di Pietro
Perrone
C’è in giro l’odore un pò acre di pioggia che batte la polvere.
Entra dalla finestra e s’infila nel profondo del cuore.
Fa una strada tutta speciale.
Entra dalle scure bocche del naso un poco distratte.
Compie un giretto e, poi, sicuro, si butta diritto nel mondo dei sogni.
Fa qualche passo, cerca e rovista.
Un poco a caso, ecco, si perde.
S’è infilato giù per i condotti che portano al cuore.
Come l’acqua che scorre, sul ciglio della via.
Un ruscelletto s’accumula piano, dopo uno scroscio di flaccide gocce.
E comincia un pigro cammino.
L’odore, dalla finestra, è come quel rivo.
Un po’ grasso, s’ingrossa distratto, dunque lesto s’avvia.
Scorre, il fiumicello un pò opaco, portandosi dietro i petali tardi che di Primavera, cercando nel viaggio, non trovano traccia.
Avvolge, il rigagnolo stanco, un nero solitario sassetto.
Era stato, quello, un bel dì, di lava un ardente tizzone.
L’odor di memoria mi riporta la polvere e il fumo…
Poi, si decide, il rigagnolo, infine.
Si butta in una cunetta.
Da là, varca deciso la soglia d’un oscuro tombino.
Ed è lì che sparisce.
Nelle viscere nere che s’apron di fianco alla strada è ingoiato da una bocca inquietante.
Lì c’è la porta che porta agli oscuri mondi che si spalancano sotto la piatta soglia stradale.
Mondi inesplorati, animati da vacui vapori.
Percorsi di vie d’oscena putredine.
Paesaggio di mostri, d’immonde creature.
Mondi fantastici, inferi, ctònii.
Ecco, adesso l’odore s’è fatto più acre.
Si mischia, la polvere grigia, alla luce un poco infiacchita del meriggio che diventa lunare.
Creature e misteri s’agitano nella lieve incoscienza di sogni e ricordi.
Fantasmi, spiriti, spettri, ombre incompiute.
Quel sentòre un pò aspro si disvela, pian piano, si fa più preciso.
Una casa, una foto, immagini solo di bianco e di nero.
Vagiti d’un bimbo, profumo di tiglio, segni d’un antico giardino.
Ortensie, gerani, qualche limone.
Un soffio di fresca aria di pioggia.
Un vortice molle.
Un nube sottile.
M’addormento, forse, in questo mondo leggero senza sostanza.
Ecco, il sogno m’abbraccia e s’intreccia ai ricordi.
Si prendon per mano e vanno, là, sulla strada, voltandosi indietro.
La città, di lungi, saluta un po’ indifferente, indaffarata, smemore e stanca.
E’ una piccola città di campagna, fra i colli, una vecchia città coi canuti capelli raccolti.
Le sue pietre, i fanali, quelle sue voci…
Sono inghiottito, ormai, dalla cornice del quadro.
E mentre nuoto in un mar di colore, ecco, qui c’è il ritratto d’un uomo.
Ma subito, tra gli abbracci di sogni e ricordi, si trasforma la scena.
Ora è il fermento che si muove sul palco d’un grande teatro.
Il teatro dei giorni.
Ripassano ansiosi il copione, i nuovi, in attesa di entrare lesti sul palco.
Riposano invece i più vecchi che si son ormai rilassati.
Son soddisfatti del ruolo che gli fu affidato dal pretenzioso regista ?
Chi lo sa?
Se ne stanno in silenzio, nascosti nell’ombra.
Giusto a momenti il debole fascio distratto d’un riflettore li illumina un poco.
E loro si voltan di scatto, non sanno che dire.
Mostran lo stanco volto di sempre.
Sarà il pesante trucco di scena, sarà l’età ch’è passata.
Su quei volti ci son le fatiche degli anni.
D’improvviso un tuono rimbomba.
Lontano, nubi pigre si scrollan di dosso le gocce pesanti.
Fan l’altalena prima d’intraprendere il volo.
Dondolano pigri anche i rami degli alberi.
Si cullano lente al rollio le foglie sognanti.
Se ne stanno distese su scomode panche.
Son d’irrequieto colore, fremon di brividi, attendono il sole.
Son come stanchi avventori ubriachi d’un’osteria all’aperto.
Stanno aggrappati al loro bicchiere in attesa che l’oste versi ancora una volta loro da bere, concedendogli, a credito, ancora un sorso di vita…
Poi sopraggiunge un sibilo strano.
Il suono si fa ancora più forte…
Un vento mi porta un odor familiare…
E’ del caffè.
E’ sbocciato in cucina.
L’acre sentore di polvere ch’aleggia nell’aria svanisce.
Si spalanca uno sbadiglio vorace.
