L’ho incontrato una notte di febbraio.
Una di quelle notti inutili che trascorrono senza tempo in una stanza qualunque. Quando il profumo della pioggia preme sui vetri come salsedine allo sbaraglio.
E sull'argine dell'anima scende l'odore del silenzio.
Se ne stava accucciato nei suoi pensieri protetto da un cieco pastrano che si era diligentemente costruito addosso.
Una seconda pelle.
La quiete.
La sua maschera viola. L’aria sprezzante d’un vento infingardo che s'adagia frusciando fra tegole mute e cocci di resina.
Chiacchierava discreto con quel fare bastardo di chi dice una cosa e ne pensa un’altra.
Parole vaghe. Scontate. Ingoiate.
Come il suo riso.
Tentativo maldestro di cancellare privilegi e divorare distanze.
Un riso inquieto.
Come il mio tempo.
Era lì, di fronte a me, fra sorrisi bugiardi e falsi pudori scolpiti in sussurri d’ipocrisia.
Lui.
Una copia d’autore.
Falsa.
Lo sguardo no.
Sottile impalpabile vero.
Se ne andava per conto suo fra arabeschi di more in attesa di un’estate colma di seni e di vagabondi sapori.
Mi guardava.
Occhi bucati.
Dentro.
Lo guardavo.
Si mordeva il labbro inferiore.
Senza sosta.
Un gesto ritmico.
Assurdo e voglioso.
Quasi una sfida.
O un invito.
Mentre gli occhi penetravano la forma d’un tempo senza barriere.
Fessure dischiuse a vegliare tempeste.
Come la notte che s'infiltra sovrana fra teoremi d'inchiostro ed amaro fragore.
Come una luna sazia di sole in un corpo smarrito.
All’apparenza.
La pelle no.
Liscia.
La sua pelle.
Densa di voglia.
Protesa verso l’ignoto come vergine sgualdrina.
Vortice e vertigine.
Virtù nera
Da sfamare...
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