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Ma questo capitalismo è morto
di Giorgio Ruffolo e
Stefano Sylos Labini
Il
sistema basato sulla finanza ha dimostrato di essere insostenibile. E' la fine
dell'epoca iniziata con Reagan e Thatcher, che ha creato un enorme divario tra
profitti e salari, costringendo tutti a contrarre debiti da far pagare ai
posteri. E ora i posteri siamo noi
(26 marzo 2012)
Si riparla molto, in giro, di capitalismo. Per quanto strano possa sembrare Marx non
usò mai questo nome. Di capitale sì, parlò molto. E la madre se ne doleva: ah,
se Karl avesse parlato un po' meno di capitale e se ne fosse messo un po' da
parte!
Ne parlano i grandi organi dell'informazione capitalistica come "the Economist" e il "Financial Times", che gli ha dedicato una serie di articoli. Per chiedersi se la grande crisi economica che ancora ci sovrasta non lo stia mettendo in pericolo.
Continuiamo a credere che il capitalismo ha i secoli contati. Per mancanza di alternative. La più possente, quella comunista, è disastrosamente fallita. Ma crediamo anche che la sua fase storica più recente, del capitalismo finanziario, abbia dimostrato la sua insostenibilità.
Siamo ben consapevoli del ruolo prezioso della finanza non solo nel convogliare i risparmi verso gli investimenti, ma anche nel facilitare il passaggio da un ciclo di investimenti all'altro, dando luogo a una fase di "accantonamenti" finanziari. Ma si tratta in questo caso di una stagione transitoria (Braudel la chiama l'autunno del capitalismo). Oggi quella stagione è diventata permanente e dominante. E l'antica accusa teologica che non si debba produrre moneta con moneta (ancheSchumpeter la riteneva fondata) riacquista credito.
Il predominio attuale della finanza ha una causa e una data determinate: la liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitale promossa dai due dioscuri del capitalismo finanziario,Thatcher e Reagan, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Questa ha rovesciato i rapporti di forza tra capitale e lavoro, determinando un enorme divario tra profitti e salari che si sarebbe tradotto in una crisi di sottoconsumo se non si fosse ricorsi a un gigantesco indebitamento. Anziché sfruttare il lavoro, come il vecchio capitalismo, quello nuovo sfrutta i posteri, impegnandone i redditi. Non è corretto? Ma, Woody Allen, che hanno fatto i posteri per noi?
Non solo: quell'indebitamento, promosso dalle banche e da nuovi aggressivi intermediari finanziari è stato continuamente rinnovato, trasformando il capitalismo, come è stato detto, in un regime in cui i debiti non si pagano mai (ricordate Totò? Il cameriere gli dice: ieri mi avete promesso di pagarmi domani. E te lo confermo: ti pagherò domani. Ma domani è oggi. Non scherziamo giovanotto: oggi è oggi e domani è domani).
Non solo, il credito, ingigantendosi, prolifera mutando natura: non più un rapporto personale, ma una compravendita. Si monetizza in titoli. E i titoli proliferano. Generano titoli "derivati" da titoli, in una catena di Sant'Antonio che inonda l'economia di liquidità.
Proprio alla vigilia dell'esplosione della crisi, in America, la liquidità, espressa in svariate forme di moneta, raggiungeva un livello dodici volte superiore a quello del prodotto reale.
Dice: ma come mai questo mostruoso divario non si traduce in inflazione?
Il fatto è che l'espansione della liquidità ha effetti diversi nel settore dei beni reali e in quello delle attività finanziarie. In linea generale, un aumento del prezzo dei beni reali ne frena la domanda mentre un aumento del prezzo dei titoli l'aumenta a causa dei guadagni speculativi che se ne traggono. In linea di fatto, poi, non vi è stato un aumento della domanda di beni reali così rilevante, anche a causa del ristagno dei salari, mentre c'è stato un eccesso di capacità produttiva a causa della comparsa di nuove grandi aree produttive come la Cina, l'India e il Brasile. Ciò ha provocato una contrazione dei rendimenti del settore produttivo rispetto a quelli del settore finanziario e quindi un massiccio spostamento degli investimenti dal primo al secondo.
