Buongiorno, oggi è il primo marzo.
Il primo marzo 1896 l'Etiopia sconfigge definitivamente le truppe italiane ad Adua, ponendo fine alla campagna coloniale italiana.
Dopo la resa del battaglione Galliano asserragliato nel forte di Macallé, l'imperatore Menelik decide di “scortare” il maggiore e i suoi uomini sulla strada del ripiegamento verso le postazioni italiane di Edagà Hamùs. Lasciati gli italiani lungo il tragitto, si dirige, con gran parte delle proprie truppe, verso la regione di Adua dove prende posizione nella piana di Ghendepta, proprio a ridosso delle linee italiane e al loro campo di Saurià. In molti pensano che Menelik abbia intenzione di affrontare le truppe del generale Baratieri in uno scontro imminente, tuttavia, di li a poco (il 20 febbraio) l'imperatore d'Etiopia decide di ripiegare verso l'abitato di Adua e di accamparsi in posizione più favorevole in vista di una possibile invasione della colonia Eritrea.
A questo punto però, per comprendere la futura evoluzione degli avvenimenti che porteranno alle improvvide decisioni del comando italiano e alla conseguente disfatta di Adua bisogna fare un salto a Roma e seguire le azioni politiche del governo e lo stato emotivo di alcuni suoi componenti di spicco dettate dai recenti rovesci militari avvenuti oltremare.
Il 21 febbraio il ministro della guerra Stanislao Mocenni propone al Consiglio dei ministri, l'invio di altre truppe in Africa (12 battaglioni e 4 batterie di artiglieria) e la sostituzione del governatore Baratieri che non sembra più in grado di reggere le sorti del governo in colonia con il generale Baldissera. Il 23 febbraio il governatore designato si imbarca a Brindisi per Massaua sotto il falso nome di commendatore Palamidessi. L'escamotage viene impiegato per evitare che Barattieri venga a conoscenza, in anticipo rispetto ai tempi previsti dal governo, della propria sostituzione. In molti, a Roma, sono convinti che a causa di questo provvedimento possa prendere decisioni affrettate o dettate dal risentimento.
Il giorno seguente, 24 febbraio, Mocenni comunica per telegramma a Baratieri che sono in partenza i rinforzi richiesti ma non fa cenno della sostituzione e, in separata sede, intima al vice governatore Lamberti che si trova a Massaua di mettere a tacere eventuali voci in tal senso che possano essere intanto giunte dall'Italia.
In questa atmosfera di segretezza anche il Presidente del consiglio Crispi farà sentire la sua voce per mezzo del telegrafo: il 25, il politico siciliano invia a Baratieri il famoso e controverso telegramma della “Tisi militare” che arreca alle già precarie condizioni psicofisiche del governatore il colpo finale.
Il Baratieri che affronta, il giorno 28 febbraio a Saurià, il consiglio di guerra con i suoi generali, è un uomo distrutto e non in grado di valutare con sufficiente freddezza la situazione in campo (alcuni studiosi sono convinti che il governatore, contrariamente alle aspettative del governo, fosse già venuto a conoscenza della sua sostituzione grazie ad informatori personali e questo abbia pesato sulla sua decisione di dare battaglia all'esercito di Menelik).
Il giorno seguente si tiene un nuovo consiglio di guerra. Quello definitivo. Baratieri consegna ai generali convenuti, Albertone, Arimondi, Dabormida e Ellena, l'ordine operazioni numero 87 dove si dice che le truppe italo-eritree si metteranno in marcia, suddivise in tre colonne distinte comandate dai generali Albertone, Arimonti e Dabormida dirette verso le postazioni abissine. Le brigate dovranno procedere in sincrono su percorsi paralleli. Albertone sulla sinistra dello schieramento italiano dovrà occupare il colle Chidane Meret; Arimondi al centro si posizionerà a ridosso del monte Raio e Dabormida a destra si dirigerà, invece, verso il colle Rebbi Arieni. Nelle intenzioni del governatore c'è la volontà di creare un fronte unico all'altezza del Raio da cui attendere le mosse del nemico. Le tre brigate si metteranno in movimento quella stessa sera alle ore 21.00 in punto. Subito dopo partirà anche una quarta colonna, condotta dal generale Ellena, con compiti di riserva e rincalzo. Insieme all'ordine, ai generali viene consegnata anche una mappa della zona, elaborata dallo Stato Maggiore su cui è tracciata in maniera grossolana (e, soprattutto errata) la topografia del territorio da attraversare e l'ubicazione dei rilievi da occupare.
