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sabato 25 maggio 2019

#Almanacco quotidiano, a cura di #MarioBattacchi

Buongiorno, oggi è il 25 maggio.
Il 25 maggio 1992, a Palermo, si svolgono i funerali di Stato del giudice Giovanni Falcone.
Se potesse, ci entrerebbe tutta Palermo – tutta la Sicilia – in quella chiesa per i funerali di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo. E i palermitani, i politici non ce li vogliono. Un sussulto che sa di ribellione, fatto di orgoglio e stanchezza, una rabbia che molti si portavano dietro dalla morte del generale Dalla Chiesa e che diventa matura. Il sentimento dei “Vespri” si rinnova, e il nemico ora non è francese, ma “romano”.
Così racconta quelle ore un’Ansa delle 14.22: «Si sono assiepati a migliaia sotto la pioggia, nella porzione di piazza lasciata libera dalla forze dell’ ordine e in un lunghissimo tratto di via Roma. Sono studenti, gente comune, lavoratori in un atmosfera di tensione contenuta e di commozione. Si sono aperti solo pochi varchi per far passare i sindaci che indossavano le fasce tricolori seguiti dai gonfaloni dei loro comuni. La folla ha sottolineato con applausi o con fischi l’arrivo di quelle personalità che hanno preferito entrare nella basilica di San Domenico dalla porta principale.
Gerardo Chiaromonte, presidente della commissione parlamentare antimafia, viene accolto da fischi; riceve applausi invece Leoluca Orlando che preferisce poi confondersi tra la folla e  Marco Pannella che entra per pochi minuti nella Chiesa. ”Buffoni-buffoni”, ”Giustizia-giustizia”, ”Fuori la mafia dallo Stato”, ”Falcone- Falcone”, sono gli slogan più ripetuti. C’è anche chi saltella, come negli stadi, al ritmo di ”Chi non salta è mafioso”. Si è consumata così un’attesa di oltre un’ora e mezza, tutti gli occhi rivolti verso l’ ingresso della basilica in attesa dell’uscita delle bare.
Alle 12.06 esce la prima e dalla piazza di leva un applauso commovente, scrosciante, liberatorio che continua, con brevissime interruzioni, fino alle 12.30 quando si è fatto frenetico all’uscita del feretro del giudice Falcone».
È Rosaria Costa, vedova Schifani, che segna il tempo: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”; le sue parole, il suo pianto, il suo sconforto, il suo sembrar cedere, il suo resistere sono il simbolo di quel giorno, di quei giorni. Tutti sanno che il peggio dovrà ancora venire. Tutti hanno smesso di accettare senza proferir parola.
Di quel giorno, Manfredi Borsellino dice del padre Paolo: «Lo spettacolo di un apparato istituzionale così fragile, ma allo stesso tempo così distante dal sentimento popolare sembrava averlo annientato».
E l’apparato, a Roma, intanto, al sedicesimo scrutinio sceglie il suo Capo dello Stato. Il nome c’è e non è quello di Andreotti né quello di Forlani: è Oscar Luigi Scalfaro, in quel momento presidente della Camera. Il Palazzo trova la quadra per salvarsi nella conservazione: un democristiano di sinistra, un tassello che il tempo inserirà in un mosaico più complesso. Una scelta non casuale. Dal giorno dopo nulla sarà come prima, ma molti agiranno perché lo rimanga.

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