Non è che questo spostamento sia privo di conseguenze negative. Le ondate successive di debiti che si accavallano le une alle altre finiscono prima o poi per infrangersi sulla riva: ed è crisi, generale e violenta come quella che ci ha colpito. Nella quale, come diceva Galbraith, i più sciocchi perdono il loro denaro ma anche i più incolpevoli il loro lavoro.
Ne parlano i grandi organi dell'informazione capitalistica come "the Economist" e il "Financial Times", che gli ha dedicato una serie di articoli. Per chiedersi se la grande crisi economica che ancora ci sovrasta non lo stia mettendo in pericolo.
Continuiamo a credere che il capitalismo ha i secoli contati. Per mancanza di alternative. La più possente, quella comunista, è disastrosamente fallita. Ma crediamo anche che la sua fase storica più recente, del capitalismo finanziario, abbia dimostrato la sua insostenibilità.
Siamo ben consapevoli del ruolo prezioso della finanza non solo nel convogliare i risparmi verso gli investimenti, ma anche nel facilitare il passaggio da un ciclo di investimenti all'altro, dando luogo a una fase di "accantonamenti" finanziari. Ma si tratta in questo caso di una stagione transitoria (Braudel la chiama l'autunno del capitalismo). Oggi quella stagione è diventata permanente e dominante. E l'antica accusa teologica che non si debba produrre moneta con moneta (ancheSchumpeter la riteneva fondata) riacquista credito.
Il predominio attuale della finanza ha una causa e una data determinate: la liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitale promossa dai due dioscuri del capitalismo finanziario,Thatcher e Reagan, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Questa ha rovesciato i rapporti di forza tra capitale e lavoro, determinando un enorme divario tra profitti e salari che si sarebbe tradotto in una crisi di sottoconsumo se non si fosse ricorsi a un gigantesco indebitamento. Anziché sfruttare il lavoro, come il vecchio capitalismo, quello nuovo sfrutta i posteri, impegnandone i redditi. Non è corretto? Ma, Woody Allen, che hanno fatto i posteri per noi?
Non solo: quell'indebitamento, promosso dalle banche e da nuovi aggressivi intermediari finanziari è stato continuamente rinnovato, trasformando il capitalismo, come è stato detto, in un regime in cui i debiti non si pagano mai (ricordate Totò? Il cameriere gli dice: ieri mi avete promesso di pagarmi domani. E te lo confermo: ti pagherò domani. Ma domani è oggi. Non scherziamo giovanotto: oggi è oggi e domani è domani).
Non solo, il credito, ingigantendosi, prolifera mutando natura: non più un rapporto personale, ma una compravendita. Si monetizza in titoli. E i titoli proliferano. Generano titoli "derivati" da titoli, in una catena di Sant'Antonio che inonda l'economia di liquidità.
Proprio alla vigilia dell'esplosione della crisi, in America, la liquidità, espressa in svariate forme di moneta, raggiungeva un livello dodici volte superiore a quello del prodotto reale.
Dice: ma come mai questo mostruoso divario non si traduce in inflazione?
Il fatto è che l'espansione della liquidità ha effetti diversi nel settore dei beni reali e in quello delle attività finanziarie. In linea generale, un aumento del prezzo dei beni reali ne frena la domanda mentre un aumento del prezzo dei titoli l'aumenta a causa dei guadagni speculativi che se ne traggono. In linea di fatto, poi, non vi è stato un aumento della domanda di beni reali così rilevante, anche a causa del ristagno dei salari, mentre c'è stato un eccesso di capacità produttiva a causa della comparsa di nuove grandi aree produttive come la Cina, l'India e il Brasile. Ciò ha provocato una contrazione dei rendimenti del settore produttivo rispetto a quelli del settore finanziario e quindi un massiccio spostamento degli investimenti dal primo al secondo.
Non è che questo spostamento sia privo di conseguenze negative. Le ondate successive di debiti che si accavallano le une alle altre finiscono prima o poi per infrangersi sulla riva: ed è crisi, generale e violenta come quella che ci ha colpito. Nella quale, come diceva Galbraith, i più sciocchi perdono il loro denaro ma anche i più incolpevoli il loro lavoro.
Dalla Rassegna Stampa del 29.3.2012, curata da Manlio Lo Presti
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