di Alberto Bobo Murru
Dalla strada posso vedere il mare limpido e intatto, a poche mezzore dall’ alba le onde scorrono libere sulla sabbia, si ritraggono e ancora scorrono, a poche mezzore dall’ alba puoi sentire la musica dell’acqua. Sto sul bordo della strada e mi reggo in piedi sui pedali, intorno a me un euforia di colori, ammiro il paesaggio come lo si fa da un finestrino di un auto, dritto con le braccia sul manubrio e la testa al mare. Sono partito per questo, per veder nascere il sole, per sentire come canta il vento la notte, per trovare spazio negli angoli intatti dell’isola; così continuo la leggera discesa lasciando andare la mia bici in una corsa libera, la costa di fianco si assottiglia, gli scogli si alternano a delle lingue di sabbia candidissima, la luce del giorno è alta e forte, quell’ enorme lampada sta sopra un isolotto, un iceberg granitico e ripido. Oltrepassata una lunga spiaggia l’asfalto si fa sempre più crudo, finita la discesa mi metto sui pedali, è solo l’inizio di una lunga scalata. Qualcosa va storto, le mie pedalate sono lente e non hanno alcuna spinta, la gomma davanti a me è completamente spalmata sulla strada, ho bucato. E’ la terza volta in sette giorni e la quinta da quando ho iniziato il viaggio, prendo la bici in spalla e vado dalla parte opposta della carreggiata, taglio la strada deserta e mi imbuco in un piccolo sentiero avvolto da una natura selvatica, porta al mare. Non avevo previsto tutte queste forature e ora avrei dovuto aggiustare la camera d’aria con una pezza e della colla, sperando di arrivare in qualche centro abitato il prima possibile. Scendendo, il sentiero, si fa sempre più scosceso, la bici e lo zaino iniziano a pesare troppo e a togliermi l’equilibrio, cerco di non scivolare mantenendomi a dei rami anche spinosi, poi la troppa sabbia sulla roccia mi ribalta sulla spiaggia, due o tre metri più in basso.
Ho il culo sopra della sabbia morbidissima, la bici di fianco non sembra avere subito grossi danni e lo zaino a qualche metro davanti a me non sembra essere rotto; i miei gomiti e le mie ginocchia bruciano dannatamente, tolgo in pochi secondi le spine dai palmi delle mani, il dolore si fa più sopportabile. Ho addosso profumo di ginepro e fico selvatico, ho portato giù con me qualche ramo, neanche un frutto. Di fronte ai miei occhi, al di là dei cespugli che mi avvolgono, una distesa di sabbia chiarissima e acqua cristallina sembrano fondersi in un’unica sostanza, una sostanza che sembra richiamarmi, pochi passi e inizio ad immergermi, è ghiacciata. Mi guardo intorno di continuo, voglio essere solo, l’unico a fare il bagno in quel paradiso. Il mio ingresso ha la lentezza e l’intensità di un rito sacro, chiudo gli occhi e continuo a camminare su quel tappeto di sabbia e ciottoli rotondissimi e bianchi fino a trovarmi completamente sommerso. Ora l’acqua non è più così fredda, posso stare sotto a nuotare per minuti interi senza avere l’esigenza di respirare, attorno a me le creature più belle, granchi che assomigliano a composizioni floreali e meduse d’ogni tipo, non riesco a temerle. Il sole si è levato a mezzogiorno e le mie mani sembrano dei panni fradici. Il sole trasforma la mia pelle zuppa in uno strato di abbronzatura e salsedine, la mia anima è appagata. Torno all’ombra del cespuglio e mi stendo sopra la bici, non c’è spazio nella mia mente per la gomma bucata o per riprendere il viaggio, ora ho fame e presto avrò sonno.
Mi sveglio dopo qualche ora, sento i polpacci bruciare al sole, l’ombra dell’enorme cespuglio si è assottigliata, copre solo una parte del petto. Mi godo un risveglio lento, lascio filtrare i raggi lenti e abbaglianti dalle palpebre, sulle mie spalle sento qualcosa di umido. Cinti da un braccio e sparsi sul mio corpo, dei capelli rossi, dei capelli rossi di ragazza, ricci e pieni di salsedine, sembrano dei filamenti di rame, lavorati da chissà quale scultore; sotto la chioma i suoi occhi sono ancora chiusi, la osservo cercando di tenerla addormentata, ha un espressione distesa e dolce. Ha la pelle chiarissima e liscia, non ho mai visto così tanto candore, abituato a coloriti più selvaggi. La sua presenza non mi turba, mi sarei dovuto fare delle domande, interrogarmi sul perché della sua presenza, non l’ho fatto. Si sveglia strizzando gli occhi e stringendosi a me, le passo la mano sui capelli per rassicurarla, mi guarda, non parliamo. I nostri sguardi si incrociano e non lasciavano spazio alle parole; per tre lunghe ore rimaniamo fermi a guardare il mare incresparsi e poi ritornare calmo, ci guardiamo per tre lunghe ore. Più continuano i nostri silenzi, più l’acqua e il cielo si tingono prima di rosso e poi di viola e l’atmosfera si fa immobile, come se attendesse di essere infranta da un momento all’ altro. Iniziamo a scoprirci, non ci curiamo di conoscere i nostri nomi e le nostre storie, i nostri corpi non si temono, è come se si fossero sempre sfiorati, continuiamo senza alcuna vergogna, con un pudore setoso. La notte oscura tutto intorno a noi, il suo corpo ha il colore dei ciottoli di quel mare, l’oscurità non riesce a celarlo. Basta poca legna per accendere un piccolo fuoco, intimo, pochi rami. Sentiamo cantare i grilli e schioccare la legna fresca sul fuoco, possiamo vedere la Luna, perfetta e luminosa. Il fuoco ci ha reso più sicuri, i nostri corpi non sussultano per i rumori della notte, ci sentiamo parte della Luna e del mare.
Della notte rimane soltanto l’odore del fuoco spento, non sento più l’umido sulla mia pelle. Sotto il mio braccio una ciocca dei suoi capelli rameosi, la ciocca più rossa avvolta in un elastico, forse avrei aspettato un’altra notte.
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