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venerdì 16 marzo 2012

Cos'era il suolo dell'urbe se non sterco e pattume? #Luigi De Pascalis #Rosso Velabro #citazione


http://www.lucatarlazzi.com 

I tre carri falcati gli erano già quasi addosso. Non c'era tempo né spazio per evitarli. Attaccò d'istinto, scagliando lo scudo fra le zampe dei due cavalli più vicini che rovinarono in terra assieme al carro. L' essedarius rimase schiacciato dalle ruote. Un grido di stupito trionfo si levò dalla folla, mentre il secondo attaccante tirava disperatamente le briglie per costringere le proprie bestie a evitare l'ostacolo improvviso. Ci riuscì, ma andò a incastrarsi fra i resti del primo carro e il muro che delimitava l'arena. Era in trappola. Morì con la daga dell'avversario fra le scapole, afflosciandosi al suolo come un otre bucato.
Era stato troppo facile.
Il campione cominciò a chiedersi quale colpo basso avesse in serbo Giunio Bruto. Corse a recuperare lo scudo e si preparò all'ultimo attacco. L'auriga del terzo carro era un gigante dall'aria sinistra alla guida di due robusti stalloni neri. A mo' di mantello indossava una pelle d'orso. Aveva il capo celato da uno strano elmo la cui visiera arrivava alla base della gola. Il corpo era protetto da una cotta a scaglie di ferro, gambali e bracciali erano di bronzo dorato. Cinque giavellotti e una spada completavano il suo insolito armamento.
Finalmente un avversario degno di Armodio, fu il pensiero di tutti.
Una folata gelida gonfiò come nubi temporalesche i teli di copertura dell'arena e i cordami che li sostenevano emisero uno stridulo lamento. Il gladiatore ebbe la sensazione che l'avversario gli fosse familiare. Forse era per il suo modo di tenere le redini, forse per la maniera in cui il capo e la schiena costituivano un tutt'uno. Lo studiò con maggiore attenzione, i nervi tesi e gli occhi ridotti a fessure, e notò che rispondeva a ogni suo movimento con impercettibili aggiustamenti del corpo e delle braccia e che quelle piccole variazioni di tensione nelle redini erano sufficienti a che i cavalli si adeguassero ai suoi spostamenti. Insomma era come se auriga, carro e tiro fossero un'unica, pericolosa macchina da guerra.
Sarebbe stato uno scontro difficile...
Attraverso le fenditure dell'elmo Armodio volse gli occhi verso il cerchio azzurro che campeggiava dall'apertura al centro del sistema di teli. Fra poco il sole vi si sarebbe affacciato disegnando una pedana sfavillante al centro dell'arena. Indietreggiò in quella direzione per avere il fascio di luce alle spalle.

Terracotta campana con scena di naufragium

Dal moenianun summum al baldacchino imperiale gli sguardi di tutti erano fissi su di lui, pronti a gustarne ogni gesto. L'unico testimone interessato ad altri aspetti del combattimento sedeva fra gli spettatori del podium. Era l' aedilis Caio Celso, un ex soldato legato al pensiero di Seneca e al quieto scorrere della vita più che ai sanguinosi ludi nell'arena.
Rispettava tuttavia la tradizione dei giochi. Essi simboleggiavano la lotta dell'intelligenza contro la forza, della luce contro l'ombra, dell'ordine romano contro il caos barbarico. Inoltre il modo di combattere di Armodio gli ricordava l'azione implacabile e rapida del Fato. Insomma la sua spietata e sbrigativa efficienza l'interessava quasi quanto il dispiegarsi sul mondo del volere divino. Ma ora percepiva l'incertezza del gladiatore e se ne chiedeva il perché.
Un'altra folata di vento gonfiò i teli di copertura e sollevò un nugolo di polvere è sabbia. I cavalli s'impennarono, l' essedarius tirò bruscamente le redini. Per un attimo la pelle d'orso che gli faceva da mantello si gonfiò, assumendo la bizzarra forma di due ali. Fu un istante brevissimo, poi tutto tornò com'era, compreso il silenzio. Ma quel momento bastò perché il gladiatore riconoscesse chi gli stava di fronte e capisse con improvviso sgomento quali forze era in grado di evocare Giunio Bruto anche senza il suo aiuto.
Contemporaneamente intuì l'immenso disegno che sottostava alle azioni del senatore, un disegno in cui lui, l'invincibile Armodio, era un soffio d'aria, una goccia d'acqua, un grano di sabbia. Girò lo sguardo sulla folla e per la prima volta sentì di non disprezzarla. Forse v'era fra di essa qualcuno in grado di risparmiare al mondo quanto d'oscuro stava per accadere. Fissò di nuovo il disco azzurro del cielo incorniciato dai teli di copertura da cui non avrebbe mai più visto affacciarsi il sole e si rese conto che aveva ancora tante cose da dire e da fare, ma il suo tempo era finito.


