Buongiorno, oggi è l'8 maggio.
L'8 maggio 1902 in Martinica il monte Pelee erutta distruggendo completamente la città di Saint Pierre.
Il vulcano La Pelée si trova nella parte settentrionale dell'isola della Martinica e, alle sue pendici di sud ovest si stendeva in riva al mare la vivace cittadina di Saint-Pierre. Aveva case dalle mura molto spesse, da 60 a 90 cm., costruite così per proteggere dalle temperature torride i suoi abitanti. Oltre la cattedrale, tra i grandi edifici che si potevano osservare a Saint-Pierre c'era un teatro, dove attori venuti dalla Francia recitavano, ogni anno, nel periodo invernale; diverse industrie, fra cui quella per la produzione del rhum e quella della canna da zucchero, un collegio, l'ospedale militare. Gli abitanti erano in gran parte meticci, individui alti e dal portamento elegante. Dominavano l'economia della città i creoli, che sono i bianchi nati in America da genitori europei. La lingua usata era il francese.
La Pelée non aveva dato, fino ad allora, gravi preoccupazioni. Nel 1792 e nel 1851 c'erano state delle forti emissioni di fumo e cenere, ma nessun danno grave nè feriti. E comunque il tempo aveva, come sempre, cancellato questi vaghi ricordi. Nulla poteva far pensare ai pierrotini che un pericolo immane li minacciava tutti, e che sarebbe partito proprio da quella montagna "pelata", apparentemente innocua, che si ergeva a sei chilometri dall'abitato.
Il monte La Pelée, alto 1397 metri, aveva sulla sommità un laghetto dalle chiare acque, il Lac des Palmistes, ovverossia il Lago delle Palme. Un ex lago, l'Étang Sec (lo Stagno Secco) si trovava in un cratere più piccolo e più in basso, che aveva una specie di fenditura fra le pareti che lo circondavano. Questa fenditura, a forma di V, era diretta proprio a sud ovest, verso la città.
Se si guarda una cartina della zona delle Piccole Antille, si puo' facilmente notare che queste isole, non grandi, sono disposte a semicerchio, e puntano verso le coste settentrionali dell'America del Sud.
Tutte vulcaniche, ospitano ben dieci vulcani attivi: quattro di essi sono entrati in eruzione nel secolo scorso. Uno, il vulcano La Soufrière nell'isola di Montserrat, ha dato spettacolo proprio recentemente, negli anni che vanno dal 1995 al 2000, provocando gravi danni, l'esodo di parte della popolazione e tante difficoltà di vario.
Un geologo statunitense che aveva visitato la zona dopo il cataclisma dell'8 maggio 1902 così scrisse: "Lungo l'entrata dei Caraibi si estende una catena di isole che sono delle vere e proprie fornaci a combustione lenta, con il fuoco ben attizzato, sempre pronte ad esplodere nel momento meno opportuno e previsto".
L'isola di Martinica è ampia 1128 chilometri quadrati (cinque volte la superficie dell'isola d'Elba) e oggi è abitata da 388.000 persone. E', dal primo gennaio 1947 (assieme all'isola della Guadalupa) un Dipartimento d'Oltremare della Repubblica francese (una curiosità: anche laggiù la moneta corrente è l'euro).
Per secoli era stata una colonia della Francia, ma già da un centinaio di anni prima dell'elevazione a Dipartimento i cittadini erano considerati cittadini francesi. Il 13 giugno 2002 è caduto il 500° anniversario dell'arrivo di Cristoforo Colombo sull'isola, che il navigatore genovese scoprì nel 1502 durante il suo quarto viaggio.
Già il 23 aprile di quell'anno si erano verificate delle scosse di terremoto: i piatti caddero dalle mensole nelle case, mentre una coltre di cenere ricoprì i tetti e le strade della cittadina. Il 25 e il 26 vi fu un'esplosione di fumo e lapilli, che vennero scagliati molto in alto, mentre un'altra imponente pioggia di cenere cadeva su Saint-Pierre. Dei coraggiosi salirono fin presso la vetta, e notarono che lo Stagno Secco si era adesso riempito di acqua calda che emetteva vapori e cupi brontolii e gorgoglii.
Un forte odore di zolfo si diffuse fra le case, e molti camminavano per strada tenendo fazzoletti bagnati davanti al naso.
Il quotidiano di Saint-Pierre, Les Colonies, su ordine del direttore, un politico conservatore e poco lungimirante, diede scarsa rilevanza ai fenomeni quotidiani che impensierivano la popolazione: l'11 maggio c'erano le elezioni amministrative, e non si voleva che, a causa del panico, gli elettori lasciassero la città, togliendo voti a qualche partito.
