principalmente con la vaccinazione. A differenza di 100 anni fa, oggi la scienza sa come proteggerci, a patto che lo si voglia.

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