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lunedì 12 marzo 2012

Nessuno ha mai voglia di recarsi nel Vanuatu #Amélie Nothomb #Geografia della fame #Oceania #Vanuatu #citazione



L'arcipelago dell'Oceania anticamente detto delle Nuove Ebridi, che oggi risponde al nome di Vanuatu, non ha mai conosciuto la fame. Al largo della Nuova Caledonia e delle Isole Fiji, il Vanuatu ha beneficiato per millenni di due atout, rari entrambi ma la cui coesistenza è rarissima: l'abbondanza e l'isolamento. Quest'ultima virtù, trattandosi di un arcipelago, certo ha un po' del pleonasmo. Isole molto frequentate però se ne sono viste, mentre nessun arcipelago è stato così poco visitato quanto quello delle Nuove Ebridi.
È una strana verità storica: nessuno ha mai avuto voglia di recarsi nel Vanuatu. Perfino una diseredata della geografia, come l'isola della Desolazione, ha i suoi estimatori: il suo stato di totale abbandono ha qualcosa di attraente. Se ci tieni a sottolineare la tua solitudine o a recitare la parte del poeta maledetto, farai un figurone dicendo: "Sono appena tornato dall'isola della Desolazione." Se torni dalle Marchesi, susciterai una riflessione ecologica, se rientri dalla Polinesia, evocherai Gauguin, ecc. Tornare dal Vanuatu non provoca alcuna reazione.





Ed è tanto più bizzarro dal momento che le Nuove Ebridi sono isole affascinanti. Possiedono quell'attrattiva propria di tutta l'Oceania e che riesce a farti sognare: palme, spiagge di sabbia fine, noci di cocco, fiori, vita facile, ecc. Si potrebbe parodiare Vialatte e dire che sono isole estremamente insulari: perché allora la magia dell'insularità, che funziona per il più piccolo scoglio emerso, nulla può quando si tratta di Vate e le sue sorelle?
Sembra quasi che il Vanuatu non interessi a nessuno.
Questo disinteresse mi affascina.
Ho sotto gli occhi la carta dell'Oceania nel vecchio Larousse del 1975. All'epoca, la Repubblica del Vanuatu non esisteva ancora: le Nuove Ebridi erano un condominio franco-britannico.
La carta geografica parla chiaro. L'Oceania è separata da quei fenomeni assurdi e meravigliosi che sono le frontiere marittime: un universo complicato e rigoroso come il cubismo. Anche l'insiemistica vi gioca la sua parte: così, le Wallis hanno un'intersezione con le Samoa, che a loro volta sembrano appartenere alle Cook — insomma, una ragnatela incomprensibile. Si scoprono complessità politiche, vedi crisi incandescenti: una contestazione oppone gli Stati Uniti e il Regno Unito a proposito delle isole della Ligne, poco note anche con il nome favoloso di Sporadi Equatoriali. Le Caroline, che hanno trovato il sistema per appartenere contemporaneamente all'Australia, alla Nuova Zelanda e alla Gran Bretagna, spingono la loro perversione fino ad essere però sotto tutela inglese. Ecc.
Va detto che l'Oceania è l'eccentrica dell'atlante. In mezzo a tante stramberie, il Vanuatu colpisce per la sua atonia. Che è assolutamente priva di giustificazioni: aver subito la dominazione congiunta di due paesi per tradizione così nemici come Francia e Gran Bretagna e non essere riuscito a suscitare neanche il più piccolo litigio, è proprio cattiva volontà. È alquanto penoso aver conquistato la propria indipendenza senza che nessuno la contesti - e senza che nessuno ne parli!
Da allora, il Vanuatu è ferito. Non so se le Nuove Ebridi lo fossero già. Il Vanuatu sì, è incontrovertibile. Ne ho le prove. I casi della vita hanno fatto in modo che ricevessi un catalogo d'arte oceanica, con una dedica a mio nome (perché?) da parte dell'autore, cittadino del Vanuatu. Questo signore, il cui patronimico è così complicato che non riesco a trascriverlo, stando alle sue poche righe manoscritte, ce l'ha con me:


Ad Amelie Nothomb
Sì, lo so, lei se ne infischia.
Firma
11/7/2003.

Sgranai gli occhi leggendo quelle parole. Perché mai quell'individuo decretava, senza avermi mai incontrata, che il suo catalogo avrebbe suscitato in me una tale grossolana indifferenza?
L'ignara assoluta, che sarei io, sfogliò dunque il libro illustrato. E noto che non so nulla di quelle cose: la mia opinione è la più insignificante dell'universo. Ma non per questo non ne ho una.



(Amélie Nothomb, Geografia della fame, ed. Voland, 2005


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