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Non gli restava che la metafora per lanciare un ultimo, disperato messaggio.
Gettò lo scudo, si tolse l'elmo, conficcò in terra la daga. Poi, mentre il mormorio di stupore degli spettatori cominciava a diventare il muggito di un fiume in piena, mosse verso il nemico.
Per un brevissimo istante pensò che forse avrebbe dovuto ascoltare ciò che gli aveva mandato a dire Crobila, ma poi si disse che non avrebbe fatto differenza: si sarebbe trovato ad affrontare comunque il destino a mani nude.
Guadagnò il centro dell'arena levando in alto le braccia in cui la vita fluiva col vigore di sempre. Era il suo ultimo saluto all'odiato-amato popolo di Roma e la folla, pur non sapendolo ancora, gli rispose con un boato assordante. Subito dopo, Armodio si strappò di dosso quanto rimaneva dell'armamento, la tunica, i calzari. Restò nudo. Il suo corpo possente infuse negli astanti lo stesso ammirato timore che suscitavano le mille statue d'atleti e di eroi che ornavano le arcate esterne dell'anfiteatro: difficile pensare che sarebbe morto.
Stretto fra gli ammutoliti spettatori del podium, solo Caio Celso capì che quella di Armodio non era una resa, ma un rito.

John William Waterhouse: Circe Offering the Cup to Ulysses 

Tuttavia non riusciva a comprenderne il senso.
L' essedarius allentò le briglie. Il gladiatore si tuffò in terra, rotolandosi nella polvere finché la pelle cosparsa d'olio non ne trattenne tanta da confonderlo con la Grande Madre. Quindi allargò braccia e gambe, poggiò la fronte al suolo e attese che il Fato si compisse. Udì l'urlo d'incredulità della folla, percepì il vibrare del terreno morso dagli zoccoli al galoppo, infine sentì le lame ridurgli il corpo a brandelli. Morì come aveva sempre desiderato morire: senza provare paura né dolore.
Solo a quel punto, stupito quanto scosso, Caio Celso si rese conto che il gladiatore aveva scelto di finire come Eraclito il quale, dopo essersi ricoperto di sterco, s'era fatto divorare dai cani nella piazza d'Efeso.
Cos'era, infatti, quell'arena se non la più grande piazza di Roma, cosa il suolo dell'Urbe se non sterco e pattume e cosa il misterioso essedarius se non un mastino da battaglia?
Era più che mai convinto che Armodio avesse trasformato la sua morte in un messaggio: qualcosa di altrimenti indicibile. Ma cosa?


Ötzi, la mummia del Similaun



La chiave era l'auriga misterioso: doveva parlarci. Si precipitò nei sotterranei per intercettarlo, ma fu inutile. Per colpa del buio e del caos che vi regnavano nessuno seppe spiegargli da dove fosse sbucato, né dove si trovasse in quel momento.
Quando rassegnato e pensieroso lasciò l'anfiteatro, gli spettatori si erano già riversati in strada a propagare in ogni vicus e taverna l'incredibile notizia della morte di Armodio. Pànta réi: solo il Logos vive per sempre, avrebbe detto Eraclito. E più o meno questo pensava anche lui, mentre tornava verso la sua domus.
Intanto, dal profondo delle viscere, un'ombra inquietante s'affannava a sussurrargli parole che non riusciva a decifrare.


(Luigi De Pascalis, Rosso Velabro. Delitti e magia nera nella Roma del IV secolo, Roma, La Lepre 2010, p13 ss.)


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