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sabato 31 marzo 2012

Nessuno nasce una volta sola #Anne Michaels #In fuga #olocausto #shoah #ebrei #Biskupin #bambino #citazione

Il tempo è una guida cieca.
Figlio della palude, nacqui dalle strade fangose della città sommersa. Per più di mille anni, soltanto i pesci avevano passeggiato sui marciapiedi di legno di Biskupin. Le case, costruite rivolte verso il sole, furono allagate dalla limacciosa oscurità del fiume Gasawaka. I giardini fiorirono magnifici nel silenzio subacqueo; ninfee, giunchi, stramonio.
Nessuno nasce una volta sola. Chi è fortunato, vedrà di nuovo la luce tra le braccia di qualcuno; oppure, se sfortunato, si sveglierà quando la lunga coda del terrore sfiorerà l'interno del suo cranio.
Io guizzai fuori da quell'acquitrino come l'Uomo di Tollund, l'Uomo di Grauballe, come il ragazzo che sradicarono in mezzo a Franz Josef Strasse mentre riparavano il fondo stradale, seicento conchiglie come perle intorno al collo, sulla testa un elmetto di fango. Grondava dei succhi color prugna della palude fradicia di torba. La placenta della terra.



Vidi un uomo in ginocchio sul terreno saturo d'acido. Stava scavando. La mia comparsa improvvisa lo spaventò. Per un attimo pensò che fossi una delle anime perdute di Biskupin, o forse il ragazzo del racconto, quello che scava una buca così profonda da venir fuori dall'altra parte del mondo.
Biskupin era stata dissotterrata con cura per quasi un decennio. Gli archeologi continuavano a estrarre con delicatezza resti dell'Età della Pietra o del Ferro da morbide sacche di torba bruna. La passerella di quercia massiccia che una volta collegava Biskupin alla terraferma era stata ricostruita, così come le case di legno col loro ingegnoso sistema di incastri che rendeva inutili i chiodi, e così come i bastioni e le porte della città con le loro alte torri. Le strade di legno, affollate venticinque secoli prima di mercanti e artigiani, le stavano tirando su dal fondo paludoso del lago.

Baskupin (Polonia), Ricostruzione dell’antico insediamento slavo (700 a.C. – 150 d.C. ca.)


Quando i soldati arrivarono esaminarono le ciotole di argilla perfettamente conservate; stimarono il valore delle collane di vetro e dei bracciali di bronzo e ambra prima di gettarli sul pavimento e farli a pezzi. A passi lieti invasero quella splendida città di tronchi dove una volta avevano abitato cento famiglie. Poi i soldati seppellirono Biskupin nella sabbia.
Mia sorella crescendo si era fatta molto più grande del nascondiglio. Bella aveva quindici anni e perfino io dovevo ammettere che era incantevole, con sopracciglia folte e splendidi capelli che erano come uno sciroppo nero, spessi, magnifici, un muscolo lungo la schiena. "Un'opera d'arte", diceva nostra madre, e Bella si sedeva e lei glieli spazzolava. Io ero ancora abbastanza piccolo da scomparire dietro la carta da parati nell'armadio, e incastravo la testa mettendola di sbieco tra l'intonaco che mi soffocava e le travi che sfregavo con le ciglia.
Erano bastati pochi minuti dentro al muro, perché mi convincessi che i morti perdevano ogni senso tranne l'udito.




La porta sfondata. Il legno divelto dai cardini, che cede come ghiaccio sotto le urla. Rumori mai sentiti prima, strappati alla gola di mio padre. Poi silenzio. Mia madre era intenta a riattaccarmi un bottone sulla camicia. Sentii il bordo del piattino disegnare cerchi sul pavimento e poi fermarsi. Sentii la pioggerella di bottoni, come dentini bianchi.
L'oscurità mi riempì, si diffuse da dietro la testa fino agli occhi come se mi avessero perforato il cervello. Si diffuse dallo stomaco alle gambe. Presi a deglutire e seguitai, inghiottendola tutta. Il muro si riempì di fumo. Uscii a fatica, con gli occhi sbarrati, mentre l'aria si incendiava.
Volevo andare dai miei genitori, toccarli. Ma non potevo, a meno di calpestare il loro sangue.
L'anima abbandona il corpo all'istante, come se non vedesse l'ora di liberarsene: il volto di mia madre non era il suo. Mio padre era caduto bocconi. Due forme in quel mucchio di carne, le sue mani.


Isbran, Madre e figlia


Correvo e cadevo, correvo e cadevo. Poi il fiume: così freddo che sembrava tagliente.
Il fiume era parte della stessa oscurità che era dentro di me; soltanto la sottile membrana della mia pelle mi teneva a galla.


(Anne Michaels, In fuga, Firenze Giunti, 1997,







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