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lunedì 12 marzo 2012

Eh sì, sono un tipo squallido e competitivo #Mordecai Richter #La versione di Barney #citazione

Tutta colpa di Terry. lui il mio sassolino nella scarpa. E se proprio devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata. Fra l'altro mettendomi a scribacchiare un libro alla mia veneranda età violo un giuramento solenne, ma non posso non farlo. Non posso lasciare senza risposta le volgari insinuazioni che nella sua imminente autobiografia Terry McIver avanza su di me, le mie tre mogli (o come dice lui la troika di Barney Panofsky), la natura della mia amicizia con Boogie e, ovviamente, lo scandalo che mi porterò fin nella tomba. Il tempo, le febbri, questo il titolo della messa cantata di Terry, è in uscita per i tipi del Gruppo (chiedo scusa, il gruppo, si scrive così), una piccola casa editrice di Toronto che gode di lauti sussidi governativi e pubblica (su carta riciclata, potete scommetterci la testa) anche un mensile, "la buona terra".


http://www.nannimagazine.it 


Terry McIver e io, due montrealesi fatti e finiti, eravamo insieme a Parigi nei primi anni Cinquanta. Se proprio devo dirlo, Terry era a malapena tollerato dalla mia ghenga, un'accozzaglia di giovani scrittori arrapati, senza un soldo e subissati di lettere di rifiuto, eppure palesemente convinti che tutto fosse a portata di mano - che fama, successo e bambole in deliquio fossero lì, dietro l'angolo, proprio come il leggendario omino Wrigley della mia infanzia. Che si diceva fermasse i bambini per strada e regalasse un bel dollarone a tutti quelli trovati con una cartina di chewing-gum Wrigley in tasca. Io quel munifico omino non l'ho mai visto neanche in fotografia, ma parecchi della ghenga, dài e dài, famosi lo sono diventati: quel matto di Leo Bishinsky, ad esempio, e Cedric Richardson - anche se con un nome d'arte -, e naturalmente Clara. Clara, che da morta è diventata un santino femminista, una martire immolata sull'altare del più bieco sciovinismo maschile. Il mio, parrebbe. Io ero un'anomalia. No, un'anomia. Un imprenditore nato. Non avevo vinto borse alla McGill, come Terry, e non ero stato a Harvard o alla Columbia, come molti di loro. Era già un miracolo che avessi finito il liceo, visto che avevo passato molto più tempo ai tavoli di carambola della Royal Billiards Academy con Duddy Kravitz che in classe. Non sapevo scrivere, né dipingere. Del resto non avevo pretese artistiche, a meno di non considerare tale il mio unico vero sogno, diventare un ballerino di tip tap. Ma sì, uno di quelli che salutavano la brava gente in piccionaia toccandosi la paglietta, quindi uscivano di scena saltellando per lasciare il posto a Peaches, Ann Corio, Lili St. Cyr o qualche altra ballerina esotica, ognuna delle quali portava il numero fino alla sua tambureggiante acme: la visione, ancorché fuggevole, di una tetta nuda.


http://pattypoopi.blogg.se 


Tutto questo a Montreal, molti anni prima che le lap-dancers diventassero il nostro pane quotidiano. Leggevo dalla mattina alla sera, questo sì, ma prendereste una bella toppa se lo consideraste un segno di spessore umano. O peggio, di sensibilità. Con un salamelecco postumo a Clara devo qui riconoscere, a denti stretti, tutta la mia bassezza. Eh sì, sono un tipo squallido e competitivo. A far scoccare la scintilla non erano né La
morte di Ivan Iliªc né L'agente segreto, ma una rivista, la cara, vecchia "Liberty", che in calce a ogni articolo riportava il tempo di lettura previsto. Avevano calcolato cinque minuti e trentacinque secondi? Benissimo, io mi toglievo dal polso l'orologio di Topolino, lo piazzavo sulla cerata a quadretti del tavolo di cucina e divoravo il pezzo in questione, che so, in quattro minuti e tre, sentendomi un vero intellettuale. Da "Liberty" passai a un'edizione economica del Mister Moto di John Marquand, che all'epoca vendevano per venticinque centesimi da Jack and Moe, il barbiere all'angolo fra Park Avenue e Laurier, proprio nel cuore del vecchio quartiere ebraico e operaio di Montreal in cui sono cresciuto. Un quartiere che ha eletto l'unico deputato comunista della nostra storia (Fred Rose), oltre a sfornare un paio di pugili dilettanti passabili (Louis Alter, Maxie Berger), la solita quota di medici e dentisti, un celeberrimo biscazziere d'alto bordo, un numero superiore alla domanda di canaglie laureate in legge, un'infinità di insegnanti, parecchi shmates miliardari, alcuni rabbini e almeno un presunto omicida.


