E così dicendo mi trascinò sulla cima di una montagna. Chinai lo sguardo su un versante e contemplai a lungo e per un vasto spazio, attraverso la nebbia, una cosa unica.
Immagina, lettore, la condensazione dei secoli in parata, tutte le razze, tutte le passioni, il tumulto degli imperi, la guerra degli appetiti e degli odii, la distruzione reciproca degli esseri e delle cose. Tale fu lo spettacolo, l'amaro e curioso spettacolo. La storia degli uomini e della terra aveva assunto così un'intensità che non potevano conferirgli né la scienza né l'immaginazione; perché la scienza è troppo lenta e l'immaginazione troppo vaga, e quello che vidi era la viva condensazione di tutti i tempi. Per descriverla bisognerebbe fissare un lampo. I secoli sfilavano in un turbinio, e ciononostante, dal momento che quelli del delirio sono altri occhi, vedevo tutto ciò che mi passava davanti — croce e delizia — da quella cosa chiamata gloria a quell'altra detta miseria, e l'amore che moltiplica la miseria, e la miseria che aggrava la debolezza.
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E venne la bramosia che divora, la collera che infiamma, l'invidia bavosa, e la zappa e la penna, umide di sudore, e l'ambizione, la fame, la vanità, la malinconia, la ricchezza, l'amore, e tutti scuotevano l'uomo come un campanaccio, fino ridurlo uno straccio. Erano le varie forme di un male, che morde ora le viscere, ora il pensiero, e portava eternamente in giro le sue vesti di arlecchino intorno alla specie umana. Il dolore cessava, a momenti, ma cedeva il posto all'indifferenza, che è un sonno senza sogni, o al piacere, che è un dolore bastardo. E in questo l'uomo, flagellato e ribelle, correva davanti alla fatalità delle cose, dietro una figura nebulosa e schiva, fatta di pezzetti di stoffa, uno impalpabile, l'altro improbabile, l'altro ancora invisibile, tutti appena imbastiti con punti provvisori, cuciti dall'ago dell'immaginazione; e questa figura — niente meno che la chimera della felicità — gli fuggiva continuamente, oppure si lasciava afferrare per le vesti, e l'uomo le cingeva il petto ed intanto ella rideva e lo scherniva, e poi spariva, come un'illusione.
Contemplando tali calamità non trattenni un grido di angoscia, che la Natura, o Pandora, ascoltò senza protestare né ridere; e non so per quale legge di sconvolgimento cerebrale, fui io a mettermi a ridere, di un riso eccessivo e idiota.
Renato Guttuso: La Vucciria |
«Hai ragione» dissi io, «la cosa è divertente e vale la pena; forse monotona, ma vale la pena. Quando Giobbe malediceva il giorno in cui era stato concepito, era perché avrebbe voluto avere la possibilità di vedere lo spettacolo da quassù. Andiamo Pandora, apri il ventre, e digeriscimi; lo spettacolo mi diverte, ma digeriscimi».
Per tutta risposta mi obbligò a guardare in basso i secoli che continuavano a passare, veloci e turbolenti, generazioni che scavalcano generazioni, alcune tristi come gli Ebrei in cattività, altre allegre come i dissoluti di Commodo, e tutte puntuali nella loro sepoltura. Volli fuggire, ma una forza misteriosa mi tratteneva per i piedi.
William Blake: Satana infligge la peste a Giobbe |
Mi dissi dunque: «Bene, i secoli passano, arriverà anche il mio, fino all'ultimo di tutti, che mi darà la chiave dell'eternità». E fissai lo sguardo, continuando a vedere le ere passare, andare e venire, ormai tranquillo, risoluto, non so se persino allegro. Forse allegro. Ogni secolo recava la propria porzione di luci ed ombre, di apatia e combattività, di verità e di errore, e la sua corte di sistemi, di nuove idee, di nuove illusioni; in ciascuna di esse un'esplosione di verde a primavera, che poi ingialliva per rifiorire successivamente.
Federico Severino: Angelus Novus |
E così, con il passo cadenzato dalla regolarità del calendario, si facevano la storia e la civiltà, e l'uomo, nudo e disarmato, si armava e si vestiva, costruiva il tugurio e il palazzo, il rude villaggio e Tebe dalle cento porte, creava la scienza, che scruta, e l'arte che eleva, si faceva orefice, meccanico, filosofo, correva sulla superficie del globo e scendeva nel ventre della terra, saliva alle sfere delle nubi, collaborando così all'opera di mistero con cui occupava la necessità della vita e la malinconia dell'abbandono. Il mio sguardo, nauseato e distratto, vide infine arrivare il secolo presente, e al di là di quello il futuro. Procedeva agile, destro, vibrante, pieno di sé, prolisso e ridondante, audace e presuntuoso, ma alla fine miserabile come i primi, e passò come passarono tutti gli altri e i seguenti, con la stessa rapidità e monotonia. Mi feci più attento, concentrai lo sguardo: avrei infine visto l'ultimo! Ma la velocità di marcia era tale che tutto sfuggiva alla comprensione; a quel punto un secolo era un lampo. Forse per questo altri oggetti entrarono a far parte della visione, modificandosi; alcuni si facevano più grandi, altri più piccoli, altri si fondevano con l'ambiente. La nebbia coprì tutto, meno l'ippopotamo che mi aveva portato là, e che a sua volta prese a rimpicciolirsi, rimpicciolirsi, rimpicciolirsi fino ad assumere le dimensioni di un gatto. Lo guardai bene: era il mio gatto Sultano, che giocherellava sulla porta della mia camera con una palla di carta...
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(Joaquim Maria Machado de Assis, Memorie dell'aldilà, Firenze, Barbès, 2010, pp. 35 ss.)
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