Il 2 e il 3 maggio spaventevoli boati svuotarono le case: gli abitanti si precipitarono a guardare verso la cima minacciosa, che eruttava un'enorme nuvola scura, percorsa da saette. La coltre di cenere, che cadeva continuamente, cominciò a far morire gli uccelli dei boschi. Il rumore delle ruote delle carrozze che transitavano per le strade era quasi del tutto smorzato dalla cenere. Forti piogge fecero calare dalle pendici del vulcano torrenti di fango, che trascinavano alberi spezzati, carogne di animali, massi ciclopici. Con il passare dei giorni Les Colonies, divenendo meno reticente, cominciava a dire che la città era depressa e i cittadini di Saint-Pierre erano molto agitati.
Circa duemila persone lasciarono la città, dirette al capoluogo Fort-de-France, più a sud, in una zona al riparo da eventuali disastri.
Nella lettera di una donna della città, diretta a parenti francesi, e datata 4 maggio, si puo' leggere: "Sto aspettando con calma l'evolversi degli eventi. Siamo tutti calmi. Se è giunta la nostra ultima ora, abbandoneremo questo mondo in numerosa compagnia...".
Una rassegnazione che sembra davvero incredibile!
Mentre nelle campagne poste alle pendici della montagna gli animali si agitavano grandemente, nella Usine Guérin, uno zuccherificio a nord di Saint-Pierre, vi fu una spaventosa invasione di migliaia di formiche e giganteschi chilopodi, le pericolose scolopendre.
Questi insetti velenosi, lunghi quasi trenta centimetri, assalirono i cavalli, difesi con getti di acqua dagli operai della ditta. Nei capannoni, una lotta senza quartiere si instaurò fra i centopiedi e gli uomini dello zuccherificio. Essi cercavano di schiacciare le repellenti scolopendre con sacchi pieni di merce, bastoni, attrezzi vari. Tutto era imbrattato dal sangue di queste bestiacce, e anche le formiche, giallastre e maculate, impegnarono con la loro invadenza gli sfortunati operai.
Ma avvenne di peggio. Un'invasione di serpenti, che erano stati messi anch'essi in fuga dalle scosse e dalla cenere calda che martoriava le pendici del La Pelée, si verificò in un quartiere della città. Si trovavano fra gli altri rettili anche delle vipere, dal morso letale: queste attaccarono maiali, polli, cani e cavalli, e provocarono un fuggi fuggi disperato degli abitanti. Molti bambini vennero morsicati e uccisi dai serpenti, e il sindaco dovette inviare i soldati per sterminare i pericolosi animali.
Tale era l'angoscia della popolazione, per tutti questi segni premonitori, uno più sconvolgente dell'altro, quando arrivò la notizia che un torrente di fango, precipitato dall'Etang Sec, aveva sepolto in pochi minuti lo zuccherificio, già sede della lotta contro gli insetti invasori. Morirono tutti gli operai che non erano ancora scappati, circa una trentina. Ogni cosa venne sommersa dalla calda coltre di fango.
Era il 5 maggio. Il governatore Mouttet ricevette da un'apposita commissione di scienziati un parere secondo il quale questi segni non facevano temere un pericolo imminente per la città posta sotto il vulcano. Anzi, Mouttet si preparò a trasferirsi con la sua famiglia dal capoluogo, dove risiedeva abitualmente, a Saint-Pierre, per sottolineare con questo gesto la sua convinzione che non esisteva un imminente pericolo.
Forse, ma è una supposizione, si prevedeva come possibile solo un'eruzione di lava. Il magma, essendo spesso piuttosto lento nello scendere a valle (fra l'altro le pendici del monte non erano ripidissime) avrebbe dato il tempo ai pierrotini di scappare verso sud. Nessuno immaginava la velocissima e micidiale nube ardente, che poi in effetti fu quella che distrusse la città.
Dopo aver consentito le prime fughe, le autorità arrivarono addirittura a fermare e far rientrare in città alcuni cittadini che, impauriti, si stavano allontanando dal luogo dell'eruzione.
Il 6 maggio la coltre formata dalla cenere che "pioveva" lentamente ma continuamente, aveva raggiunto uno spessore di venti-trenta centimetri. Le piante secche ed avvizzite, da cui le foglie, divenute giallastre, erano cadute da un pezzo, creavano uno spettacolo di desolazione e di angoscia, nelle campagne attorno a Saint-Pierre. Erano solo un ricordo le ricche piantagioni di canna da zucchero.