Alle ore 3.00 del 1° marzo la colonna indigeni di Albertone, in virtù della sua maggiore agilità su terreno assicurata dagli ascari, scende nella piana di Ghendepta in anticipo rispetto al resto del corpo di spedizione italiano e, anche grazie ad una errata lettura della famosa carta topografica, mette in difficoltà la marcia della colonna Arimondi e della colonna Ellena che sono costrette a fermarsi per far passare la brigata indigena. Alle ore 3.30 la colonna Albertone si trova a sud di monte Raio e a ridosso del monte Erarà (il falso Chidane Meret della mappa). Il generale concede una sosta giusto il tempo per verificare che la mappa di Baratieri è sbagliata e che il vero l'obiettivo è ancora piuttosto distante. Sollecitato anche dalle guide locali che conoscono alla perfezione il terreno Albertone da l'ordine di avanzare in direzione del vero Chidane Meret.
E' in questo preciso momento che si decide il destino del corpo di spedizione coloniale: Albertone si è reso conto che il colle su cui si trovava fosse il vero obiettivo assegnatogli dal comando, ma decide, deliberatamente, di credere alla mappa sbagliata. Questo gli consente di effettuare una puntata offensiva in grado di provocare il nemico e costringere Baratieri ad ingaggiare battaglia. Era opinione condivisa dai generali che, anche ancora una volta, il governatore volesse fare solo un'azione dimostrativa per poi ripiegare sulle postazioni di partenza senza entrare in contatto con il nemico.
Alle 4.00 Baratieri, che viaggia alla testa della colonna di rincalzo (Colonna Ellena), si rende conto dell'errore di Albertone ma non prende provvedimenti perché convinto di ritrovarlo già in posizione sul colle Chidane Meret (ovvero sul monte Erarà).
Alle 5.30 la colonna Dabormida ha raggiunto la sua posizione alle pendici del colle Rebbi Arieni mentre la colonna Arimondi che, ricordiamo, si era fermata in attesa del passaggio della colonna Albertone, si trova ancora nella piana di Ghendepta mentre la brigata Ellena la segue in coda.
Alle ore 6.00 la brigata indigeni di Albertone raggiunge le pendici di Adi Becci e del monte Chidane Meret. Nel frattempo, l'avanguardia della colonna, il battaglione del maggiore Turitto, che, dopo essersi accorto della repentina avanzata della colonna, avverte il generale Albertone che lo sprona ad andare avanti senza discutere (“Vada avanti non abbia paura”), si trova nella piana di Adua, tanto che alcuni suoi reparti hanno già raggiunto la periferia dell'abitato.
Gli abissini messi in allarme attaccano il battaglione Turitto che, dopo un tentativo di resistenza, è costretto ad indietreggiare e a ricongiungersi con il grosso della colonna posta sulle alture. In breve tempo anche queste posizioni verranno impegnate duramente dall'attacco delle forze abissine.
Alle ore 6.50 il generale, finalmente decide di avvertire Baratieri con un biglietto per mezzo del quale chiede rinforzi e “suggerisce” l'avanzata, sulla destra, della brigata Arimondi in modo che possa attaccare le forze di Menelik alle spalle.
Alle ore 8.30 l'attacco massiccio delle truppe del negus si attenua e poi si arresta perché fermato dalla resistenza dei battaglioni eritrei e dalla forte azione di contrasto dell'artiglieria italiana.
Dopo attimi di profonda esitazione (nell'attacco alle postazioni italiane viene ucciso il fitaurari Gabeiehù e un gran numero di guerrieri abissini tanto che Menelik era propenso ad ordinare un ripiegamento dell'esercito scioano ma l'imperatrice Taitù lo sprona al combattimento e getta nella mischia la guardia personale) l'attacco alle postazioni italiane riprende con più vigore ma con una diversa strategia: l'imperatore e i suoi comandanti lanciano la classica manovra avvolgente tanto cara ai comandanti abissini. Una colonna comandata dal fitaurari Taclé attacca le truppe di Albertone sulla sua destra e prende possesso del monte Monoxeitò mentre, alla sinistra dello schieramento italiano, una seconda colonna formata dal grosso delle truppe di Menelik, si incunea alle spalle degli italiani risalendo la valle del torrente Mai Tucul. Nella stessa azione una terza colonna si spinge più avanti e seguendo il corso del Mai Codò aggirerà il massiccio del monte Semaita e arriverà, come vedremo in seguito, ad impegnare la parte dello schieramento italiano, presso al monte Raio.