S’inghiotte quell’effimero odore di pioggia.
Entra dalla finestra e s’infila nel profondo del cuore.
Fa una strada tutta speciale.
Entra dalle scure bocche del naso un poco distratte.
Compie un giretto e, poi, sicuro, si butta diritto nel mondo dei sogni.
Fa qualche passo, cerca e rovista.
Un poco a caso, ecco, si perde.
S’è infilato giù per i condotti che portano al cuore.
Come l’acqua che scorre, sul ciglio della via.
Un ruscelletto s’accumula piano, dopo uno scroscio di flaccide gocce.
E comincia un pigro cammino.
L’odore, dalla finestra, è come quel rivo.
Un po’ grasso, s’ingrossa distratto, dunque lesto s’avvia.
Scorre, il fiumicello un pò opaco, portandosi dietro i petali tardi che di Primavera, cercando nel viaggio, non trovano traccia.
Avvolge, il rigagnolo stanco, un nero solitario sassetto.
Era stato, quello, un bel dì, di lava un ardente tizzone.
L’odor di memoria mi riporta la polvere e il fumo…
Poi, si decide, il rigagnolo, infine.
Si butta in una cunetta.
Da là, varca deciso la soglia d’un oscuro tombino.
Ed è lì che sparisce.
Nelle viscere nere che s’apron di fianco alla strada è ingoiato da una bocca inquietante.
Lì c’è la porta che porta agli oscuri mondi che si spalancano sotto la piatta soglia stradale.
Mondi inesplorati, animati da vacui vapori.
Percorsi di vie d’oscena putredine.
Paesaggio di mostri, d’immonde creature.
Mondi fantastici, inferi, ctònii.
Ecco, adesso l’odore s’è fatto più acre.
Si mischia, la polvere grigia, alla luce un poco infiacchita del meriggio che diventa lunare.
Creature e misteri s’agitano nella lieve incoscienza di sogni e ricordi.
Fantasmi, spiriti, spettri, ombre incompiute.
Quel sentòre un pò aspro si disvela, pian piano, si fa più preciso.
Una casa, una foto, immagini solo di bianco e di nero.
Vagiti d’un bimbo, profumo di tiglio, segni d’un antico giardino.
Ortensie, gerani, qualche limone.
Un soffio di fresca aria di pioggia.
Un vortice molle.
Un nube sottile.
M’addormento, forse, in questo mondo leggero senza sostanza.
Ecco, il sogno m’abbraccia e s’intreccia ai ricordi.
Si prendon per mano e vanno, là, sulla strada, voltandosi indietro.
La città, di lungi, saluta un po’ indifferente, indaffarata, smemore e stanca.
E’ una piccola città di campagna, fra i colli, una vecchia città coi canuti capelli raccolti.
Le sue pietre, i fanali, quelle sue voci…
Sono inghiottito, ormai, dalla cornice del quadro.
E mentre nuoto in un mar di colore, ecco, qui c’è il ritratto d’un uomo.
Ma subito, tra gli abbracci di sogni e ricordi, si trasforma la scena.
Ora è il fermento che si muove sul palco d’un grande teatro.
Il teatro dei giorni.
Ripassano ansiosi il copione, i nuovi, in attesa di entrare lesti sul palco.
Riposano invece i più vecchi che si son ormai rilassati.
Son soddisfatti del ruolo che gli fu affidato dal pretenzioso regista ?
Chi lo sa?
Se ne stanno in silenzio, nascosti nell’ombra.
Giusto a momenti il debole fascio distratto d’un riflettore li illumina un poco.
E loro si voltan di scatto, non sanno che dire.
Mostran lo stanco volto di sempre.
Sarà il pesante trucco di scena, sarà l’età ch’è passata.
Su quei volti ci son le fatiche degli anni.
D’improvviso un tuono rimbomba.
Lontano, nubi pigre si scrollan di dosso le gocce pesanti.
Fan l’altalena prima d’intraprendere il volo.
Dondolano pigri anche i rami degli alberi.
Si cullano lente al rollio le foglie sognanti.
Se ne stanno distese su scomode panche.
Son d’irrequieto colore, fremon di brividi, attendono il sole.
Son come stanchi avventori ubriachi d’un’osteria all’aperto.
Stanno aggrappati al loro bicchiere in attesa che l’oste versi ancora una volta loro da bere, concedendogli, a credito, ancora un sorso di vita…
Poi sopraggiunge un sibilo strano.
Il suono si fa ancora più forte…
Un vento mi porta un odor familiare…
E’ del caffè.
E’ sbocciato in cucina.
L’acre sentore di polvere ch’aleggia nell’aria svanisce.
Si spalanca uno sbadiglio vorace.
S’inghiotte quell’effimero odore di pioggia.
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