Il giorno 7 iniziò con un terribile boato, in piena notte. Gli abitanti, ancora una volta riversatisi nelle strade in preda alla paura, videro sulla cima del vicino vulcano bocche ardenti, fiammate e lampi, e nuvoloni neri che si elevavano rapidamente verso l'alto, nascondendo il limpido cielo stellato tropicale.
Alle prime luci dell'alba, il mare attorno alla cittadina apparve tutto ricoperto da uno strato galleggiante di pomice, tronchi di alberi, uccelli morti e relitti vari: l'acqua non era più visibile.
Nel pomeriggio si sparse la voce che il vulcano La Soufrière, situato a centocinquanta chilometri a sud, nell'isola Saint Vincent, (da non confondere con l'omonimo, situato su Montserrat) aveva avuto una violenta eruzione. I morti erano già ben duemila ma i poveri isolani, che vivevano l'ultima giornata della loro vita alle pendici del minaccioso vulcano, questa notizia non la seppero mai.
A quel tempo i particolari delle notizie arrivavano con grande ritardo, e unicamente con il telegrafo a fili. Ma la notizia dell'eruzione del vicino vulcano risollevò un po' gli animi: molti sembravano considerare quest'evento sotto un'altra luce: come una valvola di sfogo per le immani forze che premevano nel sottosuolo.
Nella rada, soltanto la nave Orsolina si allontanò, dirigendosi al largo, poiché il suo capitano intuì l'imminente tragedia; le altre diciotto navi rimasero in quello scenario apocalittico, con il mare ricoperto da pezzi di pomice e i tetti delle case di Saint-Pierre bianchi di cenere.
L'ostentata tranquillità del quotidiano dell'isola e delle autorità di Port-de-France, che ancora non si decidevano a dare l'allarme, e ad informare la popolazione del gravissimo stato di pericolo in cui si trovava, indusse il console statunitense Prentiss, che abitava proprio a Saint-Pierre, a scrivere un'urgente lettera niente di meno che al Presidente americano Theodore Roosevelt. "Sembra di vivere in un incubo, in cui nessuno pare capace o disposto a guardare in faccia la realtà".
Le elezioni erano imminenti, e tutto quel che poteva turbarle era messo in secondo piano. Tanto può la cecità umana.
Si arriva così al mattino del giorno della catastrofe, un giovedì, in cui cadeva la solenne festa dell'Ascensione.
Alle 7:52 vi fu una spaventosa e assordante esplosione, e una nube nera e caldissima (1000 gradi) composta di vapori incandescenti, di polveri e ceneri, rotolò rapidamente lungo le falde della montagna adirata: la cosiddetta "nube piroclastica", più pesante dell'aria, e colpevole di tante ecatombi istantanee accanto a numerosi vulcani nel mondo.
Su tutta la Martinica il cielo si oscurò, a causa di un'altra nube scurissima lanciata verso l'alto dal vulcano, e divenne ovunque impossibile guardare oltre uno o due metri di distanza.
Nella cattedrale del capoluogo Fort-de-France i fedeli si stavano apprestando ad assistere alla Messa delle otto, quando l'oscurità piombò, improvvisa, sulla città. In un attimo la chiesa si svuotò, e le persone, in preda al terrore, e chiedendosi cosa mai stesse succedendo alla vicina Saint-Pierre, si inginocchiarono per la strada, nelle tenebre, pregando e piangendo.
La grande fenditura a V che si trovava nei pressi dello Stagno Secco puntava, sventuratamente, proprio in direzione della città.
In due minuti l'onda della morte, che rotolava a più di 150 chilometri all'ora, raggiunse Saint-Pierre, dove tutti gli abitanti, terrorizzati, erano intenti a scappare, ad allontanarsi quanto più possibile dall'inferno appena scatenatosi sulla loro città.
Inutilmente. L'immensa forza con cui la nube piroclastica investì l'abitato provocò in due o tre minuti il crollo di moltissime abitazioni, l'incendio di tutto ciò che poteva bruciare (soprattutto le migliaia di barili di rhum che si trovavano nei magazzini, sui moli e sulle navi ormeggiate) frantumando e distruggendo tutto.
Tutto, anche i corpi dei trentamila abitanti. Il telegrafista del capoluogo, che stava scambiandosi messaggi con il collega di Saint-Pierre, si accorse, alle 7:52, che la linea si era improvvisamente interrotta.
Tutti gli esseri viventi che abitavano questa città delle Antille morirono in brevi istanti.
Quasi tutti.