http://cinema-tv.corriere.it 


Che sarei io. Ricordo i mucchi di neve alti un metro e mezzo, i gradini di casa da spalare a non so più quanti gradi sottozero e, non essendo ancora stati inventati i pneumatici da neve, lo sferragliare delle catene montate su macchine e camion. E le lenzuola dure come stoccafissi stese in cortile. In camera mia, dove il termosifone rantolava per tutta la notte, scoprivo Hemingway, Fitzgerald, Joyce, Gertie Stein e la sua amichetta, ma anche il nostro Morley Callaghan. Più crescevo, più invidiavo i loro movimentati soggiorni all'estero, e forse fu anche per questo che nel 1950 presi una decisione fatidica. Già, il 1950. Fu l'ultimo anno che Bill Durnan, cinque volte vincitore del Vezina Trophy come miglior portiere della National Hockey League, difese la rete dei miei adorati Montreal Canadiens. Nel 1950, nos glorieux vantavano già un formidabile pacchetto difensivo, imperniato sul giovane Doug Harvey. La linea d'attacco era la stessa degli anni passati, almeno per due terzi: il posto di Hector Blake detto "Toe", che si era ritirato nel 1948, era stato preso da Floyd "Busher" Curry, che aveva al fianco Maurice "Rocket" Richard e Elmer Lach. I Canadiens finirono il campionato secondi dietro l'infame Detroit, e a loro perenne disdoro vennero battuti quattro a uno dai New York Rangers nella semifinale della Stanley Cup. Ma se non altro The Rocket fece un'annata di tutto rispetto, arrivando secondo in classifica marcatori con quarantatré gol e ventidue assist. (2) Ma che dicevamo? Ah sì, nel 1950, a ventidue anni, lasciai la ballerina di fila con cui vivevo in uno scantinato di Tupper Street. Quindi ritirai il mio misero gruzzolo dalla City and District Savings Bank - tutti soldini messi insieme grazie al lavoro di cameriere al Normandy Roof che mi aveva procurato mio padre, l'ispettore Izzy Panofsky - e prenotai una cuccetta sulla Queen Elizabeth, in partenza da New York. (3) Nella mia ingenuità volevo partire alla ricerca di coloro che ritenevo i puri di cuore, cioè gli artisti, i "misconosciuti legislatori del mondo": e suggerne la linfa. Erano i giorni felici in cui con le studentesse si poteva ancora pomiciare impunemente. Uno, due, cha-chacha. "If I knew you were coming, I'd've baked a cake". Nelle notti di luna, sul ponte, le ragazze per bene portavano sottogonna, cintura alta, mocassini bicolori e catenina d'oro alla caviglia, e non c'era il rischio che quarant'anni dopo, quando una psicoanalista affetta da irsutismo avesse riportato alla lucequello stupro a due allegramente rimosso, sporgessero denuncia per molestie sessuali.



http://gb-designstudio.blogspot.com 


Comunque per me il destino non aveva in serbo fama, ma ricchezza. Una ricchezza, va detto, di umili origini. Il mio primo mentore fu infatti Yossel Pinsky, un sopravvissuto di Auschwitz che ci cambiava i dollari a mercato nero dietro la tendina di un fotografo di rue des Rosiers.


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(Mordecai Richler, La versione di Barney, Milano, Adelphi, 2001)

1 commento:

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