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sabato 25 maggio 2013

L’ANATOMOPATOLOGO

di Pietro Perrone

 Il dottore entrò nella camera delle autopsie, candida, asettica, un pò disfatta come la carne della morta prima della morte, quando si mostrava nella sua nuda e più intima verità.
I guanti di lattice fasciavano le dita affusolate, nascondevano le grassocce mani.
Una mascherina macchiata da gocce rosse, sulla bocca, striata gialla.
Tracce di un’altra autopsia eseguita nella sala accanto.
Più piccola.
Più accogliente, la saletta.
“Strano pensiero, quest’accoglienza”pensò il dottore.
Strano pensare all’accoglienza per dei cadaveri da dissezionare in mille pezzi.
Pelle multicolore.
Muscoli
Ossa color senape o ocra, opachi e rigidi.
Accoglienza.
Proprio no.
Scacciò il pensiero e si mise all’opera.
Ogni energia era necessaria, adesso.
Non si poteva lasciare nulla al caso.
S’avvicinò al cadavere e scoprì il corpo.
Ormai era gelato.
Duro.
Immobile.
Un leggero tremito scosse il dottore.
Il nome sul cartellino attaccato al camice del dottore, Armando Ciampa, era un dettaglio inutile.
Anche il nome sul cartellino legato al polso del corpo morto.
Dettagli insignificanti.
Il bisturi intaccò la pelle della donna.
Sotto al seno.
Il disegno rettilineo scese fino al ventre.
In basso.
Sotto l’inguine.
Con attenzione con la punta della lama sollevò il sottile lembo di cartone.
I corpo era come legno, ormai.
Stasera si gioca col destino”, pensò il Ciampa, intento al suo lavoro.
Un terribile lavoro, che metteva a dura prova la sua resistenza.
Ogni volta.
Davanti ad ogni corpo, ad ogni cadavere, ad ogni carogna.
Come in uno schema d’anatomia applicata, ogni giorno, sulla sua fronte, si apriva una ferita sanguinate.
Lui, il Ciampa, il primario anatomopatologo dell’Ospedale Fatebenefratelli del Cuore immacolato di chissà quale Madonna.
La stessa ferita.
Da trentacinque anni.
Sempre identica.
Da quando aveva cominciato quel mestiere di merda.
I pensieri del Ciampa s’erano fatti frenetici.
Come i suoi gesti.
Pur sempre precisi e misurati.
Millimetrici.
I gesti d’un chirurgo.
Gesti ormai isterici, però.
Sintomatici segni di una crisi nevrastenica.
I pensieri sopraffacevano i suoi gesti.
Ogni volta.
Scartare la confezione colorata del corpo umano.
E cercare dentro.
Cominciare e ricominciare ogni volta.
Una ricerca folle.
Non poteva più trattenersi…
Una domanda, era la sua ferita sanguinante.
La risposta, la sua ricerca.
La follia.
Il cielo gli aveva assegnato una missione.
Lo sapeva da quando s’era iscritto alla facoltà di medicina.
Diventare medico.
Chirurgo.
Anatomopatologo.
Autopsie.
Dissezioni.
Cadaveri.
Corpi a pezzi e pezzi di carne.
Questa era la sua missione.
Doveva trovare la risposta.
Suturare la sua ferita sanguinante.
Doveva prendere i pezzi di quella macchina perfetta.
Affiancarli uno accanto all’altro.
Ordinarli con precisione.
Allinearli sulla mensola di marmo grigio.
E osservarli.
Studiarli.
Scrutarli.
Interrogarli.
Strappargli la verità.
Il segreto.
Prima o poi.
Una volta o l’altra.
Svelare la realtà nascosta in quegli organi mollicci e appiccicosi, nascosti, al sicuro, ben stipati nella confezione colorata d’ogni uomo.
Aveva provato.
E riprovato.
E ogni volta ritentava.
Ogni volta, con ognuno di quei nomi finiti in un certificato necroscopico.
La verità.
Solo la verità può salvare il Ciampa dalla pazzia.
Lucida follia che si traveste di precisione professionale.
Cercava la verità.
Non doveva esser difficile.
Il Ciampa lo sapeva.
Lo sapeva bene.
Trovare il segreto per catalogare le razze umane non in base al colore della pelle.
Individuare il segno impresso nella materia stessa degli organi interni.
Una certezza scientifica.
Non una banale differenza di colore.
Banale indizio, quello.
La pelle bianca, gialla, rossa.
Troppo banale in questo modo.
Una differenza più profonda, la differenza vera.
La verità di Dio scritta il giorno della creazione.
La gerarchia degli uomini.
La graduatoria degli uomini sulla Terra...
Sta scritta qua dentro.
Deve stare scritta qua”.

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