La sorte è talvolta sorprendente. Solo due persone rimasero in vita. Uno si chiamava Léon Compère-Léandre, faceva il calzolaio ed era giovane e alquanto robusto di costituzione. La casa in cui abitava si trovava al margine della cittadina. Seduto davanti alla sua casa fu investito, raccontò poi, da un vento caldissimo ed estremamente violento, mentre un terremoto squassava la terra e il cielo diventava di colpo buio.
Léon sentiva che la sua pelle bruciava, rientrò con estrema fatica in casa e si buttò, stremato, su di un tavolo. Una ragazzina di dieci anni che si trovava nella stanza morì in pochi minuti, mentre nella camera vicina giaceva su di un letto il cadavere di suo padre, con la pelle orribilmente bruciata.
Il giovane svenne e rimase disteso per un'ora, quando lo risvegliò l'incendio del tetto. A questo punto, radunando tutte le sue forze, ustionato e sanguinante, il giovane si precipitò fuori e raggiunse la vicina località di Fonds-Saint-Denis. Questo miracolato visse poi per altri trentaquattro anni, ignorato, però, dalla stampa.
La storia dell'unico altro sopravvissuto, che si chiamava Auguste Ciparis, è invece molto più avventurosa. Auguste era un carcerato, e si trovava nella prigione della città, in una cella isolata, dalle spessissime pareti, e con la porticina, che era sormontata da una piccola finestra, rivolta dalla parte opposta al vulcano.
Ciparis raccontò poi, e la sua testimonianza fece il giro del mondo, che quella mattina, mentre aspettava che gli portassero la colazione, la sua cella cadde improvvisamente nella completa oscurità. Dalla finestrella posta sopra la porta arrivarono quasi subito ventate di aria rovente, mista a cenere: il carcerato trattenne istintivamente il fiato, e forse fu questo gesto a salvargli la vita. I suoi polmoni rimasero quasi indenni. Sotto i vestiti, che non presero fuoco, la pelle era gravemente ustionata. Bevve avidamente da una brocca dell'acqua ancora quasi fresca (l'acqua ha un alto "calore specifico", si scalda o si raffredda, com'è noto, con grande lentezza).
Così scottato, con le ferite provocate dalle ustioni che sanguinavano, senza mangiare e paventando una fine terribile, Auguste Ciparis rimase per ben quattro giorni sotto le macerie che coprivano la robusta prigione, senza però rimanere ferito; alla fine i suoi lamenti richiamarono l'attenzione di alcune delle persone che erano giunte, a centinaia, presso le rovine della città, scoprendo che non potevano portare alcun soccorso, perché tutti erano morti.
Ciparis ottenne la grazia, venne liberato, e fu assunto dal Circo Barnum, che lo portò in giro per il mondo come "sopravvissuto di Saint-Pierre". Davanti agli spettatori sbigottiti, Ciparis raccontava ogni volta le sue peripezie, e mostrava le cicatrici che deturpavano il suo corpo. Morì di morte naturale nel 1929.
Strano destino, il suo, come anche quello di Léon: veramente storie degne di un fantasioso romanzo.
Anche sulle navi che erano alla fonda in porto, e che non avevano salpato le ancore come l'Orsolina, vi furono centinaia di vittime: ben sedici navi su un totale di diciotto furono rovesciate e incendiate dalla nube ardente. Solo la Roraima e la Roddam resistettero, con gli alberi, il fumaiolo e le scialuppe asportate dalla furia della nube di fuoco.
Sulla nave passeggeri Roraima si salvarono avventurosamente solo venti persone su sessantotto. Tutte le altre, compreso il capitano, morirono per le gravissime ustioni, o affogate.
Giova, a conclusione, citare una testimonianza di un certo Fernand Clerc, un ricco piantatore della Martinica, che si accorse, un'ora prima della tragedia, che il suo barometro sembrava impazzito: la lancetta continuava a vibrare, ad oscillare vistosamente. Preso da un presentimento, organizzò in pochi minuti le carrozze e con la sua famiglia si trasferì in una delle loro case di campagna, sulle colline attorno alla città, a cinque chilometri da Saint-Pierre. Il breve corteo passò anche davanti all'abitazione del console americano Prentiss: con notevole incoscienza, lui e la moglie erano affacciati al balcone, ignari del loro imminente tragico destino. Clerc li invitò a scendere, e ad unirsi a loro nella fuga, ma gli americani rifiutarono.