I combattimenti del monte Chidane Meret proseguono violenti fino alle 10.45-11.00, ovvero, fino a quando gli abissini non travolgeranno la resistenza italo-eritrea e dilagheranno anch'essi, verso la zona del monte Raio.
Prima che cominciassero gli scontri presso l'Abba Garima, Baratieri e gli altri ufficiali dello stato maggiore si erano incontrati alle pendici del monte Raio per fare il punto della situazione e prendere le opportune contromisure necessarie dopo le “scomparsa” della colonna Albertone. Nella riunione si giunge, con una certa difficoltà di vedute tra i vari convenuti, alla conclusione di riposizionare i reparti in modo da fare fronte unico tra il monte Erarà, il Raio e le pendici di monte Bellah (ovvero, provare a mettere in pratica l'originario piano di Baratieri con qualche variazione per quanto riguarda la brigata Dabormida riposizionata leggermente più in avanti). Il governatore ordina, pertanto, al generale Dabormida di prendere posizione sul monte Bellah, a ridosso della via per Adua, dove questa si incontra con il tracciato che conduce all'Abba Garima. Alle ore 7.00 Dabormida da ordine di avanzare ma, incredibilmente, non riuscendo ad orientarsi nel dedalo di colli e montagne (ancora a causa della mappa errata fornita dallo Stato Maggiore ?) porta i suoi uomini ad “impantanarsi” sul fondo del vallone di Mariam Scioaitù.
Alle ore 9.00 le avanguardie della colonna Dabormida prendono contatto con l'accampamento del ras Maconnen posto all'ingresso della valle verso Adua. Alle 9.30 la colonna Dabormida viene attaccata sia frontalmente che dalle alture dalle truppe dei ras Mangascià e Alula che impegnano gli italiani fino a verso le 13.00. Mentre gli italiani rimangono inchiodati nel vallone impossibilitati a manovrare, sul monte Raio si assiste all'assalto del grosso dell'esercito di Menelik che travolge le colonne Arimondi ed Ellena.
Verso le 16.00 dopo che l'esercito imperiale ha annientato le resistenze italiane nel centro dello schieramento messo in atto da Baratieri, la massa dei combattenti etiopici si riverserà (e sono circa 50,000!) nella vallata di Mariam Scioaitù e, nel giro di un paio di ore, annienterà anche la brigata Dabormida.
Ritornando alle postazioni italiane presso il monte Raio si è visto come queste dovettero, a loro volta, affrontare gli uomini dell'imperatore nel momento in cui venne a mancare la resistenza della brigata indigena.
Senza più contrasti le avanguardie abissine possono dilagare oltre il colle Adi Becci e il colle Monoxeitò, mentre sulla destra, come si è visto, il grosso delle truppe aggira il massiccio del monte Semaita e, seguendo la valle del torrente Mai Codò, raggiunge le pendici del monte Erarà dove si scontra con il battaglione indigeni comandato dal tenente Galliano (che viene ucciso).
Superate anche le difese del monte Erarà gli abissini trovano la strada spianata per investire il fianco destro dello schieramento italiano. Baratieri cerca di organizzare una strategia di contrasto chiedendo rinforzi al generale Ellena e facendo affidamento sul fatto che il generale Dabormida con la sua brigata si trovasse effettivamente nella posizione assegnata alle pendici del monte Bellah.
La realtà, come abbiamo visto, era completamente diversa: la colonna Ellena non era in grado di garantire una sufficiente massa d'urto perché assottigliata da continue richieste di reparti di rincalzo, mentre Dabormida era, oramai, legato al suo destino sul fondo della vallata di Mariam Scioaitù.
Alle 12.00 la battaglia del monte Raio si poteva considerare terminata: i soldati italiani e i reparti indigeni, sbandati, si ritirano in disordine verso Saurià e Adi Chilté inseguiti dalle bande di ras Alula, e dalla cavalleria Galla che aveva già raggiunto le retrovie italiane seminando morte e distruzione.
Anche nella sconfitta l'imprevidenza del generale Baratieri si è fatta sentire: il comando italiano non aveva preparato nessun ordine contenente disposizioni relative ad un eventuale ripiegamento e, pertanto, in quel momento, ognuno cercò di imboccare le vie di fuga che ritenne praticabili. Va, tuttavia, rimarcata la gravità di questa mancanza: le compagnie del genio che, tre mesi dopo la disfatta di Adua, furono impegnate nella pietosa raccolta dei resti, trovarono oltre un migliaio di corpi lungo le vie della ritirata italiana.
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