Il viaggio, in preda all'angoscia, durò una quarantina di minuti, e Clerc e i suoi erano appena scesi dalle carrozze, quando il vulcano La Pelée esplose. Impietriti dal terrore essi videro l'enorme nube nera che si dirigeva a grande velocità verso la cittadina "come un grande torrente di nebbia scura, accompagnata da un boato continuo di colpi, distinti uno dall'altro..."
In dieci minuti la coltre di nubi oscure avvolse la casa, e tenebre impenetrabili impedivano a ciascuno di poter vedere i suoi vicini, che potevano essere individuati solo a tentoni.
La pioggia di cenere calda cadeva sulla tenuta, impedendo il respiro. Passati una ventina di minuti, racconta sempre Clerc, un forte vento, levatosi improvvisamente, spazzò via le ceneri e la soffocante nube.
Apparve, tremendo, lo spettacolo di Saint-Pierre che bruciava. Clerc, con notevole coraggio, scese a piedi verso i primi sobborghi.
"Le parole o la penna non potranno mai descrivere lo spettacolo che si aprì alla mia vista. Ovunque attorno a me c'erano parenti o amici che bruciavano. Capii che non potevo essere di alcun aiuto: erano tutti morti, nessuno era rimasto vivo. Mi affrettai a tornare alla fattoria in campagna e alla prima occasione mandai la mia famiglia alla Guadalupa".
Certamente, altri si salvarono dall'ecatombe, perché ebbero la prontezza di scappare alquanto prima dell'esplosione. Ma di quelli che rimasero nella "Silent City of Death", come la ribattezzarono i giornali americani, si salvarono, su trentamila-quarantamila abitanti, solo Léon e Auguste.
Il resto dell'isola rimase all'oscuro di quanto accaduto a Saint-Pierre per numerose ore. Solo verso mezzogiorno, vista l'impossibilità di raggiungere la città via terra, il governatore inviò una nave da guerra. Dal ponte gli ufficiali scrutarono, da lontano, con cannocchiali: nessuna persona si muoveva fra le rovine fumanti, nessun superstite implorava aiuto. Si resero ben presto conto del fatto che non c'era più nessuno da soccorrere.
Arrivarono da tutto il mondo, anche dal re d'Italia, Vittorio Emanuele III, aiuti in denaro; Roosevelt inviò prontamente soldi e aiuti di ogni genere, che servirono solo per i sopravvissuti nelle immediate vicinanze della città distrutta. Grandi servizi giornalistici apparvero sui quotidiani in Europa e in America, inviati speciali e celebri geologi e vulcanologi si recarono in quella che fu subito battezzata "la Pompei d'America"; studiarono a lungo l'evento, anche per poter imparare a prevenire ulteriori simili tragedie in futuro, in ogni parte del mondo.
I vulcanologi che studiarono l'accaduto, scoprirono che la terribile nube piroclastica non era precipitata sulla città solo per gravità, come si era pensato in un primo momento, ma anche spinta da violentissime pressioni laterali, come da un enorme cannone; queste pressioni provenivano dal cratere formatosi nello Stagno Secco, inclinato verso l'abitato.
Infatti colpirono la sventurata città di Saint-Pierre non solo gas irrespirabili e cenere, ma anche massi grossi come case, enormi lapilli, scagliati con forza contro gli edifici dalle possenti mura.
Altre esplosioni si verificarono sul vulcano maledetto in quell'anno 1902; soprattutto quella del 16 dicembre fu spettacolare, con la nube ardente - che non poteva più uccidere nessuno - che rotolava dalle pendici e poi si elevava, man mano, fino a 4000 metri.
In effetti il disastro del La Pelée ricorda da vicino la tragedia di Pompei, soprattutto per le avvisaglie ignorate e poi per la subitaneità dell' "onda della morte". Solo che Pompei ed Ercolano furono sepolte, e lo rimasero per secoli, da un funereo manto di cenere.
Nel caso del Vesuvio gli strati di questo materiale, che in molti casi superava i cinque metri di spessore ed era mescolato a pezzi di roccia e di pomice, si compattarono e vennero come saldati dalle piogge che caddero sulle pendici del vulcano.
Oggi, nella Saint-Pierre risorta dal disastro di un secolo fa, si può visitare un museo che ospita fotografie e oggetti che testimoniano quel lontano cataclisma. Ma accanto alla città nuova si possono visitare, con commozione, le rovine del 1902.
Il Secolo Ventesimo, appena iniziato, si presentava con questa tragedia della natura, che molto commosse e colpì gli uomini in tutto il mondo.
Di lì a sei anni un altro disastro, ben più tragico e sconvolgente, distruggeva Messina e Reggio Calabria, causando la spaventosa cifra di centoventimila vittime.
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